La DCS in donne-vivona
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La DCS in donne-vivona
La DCS in donne che praticano attivita’ subacquea G.VIVONA,G.PESCATORE,G.CICCARELLI,P.DE LUCA,V.MAZZA Università degli Studi di Napoli “Federico II” Area Funzionale di Anestesia Rianimazione e Terapia Iperbarica Direttore Prof. G. De Martino Lo scopo del presente studio è stato quello di valutare i rischi di insorgenza della malattia da decompressione nelle donne. Questa esperienza fa ritenere che il rischio non aumenta per le donne che praticano immersioni. In questo studio e’ stato anche valutato se il grado di rischio si modifica nel periodo mestruale ed abbiamo dimostrato che non esistono limitazioni in tale periodo. L’unica controindicazione, come evidenziato dalla Letteratura sembra la gravidanza. Introduzione In questo nostro studio abbiamo voluto valutare l’insorgenza di malattia da decompressione (DCS) nelle donne. Tale valutazione è stata fatta tenendo conto delle significative differenze anatomo-fisiologiche tra l’uomo e la donna: volume polmonare ridotto, minore capacità aerobica, maggiore quantità di tessuto adiposo (10% in più rispetto all’uomo). Dal momento che il tessuto adiposo ha un’affinità per l’azoto cinque volte superiore al sangue, si potrebbe pensare che le donne siano maggiormente suscettibili a sviluppare DCS. In tal senso, in letteratura sono presenti pochi studi che peraltro sono pure controversi. Inoltre abbiamo valutato eventuali alterazioni del ritmo mestruale e la effettiva possibilità di effettuare immersioni in gravidanza. Materiali e metodi Gli iscritti all’Associazione Subacquea “Amici del mare” del Litorale Domitio (CE) sono stati da noi seguiti per circa due anni (Marzo 2001 - Giugno 2003). Ad ogni iscritto è stato sottoposto un questionario indicando: età, sesso, peso, altezza, stato di salute, consumo di alcool e/o sigarette . Durante lo studio abbiamo selezionato 40 donne, di età compresa tra i 23 e 38 anni, non fumatrici, con un indice di massa corporea (BMI) nei valori limite, che effettuavano due immersioni giornaliere. Tutte le sub selezionate sono state sottoposte ad esame spirometrico, per attestare una buona funzionalità respiratoria. L’immersione è stata praticata ad una profondità tra 15 e 24 mt., con un bottom time di 35 min. tra 2,5 e 3 4 ATA in ARA. Tale gruppo è stato posto a confronto con un campione, composto da 100 uomini, con caratteristiche omogenee al gruppo delle donne e sottoposti a simili condizioni di immersione. L’ausilio della metodica doppler ha permesso di ricercare precocemente eventi indicativi di DCS. La metodica doppler ha consentito di monitorare i sub dopo l’immersione, sfruttando il principio della riflessione degli ultrasuoni da parte delle bolle gassose presenti nel sangue. Nel campione costituito dalle donne sono stati, inoltre, valutate le variazioni nel ritmo mestruale attraverso dosaggi ormonali (estrogeni e progesterone) e metodiche ecografiche. Risultati e conclusioni Il confronto tra i due campioni non ha mostrato alcuna differenza statisticamente significativa. In nessuno dei due gruppi sono stati rivelati segni e sintomi attribuibili alla DCS, ne’ tanto meno il monitoraggio doppler ha indicato elementi degni di nota. In conclusione, non esiste alcuna differenza tra i due sessi in termini d’incidenza di DCS a parità di condizioni di immersione. Per quanto riguarda la valutazione di possibili rischi legati al periodo mestruale per donne sottoposte a ripetute esposizioni a pressioni iperbariche, nello stesso campione non è stata osservata nessuna modificazione a carico dei livelli ormonali (valutati mediante dosaggi sierici standard di estrogeni e progesterone), né tantomeno abbiamo osservato variazioni dell’ovulazione (monitorata ecograficamente) e del ritmo mestruale. Molte donne, immediatamente prima o durante il periodo mestruale, riferiscono una serie di disturbi quali: crampi addominali, cefalea, ansia o depressione, che possono interferire con la capacità di concentrazione durante l’immersione. Nel nostro campione otto donne hanno riferito dismenorrea controllata con l’assunzione di FANS. Pur non costituendo, questa condizione, una fattore di rischio, a ciascuna è stato consigliato di astenersi dall’immersione fino al completo recupero dell’equilibrio psico-fisico. Inoltre, segnaliamo un particolare timore dei soggetti legato alla convinzione che il flusso mestruale potesse costituire un facile richiamo per squali o altri predatori marini. In realtà, la perdita ematica durante un’immersione di trenta o quaranta minuti è minima, ed anche quando alcune donne hanno riferito un flusso abbondante all’immersione non si è mai dimostrato alcun rischio di questo tipo. I predatori del mare, infatti, sono attratti solo dal sangue fresco e non dal flusso mestruale costituito da una miscela di muco e sangue coagulato;oltre a considerare che alle nostre latitudini è un’evenienza remota. L’unica reale controindicazione all’immersione per la donna è rappresentata dalla gravidanza. Modificazioni fisiologiche della gravidanza portano ad un aumento della viscosità del sangue con conseguente maggiore rischio di formazione di bolle e dunque una maggiore incidenza della DCS. La donna in gravidanza, inoltre, può presentare sintomi quali: nausea, vomito, reflusso gastro-esofageo, che rendono a nostro avviso sconsigliabile la pratica immersiva. Infine, si segnala un aumento del rischio di malori da decompressione, dovuti alla fisiologica ritenzione idrica. In letteratura pochi sono i dati scientifici riguardanti i rischi della donna in gravidanza, mentre diversi sono gli studi condotti su cavie gravide, in particolare pecore, i quali non hanno dimostrato un aumentato rischio di anormalità fetali (Bolton-Klug, 1983). I primi dati sulle donne in gravidanza sono stati riportati in uno studio di Susan Bangasser nel 1979. In questo studio, condotto su 72 donne incinte che si immersero durante la gravidanza, non si evidenziarono difetti del feto alla nascita quando le immersioni erano limitate ad una profondità massima di nove metri. Nel 1980 Bolton (Undersea Biomedical Research, Sept 1980) ha condotto uno studio su 208 donne gravide, 136 delle quali avevano praticato immersioni durante il primo trimestre di gravidanza ad una profondità tra i 10 e i 30 mt. I dati riportati evidenziano una maggiore incidenza di complicazioni, quali: morte neonatale, nascita pretermine, basso peso alla nascita, sanguinamento vaginale durante la gravidanza, aborto spontaneo, gravi alterazioni metaboliche e difetti fetali e neonatali. La maggior parte dei difetti fetali e neonatali erano rappresentate da malformazioni scheletriche ed alterazioni cardiovascolari. Per quanto evidenziato in questi studi si consiglia l’astensione o comunque immersioni a profondita non superiori ai 9 mt. principalmente per due ordini di motivi: il feto potrebbe essere sensibile ad un incremento della pressione d’azoto e dell’ossigeno a più elevate profondità; inoltre, in caso di DCS un eventuale trattamento iperbarico potrebbe gravemente alterare lo sviluppo dell’apparato visivo fetale, a causa dell’elevata tossicità dell’ossigeno iperbarico (fibroplasia retrolenticolare). BIBLIOGRAFIA Bolton ME Scuba diving and fetal well-being:A surgery of 208 women. Undersea Biomed Res 1980; 7:183-9 Zwingelberg KM,knight MA, Biles JB.Decompression sickness in women divers. Undersea Biomed Res 1987;14:311-7 Cresswell JE,St Leger-Dowse M.Women and scuba diving. British Medical Journal 1991;302:1590-1 Robertson AG.Decompression sickness in women. Undersea Biomed Res 1992;19:217-8