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RIVISTA DI STUDI ITALIANI
CONTRIBUTI
APOLOGIA DI PERPETUA
PIER ANGELO PEROTTI
Vercelli
1.
Oltre che da Giovanni Battista Pergolesi, il quale ne ha fatto la
protagonista dell’omonima opera lirica, il personaggio della “serva
padrona” è stato tratteggiato in opere letterarie, perlopiù semiserie,
nonché in qualche pellicola cinematografica.
Ma se la “serva padrona” di Pergolesi è il tòpos della domestica di bassa
estrazione sociale che sfrutta le sue doti – specialmente l’avvenenza e la
giovinezza – per sedurre il padrone di casa e condividere con lui, o magari
sottrargli, denaro e potere, il Manzoni ha messo in scena un personaggio
ancor più peculiare, Perpetua, prototipo della zitella governante di un prete,
tanto che il suo nome denota per antonomasia la domestica di un parroco.
Ben diverse sono le caratteristiche delle due donne – anche se è riconoscibile
qualche analogia –, specialmente perché Perpetua non è giovane e non ha,
ovviamente, velleità di matrimonio con il padrone.
Nei due primi capitoli del Fermo e Lucia1 la serva di don Abbondio si
chiamava Vittoria2; soltanto dal cap. VI il suo nome cambia in Perpetua, e
tale rimane nei Promessi sposi. La variazione – certamente felice, soprattutto
perché in tal modo si evitano curiosi equivoci dovuti all’identità del nome
proprio “Vittoria” e del nome comune “vittoria” – potrebbe essere dovuta al
naturale accostamento con il nome della domestica del dottor Pettola3
(Azzecca-garbugli nei P. S.), Felicita, considerato che nell’agiografia della
Chiesa sono ricordate in coppia le sante Perpetua e Felicita, in quanto
subirono insieme il martirio a Cartagine durante l’impero di Settimio Severo
il 7 marzo 203, giorno in cui è appunto celebrata nel calendario la loro
memoria liturgica.
2. Com’è precisato dal Manzoni, Perpetua “aveva passata l’età sinodale dei
quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano
offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse,
come dicevan le sue amiche” (P. S. I, 27)4, e dunque, secondo un’antiquata
mentalità – che oggi per fortuna sopravvive solo presso certe persone
oscurantiste –, era una “zitella”. Effettivamente della zitella, intesa
nell’accezione corrente del termine, non è difficile riconoscerle le principali
caratteristiche: è piuttosto curiosa, un po’ acida e brontolona, alquanto
ciarliera, vagamente mitomane, etc. Ma ciascuno di questi difetti, e tutti
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insieme, possono essere in qualche modo scusati o ridimensionati, come
vedremo. In compenso la donna manifesta qualità apprezzabili che, a mio
giudizio, non solo bilanciano queste eventuali pecche, ma addirittura
prevalgono su di esse, come cercherò di illustrare nel corso di questo saggio.
3. Al suo primo apparire in scena, Perpetua ha l’atteggiamento di una moglie
il cui consorte, rincasato dopo una giornata di lavoro, la chiama per
annunciarle il suo arrivo. Del resto, anche in altri momenti del romanzo i
rapporti tra don Abbondio e la sua governante possono ricordare quelli tra
due coniugi di età avanzata, sposati da parecchi anni, con gli inevitabili
battibecchi o baruffe, che tuttavia non escludono sentimenti di sincero affetto,
almeno da una parte, aspetto su cui torneremo più avanti.
La chiamata del curato era probabilmente abituale, ma si può supporre che
in questa circostanza avesse un’intonazione diversa, vale a dire che fosse
un’istintiva richiesta di aiuto o assistenza più che il consueto segnale del suo
arrivo a casa. Comunque al richiamo “Perpetua! Perpetua!” (I, 26), dopo il
breve intermezzo biografico della serva (26-27), di cui abbiamo riportato
alcune righe al § 2, essa risponde con un normale, placido “Vengo” (27).
Come ho poc’anzi accennato, è una tranquilla scenetta familiare – quasi un
“quadretto di genere” –, che potrebbe riferirsi a una qualsiasi famigliola, così
come anche ciò che segue, immediatamente e nei capitoli successivi. Ma
Perpetua si avvede subito – e del resto “non ci sarebbero nemmen bisognati
gli occhi esperti di Perpetua” (ibid.) – che al suo padrone “era accaduto
qualche cosa di straordinario davvero” (ibid.), e dunque, nella sua spontaneità
popolana, esclama, visibilmente allarmata: “Misericordia! cos’ha, signor
padrone?” (ibid.). Hanno quindi inizio tra i due le schermaglie, che
dimostrano da parte di don Abbondio un miscuglio di reticenza – dovuta alla
paura delle minacce ricevute dai bravi – e di bisogno di confidarsi con
Perpetua per condividere con lei la preoccupazione; da parte della domestica
un amalgama di curiosità e premura nei confronti del padrone. La donna
dimostra una notevole astuzia e una non comune abilità psicologica e
dialettica, utilizzando varie tattiche: all’inizio è “affettuosamente
aggressiva”5, ribattendo al curato: “Come, niente? La vuol dare ad intendere a
me? così brutto com’è? Qualche gran caso è avvenuto” (28), e ancora: “Chi si
prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere? [...]”; poi si serve del
ricatto (cfr. infra); infine tocca le corde del sentimento, “con voce commossa
e da commovere”: “signor padrone, [...], io le sono sempre stata affezionata;
e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle
un buon parere, sollevarle l’animo [...]” (ibid.).
Osserviamo che il ricatto cui ho ora accennato si sviluppa in due fasi, con
un’evidente climax: dapprima è una pressione modesta, anzi quasi
impercettibile, basata su un elemento materiale (ibid.):
“E lei mi vorrà sostenere che non ha niente!” disse Perpetua, empiendo il
bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in
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premio della confidenza che si faceva tanto aspettare;
ma subito dopo la domestica va ben oltre, facendo leva su un genere assai più
grave di minaccia ricattatoria (ibid.):
“Vuol dunque ch’io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto
al mio padrone?” disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani
arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso,
quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto”6 [i corsivi sono miei].
E se il primo “ricatto” non ha successo, perché il curato le toglie di mano il
bicchiere di vino, col secondo essa coglie pienamente nel segno, facendo leva
sul terrore, che ha saputo generare in lui, che la minaccia dei bravi sia
divulgata, contrariamente all’intimazione ricevuta di mantenere segreta la
cosa.
Potrebbe dunque sembrare una donna scaltra e calcolatrice, che sa usare
qualsiasi strumento per conseguire i suoi scopi: in realtà questi “ricatti” sono
per così dire involontari, poiché nascono nella mente di Perpetua per
consentirle soprattutto di fare il bene del curato. Non si può, naturalmente,
escludere che nel contegno della serva coesista anche una componente di
curiosità – caratteristica, secondo il Manzoni, un po’ di tutte le femmine7 (ad
eccezione almeno di Lucia, figura idealizzata, che della donna ha solo
l’aspetto fisico) –, che però mi sembra un fattore secondario, e comunque una
colpa veniale.
Che Perpetua sia chiacchierona e incapace di mantenere un segreto è
denunciato da don Abbondio, e la stessa domestica lo ammette
implicitamente (ibid.):
“Lei sa bene che, ogni volta che m’ha detto qualche cosa sinceramente, in
confidenza, io non ho mai [...]”
“Brava! come quando [...]”8
Perpetua s’avvide d’aver toccato un tasto falso; [...]”.
L’episodio continua con un dialogo, da gustare parola per parola, che
rappresenta il primo esempio del motivo conduttore di tutti i contrasti tra i
due personaggi: “il buon senso e la franchezza di questa, e l’impacciata paura
di quello”9. Alla domanda di Perpetua: “Ma come farà, povero signor
padrone?” (29) – dove le premure e la partecipazione della donna alle
preoccupazioni del curato sono espressi dall’aggettivo “povero” premesso
all’abituale appellativo “signor padrone”10 – don Abbondio risponde “con
voce stizzosa” e con la solita sindrome di autocommiserazione: “Oh vedete,
[...] vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò,
come farò; quasi fosse lei nell’impiccio, e toccasse a me di levarnela” (ibid.).
Notiamo il pronome, di tono lievemente spregiativo, “costei”, e soprattutto il
sostantivo “pareri”, una specie di Leitmotiv di questo passo: “Chi le darà un
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parere? [...]” (28); “darle un buon parere” (ibid.); “vedete che bei pareri mi
sa dar costei!” (29); “Ma! io l’avrei bene il mio povero parere da darle”
(ibid.); “Il mio parere sarebbe che [...]” (ibid.); “Son pareri codesti da dare a
un pover’uomo?” (ibid.), che ritornerà più tardi, tra i pensieri del curato
durante la reprimenda del cardinale: “ – I pareri di Perpetua! – pensava
stizzosamente don Abbondio, [...]” (XXVI, 495) (con la variante “ – Proprio
le ragioni di Perpetua, – pensò anche qui don Abbondio, senza riflettere che
quel trovarsi d’accordo la sua serva e Federigo Borromeo su ciò che si
sarebbe potuto e dovuto fare, voleva dir molto contro di lui”, (ibid.) [i corsivi
sono miei].
La discussione prosegue, con Perpetua che, in risposta alle obiezioni di don
Abbondio, propone – dopo aver chiesto una sorta di autorizzazione: “Ma! io
l’avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi [...]” (I, 29) – la soluzione
più saggia ma anche più coraggiosa (quella stessa che più tardi il curato in
qualche modo rimpiangerà di non aver seguìto: XXVI, 495, cit. qui sopra):
“Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo
è un sant’uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e,
quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un
curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera,
per informarlo come qualmente [...]” (I, 29),
proposta che ovviamente il pavido curato respinge con malgarbo (ibid.):
“Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un
pover’uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena,
Dio liberi! l’arcivescovo me la leverebbe?”;
naturalmente la governante, coerentemente con la sua indole, non demorde, e
obietta, rimproverando a don Abbondio la sua pusillanimità (ibid.):
“Eh! le schioppettate non si danno via come confetti: e guai se questi cani
dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che
a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto
perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti
vengono, con licenza, a [...]”
(cfr. XXX, 581-2.: infra, § 16).
Nell’antitesi buonsenso–paura deve evidentemente prevalere il secondo
elemento, per far sì che don Abbondio, seguendo la propria natura, ceda
all’imposizione di don Rodrigo, e perciò, grazie al conseguente impedimento
del matrimonio, le peripezie dei promessi sposi possano seguire il previsto
sviluppo. Ma il primo termine, il buonsenso – che include anche un pizzico di
sentimento di ribellione, e di coraggio –, a lunga scadenza trionferà: è una
rivincita che Perpetua otterrà, ancorché post mortem.
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4. Alla prima sequenza relativa a Perpetua, dalla quale emerge appieno la sua
saggezza – oltre a una notevole forza di carattere –, ne succede una seconda
da cui risulta la sua incapacità di mantenere del tutto un segreto; ma anche in
questa occasione è messo in rilievo il suo affetto, unilaterale, per il padrone.
È la scena in cui Renzo, uscito dalla canonica, s’imbatte nella serva che sta
entrando nell’orto contiguo alla casa, e tenta di farsi chiarire da lei quale sia
la vera ragione per cui don Abbondio “non può o non vuole” (II, 37)
celebrare il suo matrimonio in quel giorno. Assistiamo a una sorta di gara di
astuzia tra i due, che si risolve in netto favore del giovane, il quale dimostra
sin da questa circostanza le sue doti di scaltrezza – messe più tardi in luce a
Milano e durante la fuga, con l’eccezione del tranello in cui è fatto cadere dal
bargello in incognito (XIV, 274 ss.); ma in quel caso il vino aveva
ottenebrato le sue doti intellettive11 – ; bisogna però tenere conto che a danno
di Perpetua gioca il suo attaccamento al padrone, per difendere la cui
onorabilità si lascia sfuggire parole sospette all’orecchio di Renzo, il quale
intravede almeno la superficie della verità, cosa peraltro non così difficile.
La carenza di riservatezza della domestica con Renzo è conseguenza diretta
– ripeto – dell’affezione che la donna prova per il curato, tanto che, durante la
sua appassionata apologia dello stesso, dice che egli “non vuol far torto né a
voi né a nessuno”, e che “lui non ci ha colpa” [il corsivo è mio] (II, 38) –
dove il pronome “lui” probabilmente è sottolineato da Perpetua –; ma il
giovane, che sa cogliere puntualmente le parole dell’interlocutrice, compreso
forse il pronome lui (complemento oggetto o caso indiretto, oppure enfatico
nella lingua italiana più corretta, ma usuale anche come normale soggetto
nella lingua parlata, specie dell’Italia settentrionale), intuisce che c’è “un
mistero sotto” (ibid.). Il sospetto può essere stato in lui accentuato dalle frasi
successive, e segnatamente dall’accenno – che la donna è erroneamente
convinta che Renzo non afferri, e che invece non gli sfugge – a “birboni”,
“prepotenti”, “uomini senza timor di Dio”, e ancora dall’inizio dell’explicit
del colloquio, dove le espressioni sono dall’autore calibrate per creare un
contrasto – proprio di chi pensa una cosa e ne dice un’altra – tra il senso di
lealtà verso il padrone e la debolezza di chi è a conoscenza di un segreto
importante e pericoloso, e non riesce a trattenersi dal confidarlo (38-39):
“Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perché [...] non so
niente: quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potreste
darmi la corda, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo
perduto per tutt’e due”.
Nella prima parte è riconoscibile un curioso chiasmo, i cui termini centrali
sono pressoché uguali (“non so niente / (quando) non so niente”), e quelli
esterni, opportunamente adattati, offrono il senso vero e recondito del
pensiero di Perpetua: “io non posso parlare, perché / [*ho] giurato di tacere”.
Per chi sa leggere in filigrana – cosa non particolarmente difficile, tanto che
ci riesce anche Renzo, che pure non è propriamente un’aquila –,
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l’affermazione della serva è fin troppo chiara12, per quanto essa cerchi di
camuffarla con le due frasi centrali “gemelle”: si tratta di un tentativo
ingenuo di mascheramento che la serva attua per rispettare la consegna del
silenzio impostale da don Abbondio, pur senza rinunciare a quel vago
sentimento di vanità13 cui accennerò fra poco (§ 5). È un tratto
psicologicamente assai indovinato – il “dire e non dire” – che ben si attaglia
alla mentalità di una donna come Perpetua, semplice e dalla personalità
limitata, ma persuasa di essere astuta, e comunque più del suo antagonista
Renzo.
E se è vero che per impedirle di ciarlare con le comari del villaggio don
Abbondio, quando “marca visita” dopo l’intrusione di Renzo, le impone di
fornire notizie sulla sua salute “dalla finestra” (cfr. infra, § 7), è altrettanto
indubbio che essa regge il gioco del suo padrone ipocondriaco o malato
almeno in parte immaginario con la mezza bugia o magari soltanto
esagerazione “Un febbrone” (46): dunque in qualche misura mente
nell’interesse del curato, dimostrando un’altra volta affetto per lui, ma lo fa
forse anche per farsi perdonare la leggerezza di aver lasciato intuire a Renzo
la verità circa l’impedimento del matrimonio.
5. Dunque, se Perpetua è stata sconsiderata, lo è stata – lei sì – per “troppa
bontà” o per “troppo buon cuore” (se vogliamo mutuare le espressioni che
don Abbondio usa con Renzo per giustificare il rinvio del matrimonio
[rispettivamente II, 36 e 37]14, e che la stessa serva utilizza per difendere il
suo padrone [38]15), per quanto non si possa escludere una certa incapacità di
tacere, accentuata anche dalla piccola vanità di essere in qualche modo
coinvolta in una vicenda così insolita – nel grigio ménage di questa famiglia
anomala –, in quanto depositaria di un segreto così pregno di pericolo, e
pertanto fiera di ciò, un po’ come Bettina, che è “lieta e superba d’avere una
commission segreta da eseguire” (44)16, o di Gervaso dopo la “notte
degl’imbrogli”17. Non per caso ho equiparato la serva alla “fanciulletta” –
una figurina fresca e graziosa, ancorché solo una comparsa, forse tratteggiata
dal Manzoni prendendo a modello una delle sue figlie – e a Gervaso, perché
in questo passo la condotta di Perpetua richiama, mutatis mutandis, proprio
quella di una bimba e di un minus habens, entrambi infantili e assai ingenui,
orgogliosi di essere depositari di un segreto. Il suo candore – o incapacità di
valutare le persone – consiste soprattutto nel ritenere Renzo un popolano
sprovveduto, scarsamente astuto, che lei riuscirà a persuadere circa
l’estraneità del curato nel rinvio del matrimonio senza fargli percepire che la
dilazione è dovuta alle minacce di un prepotente.
All’ingenuità si associa indubbiamente la buonafede, che risulta chiara
dall’autodifesa che pronuncia quando don Abbondio l’accusa di aver
divulgato il segreto: “voi sola potete aver parlato”, al quale lei ribatte “non ho
parlato” (42), affermazione che la donna fa in assoluta franchezza, convinta
com’è di non aver offerto a Renzo nessuna informazione, nonché alcun
elemento di sospetto. Nei suoi pensieri e nelle sue parole al curato non vi è
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nulla di gesuitico, né alcuna riserva mentale – come invece per es. in quelle
di Ferrer alla folla milanese (XIII, 262 ss.), o del padre provinciale dei
cappuccini al conte zio (XIX, 364 ss.) –, considerato anche il suo limitato
acume, che non le avrebbe consentito valutazioni di questo genere.
La stessa sorridente notazione dell’autore, che fa tornare Perpetua dall’orto
“con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse
stato” (II, 42), mette il gesto in contrasto con l’intenzione: se è vero che la
donna è stata meno riservata di come avrebbe dovuto, pur senza rendersene
pienamente conto, è altrettanto innegabile la sua buonafede, o meglio, da un
certo punto di vista, il suo alludere senza dire esplicitamente è una forma di
difesa del padrone, che anzi essa non ha potuto esercitare appieno, proprio in
virtù del giuramento di segretezza prestato. Perciò, a ben vedere, se per
“faccia tosta” s’intende “impudenza” o “sfrontatezza”, la definizione non si
addice alla donna, della quale si può tutt’al più dire –attribuendo un altro
possibile valore all’espressione usata dall’autore – che “non si scompone”,
ma perché ha la coscienza tranquilla.
Insomma, Perpetua manca della malizia propria delle persone subdole, o
almeno di quell’astuzia che caratterizza per es. Agnese. E infatti, nella gara
virtuale di furbizia tra le due donne – tenendo conto soprattutto della “notte
degl’imbrogli” – è certamente Agnese a prevalere. Ma, per quanto
quest’ultima sia fondamentalmente onesta, buona e generosa (ricordiamo il
suo aiuto agli indigenti dopo aver ricevuto dall’innominato cento scudi
d’oro18), per moralità complessiva è peggiore di Perpetua, almeno per
l’inganno di quella notte, benché per tale episodio si possa invocare il
principio – falsamente attribuito al Machiavelli – secondo cui “il fine
giustifica i mezzi”, o il noto detto francese “à la guerre comme à la guerre”.
Pur essendo entrambe le donne di estrazione popolana, i loro percorsi di
vita sono molto diversi. Agnese ha avuto un marito e ha una figlia, e dunque
una sua famiglia, pur ristretta, con le implicazioni che questo comporta in
termini di rapporti esistenziali – tutto ciò che, in breve, può definirsi
“esperienza umana” –, mentre Perpetua non ha avuto esperienze né di moglie
(cfr. I, 27 e VIII, 140-1) né tantomeno di madre; per giunta, dopo i primi
decenni di vita, la sua esistenza si è dipanata nel chiuso mondo della chiesa e
della canonica e con la prevalente compagnia di don Abbondio, catafratto
dalla sua viltà e guidato dal suo smisurato egocentrismo: non stupisce che in
queste condizioni, e con orizzonti così limitati – ancor più di quelli di
Agnese, i cui confini esistenziali coincidono comunque con quelli del
paesello –, Perpetua sia meno acuta, nella “notte degl’imbrogli”, della sua
antagonista, la quale, oltretutto, utilizza un’arma a lei nota “per attirarla, e per
incantarla di maniera che non s’accorga” dei due giovani nubendi, che quindi
potranno entrare nella canonica; e aggiunge: “La chiamerò io, e le toccherò
una corda [...] vedrete” (VI, 116: cfr. infra, § 6).
Agnese è, infatti, la “mente” e la coordinatrice del matrimonio “di
sorpresa”, nonché la persona che più di tutte si impegna per risolvere le
difficoltà contingenti: suo è il suggerimento a Renzo di consultare il dottor
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PIER ANGELO PEROTTI
Azzecca-garbugli, per quanto l’iniziativa non vada a buon fine; sua la trovata
del matrimonio clandestino; suo l’espediente di attirare Perpetua lontano
dalla canonica con la storia dei suoi mancati matrimoni; e anche più tardi,
durante la calata dei lanzichenecchi, sua sarà la proposta a don Abbondio e
alla sua serva di cercare riparo nel castello dell’innominato (XXIX, 555): di
questo consiglio parleremo infra, § 13.
6. Veniamo alla “notte degl’imbrogli”. Quando Tonio e Gervaso si
presentano, di notte (o meglio a tarda sera), alla porta di don Abbondio, la
governante manifesta perplessità, anzi diffidenza o sospetto: “Chi è, a
quest’ora?”, e subito dopo che Tonio si è qualificato e ha chiesto “di parlare
al signor curato”, obietta: “È ora da cristiani questa?” [...]. “Che discrezione?
Tornate domani”, e infine: “Aspettate, aspettate: vo e torno. Ma perché venire
a quest’ora?” (VII, 138). È stato suggerito da non pochi commentatori19 che il
comportamento di Perpetua rifletterebbe esattamente il temperamento di don
Abbondio, e anzi la serva farebbe perfettamente le veci del padrone, di cui
condividerebbe da un lato la diffidenza, dall’altro l’avarizia. È tuttavia lecito
interpretare l’atteggiamento di Perpetua in modo un po’ diverso. Si noti che
don Abbondio, all’annuncio della visita di Tonio, reagisce con le stesse
parole usate poco prima dalla sua serva, “A quest’ora?”, con la chiosa del
Manzoni: “disse anche don Abbondio, com’era naturale” [il corsivo è mio]
(VIII, 140); che è una piccola prova della loro affinità, ancorché parziale, di
carattere e contegno, che si acquisisce solo con una prolungata convivenza e
una sostanziale condivisione degli stessi valori. Ma non è improbabile che in
questa sorta di simbiosi od osmosi sia don Abbondio a trasmettere i propri
difetti alla sua domestica, la quale, pur con i suoi limiti caratteriali e culturali
e le sue piccole mancanze, peraltro quasi trascurabili, è certamente migliore
del suo padrone; anzi, non di rado essa tenta di impedire le azioni più
macroscopicamente sbagliate o inopportune del curato, o di offrirgli
suggerimenti dettati dal buonsenso, che in lei non è obnubilato dalla paura,
come invece accade a don Abbondio. Anche per questo credo che non si
possa accusare Perpetua di avarizia (come sostiene per es. Russo, loc. cit. alla
n. 19), che in lei avrebbe poco senso, perché non ha, come il curato, un
“tesoretto” (come vedremo più avanti: XXIX, 554) da preservare, e il debito
di Tonio è verso il suo padrone, e dunque a lei non deriva alcun vantaggio
dalla sua estinzione. Ancora una volta Perpetua altro non fa che gli interessi
del curato, forse un po’ influenzata da lui, che, se anche non ha un particolare
carisma (anzi non ne ha proprio) per indurla a seguire le sue direttive, è pur
sempre il suo datore di lavoro e un rappresentante del clero – per cui essa, pia
com’è, nutre devozione in generale –, e pertanto degno di rispetto e di
obbedienza, nonché in grado di indurla alla condivisione delle sue fissazioni.
Per queste ragioni la domestica non caccia senz’altro Tonio, agendo invece
come intuisce che farebbe il curato.
Come due giorni prima aveva tutelato il buon nome di don Abbondio di
fronte a Renzo, nella “notte degl’imbrogli” difende il proprio presso Agnese.
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APOLOGIA DI PERPETUA
La malignità riferitale da quest’ultima circa i suoi mancati matrimoni non
può essere stata inventata di sana pianta da Agnese in questa occasione, ma
doveva essere una maldicenza diffusa tra le pettegole del villaggio, come si
evince da quanto essa aveva detto alla figlia e a Renzo: “ho un segreto per
attirarla, e per incantarla di maniera che non s’accorga di voi altri, e possiate
entrare. La chiamerò io, e le toccherò una corda [...] vedrete” (VI, 116); e se i
nomi dei due mancati mariti di Perpetua – Beppe Suolavecchia e Anselmo
Lunghigna20 – rispecchiano in qualche misura il criterio secondo cui “nomina
sunt omina”, i due soggetti non dovevano essere dotati di pregi né fisici né
mentali, e perciò si potrebbe ritenere che quanto Perpetua sostiene, ossia di
essere stata lei a rifiutare i due partiti, sia vero; se così non fosse, sarebbe
segno che perfino due “amorosi stagionati”21 come quelli l’avevano rifiutata.
Lo stesso autore, durante la presentazione del personaggio, aveva sottolineato
questo suo debole lasciando aperte le due ipotesi: “[...] rimanendo celibe, per
aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non
aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche” (I, 27,
già cit. supra, § 2), con un sorriso basato – oltre che sul vocabolo “cane” –
sul contrasto tra il termine “amiche” e la loro versione maliziosa dei fatti.
Qui, in aggiunta alle frasi sdegnate per la falsità riportata da Agnese, abbiamo
solo un brandello di smentita: “in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno potuto
vedere [...]” (VIII, 141). Si potrebbe altresì aggiungere che, in ogni caso, se le
persone dei due pretendenti corrispondevano, come ho già ipotizzato, ai loro
nomi, Perpetua non avrebbe fatto un grande affare sposandone uno, e forse
avrebbe rischiato che le accadesse come a quell’amica di Agnese che, sposato
contro la volontà dei genitori il suo innamorato con l’espediente del
matrimonio “di sorpresa”, “se ne pentì poi, in capo a tre giorni” (VI, 110).
In ogni modo, se pure Perpetua avesse proposto una versione edulcorata
della vicenda dei mancati matrimoni, più che di menzogna si tratterebbe di
millanteria – usata per “legittima difesa” contro le malelingue –, che in fondo
non danneggia nessuno, se non, molto superficialmente, l’amor proprio
maschilista dei due presunti spasimanti. Anche per questa eventuale
deformazione della verità, dunque, Perpetua non è condannabile.
7. Conseguenza della maliziosa provocazione di Agnese è, come si direbbe
nel gergo militare, la “violata consegna”, o l’“abbandono del posto di
guardia”: dopo l’irruzione di Renzo, don Abbondio si era rinchiuso con
Perpetua nella “fortezza” della canonica 22, tant’è vero che la serva aveva
ricevuto l’ordine di dare notizie sulle condizioni di salute del curato “dalla
finestra” (II, 46), non tanto per il rischio, inimmaginabile, di incursione o
aggressione da parte di qualcuno, quanto piuttosto per evitare che la donna,
colloquiando a quattr’occhi con le comari del villaggio – probabilmente sue
amiche, e certamente conoscenti – e senza il controllo diretto del curato, si
lasciasse di nuovo sfuggire qualche parola di troppo. Di questa “fortezza”
Perpetua dovrebbe essere la sentinella, che – secondo le note leggi militari –
deve diffidare di chiunque, comprese le persone in apparenza più innocue,
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come appunto Agnese, che invece, in questa notte piena d’imprevisti, riesce a
raggirarla bellamente. Se non addirittura rientrare in casa dietro i due fratelli,
sarebbe stato sufficiente per la domestica non allontanarsi dal suo “posto di
guardia”. Ma qui si scontrano due diverse condizioni psicologiche: Agnese è
lucida, perché la questione di cui parla con Perpetua non la coinvolge affatto,
e s’impegna con tutta la sua scaltrezza per uno scopo che le sta assai a cuore;
viceversa l’altra è fortemente interessata all’argomento, perché è in gioco il
suo orgoglio di donna, se non la stessa stima dei compaesani, cui
evidentemente tiene molto, pur nella sua modesta personalità.
Come già ho ricordato, dopo aver tutelato l’immagine di don Abbondio con
Renzo, Perpetua difende la propria dignità con Agnese, che, per attirarla
lontano dalla canonica, riferisce un pettegolezzo che la riguarda. La
differenza tra le due situazioni – quella con Renzo e quella con Agnese – è
che il giovane non tende tranelli alla serva del curato (né tantomeno usa un
tono minaccioso, come farà poco dopo con don Abbondio) per farla parlare,
perché non ce n’è bisogno, e la induce a tradirsi, lasciando intuire il segreto,
senza usare l’arma che invece usa Agnese. In questa circostanza Perpetua
pecca indubbiamente d’ingenuità: ma l’ingenuità è un difetto? Probabilmente
lo è in un mondo in cui quasi tutti cercano di approfittare dell’altrui
dabbenaggine o candore per raggiungere i propri scopi; ma questo non
significa che le vittime degli inganni ne siano in qualche modo
corresponsabili. Se homo homini lupus (Plaut., Asin., 495), la persona
avveduta deve adeguarsi a coloro che la circondano, diffidando di tutti, fino a
prova del contrario: la sola colpa di Perpetua è di non aver tenuto conto di
questo criterio, ma, a ben vedere, è una colpa “di riflesso” – e certamente
veniale –, conseguenza dell’altrui inganno.
Naturalmente, anche qui – come dopo l’incontro di Perpetua con Renzo (II,
42: cfr. supra, § 5) – don Abbondio accusa la serva di aver mancato al suo
dovere (“stava a bisticciar sottovoce con Perpetua, che l’aveva lasciato solo
in quell’imbroglio”: VIII, 154), e pure in questa circostanza la donna non
avrà certamente rinunciato a difendersi, ma l’autore non precisa con quali
argomenti, forse perché sarebbe arduo trovarne di plausibili.
8. Il giorno seguente, e quelli successivi, Perpetua torna in campo, e proprio a
lei, in quanto testimone – o meglio, come sa il lettore, in qualche misura
compartecipe degli avvenimenti di quella notte movimentata –, e poiché nota
tra i compaesani come persona poco propensa alla riservatezza, si rivolgono i
curiosi e le pettegole del villaggio. La donna è naturalmente combattuta tra i
divieti del padrone e il desiderio almeno di accennare al “tiro” birbone che
era stato giocato al suo “povero padrone”, soprattutto perché era stato
“concertato e tentato da quel giovine dabbene, da quella buona vedova, da
quella madonnina infilzata” (XI, 221). D’altra parte, “ripensando a tutte le
circostanze del fatto, e raccapezzandosi finalmente ch’era stata infinocchiata
da Agnese” [il corsivo è mio], pur provando “tanta rabbia” da sentire il
bisogno di qualche sfogo, “non fiatava” circa il raggiro – la “perfidia” – con
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APOLOGIA DI PERPETUA
cui Agnese l’aveva abbindolata, non tanto per riservatezza, ma perché
sarebbe stata un’ammissione per lei umiliante. Notiamo quel “finalmente”,
che ha lo scopo di lasciare intendere (perché nel Manzoni mai nulla è
casuale) quanto Perpetua deve aver rimuginato prima di capire
l’organizzazione dell’inganno, in realtà di un’evidenza palmare per una
persona di normale acume, di cui evidentemente la donna non è dotata.
In questa condotta si può rilevare una forma naïve di orgoglio, legato a due
fattori: non parla del raggiro di cui è stata oggetto perché rischierebbe di
perdere la faccia per la sua ingenuità, ossia perché è stata gabbata da una
popolana come lei, e inoltre sarebbe costretta a rivelare l’argomento usato da
Agnese, riesumando i pettegolezzi circa i suoi mancati matrimoni, che invece
vorrebbe dimenticati per sempre. Ma all’autodifesa si può aggiungere, come
altre volte, il suo attaccamento a don Abbondio, tanto che per difenderlo,
facendolo apparire come una vittima, accenna almeno a qualche dettaglio di
quella notte, come indica l’autore con una delle similitudini più azzeccate del
romanzo (222):
“certo è che un così gran segreto stava nel cuore della povera donna,
come, in una botte vecchia e mal cerchiata, un vino molto giovine, che
grilla e gorgoglia e ribolle, e, se non manda il tappo per aria, gli geme
all’intorno, e vien fuori in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola
di qua e di là, tanto che uno può assaggiarlo, e dire a un di presso che vino
è”.
9. Per una dozzina di capitoli del romanzo Perpetua esce di scena, perché i
punti focali del racconto si spostano altrove. La ritroviamo menzionata nei
pensieri di don Abbondio, che durante la salita al castello dell’innominato
l’accusa, a distanza, di essere stata la causa di quella sua avventura, per
averlo indotto, o quasi costretto, a partecipare alla cerimonia di benvenuto dei
parroci dei dintorni in occasione della visita pastorale dell’arcivescovo:
questa la sua imputazione alla “signora Perpetua” (si noti la forma ironica di
riguardo): “l’avermi cacciato qui per forza, quando non c’era necessità, fuor
della mia pieve: e che tutti i parrochi d’intorno accorrevano, anche più da
lontano; e che non bisognava stare indietro; e che questo, e che quest’altro; e
imbarcarmi in un affare di questa sorte! Oh povero me!” (XXIII, 439). Si noti
quel “fuor della mia pieve”, che potremmo chiosare “fuori della fortezza” cui
abbiamo fatto riferimento supra, § 7.
Perpetua, suggerendo, anzi quasi imponendo al padrone di presenziare,
insieme con gli altri parroci della zona, all’incontro col cardinale, ha creduto
di curare gli interessi di don Abbondio, evitandogli di passare per irrispettoso
o misantropo, e dandogli l’opportunità di ossequiare l’arcivescovo, e quindi
acquisire qualche merito che – conoscendo il soggetto – non avrebbe potuto
ottenere in altro modo. Insomma, anche in questo caso Perpetua è stata
accorta; ma anche questa volta – come già per il “povero parere” (I, 29: cfr.
supra, § 3) di denunciare al presule le minacce di don Rodrigo – il suo
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PIER ANGELO PEROTTI
consiglio viene disprezzato: là viene giudicato irragionevole, e pertanto
ignorato; qui viene seguìto obtorto collo, e poi deprecato. Ma di aver respinto
il primo parere il curato poi si pentirà (cfr. infra, § 11), come qui si pente di
aver seguìto questo: il suo giudizio sulla validità dei suggerimenti è – come
sempre per lui – connesso ai vantaggi o agli inconvenienti che gliene
derivano, dimostrando, se ancora ce ne fosse bisogno, il suo “egoismo quasi
epico”23 e il suo relativismo morale.
10. La mente calcolatrice di don Abbondio, che non si sforza – come sarebbe
suo dovere di cristiano e ancor più di ministro di Dio – di aiutare il prossimo,
ma anzi lo sfrutta a proprio esclusivo vantaggio, prende di mira anche la sua
fedele domestica, della cui peculiarità meno nobile, la loquacità, si ripropone
di approfittare per evitare guai a se stesso. Durante il viaggio di ritorno dalla
spedizione al castello, don Abbondio, fatti i debiti calcoli, si rende conto che
il solo con cui don Rodrigo può rivalersi per il fallimento del suo infame
piano è proprio lui, perché gli altri sono fuori portata: “Lucia, di ragione, sua
signoria illustrissima penserà a metterla in salvo: quell’altro poveraccio mal
capitato è fuor del tiro” (XXIV, 454). L’unico esposto al pericolo, il solo
“cencio” che può andare “all’aria” (ibid.) è lui. Giunge così alla distorsione
morale di pensare di giustificarsi con don Rodrigo informandolo di essere
andato al castello “per comando espresso di sua signoria illustrissima, e non
di sua volontà” (ibid.), ma subito obietta a se stesso: “Parrebbe che volessi
tenere dalla parte dell’iniquità. Oh santo cielo! Dalla parte dell’iniquità io!
Per gli spassi che la mi dà!” (455), rendendosi conto, anche questa volta24, di
aver passato il segno dell’improntitudine.
Gli viene dunque in mente un espediente, certo illuminante circa l’opinione
che ha della sua serva: “il meglio sarà raccontare a Perpetua la cosa com’è; e
lascia poi fare a Perpetua a mandarla in giro” (ibid.). Egli la considera una
formidabile divulgatrice di notizie, fastidiosa o utile a seconda delle
circostanze, e mentre in altre occasioni la riprende per questa sua debolezza,
quando il suo vantaggio particolare lo richiede se ne serve senza ritegno. Se
la donna ha l’inclinazione a essere chiacchierona – il che non significa
necessariamente maldicente –, il curato ha una colpa molto più grave: quella
di approfittare del suo debole per conseguire i suoi scopi. Come nelle vicende
criminali, così anche qui il mandante è doppiamente reo 25, perché alla
responsabilità del misfatto aggiunge la codardia di non osare commetterlo di
persona.
11. Ritorna Perpetua, di nuovo in absentia, nei pensieri di don Abbondio
durante la severa paternale che riceve dall’arcivescovo. È il celebre passo dei
“pareri di Perpetua”. Mentre il presule lo rampogna per non aver assolto il
proprio dovere di maritare Renzo e Lucia, di fronte all’obiezione del
cardinale “Perché non avete pensato a informare il vostro vescovo
dell’impedimento che un’infame violenza metteva all’esercizio del vostro
ministero?” (XXVI, 495), in don Abbondio nasce spontaneo il pensiero –
46
APOLOGIA DI PERPETUA
formulato “stizzosamente”, perché evidentemente è infastidito dal dover
ammettere che aveva ragione la serva, da lui considerata di scarsa
intelligenza e buonsenso, e quindi sostanzialmente sottovalutata – “ – I pareri
di Perpetua!” – (ibid.). Subito dopo, all’obiezione del prelato “ [...] Non
sapevate che, se l’uomo promette troppo spesso più che non sia per
mantenere, minaccia anche non di rado, più che non s’attenti poi di
commettere? Non sapevate che l’iniquità non si fonda soltanto sulle sue
forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui?”, il curato conferma: –
“Proprio le ragioni di Perpetua” – (ibid.), cui l’autore aggiunge il commento
(già cit. supra, § 3): “senza riflettere che quel trovarsi d’accordo la sua serva
e Federigo Borromeo su ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare, voleva dir
molto contro di lui” (ibid.). Naturalmente l’ammissione – se di ammissione si
tratta, come vedremo tra poco – è per don Abbondio dolorosa, ma si potrebbe
dire che il suggerimento di Perpetua, ribadito dalla contestazione del presule,
anziché convincerlo di essere in torto e di non aver seguìto la via più
opportuna – ancorché esposta a qualche rischio – per risolvere la difficoltà, lo
fa sentire perseguitato dal mondo intero, secondo la sua indole vittimistica:
non ammette di aver sbagliato, e anzi si sente incompreso dal cardinale, che a
suo parere non ha colto il pericolo della situazione (cfr. “Ma forse non mi
sono spiegato abbastanza” [...]: “sotto pena della vita, m’hanno intimato di
non far quel matrimonio”: XXV, 489), perché non è stato coinvolto di
persona: “Gli è perché le ho viste io quelle facce”, scappò detto a don
Abbondio; “le ho sentite io quelle parole. Vossignoria illustrissima parla
bene; ma bisognerebbe esser ne’ panni d’un povero prete, e essersi trovato al
punto”, cfr. XXVI, 496).
Sicuro, com’è, di aver seguìto la sola strategia utile a salvargli la vita, non
ha cambiato idea circa il consiglio di Perpetua, e dunque “quel trovarsi
d’accordo etc.” (cit. qui sopra) non è per lui motivo di resipiscenza, ma una
conferma che i “santi” come Federigo – con l’aggiunta della sua serva, che
pure santa non è – “son curiosi” (XXV, 491), e che le vittime di questi
“santi”, oltre a loro stessi (cfr. XXVI, 497:
“ – Oh che sant’uomo! ma che tormento! – pensava don Abbondio: –
anche sopra di sé: purché frughi, rimesti, critichi, inquisisca; anche sopra
di sé. – Disse poi ad alta voce: “oh monsignore! che mi fa celia? Chi non
conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima?” E
tra sé soggiunse: – “anche troppo” –)26,
sono i “galantuomini” come lui, che si considera un modello di rettitudine
(cfr. XXIII, 443: “Ci vuol tanto a fare il galantuomo tutta la vita, com’ho
fatt’io?”).
Considerata in questi termini, la sequenza dell’incontro tra l’arcivescovo e
don Abbondio contiene una specie di piccola lode di Perpetua, fatta non dal
Manzoni o da uno dei personaggi (tanto meno da don Abbondio), ma
indirettamente attraverso i rimproveri del cardinale al curato e il commento
47
PIER ANGELO PEROTTI
interiore di quest’ultimo.
12. Durante la calata dei lanzichenecchi in Lombardia, quando entrano nel
territorio di Lecco, “tra i poveri spaventati troviamo persone di nostra
conoscenza” (XXIX, 551), don Abbondio e la sua “appendice naturale”,
Perpetua. Ovviamente ricominciano gli scontri verbali tra il curato e la sua
governante.
Il capitolo si apre con un “giocondo preannuncio”27: “Chi non ha visto don
Abbondio, il giorno che si sparsero tutte in una volta le notizie della calata
dell’esercito, del suo avvicinarsi, e de’ suoi portamenti, non sa bene cosa sia
impiccio e spavento” (ibid.). Segue la drammatica descrizione dell’esodo
degli abitanti dai paesi invasi, tra i quali spicca il nostro curato, che è il
prototipo e l’esempio più clamoroso di due atteggiamenti che si dovrebbero
evitare soprattutto nei momenti di confusione e di pericolo, appunto
“impiccio e spavento”: e infatti era “risoluto di fuggire, risoluto prima di tutti
e più di tutti” (552). Almeno a me, il “pover’uomo” che “correva, stralunato e
mezzo fuor di sé, per la casa” (ibid.) ricorda il modo di fare di Gervaso –
durante la “notte degl’imbrogli”, nella semioscurità, dopo la reazione del
curato –, che “spiritato, gridava e saltellava, cercando l’uscio di scala, per
uscire a salvamento” (VIII, 145), o anche il comportamento del bambino
impaurito che si aggrappa o si nasconde sotto le sottane della madre (don
Abbondio è equiparabile a un bambino che non vuole crescere 28: cfr. XXIX,
553, cit. qui sotto: “[...], come un ragazzo”): “andava dietro a Perpetua, per
concertare una risoluzione con lei” (552). E Perpetua, donna eminentemente
pratica, avrà certamente avuto paura anche lei – normale sentimento umano
in simili frangenti (cfr. “e lo spavento che aveva anch’essa in corpo”, ibid.) –,
ma, forse per non pensarci, la combatte con l’azione, il dinamismo:
“affaccendata a raccogliere il meglio di casa, e a nasconderlo in soffitta, o per
i bugigattoli, passava di corsa, affannata, preoccupata, con le mani o con le
braccia piene, e rispondeva: “or ora finisco di metter questa roba al sicuro, e
poi faremo anche noi come fanno gli altri” (ibid.). Di fronte alla presenza non
solo inutile ma anzi ingombrante di don Abbondio, non meraviglia che essa
fosse, “in tal congiuntura, meno trattabile di quel che fosse stata mai” (ibid.),
e infatti redarguisce il padrone con una certa asprezza, dimostrando un
carattere non sottomesso e un notevole spirito di adattamento anche alle
situazioni più difficili o pericolose (ibid.):
S’ingegnano gli altri; c’ingegneremo anche noi. Mi scusi, ma non è
capace che d’impedire. Crede lei che anche gli altri non abbiano una pelle
da salvare? Che vengono per far la guerra a lei i soldati? Potrebbe anche
dare una mano, in questi momenti, in vece di venir tra’ piedi a piangere e
a impicciare:
si noti l’intercalare “mi scusi”, che sembra una formula di cortesia, ma che in
realtà è l’espressione tipica di chi intende parlare a qualcuno con assoluta
48
APOLOGIA DI PERPETUA
franchezza.
Mentre la domestica progetta, “finita che fosse alla meglio quella
tumultuaria operazione, di prenderlo per un braccio, come un ragazzo, e di
strascinarlo su per una montagna” (553) (cfr. qui sopra e n. 28) – pensiero
che chiarisce, al di là di ogni dubbio, l’opinione non proprio positiva che essa
ha del curato –, don Abbondio, dopo essere andato alla finestra della
“fortezza” (cfr. supra, § 7), che sta per non essere più tale, a implorare l’aiuto
dei parrocchiani in fuga (553-54), ricomincia le sue geremiadi, e torna “in
cerca di Perpetua” (554), con la quale riprende il battibecco relativo agli
accorgimenti pratici da attuare in vista della fuga. Come al solito, è Perpetua
a valutare e a decidere, mentre don Abbondio sa solo obiettare, tentennare,
criticare le idee della donna, e rispondere, alle richieste di un parere da parte
della serva, col dubbio e con domande, che essa stessa ritiene senza costrutto
(ibid.):
“Oh appunto!” gli disse questa: “e i danari?”
“Come faremo?”
“Li dia a me, che anderò a sotterrarli qui nell’orto di casa, insieme con le
posate”.
“Ma [...]”.
“Ma, ma; dia qui; tenga qualche soldo, per quel che può occorrere; e poi
lasci fare a me”.
Don Abbondio ubbidì, andò allo scrigno, cavò il suo tesoretto, e lo
consegnò a Perpetua; la quale disse: “vo a sotterrarli nell’orto, appiè del
fico”; e andò.
Ma al ritorno a casa, trovato vuoto il nascondiglio, il curato rimprovererà –
come ci si poteva aspettare – la donna (XXX, 580: cfr. infra, § 16), che ora,
di fronte all’inettitudine di don Abbondio, compie una scelta magari un po’
azzardata, ma almeno la fa, mentre il suo indeciso e inconcludente padrone è
incapace, secondo il suo costume, di fare una qualsiasi proposta: infatti, come
recita l’adagio, “chi fa, falla”; e del resto, l’intera canonica trovata a
soqquadro al loro ritorno (579) dimostra che qualunque nascondiglio la
donna avesse trovato, il risultato sarebbe stato lo stesso.
Carica di un paniere di cibarie (“munizione da bocca”, secondo la
definizione del Manzoni, forse lievemente scherzosa 29) e di una gerla
(“piccola”, per fortuna) piena di biancheria – mentre il padrone è a mani
vuote –, non perde l’occasione di alludere ironicamente alla sua inutilità, con
la gustosissima frase: “il breviario almeno lo porterà lei” (XXIX, 554), con
quell’icastico “almeno”, che vale più di un’esplicita rampogna. La scena
prosegue con un’altra domanda che dimostra la fragilità di carattere del
parroco: “Ma dove andiamo?”, con la risposta di Perpetua, dettata da sano
buonsenso: “Dove vanno tutti gli altri? Prima di tutto, anderemo in istrada; e
là sentiremo, e vedremo cosa convenga di fare” (ibid.).
49
PIER ANGELO PEROTTI
13. In quel momento arriva Agnese, che propone al curato e alla sua
domestica di rifugiarsi con lei nel castello dell’innominato; e anche in questa
circostanza, come poco prima (“Come faremo?”, 554: cfr. supra, § 12), don
Abbondio non sa prendere una decisione, ma deve sentire il parere di
Perpetua – che, qualunque sia, non persuade del tutto la sua mente titubante:
“Che ne dite, Perpetua?”, 555) –, la quale ancora una volta ha idee chiare,
dettate da innato equilibrio e da un inaspettato, o forse prevedibile,
decisionismo: “Dico che è un’ispirazione del cielo, e che non bisogna perder
tempo, e mettersi la strada tra le gambe” (ibid.). Ma a don Abbondio questa
sicurezza – non occasionale né impulsiva, ma basata sul senno – non basta, e
come sempre avanza obiezioni (“E poi [...]”), cui la donna reagisce
bruscamente e facendogli il verso, come sembrano dimostrare gli “E poi e
poi” ripetuti due volte (ibid.):
E poi, e poi, quando saremo là, ci troveremo ben contenti. Quel signore,
ora si sa che non vorrebbe altro che far servizi al prossimo; e sarà ben
contento anche lui di ricoverarci. Là, sul confine, e così per aria, soldati
non ne verrà certamente. E poi e poi, ci troveremo anche da mangiare;
ché, su per i monti, finita questa poca grazia di Dio, [...] ci saremmo
trovati a mal partito [i corsivi sono miei],
manifestando il consueto senso pratico (si pensi a “ci troveremo anche da
mangiare” etc.) e coraggio non disgiunto dalla ragione. Non vede pericoli
anche dove non ci sono, come invece fa il suo padrone, e sa rimettersi alla
buona sorte, o provvidenza divina, cui dovrebbe affidarsi, a maggior ragione
in virtù del suo status, il curato. Ai dubbi di don Abbondio circa l’affidabilità
dell’innominato – che non manifesta esplicitamente, ma che la donna,
conoscendo bene il proprio padrone, non ha difficoltà a intuire da quell’“E
poi [...]” testé citato – essa risponde come abbiamo visto qui sopra (“Quel
signore”, etc.), anticipando l’obiezione successiva, che rivela la sua continua
paura: “Convertito, è convertito davvero, eh?”, alla quale ribatte con una
certa ruvidità, come si fa coi bambini caparbi: “Che c’è da dubitarne ancora,
dopo tutto quello che si sa, dopo quello che anche lei ha veduto?” (ibid.).
Eppure il curato non è ancora persuaso, e perciò obietta: “E se andassimo a
metterci in gabbia?”; ma Perpetua reagisce con la stessa franca ruvidità, solo
in apparenza temperata dal già visto inciso “mi scusi” (552: cfr. § 12): “Che
gabbia? Con tutti codesti suoi casi, mi scusi, non si verrebbe mai a una
conclusione”. E senza soluzione di continuità – per interrompere il rimbrotto
al padrone, evitando che possa degenerare – elogia Agnese, riconoscendole il
merito della felice idea di riparare nel castello: “Brava Agnese! v’è proprio
venuto un buon pensiero”, e si accinge a partire: “E messa la gerla sur un
tavolino, passò le braccia nelle cigne, e la prese sulle spalle” (556).
Benché vinto dalla forza delle ragioni di Perpetua, don Abbondio non si
arrende, ma mette in campo, tormentandosi quasi per gusto masochistico30,
un altro motivo di paura: “Non si potrebbe [...] trovar qualche uomo che
50
APOLOGIA DI PERPETUA
venisse con noi, per far la scorta al suo curato? Se incontrassimo qualche
birbone, che pur troppo ce n’è in giro parecchi, che aiuto m’avete a dar voi
altre?”31 (ibid.): secondo don Abbondio, dovrebbero essere due donne a dare
aiuto a lui, che pure è un uomo, e le accusa di non essere in grado di farlo: è
il colmo dell’assurdo. Ma neppure questa volta la serva si lascia sopraffare, e
risponde sbrigativamente, esortando il curato a muoversi senza indugiare a
creare nuove difficoltà: “Un’altra, per perder tempo! [...]. Andarlo a cercare
ora l’uomo, che ognuno ha da pensare a’ fatti suoi. Animo! vada a prendere il
breviario e il cappello; e andiamo” (ibid.).
Osserviamo che la domestica non serba alcun rancore verso Agnese per il
tiro mancino fattole nella “notte degl’imbrogli”, forse perché ha perdonato la
compaesana, ma soprattutto perché evidentemente in lei la convenienza
prevale sull’orgoglio ferito. A maggior ragione è solo l’interesse a ispirare
l’atteggiamento di don Abbondio nei confronti di Agnese, che non sembra
aver perdonato, considerato che perdonare significa anche dimenticare,
mentre a distanza di oltre un anno da questo momento, e di circa due dal
fatto, in qualche modo rinfaccia ancora, e comunque ricorda, per quanto
bonariamente, l’inganno degli sposi e di Agnese32.
14. Dopo la progettazione, il viaggio. Anche dopo essere uscita con don
Abbondio dalla canonica, Perpetua dimostra nel contempo cura delle
abitudini e di essere saggiamente disincantata: “Perpetua richiuse, più per
non trascurare una formalità, che per fede che avesse in quella toppa e in que’
battenti, e mise la chiave in tasca” (556), mentre il curato, “eroico egoista”33,
manifesta il consueto cinismo34 (ibid.):
Don Abbondio diede, nel passare, un’occhiata alla chiesa, e disse tra i
denti: “al popolo tocca a custodirla, che serve a lui. Se hanno un po’ di
cuore per la loro chiesa, ci penseranno; se poi non hanno cuore, tal sia di
loro”,
unito a mancanza di obiettività, perché la chiesa, in realtà, serve anche, o
soprattutto, a lui, che da essa trae il sostentamento.
Durante il viaggio troviamo le solite inquietudini di don Abbondio e le
abituali baruffe con la serva; ma qui se la prende con tutto il mondo, dal duca
di Nevers all’imperatore, al governatore di Milano: e Perpetua, grazie al
buonsenso, che più volte le abbiamo riconosciuto, e che in questo caso si
manifesta con la capacità di distinguere tra ciò cui si può porre rimedio e
l’irreparabile – mentre il curato vorrebbe guidare l’intera umanità secondo i
suoi princìpi (cfr. “Ci vuol tanto a fare il galantuomo tutta la vita, com’ho
fatt’io?”, XXIII, 443, cit. supra, § 11), peraltro assai discutibili, per non dire
meschini –, risponde opportunamente, in tono piuttosto secco, come sempre
quando il suo padrone esprime concetti contrari alla logica più elementare, o
fantasiosi, o dettati da una visione egoistica della realtà 35 (XXIX, 556-57):
51
PIER ANGELO PEROTTI
“Lasci un po’ star codesta gente; che già non son quelli che ci verranno a
aiutare”, diceva Perpetua. “Codeste, mi scusi, sono di quelle sue solite
chiacchiere che non concludon nulla. Piuttosto, quel che mi dà noia [...]”.
Don Abbondio coglie al volo l’ultima frase, solo iniziata, della donna,
chiedendole di completarla (“Cosa c’é?”); ed essendo relativa ai dubbi sul più
appropriato occultamento dei beni di casa (“Perpetua, la quale, in quel pezzo
di strada, aveva pensato con comodo al nascondimento fatto in furia,
cominciò a lamentarsi d’aver dimenticata la tal cosa, d’aver mal riposta la tal
altra; qui, d’aver lasciata una traccia che poteva guidare i ladroni, là [...]”,
557), reagisce come ci si aspetta da un individuo come lui: “Brava! [...]
brava! così avete fatto? Dove avevate la testa?”, cui è intercalato il commento
dell’autore: “disse don Abbondio, ormai sicuro della vita, quanto bastava per
poter angustiarsi della roba” (ibid.). Naturalmente la serva lo rimbecca, a
ragione, senza alcun timore reverenziale, accompagnando le parole con un
atteggiamento quasi più eloquente delle parole stesse (ibid.):
“Come!” esclamò Perpetua, fermandosi un momento su due piedi, e
mettendo i pugni su’ fianchi, in quella maniera che la gerla glielo
permetteva: “come! verrà ora a farmi codesti rimproveri, quand’era lei
che me la faceva andar via, la testa, in vece d’aiutarmi e farmi coraggio!
Ho pensato forse più alla roba di casa che alla mia; non ho avuto chi mi
desse una mano; ho dovuto far da Marta e Maddalena; se qualcosa anderà
a male, non so cosa mi dire: ho fatto anche più del mio dovere”.
Il passo merita che si spenda qualche parola di commento. Innanzitutto, la
postura della donna è simile, se non identica, a quella da lei tenuta alla sua
prima comparsa nel romanzo 36, come indicazione corporea che essa è pronta
per così dire al combattimento, qui in difesa, là in attacco; in secondo luogo,
la condotta di don Abbondio – quasi un tòpos37 – è propria delle persone
inette o irresolute, che tuttavia non rinunciano a criticare l’operato altrui. Non
basta: l’ironia del Manzoni si scatena nelle parole del curato, che non si rende
neppure conto della propria incoerenza né dimostra il minimo senso critico,
quando domanda alla serva: “Dove avevate la testa?”. Viene spontaneo
domandarsi dove lui avesse la testa, e non solo durante i preparativi per la
fuga, ma complessivamente in tutte le occasioni nelle quali proprio lui non ha
“la testa” per prendere decisioni senza chiedere il “parere” di Perpetua, o lo
rifiuta senz’altro. Nel commento che abbiamo citato, l’autore mette in
evidenza la scala di valori cui don Abbondio uniforma la sua vita:
parafrasando il celebre aforisma di Aristotele primum vivere, deinde
philosophari, potremmo sintetizzare la chiosa del Manzoni con *“primum
vivere, deinde thesaurizare”: al primo posto c’è la vita, che è sempre in cima
alle preoccupazioni del prete, al secondo i beni materiali; tertium non datur, o
almeno così sembra. Altri interessi – segnatamente quelli spirituali – non lo
sfiorano neppure, il che sarebbe disdicevole già per un individuo comune,
52
APOLOGIA DI PERPETUA
figuriamoci per un uomo di Chiesa. Quella di don Abbondio è, si potrebbe
affermare, una forma estrema di materialismo, evidentemente inaccettabile in
un sacerdote. Si potrebbe perciò parafrasare anche il titolo del famoso libro di
Primo Levi Se questo è un uomo con *“Se questo è un prete”.
Con la risposta che abbiamo poc’anzi ricordato, Perpetua reagisce da par
suo al rimprovero del padrone, che mette in discussione il suo
comportamento, sto per dire la sua professionalità; mi sembra che la serva ne
abbia tutte le ragioni, e pertanto, data la sua indole piuttosto focosa, non è
disposta a subire continuamente i capricci, le stravaganze, le
“fantasticaggini” (I, 27) del curato, ancorché suo datore di lavoro. Tuttavia
mi pare che la donna non sia “nervosa” (e comunque non più che in altre
circostanze), come sostiene il Momigliano 38, che addirittura paragona i
contrasti tra i due personaggi al beccarsi dei capponi di Renzo (III, 51): non
sono d’accordo su questo giudizio dello studioso, perché, in realtà, a essere
“nervoso”, forse più del solito, è don Abbondio, che ha tutto da perdere e di
tutto ha timore, mentre Perpetua non rischia la vita come il padrone – dato
che non è una religiosa (ricordiamo in particolare XXIX, 553: “Non sapete
che sono luterani la più parte, che ammazzare un sacerdote l’hanno per opera
meritoria? Volete lasciarmi qui a ricevere il martirio?”) –, né di perdere beni
materiali, che non possiede, e non ha timore dell’innominato e dei suoi
accoliti, dato che essa, non esasperatamente diffidente come il padrone, ha
una ragionevole fiducia nel signore che li ospiterà.
Il viaggio continua, e Perpetua aderisce senza esitare alla proposta di
Agnese di passare a salutare il sarto e la sua famiglia, ma non tanto (o non
solo) per una forma di cortesia o di gratitudine – secondo le intenzioni della
madre di Lucia: “Anderemo bene a salutar quella brava gente”, disse
Agnese” (XXIX, 558) –, bensì per motivi pratici come quelli che
contraddistinguono in genere il suo comportamento: “E anche a riposare un
pochino: ché di questa gerla io comincio ad averne abbastanza; e poi per
mangiare un boccone”, disse Perpetua” (ibid.): si noti infatti la sua attenzione
al cibo, già rilevata poc’anzi (cfr. la “munizione da bocca”, 554 [supra, § 12],
e “ci troveremo anche da mangiare”, 555 [supra, § 13]), che non denota una
mentalità grettamente limitata all’istinto primordiale della ricerca del cibo,
ma piuttosto il senso pratico di chi non perde di vista gli aspetti
imprescindibili dell’esistenza sua e dello stordito, “afflosciato”39 padrone,
che non si preoccupa delle esigenze materiali non per una forma di superiore
distacco idealistico, ma perché sa bene che c’è chi provvede per lui, appunto
Perpetua.
Naturalmente – e ci saremmo stupiti del contrario – neppure in questo caso
don Abbondio si astiene dall’obiettare alla proposta, che a lui pare
nascondere qualche pericolo: “Con patto di non perder tempo; ché non siamo
in viaggio per divertimento,” concluse don Abbondio” (558); ma questa volta
non vi è risposta di Perpetua.
15. Mentre le due donne dimostrano ancora una volta saggezza e capacità di
53
PIER ANGELO PEROTTI
dare alle cose il loro giusto valore (“Siamo ancora fortunati”, dicevan le due
donne: “ringraziamo il cielo. Vada la roba; ma almeno siamo in salvo”,
XXX, 568), il curato continua a vedere pericoli per tutto il viaggio verso il
castello, e dunque si pente ben presto di aver accolto l’idea di Agnese,
approvata da Perpetua (569):
“Oh che storia!” borbottava alle donne, in un momento che non c’era
nessuno d’intorno: “oh che storia! Non capite, che radunarsi tanta gente in
un luogo è lo stesso che volerci tirare i soldati per forza? Tutti
nascondono, tutti portan via; nelle case non resta nulla; crederanno che
lassù ci siano tesori. Ci vengono sicuro: sicuro ci vengono. Oh povero
me! dove mi sono imbarcato!”.
Perpetua, ancorché non esperta di strategia militare, ma basandosi soltanto
sul buonsenso che la contraddistingue normalmente, accentuato qui dal
confronto con l’ottusità del padrone – che manifesta paure senza fondamento
– e sottolineato da una sorta di massima attinta alla saggezza popolare (“io ho
sempre sentito dire [...]”), gli risponde con una certa ruvidità, esordendo con
un’interiezione simile, ma forse non identica nella pronuncia o nel tono, a
quella del curato (ibid.):
“Oh! voglion far altro che venir lassù”, diceva Perpetua: “anche loro
devono andar per la loro strada. E poi, io ho sempre sentito dire che, ne’
pericoli, è meglio essere in molti”.
Ma a don Abbondio questa rassicurazione, pur plausibile, non basta, e perciò
ribatte dando dell’ottimista insensata a Perpetua, e rivelando, oltre alla
consueta paura, in gran parte immotivata ed eccessiva (“ogni lanzichenecco
[...]”), un fastidio, che rasenta il cinismo – a maggior ragione inaccettabile in
un pastore di anime –, per i compagni di sventura, che equipara
offensivamente a “pecore senza ragione”, non rendendosi conto della
contraddizione, dato che fa parte anch’egli di questo gregge (ibid.):
“In molti? in molti?” replicava don Abbondio: “povera donna! Non sapete
che ogni lanzichenecco ne mangia cento di costoro? E poi, se volessero
far delle pazzie, sarebbe un bel gusto, eh? di trovarsi in una battaglia. Oh
povero me! Era meno male andar su per i monti. Che abbian tutti a voler
cacciarsi in un luogo![...] Seccatori!” borbottava poi, a voce più bassa:
“tutti qui: e via, e via, e via; l’uno dietro l’altro, come pecore senza
ragione”.
Tuttavia Perpetua, sicura delle sue buone ragioni, non si dà per vinta, e
rimbecca, giustamente, il padrone, cercando di fargli notare la sua sciocca
incoerenza causata dall’egoismo (ibid.): “A questo modo [...] anche loro
potrebbero dir lo stesso di noi”. Il curato, resosi conto che la donna ha
54
APOLOGIA DI PERPETUA
sostanzialmente ragione – perché ha esposto un’osservazione affatto sensata
– e dunque lui ha torto, ma non volendo ammetterlo, le impone, più che
invitarla, di interrompere la discussione, appigliandosi, in conclusione, a una
vaga speranza (ibid.):
“Chetatevi un po’”, disse don Abbondio: “ché già le chiacchiere non
servono a nulla. Quel ch’è fatto è fatto: ci siamo, bisogna starci. Sarà quel
che vorrà la Provvidenza: il cielo ce la mandi buona”.
Sino alla fine della salita al castello – una sorta di ascesa al Calvario, in cui la
croce è rappresentata dalla paura: non per caso il prete durante entrambi i
viaggi al castello parla per sé di “martirio” (XXIV, 454; XXIX, 553) – don
Abbondio teme continuamente pericoli, sempre diversi ma sempre in gran
parte immaginari, che però ora menziona dentro di sé, forse perché si
vergogna di manifestare le sue paure alla serva o per evitare di essere di
nuovo ripreso da lei. Ma questa volta – la prima nei rapporti a noi noti tra i
due – è proprio Perpetua a rivangare l’argomento precedente per difendere la
scelta sua e di Agnese, secondo lei indovinata, poiché si sente ben protetta in
quel luogo; e non è azzardato avvertire, da parte della donna, una sorta di
lettura del pensiero di don Abbondio, che stava appunto rimuginando circa la
temerarietà di una simile situazione (XXX, 569):
“Vede ora, signor padrone”, gli disse Perpetua, “se c’è della brava gente
qui, che ci saprà difendere. Vengano ora i soldati: qui non sono come que’
nostri spauriti, che non son buoni che a menar le gambe”.
Ancora un paio di osservazioni su queste poche righe. Oltre a dare prova di
un carattere non pavido, o forse di un gusto della sfida un po’ incosciente o
infantile (“Vengano ora [...]”), Perpetua mostra qui chiaramente (altrove con
minore evidenza) un atteggiamento che potrebbe essere considerato un
difetto: vuole avere l’ultima parola, debolezza assai diffusa per es. tra certe
mogli o (certi) mariti (e infatti, come abbiamo rilevato supra, § 3, i due
personaggi hanno molte peculiarità di una coppia di anziani coniugi un po’
brontoloni); ma qui è pienamente giustificata Perpetua, che ha qualche
ragione a voler sfogarsi e cavarsi una volta la soddisfazione di non subire le
prevaricazioni del padrone.
Ma don Abbondio, non avvezzo a essere rimbeccato dagli inferiori,
reagisce con durezza quasi offensiva, tentando di far tacere la serva e
accusandola di fare affermazioni assurde, senza rendersi conto di essere
proprio lui a esporre considerazioni anche, per così dire, di “arte militare”,
rese insensate dalla paura che le ispira, e che hanno come esito una
dichiarazione di codardia camuffata da prudenza (570):
“Zitta!” rispose, con voce bassa ma iraconda, don Abbondio: “zitta! che
non sapete quel che vi dite. Pregate il cielo che abbian fretta i soldati, o
55
PIER ANGELO PEROTTI
che non vengano a sapere le cose che si fanno qui, e che si mette
all’ordine questo luogo come una fortezza. Non sapete che i soldati è il
loro mestiere di prender le fortezze? Non cercan altro; per loro, dare un
assalto è come andare a nozze; perché tutto quel che trovano è per loro, e
passano la gente a fil di spada. Oh povero me! Basta, vedrò se ci sarà
maniera di mettersi in salvo su per queste balze. In una battaglia non mi ci
colgono: oh! in una battaglia non mi ci colgono”.
Il tentativo di zittire Perpetua, dato il suo carattere battagliero, non riesce al
curato, e dunque la donna non tace, e anzi persevera nell’attaccarlo, dandogli
– soprattutto grazie a quell’“anche”, che vale “perfino” – del codardo
assoluto, irrecuperabile: “Se ha poi paura anche d’esser difeso e aiutato [...]”
ricominciava Perpetua” [il corsivo è mio], ma don Abbondio non le lascia
terminare la frase, e l’interrompe “aspramente, sempre però a voce bassa:
‘zitta! E badate bene di non riportare questi discorsi. Ricordatevi che qui
bisogna far sempre viso ridente, e approvare tutto quello che si vede’” (ibid.),
aggiungendo il ben noto servilismo alla ben nota viltà, entrambe peculiarità
“fantozziane”, per usare una faceta definizione moderna.
Non si salva dalla paura e dal malumore di don Abbondio neppure Agnese,
che, per aver manifestato le proprie emozioni (“Oh signor curato!” esclamò:
“a pensare che la mia povera Lucia è passata per questa strada!”, 571), e aver
proposto osservazioni frutto di quello stesso sano buonsenso che abbiamo più
volte attribuito a Perpetua (“Oh!” disse Agnese: “ora che è santo...!”, ibid.),
viene fatta tacere due volte (“Volete stare zitta? donna senza giudizio!” le
gridò in un orecchio don Abbondio”, e subito dopo “State zitta”, le replicò
don Abbondio”)40. Ma neppure Agnese si lascia zittire facilmente, benché
egli sia il suo curato, cui deve il rispetto imposto dal ministero che esercita; e
Perpetua – che, ripeto (cfr. supra, § 13), sembra aver perdonato o dimenticato
l’inganno di cui è stata vittima nella “notte degl’imbrogli” –, abituata a
battibeccare col padrone, le dà man forte, rispondendo a tono a don
Abbondio, che confonde la creanza con la piaggeria, osservando: “La creanza
è di non dir le cose che posson dispiacere, specialmente a chi non è avvezzo a
sentirne” (ibid.), definizione che è quasi una sentenza, e che estende la
propria pusillanimità anche al linguaggio (“pesar le parole, e soprattutto dirne
poche, e solo quando c’è necessità: ché a stare zitti non si sbaglia mai”, ibid.),
rinfacciandogli un’eccessiva cautela: “Fa peggio lei con tutte codeste
sue[...]”, critica che rimane imprecisata, perché il curato la interrompe,
togliendole definitivamente la parola con il suo fare perentorio: “zitta!” gridò
sottovoce don Abbondio” (ibid.) (si noti il gustoso ossimoro “gridò
sottovoce”, simile al precedente “le gridò in un orecchio”).
Durante il loro soggiorno nel castello, mentre don Abbondio si limita a
mangiare a sbafo41 e a
“uscire sulla spianata, e d’andare, quando da una parte e quando dall’altra
del castello, a guardar giù per le balze e per i burroni, per istudiare se ci
56
APOLOGIA DI PERPETUA
fosse qualche passo un po’ praticabile, qualche po’ di sentiero, per dove
andar cercando un nascondiglio in caso d’un serra serra” (576),
le due donne, “per non mangiare il pane a ufo 42, avevan voluto essere
impiegate ne’ servizi che richiedeva una così grande ospitalità; e in questo
spendevano una buona parte della giornata” (ibid.), mostrando operosità e
riconoscenza.
16. Cessato il grosso del pericolo, gli sfollati tornano ai propri paesi, alle
rispettive case, ma naturalmente don Abbondio e le due donne sono tra gli
ultimi a lasciare questa nuova “fortezza” (cfr. supra, § 7). Perpetua, nella sua
semplice ma efficace saggezza, aveva insistentemente sollecitato il padrone
ad affrettare la partenza, osservando giustamente che “quanto più
s’indugiava, tanto più si dava agio ai birboni del paese d’entrare in casa a
portar via il resto” (577); ma naturalmente – ripeto questo avverbio – il
curato si era fermamente opposto all’idea perché “temeva, se si tornasse
subito a casa, di trovare ancora in giro lanzichenecchi rimasti indietro
sbrancati, in coda all’esercito” (ibid.).
Ed ecco il risultato: si presenta ai loro occhi, e ai nostri, una scena che
ricorda – in peggio, perché vi sono anche elementi di vandalismo – quelle di
un moderno appartamento messo a soqquadro dalla perquisizione di
malviventi che devastano i locali alla ricerca di oggetti di valore; e oltre al
riscontrato furto degli oggetti in casa, la buca nella quale Perpetua aveva
sotterrato il “tesoretto” di don Abbondio è trovata aperta e vuota: il “morto” è
stato trafugato (XXX, 579-80). Neppure questa volta il curato si astiene dal
riprendere la domestica, accusandola di non aver nascosto con adeguata cura
il denaro (580):
“Qui nacquero de’ guai: don Abbondio cominciò a prendersela con
Perpetua, che non avesse nascosto bene: pensate se questa rimase zitta”.
Dunque il padrone e la serva riprendono il diverbio anticipato durante il
viaggio verso il castello (XXIX, 557: cfr. supra, § 14); ma, a parte questo,
don Abbondio subisce il colpo senza reagire, anche quando Perpetua, “a
forza di chiedere e domandare, di spiare e fiutare 43, venne a saper di certo che
alcune masserizie del curato, credute preda o strazio de’ soldati, erano in vece
sane e salve in casa di gente del paese” (XXX, 581)44. La donna, che, data la
sua indole combattiva, non ammette soprusi, né diretti né indiretti, vale a dire
fatti al suo padrone, si ribella a questa situazione – un derubato che accetta il
furto senza reagire –, e perciò “tempestava il padrone che si facesse sentire, e
richiedesse il suo” (ibid.). Ma don Abbondio, temendo perfino i suoi
parrocchiani (alcuni dei quali forse violenti o prepotenti45), impedisce a
Perpetua di fare le sue ragioni, presentandosi di nuovo come vittima, questa
volta doppiamente: “Ho da esser messo anche in croce, perché m’è stata
spogliata la casa?” (ibid.). Qui la reazione della governante è magistrale, un
57
PIER ANGELO PEROTTI
capolavoro di sarcasmo: “Se lo dico”, rispondeva Perpetua, “che lei si
lascerebbe cavar gli occhi di testa. Rubare agli altri è peccato, ma a lei, è
peccato non rubare” (ibid.), e fa il paio con quella alla fine del I capitolo:
“quando il mondo s’accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a
calar le [...]” (I, 29); e di fronte alla risposta di don Abbondio, con
l’ingiunzione finale di tacere: “Ma vedete se codesti sono spropositi da dirsi!
[...] ma volete stare zitta?” (XXX, 581) – che ricorda anch’essa il citato
battibecco iniziale: “Volete tacere? volete tacere? [...]. Volete tacere? [...].
Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate?” (I, 29) –, Perpetua “si
cheta” temporaneamente, ma non sa resistere, e ogni occasione è buona per
ricominciare; il curato dunque “s’era ridotto a non lamentarsi più, quando
trovava mancante qualche cosa” (XXX, 582), per evitare di sentirsi dire dalla
serva: “vada a chiederlo al tale che l’ha, e non l’avrebbe tenuto fino a
quest’ora, se non avesse che fare con un buon uomo”46 (ibid.).
Come si vede, la donna riesce ad avere l’ultima parola, anzi proprio
l’estrema nel romanzo, perché questa è la sua ultima apparizione da viva
nella vicenda (più tardi sarà ricordata la sua morte: cfr. § 17). Anche in
conseguenza di ciò si può ritenere che, nel complesso delle scaramucce tra
don Abbondio e Perpetua cui abbiamo assistito a ogni comparsa dei due
personaggi, l’autore abbia voluto far prevalere la donna: cosa comunque non
strana né difficile, se si pensa ai pochi e lievi difetti 47 di Perpetua, temperati
però da indubbie qualità, e viceversa alla miriade di colpe e peccati, perlopiù
seri, attribuibili al curato.
17. Tra i comportamenti e le parole censurabili di don Abbondio, troviamo –
dopo l’accenno, parlando con Renzo, alla morte di Perpetua (“Mi dica; ne son
morti molti qui? [...]” – “Eh eh!” esclamò don Abbondio; e, cominciando da
Perpetua, nominò una filastrocca di persone e di famiglie intere”, XXXIII,
641) – il suo sconveniente commento alla dipartita della domestica: cessata la
peste e morto don Rodrigo, durante il colloquio del curato con gli sposi,
Agnese e la mercantessa, costui, data l’euforia per essere scampato alla peste
(“Sicuro che ho voglia di scherzare”, etc., XXXVIII, 734), cerca di essere
spiritoso, burlandosi anche della serva morta 48: “Ha proprio fatto uno
sproposito Perpetua a morire ora; ché questo era il momento che trovava
l’avventore anche lei” (ibid.). È una conferma dell’inettitudine totale del
prete, che, oltre a tutti gli altri limiti, è incapace perfino di scherzare in modo
appropriato, e non offensivo o volgare49. Una simile celia è inopportuna non
solo perché ha per oggetto una persona morta, ma anche – oltre a quanto
rilevato da altri commentatori (cfr. n. 49) – perché fatta da un prete, che
dovrebbe avere maggiore rispetto (cfr. il termine “avventore”) per l’istituto
del matrimonio, in quanto sacramento.
Tuttavia non gli si deve imputare tanto la mancanza di gradevole e
rispettoso senso dell’umorismo, causata dai suoi evidenti limiti intellettivi,
quanto piuttosto il fatto che né qui né nell’altra occasione in cui aveva parlato
della morte di Perpetua (XXXIII, 641, cit. qui sopra) egli esprima non dico
58
APOLOGIA DI PERPETUA
affetto, ma neppure la minima riconoscenza per una persona che più di una
volta lo ha consigliato, appoggiato, difeso, soccorso, o almeno ha tentato di
farlo. Tra i difetti, e soprattutto le colpe del curato – numerose, varie e gravi –
l’ingratitudine non è certo la meno rilevante, ed è la conferma, ad
abundantiam, del suo “soffocante egoismo”50.
Per colmo d’ironia della sorte, la domestica, che almeno una volta ha
contribuito a salvare da un rischio mortale il suo padrone – quando ha
abbracciato la proposta di Agnese di rifugiarsi presso l’innominato –,
soccombe alla peste, mentre don Abbondio sopravvive, ma per necessità
poetica, perché deve essere lui a celebrare il matrimonio di Renzo e Lucia,
chiudendo il cerchio delle vicende: fin qui, dunque, nulla di strano. Ma niente
avrebbe impedito all’autore di far sopravvivere anche Perpetua: se non l’ha
fatto, si potrebbe sospettare una sua velata allusione a che la serva sia morta,
contagiata dal padrone, per assisterlo durante la malattia. Se così fosse, il
silenzio del prete su questo particolare sarebbe un’altra pennellata al ritratto
di un uomo arido e incapace di qualsiasi nobile sentimento verso il prossimo,
e segnatamente di gratitudine.
Mi piace segnalare che in occasione delle ultime comparse di don
Abbondio (XXXIII, 638-XXXVIII, 741) l’autore non accenna a una nuova
domestica in sostituzione di Perpetua: forse egli ha tenuto conto delle
difficoltà di trovare una nuova governante nel paese decimato dalla peste, o il
suo silenzio va inteso come un’ultima frecciata contro il personaggio, che
solo Perpetua, e nessun’altra, era in grado di sopportare, e di conseguenza un
elogio indiretto della serva defunta.
Nel corso dell’opera, per punire il curato della sua viltà il Manzoni ha
escogitato una sorta di pena del contrappasso: il castigo è costituito
soprattutto dal primo viaggio al castello dell’innominato – fonte di terrore per
il malcapitato –, comunque conseguenza (quasi una nemesi) della paura del
curato con cui si apre il romanzo. Non mi arrischio a sospettare un intento
maliziosamente punitivo, anche da parte del cardinale, nell’imporre a don
Abbondio, a mo’ di penitenza o di compensazione, di salire – proprio lui,
pusillanime com’è – al castellaccio per riportarne a valle Lucia, un incarico
spaventoso per un uomo tanto codardo.
Un altro elemento di nemesi o contrappasso è riconoscibile nel fatto che il
curato, che faceva credito agli altri dietro cauzione (sappiamo di Tonio: VI,
114-15; VII, 138; VIII, 140-43), dopo la calata dei lanzichenecchi e lo
sfacelo della canonica conseguente ai vandalismi della soldataglia, sia
costretto a chiedere denaro in prestito ad Agnese per rimettere in sesto la casa
(XXX, 581).
18. Sin dalla prima scena in cui compaiono i due personaggi emerge un
aspetto significativo, anzi fondamentale, dei rapporti tra loro: Perpetua, se in
qualche manifestazione è – a ragione – alquanto rude nei confronti di don
Abbondio, è in genere premurosa se non proprio affettuosa; viceversa il
curato è sempre brusco e sgarbato con lei, anche quando, come abbiamo
59
PIER ANGELO PEROTTI
visto, la donna si preoccupa della sua salute e della sua stessa vita. Persino
dopo la morte della domestica, come abbiamo visto (§ 17), don Abbondio
non manifesta alcun rimpianto o affetto o riconoscenza per lei. Anche questi
elementi – oltre alle imperdonabili colpe di cui egli si macchia e ai rilevanti
difetti che lo caratterizzano – inducono a giudicare troppo caricata
negativamente la figura del curato, argomento di cui mi riprometto di trattare
in un prossimo studio.
Tirando le somme, Perpetua è un amalgama di difetti e qualità: per es.
talora è sventata, talaltra riflessiva, ma è sempre decisa, sicura, pronta
all’azione; è “ribelle, energica, sbrigativa”51; ha un carattere “angoloso e
stizzoso”52 e “risoluto, padronale”53, ma anche generoso54 e
fondamentalmente buono55 e onesto. D’altronde tali sono in genere gli esseri
umani, tutti imperfetti, anche se non pochi scrittori – non escluso il Manzoni
– talora indulgono a improbabili forme di manicheismo per quanto attiene
all’indole dei personaggi, descrivendo individui del tutto positivi o affatto
malvagi. Il personaggio di Perpetua non ha alcuna affinità con l’innominato,
con don Rodrigo, con don Abbondio o con il cardinal Federigo Borromeo –
che peraltro, nella realtà storica, sembra che non fosse come è descritto in
questa sorta di agiografia manzoniana 56 –, ed è una delle comparse più umane
e verosimili del romanzo, come lo sono (oltre al protagonista Renzo) Agnese,
fra Galdino57, donna Prassede, il sarto58, etc.
Considerando tutto ciò che ho sin qui rilevato, oltre a quanto osservai in
altri miei saggi59, la mia potrebbe sembrare una tesi pregiudiziale che ha
come scopo l’apologia a ogni costo di personaggi non immuni da difetti. In
realtà ho solo tentato di riabilitarli, mettendo in rilievo, oltre alle pecche, che
mi sono ben guardato dal nascondere o ignorare, pure quei pregi che
inducono a stilare un bilancio complessivamente positivo (o non del tutto
negativo, come nel caso degli osti) di costoro, che hanno i loro limiti e sono
caratterizzati da luci e ombre, come ogni persona. Mi piace dunque
concludere ricordando a questo proposito – ancora una volta, come già
altrove60 – l’illuminante sentenza di Terenzio (Haut. 77) Homo sum: humani
nihil a me alienum puto.
__________
NOTE
1
Per quest’opera ho seguìto la numerazione dei paragrafi adottata
nell’edizione curata da L. Caretti, I Promessi Sposi, Vol. I, Fermo e Lucia,
Torino: Einaudi, 1971.
2
Cfr. il mio articolo “I nomi dei personaggi nei Promessi sposi”, Critica
letteraria 25, 1997, pp. 637-50, § 2m.
3
F. e L., Tomo I, cap. III.
60
APOLOGIA DI PERPETUA
4
La numerazione delle pagine corrisponde a quella dell’edizione definitiva
dei Promessi sposi, Milano: Guglielmini e Redaelli, 1840-1842, e dunque i
vari passi dell’opera sono indicati col numero romano del capitolo e con
quello arabo della pagina dell’edizione citata; quando è segnalato solo il
numero della pagina, s’intende il capitolo indicato in precedenza.
5
A. Momigliano, I Promessi Sposi, commento di A. M., Firenze: Sansoni,
1964, p. 29, n. 5.
6
Si noti che qui e altrove Perpetua tratta col “lei” don Abbondio, mentre
questi si rivolge col “voi” alla fantesca, per le ragioni che ho esposto nel mio
articolo “L’uso dei pronomi personali allocutivi nei Promessi sposi”, Critica
letteraria 38, nr. 146, 2010, pp. 134-49, § 3 e n. 3.
7
Persino (o soprattutto) delle monache: cfr. la “signora”, IX, 172: “Quali
pericoli?” interruppe la signora. “Di grazia, padre guardiano, non mi dica la
cosa così in enimma. Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie
per minuto”; ma qui si tratta di curiosità morbosa che ha una sua precisa
motivazione.
8
Nel F. e L., Tomo I, cap. I, § 65, veniva precisato uno dei casi di mancanza
di discrezione: “Non direte niente come quando siete corsa a ripetere alla
serva del curato nostro vicino tutti i miei lamenti contro il suo padrone, e
m’avete messo nel caso di domandargli scusa, come quando [...]”: la versione
definitiva è, a mio avviso, senza dubbio preferibile.
9
Momigliano, op. cit. alla n. 5, p. 30, n. 4.
10
Nel F. e L., T. I, cap. I, § 69, l’aggettivo manca: “Ma come farà Signor
padrone?”. Nei P. S. lo stesso attributo, premesso al vocativo “padrone”,
ricorre solo un’altra volta (ovviamente senza l’appellativo “signor”), durante
l’esposizione dei pensieri di Perpetua: “ma il tiro fatto al suo povero padrone
non lo poteva passare affatto sotto silenzio” (XI, 221); si noti inoltre che il
prete non è mai chiamato, da nessuno dei personaggi del romanzo, “don
Abbondio”, ma sempre soltanto “signor curato”, e dalla domestica
esclusivamente “signor padrone”.
11
Cfr. il mio articolo “L’ebbrezza di Renzo (I Promessi Sposi, capp. XIVXV), Otto/Novecento 26, 2002, pp. 151-69.
12
Nel F. e L., T. I, cap. II, §§ 26-27, l’atteggiamento della domestica è più
esplicito:
“Oh! vi pare ch’io sappia i secreti del Signor Curato?” è inutile avvertire
che Vittoria pronunziò queste parole come si usa quando non si vuole
esser creduto. [...].
[...] dirò soltanto che Vittoria fedele ai suoi giuramenti non disse nulla
positivamente, ma trovò un modo per combinare il rigore dei suoi doveri
colla voglia di parlare” [i corsivi sono miei].
13
Cfr. R. Roedel, “La fedeltà di Perpetua”, in Note manzoniane, Torino:
Chiantore, 1934, p. 242: “Nel testo definitivo, Perpetua dice quanto crede di
poter dire, e nella sua semplicioneria, l’intimo gusto di far vedere che sa, è
più franco, non ubbidiente ad un calcolo ma ad un intimo impulso”.
61
PIER ANGELO PEROTTI
14
P. S., II, 36: “Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà”; 37: “Dite pure a
tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore” [i corsivi
sono miei]. Osserviamo, a margine, che il vocabolo “bontà” e l’espressione
“buon cuore” hanno qui valore anfibologico: per don Abbondio che le
pronuncia hanno la loro accezione letterale – considerato il vittimismo di cui
soffre il curato, convinto di essere quasi un paradigma dell’onestà, un raro
esemplare di galantuomo (cfr. il suo soliloquio durante il viaggio verso il
castello dell’innominato: XXIII, 443: “Ci vuol tanto a fare il galantuomo tutta
la vita, com’ho fatt’io?”: cfr. infra, §§ 11 e 14) –, per il lettore valgono
“pusillanimità, codardia, viltà” o sim.
15
P. S., II, 38: “In difesa del mio padrone, posso parlare; perché mi fa male
sentire che gli si dia carico di voler far dispiacere a qualcheduno.
Pover’uomo! se pecca, è per troppa bontà” [il corsivo è mio].
16
Nel F. e L., T. I, cap. II, § 46, la frase è un po’ diversa, e soprattutto manca
l’agg. “superba”, che nella “quarantana” completa felicemente l’espressione:
“lieta di avere una incombenza segreta da eseguire”; notiamo anche che nella
prima redazione il nome della “fanciulletta” è Santina (§ 51), a mio parere
meno indovinato del definitivo Bettina.
17
P. S., XI, 222: “Gervaso, a cui non pareva vero d’essere una volta più
informato degli altri, a cui non pareva piccola gloria l’avere avuta una gran
paura, a cui, per aver tenuto di mano a una cosa che puzzava di criminale,
pareva d’esser diventato un uomo come gli altri, crepava di voglia di
vantarsene” (l’osservazione manca nel F. e L.).
18
XXIX, 554-55: “Era vero che, del bene piovutole, come si dice, dal cielo,
non aveva fatta la confidenza a nessuno, fuorché a don Abbondio; dal quale
andava, volta per volta, a farsi spicciolare uno scudo, lasciandogli sempre
qualcosa da dare a qualcheduno più povero di lei” [il corsivo è mio].
19
Per es. Momigliano, op. cit. alla n. 5, p. 154, n. 1: “nota, qui, l’accordo
della diffidenza di Perpetua con quella, più acuta, di don Abbondio”; G.
Giacalone, I Promessi sposi, a cura di G. G., Roma: Angelo Signorelli,
19732, p. 169, n. 41: “[...] Perpetua [...], che, in questo caso almeno, ha fatta
sua la paura del padrone”; p. 174, n. 3: “Anche lui [don Abbondio], come
Perpetua, che questa volta si rivela come l’alter ego di lui, [...]”; L. Russo, I
Promessi Sposi, commento critico di L. R., Firenze: La Nuova Italia, 19772,
p. 135, n. 579: “Nell’atteggiamento di Perpetua c’è riflessa tutta la paura, le
cautele e le diffidenze di don Abbondio: il grande eroe è preceduto,
degnamente, da un cursore! [...]: una certa avarizia ben s’accorda ed è nota
complementare dei piccoli egoisti e paurosi”; A. Marchese, I Promessi sposi,
a cura di A. M., Milano: Mondadori, 19874, p. 141, n. 83: “[...] cautela
sospettosa di Perpetua (un pallido riflesso di quella del padrone) [...]”; etc.
20
Cfr. Marchese, op. cit. alla n. 19, p. 148, n. 6: “È un motivo un po’ facile e
scontato quello della vecchia zitella cui brucia la sua condizione; ma è anche
perfettamente intonato al gusto ciarliero e comaresco delle due donne. I nomi
dei pretendenti, amabilmente caricaturali, sono all’altezza del povero idillio
campagnuolo. Siamo ai prodromi, alquanto convenzionali, dell’opera buffa”;
62
APOLOGIA DI PERPETUA
anche E. Caccia, I Promessi sposi, a cura di E. C., Brescia: Ed. La Scuola,
19857, p. 261, n. 34-35: “Il M. si diverte anche un po’ troppo, con l’ironia di
questi nomi, alle spalle di Perpetua. Ma non esagera, perché i soprannomi
sono molte volte così”.
21
P. Nardi, I Promessi sposi, a cura di P. N., Milano: Ed. Scol. Mondadori,
195917, p. 190, n. 40-41: “I cognomi Suolavecchia e Lunghigna aggiungono
un pizzico di comicità al contesto già comico di Agnese. “Amorosi”, sembra
insinuare il M., “stagionati”.
22
Cfr. Marchese, op. cit. alla n. 19, cap. I – Guida alla lettura, p. 31: “egli
sta bene solo nello spazio chiuso e sicuro della sua casa (ma, come vedremo,
anche questa protezione si rivelerà illusoria e la sua casa sarà più volte
violata...)”. Di questa “fortezza” il letto è, per così dire, il “mastio”, dove don
Abbondio si rifugia dopo l’irruzione di Renzo (II, 42 ~ F. e L., T. I, cap. II, §
39) e, nella prima stesura del romanzo, anche dopo la “notte degl’imbrogli”:
“Don Abbondio era ricorso al suo ripiego diplomatico di porsi a letto e di
sviare così i curiosi” (F. e L., T. II, cap. VII, § 16).
23
Caccia, op. cit. alla n. 20, p. 713, n. 217.
24
Questo progetto cinico, immorale ricorda quello che si era presentato alla
mente di don Abbondio dopo l’incontro con i bravi: “Perché non son andati
piuttosto a parlare [...]. Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le cose
a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l’occasione. Se
avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar la loro ambasciata
[...]”, e anche in quel caso l’aberrazione era così profonda che lo stesso
curato se n’era reso conto: “Ma, a questo punto, s’accorse che il pentirsi di
non essere stato consigliere e cooperatore dell’iniquità era cosa troppo
iniqua” (I, 25).
25
Per il giudizio del Manzoni sui mandanti di delitti, si veda F. e L., T. II,
cap. V, § 10: “L’omicida ai nostri giorni, quand’anche fosse impunito
sarebbe un oggetto di orrore, oggetto forse di più profondo orrore sarebbe chi
senza commettere l’omicidio di propria mano ne avesse dato l’ordine ed il
prezzo”.
26
Cfr. anche XXIII, 443: “È un gran dire che tanto i santi come i birboni gli
abbiano a aver l’argento vivo addosso, e non si contentino d’esser sempre in
moto loro, ma voglian tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano; e
che i più faccendoni mi devan proprio venire a cercar me, che non cerco
nessuno, e tirarmi per i capelli ne’ loro affari: io che non chiedo altro che
d’esser lasciato vivere!”.
27
Momigliano, op. cit. alla n. 5, p. 617, n. 2.
28
Cfr. Russo, op. cit. alla n. 19, p. 544, n. 35: “Perpetua riprende il suo tono
bisbetico di protettrice affettuosa, come di madre per un suo ragazzo un po’
grullo”; p. 545, n. 50-51: “Don Abbondio è trattato, in questo episodio,
sempre come un ragazzo, o, se piace meglio, come un vecchio un po’ stolido
e rimbambito”; p. 547, n. 122: “[...] lagno bambinesco”; G. Viti, Conoscere i
Promessi sposi, Firenze: Le Monnier, 1986, p. 167: “Perpetua, la
63
PIER ANGELO PEROTTI
‘governante’, è davvero la protettrice di don Abbondio, che con lei è sempre
un minorenne”; etc.
29
Cfr. Nardi, op. cit. alla n. 21, p. 707, n. 86: “siamo in tempi di guerra; per
ciò il M., non senza sorriso, si serve d’un’espressione del linguaggio
guerresco: munizioni da bocca, per dire “viveri”, in contrapposizione a
munizioni da fuoco, come proiettili, cartucce, ecc.”.
30
Cfr. Russo, op. cit. alla n. 19, p. 547, n. 122: “[...] sono tutte punte e spine
di quel cilizio morale, di cui egli si cinge con una deliziosa ossessione”.
31
Cfr. il commento grammaticale del Momigliano, op. cit. alla n. 5, p. 623, n.
1: “Rileggete in queste due pagine le battute di don Abbondio; condizionali,
congiuntivi ipotetici, futuri esitanti, congiunzioni avversative e interrogative,
interiezioni esplorative: tutte le risorse dello stile dubitativo”.
32
Cfr. XXXVIII, 735: “‘Sta zitto, buffone, sta zitto: non rimestar queste cose;
ché, se dovessimo ora fare i conti, non so chi avanzerebbe. Io ho perdonato
tutto: non ne parliam più: ma me n’avete fatti dei tiri. Di te non mi fa specie,
che sei un malandrinaccio; ma dico quest’acqua cheta, questa santerella,
questa madonnina infilzata, che si sarebbe creduto far peccato a guardarsene.
Ma già, lo so io chi l’aveva ammaestrata, lo so io, lo so io’. Così dicendo,
accennava Agnese col dito, che prima aveva tenuto rivolto a Lucia”.
33
Russo, op. cit. alla n. 19, p. 546, n. 71-72.
34
Cfr. Marchese, op. cit. alla n. 19, cap. XXIX – Guida alla lettura, p. 592:
“E così, anche don Abbondio dice il suo ‘addio’ che fa coppia per contrasto
con quello, sublime, di Lucia”.
35
Troviamo elencate le principali caratteristiche – perlopiù difetti – di don
Abbondio in un commento del Momigliano, op. cit. alla n. 5, p. 623, n. 1:
“vita abitudinaria e pigra, viltà, prudenza, diffidenza, meschina scaltrezza,
avarizia, egoismo, sordità e brutalità di coscienza, tutto discende dalla sua
mentalità angusta e paurosa”.
36
I, 28, già cit. supra, § 3: “[...] Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani
arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti [...]”.
37
Tra i tanti esempi, me ne viene in mente uno comico, quello di Otello
Celletti, protagonista del film Il vigile di Luigi Zampa (1960) – interpretato
magistralmente da Alberto Sordi –, inizialmente disoccupato “per
vocazione”, che ciondola ozioso per strada, capace solo di dare consigli,
spesso inopportuni, o criticare il lavoro altrui.
38
Momigliano, op. cit. alla n. 5, p. 626, n. 2: “Il trambusto rende anche
Perpetua nervosa, e i battibecchi famigliari rinascono ad ogni momento:
‘come accade troppo speso tra compagni di sventura’: tema umoristico che
s’intreccia con quelli abituali di don Abbondio e della contrapposizione con
Perpetua e nasce da uno spirito vagamente affine a quello che ha suggerito la
figurazione dei capponi di Renzo”.
39
Marchese, op. cit. alla n. 19, p. 580, n. 14.
40
Un’osservazione statistica: nel cap. XXX don Abbondio intima a Perpetua
o ad Agnese di tacere con l’aggettivo “zitta” ben 7 volte (oltre a un caso in
64
APOLOGIA DI PERPETUA
cui è usato dall’autore, e a uno “zitti” in bocca allo stesso curato): lo si può
dunque considerare quasi un Leitmotiv della sequenza.
41
Cfr. 575: “Chi aveva danari e discrezione, andava a desinare giù nella
valle, dove in quella circostanza, s’eran rizzate in fretta osterie” [il corsivo è
mio], dove leggiamo una critica indiretta all’avarizia e alla codardia del prete,
che per non spendere e non abbandonare neanche per poco il castello, vi
consuma gratuitamente i pasti.
42
Altra frecciata indiretta a don Abbondio, che invece mangia proprio il pane
a ufo. Hanno più “discrezione” (cfr. n. 41) due popolane ignoranti che un
rappresentante – per quanto tra i peggiori – del clero.
43
Rileviamo la climax dei verbi: cfr. Momigliano, op. cit. alla n. 5, p. 651, n.
3: “nota l’intenzione caratteristica di questa filza”.
44
Cfr. F. e L., T. IV, cap. II, § 62, dove l’episodio era sviluppato con più
ampi particolari: “Perpetua, parte con la sua vista acuta come il fiuto d’un
bracco, parte con la sua abilità a far ciarlare la gente, scoperse che molte
masserizie del suo padrone non erano già state sciupate dai barbari, ma erano
sane e salve in paese nelle mani dei barberini; ne fece tosto avvertito Don
Abbondio, perché si facesse rendere il suo” [i corsivi sono miei]: si noti il
gioco di parole tra “barbari” e “barberini”, che riprende il detto satirico
popolare “Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini”, riferito a papa
Urbano VIII Barberini – guarda caso, il papa regnante negli anni della storia
del Manzoni – e ai membri della sua famiglia per gli scempi edilizi di cui si
erano resi responsabili.
45
Nel F. e L., T. IV, cap. II, § 63, il riferimento è esplicito: “Ma Don
Abbondio non voleva sentir toccare questa corda: non già che non gli
spiacesse assai vedersi così rubato a man salva, e sapere il fatto suo in mano
d’altri: ma quegli che se lo tenevano erano i più terribili e bizzarri arieti del
suo gregge: quegli dai quali Don Abbondio aveva sempre sofferto ogni cosa
piuttosto che provocarli al cozzo, che aveva sempre accarezzati, e lodati
come i più savj ed esemplari”.
46
Cfr. Marchese, op. cit. alla n. 19, p. 605, n. 56: “buon uomo: inetto, buono
a nulla. È il più crudo dei rinfacci di Perpetua, quello che – con amara
antifrasi – spiattella la pochezza del codardo padrone”.
47
Non la pensa così il Roedel, loc. cit. alla n. 13, che le attribuisce “gravi
difetti”.
48
Cfr. Roedel, loc. cit. alla n. 13: “Morirà di peste, e don Abbondio, che si
era tormentato con lei, ma che aveva anche goduto delle di lei costanti cure,
quando la ricorderà, lo farà per burlarsene una volta ancora”.
49
Cfr. Russo, op. cit. alla n. 19, p. 703, n. 203-04: “Poco gentile e poco pia
commemorazione funebre della serva fedele ed affezionata della sua vita”;
Marchese, op. cit. alla n. 19, p. 759, n. 44: “Volgare la battuta di spirito, non
per la punzecchiatura in sé ma per quel crudo ‘avventore’ (cliente) che irride
il cruccio della fedele governante”; Caccia, op. cit. alla n. 20, p. 1095, n. 185:
“chi serve gli egoisti, si riceve poi di questi premi. Certo la battuta sarebbe
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PIER ANGELO PEROTTI
spiritosa, se non colpisse la freddezza ingiusta verso una donna che ha servito
don Abbondio sempre con tanta fedeltà”; etc.
50
Marchese, op. cit. alla n. 19, p. 582, n. 27.
51
Viti, loc. cit. alla n. 28.
52
G. Viti, I Promessi sposi, a cura di N. Sapegno e G. V., Firenze: Le
Monnier, 20038, p. 138, n. 528-44.
53
Momigliano, op. cit. alla n. 5, p. 151, n. 4.
54
Cfr. Roedel, loc. cit. alla n. 13: “Inavveduta sì, ma sempre pronta ad una
sua schietta generosità, è Perpetua: e qui appunto [cfr. supra, § 5 e n. 15] per
impulso di generosità e di schiettezza ella difende, anche troppo, il suo
curato”.
55
Cfr. Roedel, ibid., che parla di “effettiva bontà”.
56
Cfr. C. Castiglioni, Il Cardinale Federigo Borromeo, Torino: Ed.
Internazionale, 1931; M. Mazzucchelli, La Monaca di Monza, Milano:
Editori Associati, 1993, pp. 365 s., dove sono citate le Memorie di G. B.
Mongilardi, che fu medico del cardinale; anche S. Vassalli, La chimera,
Torino: Einaudi, 1990, cap. XXVII, pp. 257 ss., specialmente 259; cfr. pure il
mio articolo “Gli aristocratici nei Promessi sposi”, Rivista di Studi Italiani
28, n. 2, 2010, pp. 1-31 (http://www.rivistadistudiitaliani.com), § 12 (p. 23
s.).
57
Cfr. il mio articolo “Religiosi ‘minori’ dei Promessi sposi: fra Galdino (P.
S. III, 59-62; XVIII, 351-354), Critica letteraria 35, 2007, pp. 455-77.
58
Cfr. il mio articolo “Briciole manzoniane: il sarto”, Rivista di Studi
Italiani 26, 2008, pp. 53-71 (http://www.rivistadistudiitaliani.com).
59
In particolare negli articoli citati alle nn. 56-57, nonché nel mio recente
saggio “Gli osti nei Promessi sposi”, Rivista di Studi Italiani 25, 2007, pp.
12-57, specialmente § 9 (p. 39 ss.) (http://www.rivistadistudiitaliani.com).
60
“Gli osti nei Promessi sposi”, cit. alla n. 59, § 9. 2; “Gli aristocratici nei
Promessi sposi”, cit. alla n. 56, § 14 (p. 26 ss.).
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