File - AIA Barletta

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Non tutto è finito
Riflessioni quaresimali per arbitri di calcio
Dal Vangelo di Giovanni, cap. 19
Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una
corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora;
quindi gli venivano davanti e gli dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano
schiaffi.
Presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio, detto in
ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno
dall'altra, e Gesù nel mezzo. Pilato compose anche l'iscrizione e la fece porre sulla
croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei».
I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro
parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture,
tessuta tutta d'un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: Non stracciamola,
ma tiriamo a sorte a chi tocca. Così si adempiva la Scrittura:
Si son divise tra loro le mie vesti
e sulla mia tunica han gettato la sorte.
E i soldati fecero proprio così. Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella
di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì
accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo
figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo
la prese nella sua casa. Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai
compiuta, disse per adempiere la Scrittura: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno
d'aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela
accostarono alla bocca. E dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù disse: «Tutto è
compiuto!». E, chinato il capo, spirò.
La ballata dell’amore cieco o della Vanità – Fabrizio de Andrè (1966)
Un uomo onesto, un uomo probo,
s'innamorò perdutamente
d'una che non lo amava niente.
Le vene ai polsi lui si tagliò,
e come il sangue ne sgorgò,
correndo come un pazzo da lei tornò.
Gli disse portami domani,
il cuore di tua madre per i miei cani.
Gli disse lei ridendo forte,
l'ultima tua prova sarà la morte.
Lui dalla madre andò e l'uccise,
dal petto il cuore le strappò
e dal suo amore ritornò.
E mentre il sangue lento usciva,
e ormai cambiava il suo colore,
la vanità fredda gioiva,
un uomo s'era ucciso per il suo amore.
Non era il cuore, non era il cuore,
non le bastava quell'orrore,
voleva un'altra prova del suo cieco
amore.
Gli disse amor se mi vuoi bene,
tagliati dei polsi le quattro vene.
Fuori soffiava dolce il vento
ma lei fu presa da sgomento,
quando lo vide morir contento.
Morir contento e innamorato,
quando a lei niente era restato,
non il suo amore, non il suo bene,
ma solo il sangue secco delle sue vene.
Sia il brano di Vangelo sia la canzone hanno in comune l’apparente fallimento del
protagonista. L’uomo onesto e probo non si ritira ad ogni richiesta dell’amata, ma la
soddisfa fino a dare se stesso. Proprio come Gesù che si consegna a quegli uomini
che ama. Entrambi i fallimenti non sono dovuti ad un demerito dei protagonisti: si
tratta del dolore innocente.
E’ necessario fare una doverosa premessa: davanti ad una persona che soffre
ingiustamente non bisognerebbe mai dire frasi banali e scontate né spiegare grandi
filosofie. Bisognerebbe limitarsi a stare vicino, a condividere il dolore. Il discorso che
segue, pertanto, non va affrontato nell’imminenza di una sofferenza.
Per amore di ogni Uomo, Gesù muore innocente sulla croce tradito, lasciato solo dai
suoi amici, nudo e agonizzante davanti a sua madre e al discepolo amato. Dobbiamo
però ricordarci che questa non è la fine di tutto: i vangeli non finiscono così, ma
sappiamo bene che il Signore risorge. Noi sappiamo che la sofferenza innocente di
Gesù non è inutile, ma porta frutti. La sua croce è una collocazione provvisoria, da
cui Egli sceglie di passare per risorgere. Sarà così per tutto il dolore innocente della
storia.
Un arbitro può intuire che il dolore è fecondo, cioè porta frutti. La preparazione
estiva, infatti, è spesso molto dura e dolorosa. Soprattutto nei primi giorni, il dolore
dovuto all’acido lattico ci accompagna per tutta la giornata. Nel momento in cui si
finisce un allenamento particolarmente faticoso non si vedono subito i risultati, anzi
ci si sente più debole. Il frutto delle faticose e calde corse di luglio e agosto si inizia a
sentire solo con le prime partite, alcune settimane dopo. Il dolore e la fatica degli
allenamenti, dunque, portano ad un bene che non è immediato e che non si vede
subito.
Un cristiano non ha la soluzione in tasca a tutte le domande e il male rimane per lui
un mistero. Di fronte al dolore innocente, il cristiano sa di non sapere la motivazione.
Certo, però, sente la vicinanza di Gesù, perché anche lui ha sofferto sulla croce.
Inoltre, può intuire che quel dolore è fecondo, cioè che esiste un bene che si realizza
attraverso quel dolore, un bene che però è spesso difficile se non impossibile da
vedere. Una pessima prestazione o una dismissione percepita come ingiusta, così
come una brutta malattia, possono sicuramente sembrare senza senso. Eppure un
cristiano sa che, come dice san Paolo nella lettera ai Romani, tutto concorre al suo
bene, anche la sofferenza. Questo non deve indurre auto infliggersi dolore, o a
cercare continuamente questo bene nascosto, ma ad una lenta e fiduciosa
accettazione di una situazione imprevista e difficile.
Qual è il frutto della morte in croce di Gesù? Il peccato ci ha separato da Dio. E
saremmo destinati alla rovina eterna, cioè a morire per sempre, se Gesù non avesse
obbedito totalmente al Padre, non fosse morto e Risorto per noi, attraversando la
morte. Per capire meglio questo punto possiamo fare un esempio. Poiché siamo
immersi nel peccato, la nostra vita è simile ad una macchina che ad alta velocità sta
per schiantarsi contro una parete. Quella parete rappresenta la morte definitiva, la
fine definitiva, che non garantisce alcuna felicità per noi sulla Terra. Ma proprio il
secondo prima dello schianto qualcuno riesce a tirar fuori il guidatore, salvandolo.
Chi ci salva dallo schianto, dalla morte eterna, è Gesù che obbedisce al Padre
salendo in croce. È bello pensare che, una volta salvati, guardiamo alle nostre spalle
l’auto ormai ridotta ad una carcassa. Davanti ad una simile scena viene naturale
pensare alle parole del Salmo 93: Se il Signore non fosse il mio aiuto, in breve io
abiterei nel regno del silenzio.
Il nostro percorso arriva alla conclusione. Nel corso delle sei settimane di Quaresima
ho cercato di far intuire come l’arbitraggio possa essere vissuto bene alla luce del
Vangelo e come certi concetti evangelici possano essere intuiti attraverso le
esperienze dell’arbitraggio. Tutto questo può portare un arbitro, anche giovane, a
capire che per ben riuscire nella vita è necessario conoscere se stessi – anche dando
la giusta importanza alle varie attività – prendere una decisione e, quindi, mettersi
in gioco.
Infatti, se il Figlio, la seconda persona della Santissima Trinità, ha deciso di farsi
uomo, cioè di mettersi in gioco, noi siamo chiamati a fare lo stesso. Chi non si mette
in gioco non cresce e non è capace di prendere decisioni importanti. Concretamente,
“mettersi in gioco” significa affrontare la vita seriamente. Cioè essere leali e corretti
nelle relazioni di amicizia e in quelle sentimentali, mettersi a servizio del prossimo
(in famiglia o con qualche amico in difficoltà), anche essere arbitri seri ed equilibrati
significa giocarsi per crescere. Così si diventa capaci pian piano di prendere – al
momento giusto - scelte definitive. In fondo anche sposarsi significa rischiare,
ugualmente fare il prete. Non si tratta di giocare: quando gioco nulla mi proibisce di
ritirarmi. Quando invece “mi gioco” mi comprometto, metto a disposizione il mio
tempo, le mie capacità e le mie risorse e non sono certo di ottenere il risultato. Ma
questo “buttarsi” che ci è richiesto è indispensabile per vivere.