ALBERTO CAMINITI

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ALBERTO CAMINITI
A CASA IN CONGEDO.
Finalmente a cavallo tra il 1939 ed il 1940 il Mestroni può usufruire del congedo ( rientro a
Trieste ), come previsto dal contratto di lavoro con la Gondrand. Pur avendo quindi un carattere ,
come dire, più intimo e personale, ho ritenuto che anche le fotografie di questo viaggio verso casa
avessero valenza di documentazione. Per cui quelle che seguono sono le foto scattate durante il
rientro, avvenuto col piroscafo “ Nazario Sauro “ , e che vedono l’attraversamento del Canale di
Suez, Porto Said ed altri paesaggi osservati dalla tolda della nave. Del resto, non è poi di tutti i
giorni guardare il Canale e le banchine della cosmopolita cittadina portuale egiziana com’erano dal
vivo nel 1939 alla vigilia del 2° conflitto mondiale.
Di fatto tale congedo chiuse il ciclo di lavoro di Mestroni con la Società triestina, ma egli orami era
stato “ colpito “ dal virus del mal d’Africa, ossia da quel senso di malinconia che ti perseguita e che
ti fa sentire la mancanza dell’ ambiente africano, dei suoi immensi spazi, dei sapori e sentori che
alla sera il venticello ti porta. Di tale male hanno sofferto esploratori e soldati, marinai e cartografi ;
Ennio Flaiano ed Indro Montanelli ne parlano nei loro libri “ coloniali “ (rispettivamente i romanzi :
“ Tempo di uccidere “ e “ XX Battaglione eritreo “ ). E’ un indecifrabile senso di sfinimento, di
intimo contatto con la natura e di ragionata follia. Gli inglesi, nel loro stringatissimo linguaggio, lo
chiamavano semplicemente “ spleen “ ( malessere, malumore ) ma non riuscirono mai a capire
perchè i loro esploratori e militari ne soffrissero, o come ne fossero stati infettati.
Così Mestroni, rinsanguato dal gruzzoletto della sua liquidazione, ritorna in AOI e corona il suo
personale sogno : guidare un taxì ( pardon : autotassametro ) proprio, da “ padroncino “ ad Addis
Abeba. Nelle foto successive a quelle del viaggio, quindi, lo vediamo ( 1939 – 1940 ) intento a
guidare la sua bella autovettura ( s’intende, Fiat ) in giro per le strade della capitale dell’ Impero.
Neanche a dirsi, spesso i nostri militari si facevano scorrazzare per i vari quartieri di Addis Abeba,
inclusi quelli indigeni, alla ricerca della novità e del tocco esotico.
Le foto del viaggio, sono numerate dal 101 al 111. Ecco anticipate le didascalie delle immagini
esposte nelle pagine seguenti :
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101 = Poco prima del rientro ; un’ultima riparazione ad un camion della Gondrand con
amici nazionali ed etiopici ;
102 - 106 : a bordo della N.Sauro ; si risale il Canale ;
107 = ormai si è vicini al Mediterraneo ; festosi i villaggi sulle due rive ;
108 / 110 = vista delle banchine del terminale ;
111 = La N. Sauro riparte per l’ Italia .
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Foto n. 111 = La Nazario Sauro riparte da Porto Said per Napoli e Trieste.
Proseguiamo, poi, con le immagini relative al periodo in cui Mestroni guidò un taxi ad Addis
Abeba. Dopo scoppiò la 2^ G.M. e alla fine del 1940 egli fu “ catturato “ dagli inglesi ed internato
in un campo di concentramento per civili nel Tanganica ( Vedasi Appendice in calce al presente
racconto ).
Le quattro immagini relative a tale periodo sono esposte nella pagina seguente, coi numeri dal 112
al 115.
Opportune ricerche fatte dall’autore presso alcuni “ studiosi “ ( appassionati di Automobilistica) ha
consentito di appurare che il taxi era una Berlina Fiat modello Balilla grigio-scura e che a
quell’epoca il suo prezzo di listino era in patria di lire 12 mila ; per arrivare in Africa c’erano poi
volute le spese del nolo marittimo . Per capirci, l’importo predetto era pari ad un anno di stipendio
di in impiegato di medio livello ; quindi il taxi valeva – a quei tempi ed a quelle latitudini –
veramente una bella sommetta !
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Foto 111 – 115
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STATO DELLE FOTOGRAFIE.
Adesso che abbiamo terminato l’esposizione delle immagini contenute nell’album di Mestroni, ci
sembra opportuno dare qualche chiarimento sullo stato delle foto, onde non si pensi ad un difetto di
scannerizzazione dell’attuale testo.
Le foto, ovviamente, hanno la normale usura del tempo, ancor più giustificabile in quanto scattate in
un clima tropicale certamente non favorevole ad una lunga conservazione, oltre ai problemi della
successiva custodia materiale, ai viaggi, ai campi di concentramento e via di seguito. Hanno ancora
il colore “ seppia “ tipico della produzione degli anni Trenta, e per quanto mi è stato possibile, ho
cercato di lasciarle applicate sul cartoncino originale scuro, ossia nell’ambiente in cui hanno vissuto
tutti questi anni. Ne parlo come fossero creature vive, proprio perché le loro immagini SONO una
rappresentazione reale dell’istante e del luogo in cui vennero scattate. Ossia ho privilegiato
l’originalità rispetto ad una eventuale ottimizzazione del loro stato effettivo. Ciò , ripeto, anche per
non togliere alle medesime quella patina del tempo che le rende, appunto, così interessanti a noi
ultimi e moderni fruitori. Siamo sicuri che i lettori del presente testo condivideranno la sopra citata
scelta.
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APPENDICE
Ras Ailè Selassiè IMMIRU’
Generale ed uomo politico etiopico
( Scirè 12.11.1892 – Addis Abeba 8.8. 1980 )
Cugino del negus Tafari Maconnen, fu uno dei pochi comandanti abissini che ottenne vittorie sugli
italiani nel conflitto italo- etiopico 1935- 1936. Ras dello Scirè, dopo una vittoriosa avanzata verso
il nord dell’Etiopia, piegò verso l’Eritrea. Un suo reparto commise l’eccidio del cantiere Gondrand
a Mai Lahlà. Per questo venne accusato dal Governo italiano di genocidio di civili inermi e
ricercato. A fine conflitto si era rifugiato sulle montagne dell’acrocoro etiopico, continuando a
svolgere fino al 1937 azioni di guerriglia contro gli italiani. Catturato nel gennaio del 1937 venne
condannato al confino a vita e condotto per nave in Italia, prima a Lipari e Ponza, e poi in Puglia ed
in Calabria ( a Longobucco ). Durante la prigionia lesse e studiò molto, dedicandosi alla fotografia
e vedendo pellicole cinematografiche, di cui era appassionato.
Liberato dopo il crollo del regime fascista, divenne un eroe nazionale ; il Negus lo nominò
ambasciatore etiopico prima in India e poi negli USA ed in URSS. Aveva idee ( di sinistra )
moderne e riformiste, si avvicinò al socialismo europeo, tanto da essere chiamato “ il Ras rosso “.
Distribuì le terre dei suoi latifondi ai contadini che vi lavoravano, assicurandosi la loro eterna
benevolenza. Rimase confidente e fedele al Negus Tafari e quando un colpo di Stato militare depose
questi, Immirù seguì fedelmente in esilio il suo ex Imperatore. Quando Immirù morì nel 1980, fu il
solo membro della famiglia imperiale a ricevere funerali di Stato. Suo figlio Mikael divenne un
affermato avvocato.
H A I L E’ S E L A S S I E’
Negus Neghesti ( Imperatore d’ Etiopia )
Il suo nome al secolo era ras Tafari Maconnen ; nacque ad Egersa Goro il 23 luglio 1892 e morì ad
Addis Abeba il 27 agosto 1975. Fu Imperatore dal 1930 al 1936 e dal 1941 al 1974. Il suo destino
fu contrassegnato dall’incontro / scontro con l’Italia, verso cui nutrì sempre sentimenti d’amore e
d’odio. Era il 225° discendente diretto da Salomone e dalla regina di Saba, attraverso la linea di
David, della tribù israelita di Giuda. Figlio di ras Maconnèn e cugino del Negus Menelik II, e quindi
inizialmente non erede al trono, governò per anni la regione dell’ Harar ; nel 1906 si sposò con
Menem Asfaw, da cui ebbe l’unico figlio Asfauossen .
Alla morte di Menelik, il trono va al musulmano Ligg Iasu V, ma Hailè Selassiè guida una rivolta
antislamica e lo fa deporre. Diviene Reggente e promuove la modernizzazione del paese. Nel 1923
riesce a far entrare l’Etiopia nella Società delle Nazioni ; nel 1928 è incoronato Negus Neghesti ed
il 2 novembre 1930 diventa Imperatore col nome di Hailè Selassiè I ( ossia : “ Potenza della
Trinità “ ). Lavora attivamente e crea ( 1931 ) il primo Senato di notabili consiglieri e fonda
successivamente l’Università di Addis Abeba.
Iniziano nel 1934 ( incidente di Ual – Ual ) i primi attriti col Regno d’Italia e, consapevole delle
mire fasciste sulle sue terre, H.S. va più volte a Ginevra per perorare la causa etiopica e chiedere
tutela contro il colonialismo fascista. Il 2.10.35 Mussolini ordina la mobilitazione generale ed il
giorno successivo H.S. mobilita a sue volta le tribù. Il comando supremo viene affidato a ras Cassa
che sceglie di utilizzare la tattica di guerriglia, i piccoli scontri mordi-e-fuggi , puntando molto sulla
contraerea. Lo scontro però è impari ed il 5 maggio 1936 Badoglio entra ad Addis Abeba. H.S.
sceglie l’esilio volontario e si rifugia – con famiglia e corte – a Bath ( G.B. ). Nel 2° conflitto
mondiale, caduta l’ AOI, Hailè Selassiè rientra in patria ( 1941 ) accolto festosamente. Riprende la
sua opera modernizzatrice :
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 Sopprimendo il potere dell’aristocrazia terriera ;
 Riformando e potenziando l’esercito ( fu il suo errore ) ;
 E promulgando la prima Costituzione nel 1955.
Per la ricostruzione del paese si appoggia – strano a dirsi – all’industria, alle banche ed ai costruttori
italiani, di cui aveva apprezzato sempre l’operosità e l’ingegno posti in essere nell’edilizia civile
( ponti, strade, ferrovie ). Fa approntare un grandioso piano per l’edilizia abitativa etiopica. In
politica estera stabilì relazioni privilegiate con gli Stati Uniti, ottenendone l’appoggio contro la
guerriglia insorta in Eritrea ; promosse una linea moderata nell’ambito della Organizzazione per
l’unità africana ( fondata ad Addis Abeba nel 1963 ) ; cominciano però contro di lui cospirazioni e
congiure varie, ed anche ( settembre 1974 ) una dura rivolta da parte dei militari. Si impadronisce
del potere una Giunta militare capeggiata dal gen. Hailè Menghistu ( di simpatie marxiste ) che
costringe l’Imperatore ad ampie concessioni a favore delle Forze Armate. Una volta preso il potere,
Menghistù scatena una violenta persecuzione contro ogni rivale od oppositore. Accusa Hailè
Selassiè di corruzione e malgoverno e lo fa rinchiudere in carcere. Il 27 agosto 1975 H.S. muore in
stato di detenzione ed in circostanze mai completamente chiarite.
Fig. 48
= Il Negus Neghesti Hailè Selassiè I.
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APPENDICE
ALLEGATO N° 1
ANGELO DEL BOCA
LA VERITA’ SUL MASSACRO DELLA GONDRAND
( articolo apparso su STORIA ILLUSTRATA n.311 – Ottobre 1983 )
L’eccidio di Mai Lahlà rappresenta una pagina ancora controversa della guerra d’Etiopia. Sorpresi
nel sonno dai guerriglieri abissini di Ras Immirù, gli operai ed i dirigenti dell’impresa italiana
tentarono una vana, disperata resistenza, ma furono sterminati in due ore.
Durante la mia ultima permanenza ad Addis Abeba sono stato nella chiesa della Trinità, sulla tomba
di ras Immirù Heile Selase, morto all’età di 87 anni il 18 agosto 1980. Egli non poteva che essere
inumato qui, dove già riposano molti dei capi storici della resistenza etiopica al fascismo ; qui dove
è sepolta Sylvia Pankhurst, l’intellettuale inglese che ha dedicato la propria esistenza a difendere la
causa dell’Etiopia. Cugino dell’ imperatore Hailè Selassiè, è l’unico aristocratico che sia passato
indenne attraverso la bufera della rivoluzione marxista del 1974, e che abbia ricevuto, alla sua
morte, gli onori militari. Ha scritto il The Etiopian Herald, il giorno dei funerali : “ Egli ha vissuto
una vita straordinaria di amministratore, di giudice, di combattente per la libertà, di ambasciatore al
servizio del suo popolo. Era anche conosciuto per la sua partecipazione alle sofferenze dei più umili
e per aver fatto del suo meglio per migliorare il loro stato. Per dirla con parole più semplici, ras
Immirù aveva distribuito le sue terre ai poveri negli anni Cinquanta, quando l’Etiopia stava appena
uscendo dalla notte del feudalesimo per imboccare la strada di un cauto e lento riformismo. Era
considerato un “ liberale “ nel significato inglese della parola, un progressista, ma anche se il suo
comportamento aveva più volte messo in imbarazzo Hailè Selassiè, non per questo era mai stato
giudicato da lui un rivale, un avversario. Al contrario.
L’avevo conosciuto nella sua modesta casa di Addis Abeba, in cima ad una collina nel quartiere di
Arada, il 13 aprile 1965, mentre stavo raccogliendo le testimonianze di parte etiopica sulla guerra
italo- abissina del 1935- ’36. Era un uomo di bassa statura, con il viso tondo e bonario, gli occhi
chiari quasi celesti, i capelli, ormai bianchi a raggiera, come quelli di Einstein. Indossava un abito
color fumo di Londra e portava una cravatta nera sulla camicia bianchissima. Sia nel portamento,
sia nel suo modo di esprimersi, non c’era alcun segno che rilevasse, in lui, il militare, l’uomo
d’azione, il guerrigliero. Eppure il vecchio che avevo di fronte, con la sua aria mite e cortese, era
stato l’unico generale etiopico che avesse, nell’inverno del 1935, tolto il sonno a Mussolini. Alla
testa di un esercito di 40.000 uomini era partito dalle rive del Lago Tana ed aveva percorso più di
500 chilometri prima di raggiungere il suo primo obiettivo, cioè i guadi del Tacazzè nella regione
dello Tzembellà. Inutilmente Badoglio aveva cercato di trattenerlo con una serie di massicci
bombardamenti aerei ; e inutilmente Mussolini aveva cercato di inchiodarlo sulla riva destra del
Tacazzè, ordinando che i guadi fossero irrorati di iprite. Dopo aver attraversato il fiume in due punti
nella notte tra il 14 ed il 15 dicembre 1935, le avanguardie di ras Immirù avevano tagliato la ritirata
agli ascari del maggiore Criniti e li avevano battuti al passo di Dembeguinà, mettendo fuori
combattimento 400 fra italiani ed eritrei, distruggendo uno squadrone di carri armati veloci e
raccogliendo sul campo un enorme bottino di armi. Proseguendo nella sua avanzata nello Scirè, ras
Immirù aveva obbligato la divisione Gran Sasso ad abbandonare Selaclacà, poi il passo Af Gagà, e
l’aveva costretto a ripiegare entro le linee fortificate di Axum. Non soddisfatto di aver occupato
quasi tutto lo Scirè, abbandonato dagli etiopici all’inizio della guerra, ras Immirù aveva tentato una
manovra ancora più audace, quella di invadere, attraverso l’inospitale Adi Abò e le valli dell’Obel e
del Catinà, la stessa Eritrea. Avendo intuito in tempo il disegno di ras Immirù di aggirare il fianco
destro dello schieramento italiano, il maresciallo Badoglio era riuscito a parare il colpo sbarrando le
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strade di accesso ad Asmara, con due divisioni, la 1° Febbraio e la Cosseria, ma non aveva potuto
comunque impedire a forti contingenti etiopici di varcare il fiume Mareb e di compiere colpi di
mano e scorrerie nella regione eritrea del Dechi Tesfà.
In un telegramma del 6 gennaio 1936 Mussolini non aveva nascosto a Badoglio “ la sua più penosa
impressione “ per i fatti accaduti ed aveva messo in evidenza , con disappunto ed ironia, che “ gli
etiopici hanno preso e conservato l’iniziativa delle operazioni sulla nostra destra “. Nonostante le
rampogne, lo sdegno e la pesante ironia di Mussolini, Badoglio aveva dovuto subire l’iniziativa di
ras Immirù ancora per due mesi. Gli etiopici avevano costituito dei reparti mobilissimi di 400-500
uomini, con i quali tenevano in costante allarme le due divisioni italiane schierate a protezione di
Asmara, e intercettavano i convogli di rifornimenti che partivano da Adi Qualà diretti ad Adua. Per
fare qualche esempio, il 13 febbraio avevano distrutto il cantiere della Gondrand a Mai Lahlà ed un
convoglio di automezzi nei pressi di Damo Galilà ; il 20 avevano annientato nell’alto Adi Abò
reparti del XXVII battaglione eritreo ; il 22, dopo essere penetrati in Eritrea per una trentina di
chilometri, avevano fatto saltare il deposito di munizioni di Mai Scium.
Su queste azioni di guerriglia, specie su quelle condotte in territorio eritreo, Badoglio aveva
ordinato che fosse mantenuto il più rigoroso silenzio, perché non si voleva ammettere che gli
abissini fossero in grado, con i loro scarsi mezzi, di portare la guerra nella stessa Eritrea.
Grande pubblicità, invece, fu data all’attacco contro il cantiere stradale della Gondrand, e per due
motivi : 1) nello scontro erano caduti troppi italiani perché si potesse tacere sull’episodio ; e 2) gli
uccisi erano tutti operai ( c’era anche una donna ) ed il fatto si prestava per rivelare al mondo, che
non aveva ancora digerito la tardiva avventura coloniale dell’Italia fascista, il vero volto
dell’Etiopia negussita “ barbara e sanguinaria “.
Vediamo ora di ricostruire i fatti accaduti nella terribile alba del 13 febbraio 1936, in base alla
versione delle due parti. Il cantiere n.1 dell’impresa di costruzioni stradali Gondrand si trovava a
pochi passi dalla strada Asmara- Adua, nelle vicinanze di Mai Lahlà, a 9 chilometri dal fiume
Mareb che segna il confine tra l’Eritrea e l’Etiopia. Il campo era costituito da due grosse tende
“ Roma “ dove alloggiavano gli operai e da alcune baracche in legno che ospitavano i dirigenti, la
mensa, attrezzi di lavoro e materiale vario. Unica difesa del campo, una barriera di filo spinato , alta
un paio di metri e sostenuta da fragili paletti. A qualche centinaio di metri dal recinto c’era una
bassa costruzione in muratura, ove erano stati stivati 30 quintali di gelatina, per i lavori stradali.
Per quanto fosse noto ai due dirigenti del cantiere , gli ingegneri Cesare Rocca e Roberto di
Colloredo Mels, che nella regione circostante erano stati segnalati alcuni reparti di guerriglieri di ras
Immirù, essi confidavano nel fatto che si trovavano a ridosso dell’Eritrea e che Badoglio con le sue
armate, si trovava duecento chilometri più avanti, ormai nel cuore dell’Etiopia. Comunque avevano
accettato dalle autorità militari una quindicina di fucili, e Roberto di Colloredo Mels, facendo
visitare il campo ad un vecchio compagno di scuola, il tenente degli spahis libici Luigi Cavarzerani
di Nevea, gli aveva chiesto anche qualche consiglio nell’ipotesi , che però respingeva, di un
attacco. “ Io avevo ritenuto insufficiente sia il numero dei fucili, circa 15, sia quello degli uomini,
meno di cento- ci aveva riferito Cavarzerani -. In ogni caso ravvisavo la necessità di mantenere
giorno e notte delle guardie armate e di scavare alcune trincee. Roberto mi aveva risposto che, data
l’urgenza di costruire le strade, non avrebbe potuto sottrarre uomini al lavoro per i turni di guardia,
ed aveva concluso : “ Preghiamo Dio che non ci attacchi nessuno “. E lo aveva detto ridendo, quasi
scherzando. “ La sera parlammo poi anche di armi e mi fece vedere le sue, un fucile da caccia ed
una bella pistola a rotazione, come una delle mie. Ricordo perfettamente di avergli regalato un po’
di cartucce, di cui ero sempre largamente provvisto “.
Alle 5 del 13 febbraio, mentre il maresciallo Badoglio stava investendo l’Amba Aradam con 70.000
uomini dopo averla bombardata con oltre 200 pezzi di artiglieria, un reparto di etiopici al comando
del fitaurari ( grado militare abissino corrispondente al nostro colonnello, n.d.r. ) Tesfai attaccava di
sorpresa il cantiere n. 1 della Gondrand. Anche se la leggenda vuole che “ l’orda abissina “ fosse
costituita da oltre 2.000 uomini, noi sappiamo con esattezza, da un rapporto del capo dell’Ufficio
politico del 2° Corpo d’Armata, Alberto Pollera, che in realtà era composto soltanto da 100 uomini.
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Il rapporto numerico era dunque uguale, ma gli abissini godevano del fattore sorpresa e per di più
erano meglio armati e ormai perfettamente addestrati ai colpi di mano. Colti nel sonno all’interno
delle loro tende, gli operai non riuscirono quasi a reagire e furono abbattuti in gran parte a colpi di
sciabola. Meglio protetti dall’assito della loro baracca, l’ingegnere Rocca e la moglie Lidia
Maffioli, opposero una più lunga ed efficace resistenza, in questa affiancati da Roberto di Colloredo
Mels, il quale dopo essere riuscito a mettersi in salvo al di là della cinta di filo spinato, era rientrato
al campo attratto dalle grida della signora Lidia. Lo scontro, comunque, non durò a lungo. Alle 7
del mattino, quando gli etiopici si ritirarono dal cantiere, portando via come prigionieri gli operai
Alfredo Lusetti ed Ernesto Zannoni, all’interno del campo non c’erano che morti e moribondi.
Alberto Pollera che eseguì il primo sopralluogo, contò sul terreno 74 cadaveri di italiani “ le cui
ferite e mutilazioni sono orrende “ e 40 di etiopici, in gran parte straziati dall’esplosione del
deposito di gelatina. Nel concludere il suo rapporto, Pollera faceva osservare che l’incursione dei
guerriglieri del fitaurari Tesfai era stata senza dubbio facilitata dai capi della regione circostante,
che si erano ben guardati di segnalare i movimenti degli abissini.
Frà Ginepro, uno dei primi ad arrivare sul luogo della strage, così descrisse la scema : ” L’ingegnere
capo, uno dei tre o quattro che erano armati, ha sparato tutti i colpi della sua rivoltella e ora giace
con gli stivaloni alti, con la giubba stracciata, col volto che guarda fisso la sua signora. Dietro a lui ,
in doppia fila, sono allineati 70 cadaveri, di cui 18 evirati, con uno strato giallognolo al luogo della
mutilazione “.
(N. dell’A.= Ricordiamo che Frà Ginepro ( al secolo Antonio Conio, n. a Pompeiana –IM – il 7.4.
1903 – m. a Loano –SV – il 2.7.1962 ) fu un noto Cappellano militare, convinto fascista,
giornalista, scrittore e poeta. Volontario fiumano con D’Annunzio, partecipò poi alla 2^ G.M.,
rimanendo ferito in Albania, mentre assisteva i feriti. Internato a Creta, rientrò nel 1943 in Italia,
aderendo poi alla RSI di Salò ) .
La relazione sui fatti del ten. Cavarzerani, accorso con il suo reparto di spahis, era ancora più
precisa, più macabra : ” Roberto di Colloredo presentava il foro di entrata di una pallottola alla
tempia destra, così come l’ingegner Rocca e sua moglie. Era la documentazione indiscutibile del
suicidio finale dei due ingegneri. Quanto alla signora, era stata certamente uccisa dal marito un
attimo prima, e le sevizie sul suo corpo erano state fatte sicuramente quando era già morta. Aveva
una mammella tagliata e tracce di colpi di scimitarra su altre parti del corpo “ .
Un altro testimone, il capitano Franco Dani, aveva rivolto la sua attenzione più che ai morti, a
quanti erano accorsi ad osservare la scena : “ Molti dei miei compagni di viaggio, ormai superato
l’attimo dell’orrore e della pietà, erano con alcuni borghesi che sollevavano i cenci pietosi messi a
coprire le piaghe più tremende ; altri ne approfittavano per far scattare spietatamente gli obiettivi
delle macchine fotografiche, ansiosi di procacciarsi documenti insperati e sensazionali “ .
A un successivo controllo, i morti italiani risultarono 85, due i dispersi ( allora non si sapeva che
erano stati fatti prigionieri ), tre gli scampati, fra i quali un sottotenente medico, da poco assegnato
al cantiere.
Del fatto gli etiopici diedero una versione molto diversa, con la cifra delle vittime più che
quintuplicata. Il 23 febbraio il Quartiere Generale etiopico di Dessiè diramava infatti questo
bollettino : “ Ras Immirù segnala dal fronte nord che il 13 febbraio un distaccamento delle nostre
truppe ha attaccato di sorpresa un fortino nemico a Rama sulla strada di Adua ad una ventina di
chilometri dal Mareb. I nostri hanno sconfitto il nemico che si è dato a precipitosa fuga lasciando
sul terreno 412 morti e qualche prigioniero “ . Questo comunicato, redatto per il fronte interno e non
per la storia, fu in seguito corretto da ras Cassà Hailù . Difendendosi dalle accuse italiane di
atrocità, l’ex comandante del fronte nord, dichiarava nel luglio del 1936, dopo ave elencato alcuni
atti di generosità etiopica : “ Si preferiva elencare i casi eccezionali di alcuni nostri soldati, le cui
mogli e figli erano stati atrocemente ustionati dai gas, che si erano vendicati dei loro selvaggi
aggressori massacrando un campo di operai tra il Mareb e Darò Taclè. Si è presentato questo
episodio come un vile attentato a civili senza difesa. Per la verità questi lavoratori erano protetti da
decine di chilometri di territorio occupato ed erano impegnati in lavori che non erano svolti , come
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pretendeva lo Stato Maggiore, a beneficio della comunità. Per quanto ingaggiati da una impresa
privata, essi erano equiparati ai soldati del genio e costruivano strade che conducevano nella nostra
patria i cannoni ed i rifornimenti dell’aggressore “ .
Ras Immirù, dal canto suo, fu ancora più esplicito nell’ammettere i fatti, di cui si assumeva l’intera
responsabilità . Rispondendo infatti ad una mia precisa domanda , nel corso dell’intervista del 13
aprile 1965, disse : “ Ho dato io stesso al fitaurari Tesfai l’ordine di attaccare il campo di Mai
Lahlà. Lo ritenevo e lo ritengo ancora un atto legittimo di guerra , poiché gli operai erano in zona
di operazioni ed erano armati di moschetti . Infatti essi si difesero accanitamente infliggendoci dure
perdite. Cosa che non potevano certo fare le nostre popolazioni indifese, quando venivano attaccate
e decimate dall’aviazione fascista “ .
Ma torniamo ora sul luogo dello scontro, dove intanto continuavano ad affluire soldati ed operai
italiani. Mentre gli uccisi venivano deposti in povere casse di legno grezzo, i morti abissini erano
trascinati per i piedi fuori dal campo, ammucchiati e poi inceneriti con i lanciafiamme. Nella stessa
giornata del 13 furono erette , appena fuori dal recinto, alcune forche, mentre pattuglie di soldati
battevano la campagna intorno alla ricerca dei guerriglieri etiopici. Ma non riuscendo ad
agganciarli, essi si abbandonarono alle più crudeli e immotivate rappresaglie. Nel solo villaggio di
Darò Taclè furono uccise 18 persone ed altre 7 ferite a pugnalate. Cinque contadini che si trovavano
per caso a passare coi loro asinelli davanti al tragico cantiere, furono abbattuti a fucilate dagli spahis
libici soltanto perché, alla vista delle forche, si erano dati alla fuga. Avendo rinvenuto, dal canto
suo, in un gruppo di tucul alcuni indumenti appartenuti all’amico Roberto di Colloredo, il ten.
Cavarzerani fece arrestare i proprietari di quelle capanne : “ Guardai in faccia quegli uomini , me li
immaginai infierire la notte precedente come demoni su quei poveri corpi straziati e non ebbi pietà.
Li feci fucilare lontani dalle loro donne. Nella marcia di ritorno eliminammo altri due etiopici “ .
Nel trasmettere al comando superiore i verbali delle denunzie presentati dai parenti delle vittime di
Daro Taclè, Pollera scriveva : “ Purtroppo non sono i soli fatti avvenuti quale reazione dopo la
strage dei nostri operai al cantiere Gondrand : reazione che ha sconvolto paesi e persone che
nessuna responsabilità potevano avere nel lamentato incidente. Ogni giorno pervengono nuove
denunzie, le quali dimostrano che, malgrado le severe misure prese dalle autorità militari, perdura
negli operai e nelle truppe nazionali uno stato di esasperazione verso tutta la popolazione indigena,
con esplosioni di brutale, ingiustificata violenza “ . Col passare dei giorni si era infatti diffusa fra gli
italiani del corpo di spedizione in Etiopia un’autentica psicosi : ovunque si scoprivano segni el
passaggio dei guerriglieri di Tesfai , molti innocenti cadevano vittime di queste allucinazioni
collettive. Come ha raccontato Ennio Flaiano, ci furono ritorsioni persino nel lontano Scirè : “ Il 17
marzo ad Adi Onfitò, arriva il gruppo di spahis del II Corpo d’Armata, ispeziona qualche tucul. Si
trovano oggetti appartenenti all’ingegnere Rocca. Gli abitanti che avevano ottenuto già da altre
truppe il permesso di libera circolazione, vengono uccisi in massa. Le donne e gli uomini
asserragliati nella chiesa vengono trucidati. Una donna, la più avvenente, viene posseduta in circolo
e poi nel suo sesso è introdotto un tizzone : un tizzone del rogo che era servito a bruciare il cascì
copto. Poi la chiesa viene sgombrata dei cadaveri. Si decide di bruciarli. Alcuni dei militi della 107^
si accingono all’impresa disgustosa.
Ancora 4 mesi dopo l’eccidio di Mai Lahlà, la forca del campo era sempre in attività. Ha scritto nel
suo diario, alla data del 4 giugno 1936, il Capo manipolo Nicolò Giani : “ A sinistra della strada il
frantoio del cantiere continua a masticare rumorosamente sassi. A destra, da una delle forche,
penzola un abissino ; gli altri due nodi scorsoi, che disegnano contro il cielo il loro perfetto cerchio
di corda, sembra aspettino altra immancabile preda che qui, a fianco del cimitero dei morti, debba
pagare colla più temuta delle morti il barbaro delitto di 4 mesi fa “.
Nel corso della loro inchiesta sull’eccidio di Mai Lahlà, le autorità militari vennero a conoscenza ,
oltre che delle spietate ed immotivate rappresaglie, di tutta una serie di errori, disfunzioni , ritardi e
vigliaccherie. Sui quali però fu steso, per ragioni di ordine politico, un velo di silenzio. Si scoprì, ad
esempio, che l’esercito aveva distaccato al cantiere un sergente maggiore affinché provvedesse ai
turni di guardia , ma il sottufficiale non aveva mai svolto il suo incarico. La riuscita della sorpresa si
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doveva infatti , secondo un rapporto riservato, “ alla scarsa o addirittura nessuna organizzazione
della sicurezza, la quale anche con i mezzi limitati di cui il cantiere disponeva, poteva essere
garantita “. Emerse una circostanza ancora più grave : per quanto gli etiopici si fossero trattenuti nel
cantiere per più di due ore, e il fragore della polveriera saltata in aria fosse stato avvertito in un
raggio di 20 chilometri, i reparti di militari dislocati nelle vicinanze arrivarono sul posto con un
ritardo che era stato causato soltanto da una eccessiva e colpevole “ prudenza “.
Pur compiangendo infine la sorte della signora Lidia Rocca Maffioli, gli inquirenti si erano chiesti
cosa facesse nel cantiere, chi le aveva consentito di restare in zona di operazioni.
Ma di tutto questo, per ordine di Roma, non trapelò nulla. Perché ogni colpa doveva ricadere su ras
Immirù e i suoi barbari.
Mussolini, che non poteva dimenticare le notti insonni del “ dicembre nero “ , quando era sembrato
che ras Immirù fosse in grado di marciare su Asmara, aveva giurato di fargliela pagare. Invece,
quando Graziani gli comunicò, il 15 dicembre 1936 che il ras si era arreso a Bonga,dopo aver
combattuto per 15 mesi senza interruzione contro gli italiani, non ordinò che fossero applicate
contro di lui le misure di rigore, così come aveva fatto o stava per fare contro altri esponenti
dell’aristocrazia etiopica. A Graziani rispose : “ Ras Immirù dovrà essere considerato prigioniero di
guerra , ed in tale condizione trasferito appena possibile ad Addis Abeba, indi in Italia, dove sarà
confinato a vita “.
Il confino per il ras durò di meno, sette anni trascorsi fra l’isola di Ponza, Lipari e Longobucco in
Calabria. Ironia del destino : quando Mussolini finì relegato a Ponza, occupò la stessa cella che era
stata del cugino di Hailè Selassie.
Angelo Del Boca
PER SAPERNE DI PIU’ :
-
Gli italiani in Africa Orientale , di A. Del Boca ; Laterza , Bari 1976 ;
La guerra di Abissinia 1935 – 36 di A.Del Boca ; Feltrinelli Milano 1965 ;
L’imperialismo fascista , di G.Rumi ; Mursia, Milano 1974 ;
Mussolini il Duce. Gli anni del consenso ; di R. De Felice ; Einaudi Torino1974 ;
Rivelazioni inedite sul conflitto italo – etiopico ; di G.Bianchi , Ceis , Milano 1967 ).
ALLEGATO N° 2
Trafiletto apparso su LA STAMPA di Torino il 27.8.2009
Libro censurato : Del Boca : “ I libici mi prendono in giro “ .
“ Confermo : non voglio più occuparmi della Libia “ : è amareggiato lo storico Angelo Del Boca,
uno dei più critici della politica coloniale italiana, denunciando “ la censura subita in Libia dal suo
ultimo libro “ Ad un passo dalla forca “ ( Baldini Castoldi Dalai ) sulle gesta di Mohamed Fekini ,
uno degli eroi della resistenza antitaliana in Tripolitania. Dopo il suo articolo sul Manifesto, è stato
contattato dall’ambasciatore libico in Italia, ma non per questo ha rinunciato a farsi sentire. “ Non
credevo ai miei occhi quando ho letto il documento riservato, inviatomi dalla famiglia Fekini, nel
quale “la Direzione Generale per la stampa del Comitato Popolare generale per la cultura e
l’informazione libica “ ha motivato la confisca del libro. Sono motivazioni banali ed ingiustificate “.
Come quella – ha aggiunto – di “ aver esaltato i Senussi ed il loro ruolo nell’indipendenza ; vorrei
ricordare che Omar Al Muktar , ritratto nella foto al petto di Gheddafi al suo arrivo a Roma, al
momento dell’arresto e dell’impiccagione, era il vicario del capo della Senussia, Mohamed Idris,
futuro re della Libia “. “ Mi si prende in giro, ha proseguito . “ Da un lato mi si offre una
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onorificenza da parte della Libia e dall’altra parte si vieta il mio libro. Forse l’ambasciatore Ghadur
voleva scusarsi. Fatto sta che ai vertici della Jamahiria sembra esserci un po’ di confusione “ .
Nessun commento. Parla da sola la fotocopia del testo sopra evidenziata.
ALLEGATO N. 3
LA SOCIETA’ TRASPORTI GONDRAND
OGGI
La GONDRAND SPA è oggi una delle più note e ramificate imprese nel settore della logistica
( trasporti via terra e per mare/ aria ; traslochi ; deposito merci , allestimento di mostre e fiere ) con
sedi sia in Italia ( 20 sedi sul territorio, 200 automezzi ), che in Svizzera ( 11 sedi ) e con punti
d’appoggio nelle principali città dell’intera Europa. Il recapito di merci, plichi e colli viene
assicurato ( secondo la distanza ) in pochissimi giorni sia in tutti i paesi europei che all’Estero
( utilizzo del vettore aereo). Ciò in considerazione della frequenza intensa delle partenze. Le merci
sono seguite elettronicamente ( track and trace ) , per cui è possibile localizzare in ogni istante il
collo e conoscere lo stato di progressione verso il recapito. Il motto/ slogan della Ditta è il
seguente : “ I nostri trasporti via terra non conoscono deviazioni “.
Fig. 49 = Il fondatore Francois Gondrand
Fig. 50 = I camion della Gondrand in
giro per le strade d’Europa.
STORIA DELLA GONDRAND.
Bisogna partire da
Francois ( Francesco Vittorio ) GONDRAND
Industriale , di cui si danno qui appresso alcune note biografiche.
Nacque a Pont- de- Beauvoisin ( Isère – Francia ) il 12.12.1840 e morì a Milano il 20 ottobre 1926,
carico di onorificenze italiane ed estere, e figura ormai nota in tutto il mondo.
Fondò la Casa di trasporti internazionali “ F.lli Gondrand “ , trasformata nel 1866 in due S.p.A con
52 succursali – fra cui alcune nelle principali città europee – e delle quali fu Presidente ed Amm/re
Delegato. Contribuì nel 1906 alla riuscita dell’Esposizione Int.le di Milano, nonché al
miglioramento dei rapporti commerciali e delle comunicazioni fra Italia e Francia. Membro di
Commissioni e di Associazioni varie, fu anche membro del Consiglio d’ amministrazione della
Banca Popolare di Milano, dal 1892 al 1913. Le sue società, sia nel ramo trasporti che nelle
costruzioni di opere civili furono sempre efficienti e rinomate. Possiamo evidenziare, con una serie
di date, il continuo sviluppo sia in campo nazionale che estero :
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1866 = fondazione di Gondrand a Milano da parte dei fratelli Gondrand
1872 = fondazione di Gondrand e Mangili in Germania, attuale Atege Gmbh
1881 = G. conta già 16 uffici in Europa
1890 = A Milano G. dispone di 350 cavalli e varie scuderie
1902 = Fondazione di G. Schweiz a Briga
1919 = Ridenominazione della G. in Gondrand Frères ad opera dei F.lli G.
1946 = Fondazione di Traffic BV in Olanda , attuale G.Traffic BV
1982 = Apertura dei primi Uffici negli USA
1990 = Dopo la caduta della Cortina di ferro, fondazione delle Società G. in Cecoslovacchia
ed Ungheria
2001 = Go-Trans, l’affiliata asiatica, viene registrata in Cina, Hong-Kong e Taiwan
2003 = Acquisizione di Sempex Basilea, primaria ditta nel settore fieristico
2005 = Rilancio del marchio Gondrand con una nuova “ corporale identity “
2007 = Acquisizione di Stella Transport AB in Svezia, attuale Gondrand Stella AB
2012 = Fondazione di Go- Trans in Francia.
Ancora qualche notizia sulla Gondrand, per dimostrare la passione che il capostipite Francois ed i
Dirigenti che gli succedettero, avevano per tutte le innovazioni tecnologiche :
 la G. fu tra le prime a passare dal traino equino a quello meccanico ( camion )
 nel 1925 venne depositato il brevetto per il carico di vetture sovrapposte, e già in questo
periodo la G. ricorreva, per il trasporto di automobili sul mercato inglese, ad imballaggi
smontabili e recuperabili, anticipando – in tal modo – la futura realizzazione dei container ;
 nel 1899 assieme a C. Mangili che gestiva una piccola fabbrica di ghiaccio artificiale a
Milano, costituiva nel capoluogo lombardo la prima Società dei magazzini refrigeranti e del
ghiaccio artificiale, con Mangili stesso .
Oggi le Società Gondrand assicurano la massima efficienza e la più elevata specializzazione
tecnologica nel settori in cui operano.
ALLEGATO N. 4
BREVI NOTE BIOGRAFICHE
su MESTRONI PIETRO ,
dipendente della Soc. Gondrand in AOI.
Nel corso dei propri studi, ricerche e documentazioni, lo scrivente ha avuto modo di imbattersi in
centinaia di figure di persone comuni che si sono sacrificate sia per la loro famiglia ma anche per la
Patria, verso cui nutrivano grande amore e rispetto. Molti di essi erano irredenti o comunque
provenienti da territori del bacino adriatico che ora non fanno più parte dell’Italia. Sono quelli che
mi piace chiamare “ eroi minori “ , piccoli personaggi dimenticati, i quali – però – hanno dato anche
essi il loro contributo per la maggior gloria dell’ Italia. Mi pare quindi giusto ricordarli, e lo faccio
con uno di essi, un semplice meccanico di colonna della Gondrand in Africa che seguì passo passo
l’avanzata delle nostre truppe da Massaua fino ad Addis Abeba conquistata.
Mi tolgo nel contempo un debito di riconoscenza, in quanto senza le sue fotografie, esposte nel
testo, non avrei potuto illustrare in maniera così vivace e dettagliata la vita di coloro che
parteciparono alla campagna etiopica, in una terra così lontana, ma anche così strettamente legata ai
destini della Italia.
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Pietro MESTRONI nacque a Zara ( Dalmazia ) il 31 dicembre 1906, e quindi cittadino austriaco. Il
suo cognome era Mestrovich, mutato in Mestroni per legge, durante il ventennio fascista.
Giunse a Trieste nell’agosto del 1921 seguendo il padre Giovanni, ufficiale postale colà trasferito,
assieme alla madre Anna Damiani nob. De Vergada, a 4 fratelli e 3 sorelle.
Lavorò prima come apprendista meccanico, e poi da meccanico a Trieste ; nonché da motorista
presso i Cantieri Navali di Monfalcone. Passò poi alle dipendenze stabili in qualità di autista presso
la sede triestina della Gondrand. Ottenne regolare patentino per la conduzioni di mezzi pubblici,
pesanti ed autogrù. Prese una licenza di tassista, iniziando nel capoluogo triestino un’attività di taxì
( in loco, si dice : autotassametrista ) . Si unì nel 1929 in matrimonio civile con Ida Lucano, sarta di
origine veneta , da cui ebbe due figli maschi : Pietro ( stesso 1929 ) e Vinicio ( 1933 ).
In conseguenza della crisi economica che nel 1929 aveva colpito il mondo intero, Mestroni,
convinto fascista come tutti i suoi fratelli, visto il calo di attività a Trieste, accettò un contratto di
lavoro in Africa propostogli dalla Gondrand, che aveva allargato il proprio campo di lavoro dalla
logistica ( trasporti ) alla costruzione di opere civili, per cui partì per la Colonia eritrea , sbarcando
a Massaua il 5 maggio 1935 in qualità di autista- meccanico ( operaio specializzato nella guida e
riparazione dei camion ) .Lo aveva convinto il salario che , in colonia, era più alto di 3- 4 volte
rispetto a quello nazionale. L’Italia si accingeva in quei giorni ad invadere l’Etiopia e nei porti
eritrei arrivavano continui carichi di navi con uomini e mezzi destinati alla citata impresa, che ebbe
inizio il 2 ottobre dello stesso anno.
Era “ meccanico di colonna “ e seguì coi camion della Gondrand l’esercito italiano nell’avanzata
( lenta, come sappiamo ) verso la capitale del Negus. La situazione medievale delle strade dell’
Abissinia rendeva necessaria la concomitante costruzione di piste carrabili , ponti e viadotti ; oltre
all’insidie delle strade , vi erano continui attacchi e rivolte anche nelle retrovie da parte degli
indigeni delle varie regioni attraversate ( Tembien, Goggiam, Gimma, Amhara ecc. ). Finita la
campagna, il Mestroni tornò in Italia almeno due volte in licenza, rientrando poi sempre in Aoi per
lavorarvi. Nel 1939 – 40 , lasciata la Gondrand, svolse attività in proprio di taxi ad Addis Abeba,
dove era presente all’atto della conquista della capitale da parte delle truppe inglesi ( 1941 ).
I britannici lo catturarono malato di tifo petecchiale, dopo che – pur sofferente – si era dato alla
macchia. Giudicato politicamente pericoloso, venne spedito – malgrado fosse un civile – in un
lontano campo di prigionia del Tanganica, dopo un lungo ed avventuroso viaggio per nave ( con
sbarco a Dar es Salam ) e poi su camion. L’impervio percorso influì pesantemente sul fisico del
Mestroni, che doveva viaggiare seduto sulla sponda del camion, avendo sulla schiena una grossa
piaga da decubito, dovuta alla lunga degenza ospedaliera in Abissinia. Nelle sue note e ricordi, si
legge che di notte egli doveva scavare una piccola fossa sulla sabbia per non posare direttamente la
schiena piagata sul nudo terreno. Il campo era a Tabora . Tale località si trova a 1.237 m. di l.s.m. a
circa 300 chilometri dal grande Lago Tanganica. La zona annualmente risente dei monsoni e
sebbene il clima sia mite, vi è un’elevata umidità specialmente di notte. La detenzione fu un vero
calvario di sofferenza per il Mestroni, stremato dalle febbri malariche.
Rientrò in patria, con nave ospedale, nel 1946, a guerra ormai finita. Per lavorare, era rimasto in
terra africana, quindi, un intero decennio. La suddetta dolorosa esperienza aveva profondamente
segnato non solo la sua vita , ma anche quella dell’intera famiglia.
Pietro Mestroni morì a Trieste nei primi anni ’80, senza aver mai ricevuto dallo Stato alcuna
ricompensa né una pur minima onorificenza per tutti gli anni trascorsi in AOI ed in internamento.
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A ricordo , mostriamo qui appresso la sua fotografia in sahariana, quando lavorava per la Soc.
Gondrand.
Fig. 51 = Mestroni Pietro, meccanico di colonna della Gondrand in AOI.
Fig. 52 = Mestroni nel campo n.1 degli
Internati civili a Tabora.
Fig. 53 = La nave- ospedale AMRA sulla
quale Mestroni rientrò in Italia nel 1946.
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ALLEGATO N. 5
PROTESTA INOLTRATA ALLA SOCIETA’ DELLE NAZIONI .
( Traduzione dall’inglese a cura dell’ Autore )
ATROCITA’ ABISSINE COMMESSE A DANNO DI LAVORATORI ITALIANI.
Roma, 9 marzo 1936 XIV
Nelle prime ore dello scorso 13 febbraio nella zona vicino al Mareb ed al villaggio di Darò Taclè in
Abissinia, una banda formata da circa 600 uomini, distaccata da un gruppo di circa 2.000 uomini,
proveniente dalla zona dell’ Arbatè, ha compiuto un attacco di sorpresa al Cantiere n.1 della Ditta di
lavori campali Soc. Gondrand, situato ad Utok Emni nei pressi di Mai Lahala.
Il cantiere che era sotto la direzione degli ingegneri Cesare Rocca e Roberto di Colloredo Mels, è
stato sfondato,saccheggiato e distrutto : 68 persone ( inclusa una donna, la moglie dell’ing. Rocca )
sono state trucidate e molte di esse anche orribilmente mutilate. Trasmetto la lista dei nomi degli
uccisi e 27 fotografie che mostrano la peggiore brutalità perpetrata dagli Abissini.
Il Governo Italiano è perfettamente consapevole che le operazioni militari hanno necessariamente
un carattere loro proprio e non desidera certamente costruire un museo degli orrori , selezionando
certi isolati episodi.
La presente istanza, invece, non riguarda un’operazione militare, ma si tratta :
1. di selvaggia e sanguinaria aggressione a danno di lavoratori non combattenti ;
2. di bestiale attacco ad uomini, feriti e a cadaveri, alcuni dei quali completamente o
parzialmente sono stati evirati ( col taglio e lo strappo degli organi genitali ) o assoggettati
ad altre orribili mutilazioni con parecchi svisceramenti ;
3. dell’utilizzo, come risulta anche in molte altre precedenti occasioni, di proiettili Dumdum con scioccanti effetti di scoppio e di squarciamento visibili nelle allegate foto.
Questa aggressione ripete tutte le tipiche caratteristiche di altri vari e più feroci e furibondi attacchi
da parte degli Abissini negli ultimi anni scorsi contro le colonie confinanti con l’Etiopia. Ma esso
(attacco ) evidenzia pure i pericoli e le situazioni cui sono esposti i lavoratori ingaggiati per opere a
beneficio delle comunità esposte alle azioni degli Abissini.
Di fatto noi abbiamo qui una serie di sistematici e barbari omicidi che non solo destano un terribile
raccapriccio, ma rappresentano la testimonianza delle condizioni incivili dell’ Etiopia.
Noi avanziamo richiesta che prendiate atto di questo nostro documento e degli atti allegati, e di
darne notizia ai Paesi membri della Società delle Nazioni.
f.to SUVICH
Si prosegue col testo originale della sopra menzionata istanza.
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Lo scrivente preferisce non inserire nel testo le 27 fotografie inviate a Ginevra, per i seguenti
motivi :
1. sono decisamente immagini raccapriccianti, e non si vuole qui creare una galleria degli
orrori ;
2. per i lettori che volessero, ritengo per motivi di studio ed ulteriore approfondimento,
prendere visione delle suddette foto, segnalo che possono rivolgersi al mio indirizzo ed io
provvederò a fargliele avere in busta chiusa.
3. Infine penso che sia giusto che i loro corpi martoriati rimangano l’uno accanto all’altro, così
come sono morti, in terra d’Africa e che le loro Anime riposino in pace per l’eternità !
LA GONDRAND IN AFRICA
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A conclusione del presente testo, l’autore desidera esporre due paragrafi dedicati all’opera della
Soc. Gondrand in Africa e pertinenti al tema qui prescelto.
L’ OBELISCO DI AXUM
======================
( Un’ impresa ciclopica ! )
Era appena terminata la campagna italo- etiopica , non si parlava ormai più dell’eccidio del cantiere
n.1, quando – all’improvviso – la Gondrand venne nuovamente alla ribalta. Dovete sapere che i
nostri soldati, quando occuparono la città di Axum, santa per i copti, trovarono parecchi obelischi
( tipici monoliti considerati sacri per quella religione) a pezzi, abbandonati ed obsoleti.
Mussolini che voleva dare un’impronta “ imperiale “ a Roma ( secondo lui : nuova Caput mundi ),
ordinò che uno di tali obelischi venisse trasportato a Roma. A tale scopo venne stipulato un
contratto con la Società Gondrand.
Quando i tecnici della Ditta affrontarono lo studio del progetto di trasferimento, trasecolarono in
quanto si trattava di un’impresa quasi impossibile, e comunque – a dir poco – di dimensioni
titaniche. La stele prescelta si presentava spezzata in tre tronconi e pesava circa 150 tonnellate. Era
alta metri 23,40 e risultava – all’analisi – di pietra basaltica , a sezione rettangolare e risaliva ad un
periodo databile fra il I ed il IV secolo a.C. Presumibilmente era opera di artisti egiziani.
Si decise per ragioni tecniche ( non esistevano in AOI trattori e gru di portata idonea ) di sezionare
in 6 pezzi l’obelisco, affinché ogni blocco potesse essere mosso / manovrato più agevolmente.
Nacque però un problema : come trasportarlo a Massaua per l’imbarco ?
Conosciamo già lo stato delle strade ( rectius : piste ) abissine. Ci voleva un colpo di genio
tipicamente all’italiana, e quello non mancava di certo ai tecnici della Gondrand. Si dovette :
 Predisporre rimorchi e pianali per il traino ;
 Attraversare l’intero acrocoro etiopico, smussando curve, costruendo materialmente tratti
di strada, e perfino edificando ponti fino a Massaua.
Non ci crederete, ma si impiegarono due mesi solo per raggiungere le coste del Mar Rosso. Venne
noleggiato il piroscafo “ Adua “ e su di esso faticosamente vennero stivati i sei pezzi dell’obelisco.
Si giunse a Napoli il 27 marzo 1937 e poi la stele pervenne a Roma dove fu situata a Porta Capena
davanti all’allora Ministero delle Colonie ( poi Ministero delle PP.TT. ed oggi FAO ). Venne
inaugurata da un Duce gongolante il 28 ottobre 1937 in occasione dei 15 anni dalla Marcia su
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Roma. Era un altro pezzo di storia di cui era stata protagonista la Gondrand. I lavori di restauro
esterno e di rinforzo interno, mediante cunei di ferro, vennero coordinati dall’ingegnere, archeologo
ed orientalista italiano Ugo Monneret de Villard ( 16.1.1881 – 4.11.1954 ).
Ed i romani da allora divennero “ imperiali “ !
Nel 1947, all’atto della firma del Trattato di Pace ( 10 febbraio ) che poneva termine al 2° conflitto
mondiale, fu stabilito che l’obelisco venisse restituito all’ Etiopia. Ricordiamo che esso l’8
settembre 1943 durante la battaglia di Porta San Paolo era stato crivellato dai colpi di mitraglia e
che durante gli anni ….. dell’esilio romano il fatto che fosse collocato accanto ad una strada ad alto
traffico, lo aveva esposto ad un forte inquinamento atmosferico. Le successive vicende etiopiche
( rivoluzione militare, destituzione del Negus Ailè Selassiè - 1974 ) impedirono la restituzione ; si
giunse così al 2002 quando venne prima restaurato e poi smontato a pezzi. Non vi dico le polemiche
fra artisti ( in primis, V. Sgarbi , come al solito ), colonialisti nostalgici e non, sulla questione della
restituzione. Vennero chiamati in causa Napoleone e l’intera Francia : perché non venivano resi all’
Italia i capolavori artistici portati via dalla Grande Aquila ?
Comunque il primo pezzo del povero – sballottato – obelisco partì su un velivolo militare
dall’aeroporto di Pratica di Mare il 18 aprile 2005 ed a ruota seguirono le altre parti.
Risulta dagli archivi storici che nel 2008 vennero aperti – coi fondi della Farnesina , e ti pareva ! – i
primi cantieri per ricomporre la stele e che il nostro Istituto Centrale per il Restauro compì – coi
suoi tecnici specializzati – lunghi lavori di pulitura della superficie esterna.
L’obelisco fu ricollocato nell’antica città santa di Axum e venne inaugurato – il 4 settembre 2008 –
dal nostro Sottosegretario agli Esteri Alfredo Màntica alla presenza di migliaia di etiopici festanti e
delle più alte Autorità di Addis Abeba.
Quanto care sono costate a noi, poveri italiani, le nostre Colonie !
Qui appresso presentiamo alcune foto d’epoca tratte dall’ Archivio storico della citata Soc.
Gondrand, nonché altre immagini pertinenti al tema.
Foto n. 54 = Il difficoltoso trasporto lungo le piste dell’ Etiopia .
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Foto n. 55 = Lo sbarco nel
porto di Napoli.
Foto n. 56 = I pezzi viaggiarono da Napoli a Roma su
appositi pianali delle FF.SS. e poi sempre le motrici della
Gondrand misero in posizione i pezzi a Piazza Capena.
Foto n. 57 = L’obelisco rimase per anni davanti alla FAO.
Foto n. 58 = Dal 2009 è tornato
in Etiopia ad Axum .
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LA CAPPELLA GONDRAND IN ERITREA.
Pur rischiando di cadere nella retorica, in questo paragrafo conclusivo desideriamo illustrare un
avvenimento che evidenzia come la “ vecchia” Gondrand ha sempre onorato la memoria dei propri
dipendenti Caduti sul campo. Già nel 1937 era stata edificata una Cappella dedicata a coloro – civili
o militarizzati – che avevano perso la vita in terra d’ Africa per malattia o per atti di guerra. Il primo
curatore fu l’Ispettore Cappellano della Milizia ( MVSN ) don Ulderico Salzano, ma in seguito i
religiosi addetti furono parecchi, fin quando esistette l’ AOI.
Oggi la Cappella si trova all’interno del Cimitero militare sito, a sua volta, dentro il Cimitero
Cristiano della capitale eritrea, in un terreno di proprietà comunale, ma con diritto d’uso da parte del
Governo italiano. Il Sepolcreto è suddiviso in sei riquadri e custodisce le spoglie di 778 nostri
connazionali di cui 6 Ignoti, deceduti dal 1890 al 1950. Appunto in questo stesso cimitero sono
sepolti anche altri italiani che, da civili o militarizzati, caddero in terra d’Africa per malattia o fatti
d’arme ; come nel Mausoleo dell’Agip, o – appunto – nella Cappella della Soc. Gondrand.
La manutenzione ordinaria è curata dall’ Ambasciata del nostro paese ad Asmara.
Ed è qui che si innesta la bella storia che vogliamo raccontarvi. Nel 2002 l’allora Ambasciatore
d’Italia ad Asmara, Emanuele Pignatelli ( n. a Bari 1944 – in atto Ambasciatore in Ecuador ) ,
segnalò alla Soc. Gondrand lo stato di deterioramento della Cappella e delle strutture interne ed il
valore storico- coloniale che tale sacrario possedeva. Infatti il tempo che scorreva e l’usura
climatica tropicale del posto avevano logorato soprattutto l’elemento strutturale esterno.
L’Ambasciatore si dichiarava disponibile a reperire in loco idonee ditte d’edilizia civile e di
restauro, cui la Gondrand – previ contatti diretti – potesse affidare i lavori di manutenzione
straordinaria. ( Vedasi lettera – documento n. 1 – qui appresso allegata e tratta dall’Archivio Storico
della citata Società ).
La Gondrand, allora con sede e Direzione a Vignate ( Milano ) – profondamente coinvolta nel
progetto – reperì pr0ontamente i fondi necessari, stipulò gli opportuni contratti e così si iniziarono i
lavori di restauro che si conclusero nell’ottobre del 2003. ( vedasi al riguardo altri due documenti n.
2-3 sotto presentati e sempre tratti dal menzionato Archivio ).
Per cui fu possibile organizzare da parte dell’Ambasciata la cerimonia di inaugurazione che venne
fissata in occasione della Giornata delle Forze Armate ( 4 novembre 2003 ) , alla presenza
dell’Ambasciatore medesimo, dell’ Addetto Militare dell’Ambasciata, di alti funzionari eritrei e dei
Dirigenti della Gondrand . ( Documento n.4).
Nelle pagine successive presentiamo i sopra citati documenti .
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Documento n.1
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Documento n. 2
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Documento n. 3
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Documento n. 4
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Foto nn. 1 - 2
Dalla serie di fotografie, tratte dall’ Archivio storico societario, vediamo – in sequenza – la
trasformazione dell’usurata chiesetta in una splendida rinnovata struttura.
Ecco nella prima foto n. 1 la visione iniziale dello stato d’avanzata usura all’esterno :Nelle foto nn.
2 e 3 intravediamo chiaramente che l’intonaco in più punti è sparito e che appaiono perfino i
mattoni della parete interna :
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Foto nn. 3- 4
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Le foto, poi, dal n. 3 al n.4 ci consentono di vedere come erano le pareti interne con targhe,
“ edicole “ e lapidi varie commemorative, compresa quella con sopra incisi i nomi di tutti i
dipendenti e dirigenti Caduti sul campo in terra d’Africa, che sono state tutte anch’esse restaurate da
personale specializzato .
Per cui, infine, nelle foto nn. 5 /10 possiamo passare alle immagini della cerimonia di inaugurazione
e di riconsacrazione della Cappella ristrutturata, della quale si può ammirare l’attuale rinnovato
splendore :
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Foto nn. 5 -6
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Foto nn. 7 - 8
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Foto nn. 9 - 10
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Con la benedizione della ristrutturata chiesetta, si è voluto onorare ancora una volta chi aveva negli
anni coloniali versato il proprio sangue nell’adempimento del dovere, non solo in Eritrea, ma
ovunque un dipendente della Società fosse caduto sul campo.
Onore ai lavoratori Gondrand caduti, onore a questi misconosciuti Eroi che portarono in terre
lontane la loro operosità, l’ingegnosità e la civiltà italiana !
BIBLIOGRAFIA
Pietro Badoglio
La guerra d’Etiopia
Edit. A. Mondadori, Milano 1938
Pierluigi R. di Colloredo
I pilastri del romano impero
Associazione Culturale Genova,
2009 ( acquistabile presso
Tuttostoria, Parma )
Stefano Cecini
La realizzazione delle rete
stradale in AOI
( vedi : w3.uniroma1.it/ )
Nicola La banca
Oltremare. Storia dell’espansionismo
coloniale italiano.
S.Zaninelli, P. Cafaro
ed R.Canetta
Storia della industria lombarda
Tiziana Baldacci
I trasporti nell’antico Egitto
Paolo Conti
Axum sogna il ritorno dell’obelisco
Il Mulino, Bologna, 2007
Cremona 1991
Gondrand – Milano
Corriere della Sera 27.7.2001
SITOGRAFIA
www.wikipedia.org/wiki
( voci varie )
www.italiasociale,net/lettere
www.gondrand-logistica,com/
www.gondrand.it/
www.treccani.it/Dizionario biografico
www.sezioneanaidimodena.it/Storia
www.africaorientaleitaliana/eu/eccidio%20foto/index/html
www.storiaxxisecolo.it/fascismo
www.pensierostorico.myblog.it/
www.miles.forumcommunity,net/
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DOCUMENTAZIONE ICONOGRAFICA .
Si premette che di tutte le immagini qui appresso non segnate, l’Autore ha il pieno possesso con
facoltà di utilizzo. Il gruppo di foto segnate come “ da Internet “ è ricavato da vari siti avanti
indicati in Sitografia ed utilizzato secondo il principio “ Licenza Creative Commons- Condividi allo
stesso modo “ che l’Autore si impegna a condividere pienamente :
Da Storia Ill. n.311 del 1983 = Mappa 1 e fig. 1/5 ;
da Internet = figg. 6/ 7 , 26/ 50 e 57/ 58 ;
da G.Zorzetto : Cartoline coloniali – Studioemme Editore – Vicenza : figg. 22 / 25 .
da Archivio Storico Gondrand : i documenti e le foto dei paragrafi finali dell’Appendice.
Terminato in Genova il 2 dicembre 2013
Stampato in proprio.
ALBERTO CAMINITI
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I N D I C E
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Argomento
Premessa - L’ Armata etiopica dello Scirè
Il cantiere di Mai Lahlà
Il dopo- eccidio
L’inchiesta
La versione Del Boca
Analisi critica del testo di Del Boca
Altre critiche storiche
Documentazione tematico – postale
L’opera della Gondrand in AOI
Vita quotidiana nell’autoparco della Gondrand
In viaggio verso Dessiè
In viaggio da Dessiè al fronte di Addis Abeba
In viaggio nel Senafè verso Gondar
La visita a sorpresa del Gen. Pirzio Biroli
Tembien e Lago Ascianghi - Vita religiosa al campo
Vita … militare
Monkullo
Stato del sistema stradale in AOI
Scene di vita locale
A casa in congedo
Stato delle fotografie
APPENDICE – Ras Immirù - Negus Ailè Selassiè
Allegato 1 = Testo Del Boca
“
2 = Trafiletto su La Stampa di Torino
“
3 = La Società Trasporti Gondrand
“
4 = Brevi cenni biografici su Pietro Mestroni
“
5 = Protesta alla Soc. delle Nazioni
La Gondrand in Africa - L’obelisco di Axum
La Cappella Gondrand in Eritrea
BIBLIOGRAFIA - SITOGRAFIA
Documentazione iconografica
INDICE
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