Prefazione

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Prefazione
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François e Sophie Rude
al Museo Vincenzo Vela
Una nota
La mostra che il Museo Vincenzo Vela dedica a François e Sophie Rude – con particolare accento sull’opera del celebre scultore – si inserisce nel novero delle esposizioni dedicate dal museo federale ad artisti di riconosciuta fama, attivi nel contesto
culturale europeo e americano del XIX secolo, all’interno del quale lo stesso
Vincenzo Vela fu protagonista indiscusso. Dopo Augustus St. Gaudens e Henry de
Triqueti, è ora la volta del francese François Rude – noto al vasto pubblico per il
rilievo monumentale della Marsigliese sull’Arco di Trionfo di Parigi e per il sorprendente Napoleone per il parco Noisot di Fixin –, al quale il musée des Beaux-Arts di
Digione ha dedicato negli scorsi mesi la prima ampia mostra antologica, che ha
riunito la maggior parte delle sue principali opere a fianco di quelle di sua moglie
Sophie Rude, pittrice raffinata e sensibile, sebbene finora sconosciuta al grande pubblico. Il museo d’arte del capoluogo borgognone e il Louvre, proprietario di alcuni
capolavori assoluti dell’artista, ci hanno coinvolti sin dalle prime battute del progetto, chiedendoci di riflettere su una possibile ripresa della mostra e sulla pertinenza
di tale scelta per la nostra istituzione, che dedica regolarmente spazio alla riflessione
sul rapporto tra linguaggio scultoreo e coinvolgimento pubblico nel secolo XIX.
Consapevoli dell’interesse di questa rassegna, curata da un comitato scientifico di
esperti e arricchita da un catalogo di ampio respiro, si è provveduto a selezionare un
nucleo di sculture che potessero illustrare al meglio l’articolato percorso artistico di
François Rude, di difficile definizione essendo l’artista sovente portato ad «adattare»
lo stile al soggetto. Se da un canto per questo fatto egli sfugge a una designazione univoca, dall’altro proprio in virtù di questa poliedricità egli ha saputo evitare irrigidimenti formali legati all’oramai esaurito neoclassicismo, ed aprirsi a ipotesi di rinnovamento dell’antico, ottenuto sia attraverso un naturalismo equilibrato – di cui
testimoniano il Giovane pescatore napoletano e l’ardito Mercurio (ill. 61 p. 79 e ill. 62
p. 81) – sia per mezzo di un romanticismo dalla forte tensione emotiva, di cui La
Marsigliese, con il suo Genio della Guerra infervorato e urlante, rappresenta il paradigma (ill. 82 p. 99 e ill. 94 p. 109).
Per motivi di conservazione, di fragilità o di taglia colossale, molte opere non hanno
purtroppo potuto viaggiare fino in Ticino; tanto più preziosa è la loro presenza,
almeno sotto forma di immagine, in questa prima monografia in lingua italiana dedicata al grande artista francese, che tanta importanza ebbe per le successive generazioni di scultori francesi – fra tutti citiamo Carpeaux, Rodin e Bourdelle – che traghettarono la scultura dal secolo delle celebrazioni alla stagione delle avanguardie.
Il raffronto puntuale con l’opera dello scultore ticinese Vincenzo Vela (1820-1891)
non è oggetto di questo catalogo, incentrato sull’opera dei coniugi François e Sophie
Rude. Si è tuttavia reputato interessante inserire nel volume un saggio che accostasse,
in un dialogo sulla forma e la fortuna critica, due opere tanto importanti quanto singolari che i due scultori dedicarono allo stesso soggetto, Napoleone I, declinato con
originalità e unicità a vent’anni di distanza l’una dall’altra. Se François Rude preferì
10
sottolineare la trascendenza del grand’uomo – motivato in questa scelta dalla committenza bonapartista privata – e privilegiò una scenografia avvincente e rasserenante al contempo (ill. 125 p. 145 e ill. 136 p. 155), Vincenzo Vela, fedele alla sua
interpretazione della storia intesa come sequenza di azioni compiute da personaggi
illustri, ne evidenziò il carattere immanente, incisivo per il destino d’Europa; sebbene
segnato dall’età e dalle sconfitte, il Napoleone dell’artista svizzero – una creazione
libera e senza commissione – resta per lui una figura ancora «presente», a quarantacinque anni dalla morte, con cui confrontarsi.
Nell’anno in cui veniva inaugurato il Napoleone di Fixin (1847), Vincenzo Vela si
metteva all’opera con il suo capolavoro giovanile, lo Spartaco (1847-50), la cui fortuna critica e il cui significato politico, e soprattutto simbolico, trovano una corrispondenza nella Marsigliese dell’Arco di Trionfo di Rude, inaugurata poco più di un
decennio prima (1836) nella capitale francese. La fama di quest’opera indubbiamente
varcò i confini nazionali e le Alpi. Vela, allora sedicenne, e da poco giunto a Milano,
stava dando prova di talento e di iniziativa all’Accademia di Brera. Non è da escludere che la novità e la modernità che caratterizzano l’altorilievo di Rude – in cui alle
fonti antiche veniva infuso un dinamismo straordinario, nella figura del Genio alato
ma anche nei soldati che incedono e si piegano sulle loro armi (ill. 82 p. 99) – abbia
a distanza di tempo influito sull’artista ticinese, il quale esaspererà ulteriormente le
potenzialità di questa rivoluzione formale nel suo schiavo ribelle, trasferendola dal
rilievo alla statua a tutto tondo, che ora si scaglia verso lo spettatore.
Sebbene siano evidenti e conosciute le diversità tra le sensibilità culturali e le urgenze
politiche dei contesti di riferimento in cui operarono i due scultori, e sebbene la
distanza generazionale metta a rischio un confronto troppo serrato, restano sorprendenti le affinità di percorso dei due celebrati artisti. Entrambi di umili origini,
beneficiarono dell’attenzione di amici o parenti che li stimolarono a sviluppare il loro
talento; entrambi ebbero inoltre la fortuna di avere al loro fianco una consorte intelligente, che nel caso di Sophie Rude fu anche un’artista di valore. Della pittrice sono
esposti in mostra alcuni ritratti raffinatissimi, un genere che la vide eccellere grazie
anche agli insegnamenti ricevuti da Jacques-Louis David durante l’esilio belga, e alla
sua ottima formazione iniziale a Digione. Sia Rude che Vela vennero esiliati a causa
delle loro propensioni politiche, ma entrambi si affermarono nei loro nuovi contesti
di riferimento (Rude a Bruxelles e a Parigi, Vela a Torino), ove vennero incaricati di
imprese ufficiali. L’uno e l’altro avvertirono l’urgenza di innovare la corrente neoclassica da cui provenivano i loro maestri, aprendosi al naturalismo (che in Rude si
innesta maggiormente sull’antico che in Vela), e alla ricerca di un realismo espressivo
ma non esasperato (più marcato in Vela, teorico del «vero»). Entrambi crearono un
Pantheon di glorie nazionali, composto da esponenti delle belle arti, della storia e dei
miti fondatori (Dante, Giotto, Correggio, Poussin, Jacques-Louis David, Giovanna
d’Arco, Guglielmo Tell, Luigi XIII, Garibaldi, Carlo Alberto, Murat, Vittorio
Emanuele II, Cavaignac…), mentre la preoccupazione per le giovani leve si tradusse
in un insegnamento ufficiale e accademico, nel caso di Vela, e all’interno dell’atelier
privato nel caso di Rude.
Se Vincenzo Vela ebbe la lungimiranza di creare un ambiente espositivo nel cuore
della sua residenza signorile costruita nella natia Ligornetto, ove allestì ancora in giovane età i suoi modelli in gesso in funzione di una sua celebrazione, François Rude
dovette attendere oltre novant’anni per vedersi consacrare a Digione uno spazio apposito – la cosiddetta Nef – ricavato nel transetto e nel coro dell’antica chiesa gotica di
Saint-Étienne, che raccoglie il calco secondo della Marsigliese. Ciò che accomuna
entrambi è però anche la difficoltà di farsi breccia nel grande pubblico, insofferente
alla retorica – presunta o reale che sia – di tanti monumenti ottocenteschi e distratto
pedone nel mezzo del traffico caratteristico dei capoluoghi europei, musei a cielo
11
aperto ove sono disseminati questi monumenti. Tanto più preziose ci sembrano pertanto essere queste occasioni di scambio tra istituzioni pubbliche, intenzionate a non
trascurare lo studio di una tipologia artistica difficile e fuori moda, ma imprescindibile per un’interpretazione della temperie politica e sociale dei nostri tempi.
In questo senso il nostro riconoscimento e la nostra gratitudine si estende a numerose
e numerosi colleghe e colleghi. Anzitutto alle ideatrici di questa mostra, che hanno
voluto condividere con noi e con il nostro pubblico la rivalutazione dell’opera di questa coppia di artisti. Mi riferisco a Sophie Jugie, direttrice del musée des Beaux-Arts
di Digione, e a Sophie Barthélémy, conservatrice presso lo stesso museo e responsabile del progetto, e con loro all’autorità comunale di Digione, che ha accolto positivamente la prospettiva di un’itineranza della mostra. Ringrazio anche gli altri membri del comitato scientifico – Catherine Gras, Matthieu Gilles, Wassili Joseph – che
hanno dimostrato una costante disponibilità nei confronti della nostra istituzione, e
tutti i collaboratori del museo borgognone, con i quali abbiamo lavorato negli scorsi
mesi, in modo particolare Virginie Barthélemy e Anne Camuset. Sono riconoscente
agli autori dei saggi per i loro interessanti contributi in catalogo e alle traduttrici per
l’ottima versione italiana. Ringrazio infine i miei collaboratori, che si sono prodigati,
tutti indistintamente, per la buona riuscita di questa esposizione. Cito con particolare
gratitudine Anita Guglielmetti per l’accorta regia redazionale del corposo catalogo
italiano e per il sostegno costante, e Alessia Bottaro, volonterosa e instancabile coredattrice, oltre a Lorenza Fattorini, coinvolta nelle prime fasi del progetto.
Gianna A. Mina
Direttrice del Museo Vincenzo Vela
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Prefazione
1
Rheims, 1984, p. 46.
2
Fourcaud, 1904, p. 120.
3
Lettera di Camille Claudel
a Eugène Blot, 1904, citata
in Paris, 2004, p. 539.
4
Calmette, 1920, p. 46.
5
Fourcaud, 1904, p. 230.
6
Le donne ebbero accesso
all’École des beaux-arts
solo dal 1897.
7
Perrault-Dabot, 1894,
p. 251.
«Rude! Il nome risuona come lo scalpello dello scultore sul blocco di granito.»1
L’atto creativo è spesso associato al genio solitario, eppure accade che alcuni artisti
scelgano di lavorare insieme o fianco a fianco, ponendo così la loro vita di coppia al
servizio dell’arte. È il caso di François e Sophie Rude, che furono sempre in «stretta
comunione di cuore e di spirito».2 Il loro rapporto, in cui all’affetto coniugale si sommavano stima e rispetto reciproci, era ben diverso da quello passionale e tormentato,
simbiotico e carico di rivalità, che legò più tardi Rodin a Camille Claudel.
Quest’ultima avrebbe constatato amaramente: «La scultura è un’arte disgraziata,
fatta più per i grandi barbuti che per una donna.»3 Nulla di simile tra i Rude, la cui
esistenza è, al confronto, armoniosa e serena. Sophie è una moglie riservata e discreta, come attestano le lettere in cui mette in luce il lavoro e i successi del marito,
ma anche una «donna di carattere»4 e un’artista a tutti gli effetti. È lei a sostenere lo
scultore nelle prove più dolorose della loro vita intima e professionale: «Come nei
primi tempi del matrimonio, egli vede in lei un essere di natura superiore che lo
ispira, lo protegge e che gli ha fatto l’immenso onore di unirsi a lui...»5
Lungi dal limitarsi, come fanno molte artiste della sua epoca, alla pittura di fiori o a
pastello, Sophie cerca di imporsi ben presto nel genere della pittura di storia, all’epoca
appannaggio maschile. Pur non potendo beneficiare di una formazione artistica ufficiale6, ha la fortuna di nascere in una famiglia aperta alle arti e di seguire le lezioni di
Anatole Devosge a Digione, e poi quelle di David a Bruxelles. Regolarmente insignita
di riconoscimenti, prende attivamente parte alla vita artistica e ai dibattiti del tempo
attraverso gli interrogativi estetici che determinano la sua evoluzione dal neoclassicismo al romanticismo.
Per quanto autonomi, i percorsi artistici di Sophie e François si sono spesso incrociati.
Entrambi formati dai Devosge, espongono agli stessi Salon, prima in Belgio poi a
Parigi. A Bruxelles, partecipano ai cantieri decorativi del padiglione reale di Tervueren
e della biblioteca del duca di Arenberg. Nella capitale belga hanno entrambi degli
allievi e una volta tornati a Parigi proseguono l’attività di insegnamento. Il tenero
affetto che li unisce si esprime attraverso i ritratti dipinti e scolpiti che realizzano
l’una dell’altro. Già nel corso della sua vita, tuttavia, Sophie viene messa in ombra
dal genio di François per la sua condizione di donna all’interno di una società discriminatoria e in quanto moglie del celebre scultore de La Marsigliese: «Madame
Rude si annullava di fronte al marito, per il quale professava l’ammirazione più viva
e una devozione senza limiti.»7
François Rude è infinitamente più famoso di sua moglie. All’indomani della sua
morte, un critico scriveva: «Come artista, Rude apparterrebbe a Vasari, ma come
uomo tenterebbe Plutarco.»8 La sua opera ci appassiona da quasi due secoli. A fine
Ottocento, egli è già un riferimento imprescindibile per i giovani scultori: «Rude è una
dottrina, un principio; ha intravisto la verità eterna dell’arte. È il blocco di granito su
cui si fondano ancora le speranze generose della nostra scuola, un colosso la cui sta-
13
8
Jean Rousseau,
L’Émancipation,
12 novembre 1856, citato
da Legrand, 1856,
pp. I e 124.
9
Gonse, 1895, p. 274.
10
Cfr. Leroy-Jay Lemaistre,
1982, p. 64, e Anne Pingeot,
in Paris, 1986, p. X.
11
Geiger, 2004.
12
Klewitz, 2009; pubblicazione
prevista nel 2013.
13
Feuillerat, 1989, seguito
da Feuillerat, 1990 sul
maresciallo Ney.
14
Pubblicata in Rouge-Ducos,
2008 [1].
15
Joseph, 2005.
tura sovrasta tutta la scultura moderna.»9 La partenza dei volontari del 1792 domina
tutta la sua produzione e ispira illustri successori quali Carpeaux, Dalou, Rodin o
Bourdelle, facendo di lui un araldo della Repubblica e uno dei pochi scultori ottocenteschi a non conoscere l’oblio nel secolo successivo.10 Molto spesso, tuttavia, questa straordinaria popolarità offusca il resto dell’opera. Gli amatori conoscono il
Giovane pescatore napoletano o Il maresciallo Ney, ma pochi sanno che Rude è
autore del Prometeo che anima le Arti della facciata del Palais Bourbon, e praticamente nessuno è al corrente delle opere che ha realizzato durante l’esilio brussellese.
Maestro del romanticismo, Rude è ricordato sia per le sue conoscenze dell’anatomia
e del movimento che per la capacità di trasporre nella materia le passioni umane; la
sua produzione neoclassica, frutto della formazione a Digione poi all’École impériale
des beaux-arts, è però ignorata. Quando, a partire dagli anni ’40 dell’Ottocento, Rude
si orienta verso un realismo più marcato, la sua attrattiva diminuisce. Nondimeno,
l’analisi della sua opera rivela una notevole uniformità di pensiero: essa è guidata
dalla costante volontà di comprendere la natura, suo unico modello. Il romanticismo
di Rude non è una rivoluzione, bensì una tappa della carriera che gli permette di formulare un’idea di scultura che si emancipa dal dogma accademico pur restando fedele
ai riferimenti del passato. Rude venerava l’arte antica e si riteneva il continuatore dell’opera di Puget o di Coysevox. Desiderava rinnovare la tradizione e creare una scultura fuori del tempo, capace di esprimere le aspirazioni degli uomini amanti della
libertà e dell’umanesimo.
Era dunque tempo che Digione organizzasse una grande retrospettiva su François e
Sophie Rude: l’ultima ampia mostra dedicata allo scultore, curata da Pierre Quarré,
ha infatti avuto luogo nella sua città natale nel 1955. È vero che le opere di Rude
conservate al Louvre sono state oggetto di una presentazione speciale nel 1979, come
è accaduto con quelle del musée des Beaux-Arts di Digione nel 1984, ma queste due
esposizioni non erano accompagnate da catalogo. Quanto a Sophie, non le è mai
stata dedicata una retrospettiva.
Il notevole ritorno di interesse che conosce oggi l’arte ottocentesca ha portato a un
profondo rinnovamento degli studi sui nostri due artisti. Poco dopo la pubblicazione
nel 2004 della prima monografia su Sophie Rude, frutto dei numerosi anni di ricerche effettuate da Monique Geiger11, la studiosa tedesca Vera Klewitz ha deciso di
incentrare la sua tesi sull’artista.12 Per quanto riguarda François, è stato naturalmente
il suo Arco di trionfo a suscitare in prima battuta l’interesse di Christophe Feuillerat
nel 198913, quindi di Isabelle Rouge-Ducos, che ha fatto del monumento l’argomento
della sua tesi all’École des chartes.14 Nel 2005, infine, Wassili Joseph ha analizzato la
fortuna critica dell’artista15, sviluppando poi una tesi sull’intero corpus di opere di
François Rude. È il risultato di tutte queste ricerche che ha permesso l’allestimento
della presente retrospettiva, dedicata a una delle coppie di artisti più interessanti, ma
paradossalmente anche meno noti, del XIX secolo.
I commissari della mostra
Sophie Jugie, Sophie Barthélémy, Matthieu Gilles, Catherine Gras, Wassili Joseph