fronte di un aumento del premio per il rischio di mercato, il premio

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fronte di un aumento del premio per il rischio di mercato, il premio
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COSA È SUCCESSO?
fronte di un aumento del premio per il rischio di mercato, il premio per il
rischio dei titoli aggressivi è cresciuto proporzionalmente di meno, mentre quello dei titoli difensivi è cresciuto proporzionalmente di più. In particolare è cresciuto il coefficiente beta dei titoli dei settori finanziari
(banche, assicurazioni e financials).
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GLI EFFETTI «ANOMALI» DELLA CRISI
Per cogliere quanto sia «spinosa» la problematica connessa all’uso fair value a
fini contabili in condizioni di mercati finanziari sotto stress può essere utile
seguire un esempio in grado di far emergere alcune conseguenze paradossali.
Come è noto i prezzi non coincidono con i valori intrinseci o fondamentali,
anche se in mercati efficienti i prezzi e i valori tendono a convergere nel
medio/lungo termine. Il fair value dei principi contabili è una configurazione di prezzo e non di valore, contrariamente a quanto l’infelice denominazione prescelta dallo standard setter internazionale lascerebbe presumere.
In effetti lo standard setter avrebbe dovuto adottare la denominazione fair
market price, ma per evitare di ingenerare confusione rispetto ai principi contabili americani ha scelto di usare la stessa denominazione prevista dagli US
Gaap che, a sua volta, fu scelta dal FASB per evitare confusione rispetto al termine «fair market value» utilizzato dall’amministrazione fiscale statunitense
(IRS) per definire una configurazione di prezzo diversa da quella identificata
da FASB e IASB.
Nel breve termine la differenza fra prezzi e valori può essere anche rilevante e
quindi la rappresentazione contabile fondata sul fair value fornisce una
rappresentazione particolare delle attività di bilancio che coincide con il
controvalore realizzabile in ipotesi di immediata cessione delle attività
stesse sul mercato e non è mai una misurazione del valore intrinseco delle
attività. Questa «distorsione» è voluta dallo standard setter per il semplice
fatto che i prezzi – quantomeno per le attività negoziate in mercati attivi –
sono quantità oggettive e ciò accresce la affidabilità e la comparabilità dell’informazione contabile rispetto a quella fondata su quantità meramente stimate
quali sarebbero i valori intrinseci11. Poiché tuttavia i soggetti economici nelle
scelte di investimento e di disinvestimento che non siano legate a esigenze di
trading a breve termine compiono le loro decisioni sulla base dei valori intrin-
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11 I profili qualitativi dell’informazione contabile sono rappresentati da: (i) l’affidabilità; (ii) la comparabilità;
(iii) la rilevanza economica dell’informazione stessa.
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seci , prima ancora che sui prezzi12, può accadere che in presenza di rilevanti
differenze fra prezzi e valori la rappresentazione contabile finisca con il
distorcere la sostanza economica delle decisioni aziendali, con ciò sacrificando la rilevanza economica dell’informazione contabile.
In particolare quando i prezzi che si formano sul mercato finanziario sono
significativamente inferiori ai valori intrinseci o fondamentali si creano occasioni per aggregazioni aziendali regolate «carta contro carta».
Convenzionalmente i principi contabili richiedono che le business combinations
siano contabilizzate sulla base del fair value delle azioni consegnate dall’acquirente alla data di acquisizione di controllo delle attività dell’entità acquisita.
Se l’acquirente è un soggetto quotato il controvalore della price consideration è calcolato sulla base della quotazione registrata dal titolo il giorno
di assunzione del controllo. Tuttavia questo è un prezzo convenzionale che
difficilmente coincide con quello definito dalle parti. Con tutta probabilità
il numero di azioni da consegnare al venditore è definito dalle parti sulla base
dei valori intrinseci delle azioni dell’acquirente e del venditore. Ma qui nascono i problemi di rappresentazione contabile. Vediamo perché.
Si supponga che un’entità quotata acquisti un’entità non quotata. Si ipotizzi
altresì che l’acquisto sia regolata carta contro carta e che il numero di azioni
dell’acquirente da consegnare al venditore sia stabilito in 100. Alla data di
acquisizione del controllo la quotazione di borsa delle azioni dell’acquirente è
pari a un euro così che la price consideration a fini contabili è pari a 100 euro
(corrispondenti a n. 100 azioni al prezzo di 1 euro cadauna). Si immagini che
nel corso degli ultimi 12 mesi il titolo dell’acquirente abbia subito una flessione del 50%: una situazione medio normale rappresentativa dei titoli quotati sul
nostro listino nel corso del 2008. La quotazione dodici mesi prima era dunque
pari a 2 euro. Si ipotizzi infine che tale flessione si sia realizzata in assenza di
elementi in grado di fare ritenere sostanzialmente modificato il modello di
business dell’acquisita e dunque in grado di intaccare il suo valore fondamentale (che supponiamo potrebbe ragionevolmente essere stimato in 1,8 euro per
azione).
Le parti – consapevoli del fatto che i prezzi di borsa non esprimono il valore
fondamentale delle azioni dell’acquirente – dopo aver negoziato il prezzo di
acquisto delle attività nette dell’entità acquisita (in 180 euro) hanno preso a
riferimento il valore fondamentale delle azioni dell’acquirente e non la quotazione di borsa per stabilire il numero di azioni da consegnare (180 euro/1,8 =
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È nota l’efficace affermazione di Warren Buffet secondo cui per un fundamental investor: «Il prezzo è ciò che
paghi, il valore è ciò che ottieni».
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n. 100 azioni). Dunque il «vero» prezzo del deal è pari a 180 euro (= n. 100
azioni x 1,8 euro cadauna), ma la contabilità rileva un prezzo convenzionale
«oggettivo» significativamente inferiore (100 euro).
La conseguenza di ciò è che in sede di PPA-Purchase Price Allocation ai sensi
dell’IFRS 3 (Business Combinations), ovvero in sede di identificazione del
fair value delle attività nette acquisite, può facilmente accadere che il fair
value complessivo delle attività nette acquisite risulti superiore al prezzo
«convenzionale» di acquisto da parte della impresa acquirente, con l’evidenziazione di un goodwill negativo. Supponiamo che nel nostro esempio il
fair value delle attività nette acquisite sia stimabile in 150 euro segno che le
parti nella fissazione del «vero» prezzo hanno implicitamente riconosciuto un
goodwill (positivo) dell’entità acquisita pari a 30 euro (= «vero» prezzo – fair
value delle attività nette acquisite = 180 – 150 = 30). La rappresentazione contabile sarebbe tuttavia ben diversa. La contabilità infatti finirebbe per evidenziare un goodwill negativo pari a 50 (= prezzo convenzionale – fair value delle
attività nette acquiste = 100 – 150 = –50). Come è noto i principi contabili
internazionali non consentono di iscrivere in stato patrimoniale goodwill negativo considerandolo un guadagno connesso a una acquisizione a prezzi vantaggiosi e dunque obbligano a rilevarlo in conto economico come componente
positiva di reddito. L’effetto contabile «anomalo» sarebbe costituito nel nostro
caso dalla rilevazione in conto economico di un guadagno da bargain purchase
del tutto fittizio e dalla rilevazione in stato patrimoniale di un controvalore di
attività nette pari a 150 euro anziché di 180 euro (giacché non si può avere
contabilmente un bargain purchase e contemporaneamente goodwill). In breve,
prezzi di borsa significativamente inferiori al valore fondamentale delle azioni
con le quali è regolato l’acquisto fanno apparire la transazione come un bargain purchase, quando invece la sostanza economica del deal è completamente diversa.
Si potrà sostenere che il fair value è un valore convenzionale e non esprime il
true value dei titoli: per questa ragione, così come in fasi di mercato sopravalutato le business combination realizzate per carta comportano una sovra rappresentazione del goodwill iscritto in bilancio, nelle fasi di mercato sottovalutato le stesse business combination comportano una sottorappresentazione del goodwill. È questa un’argomentazione corretta, ma che non consente di cogliere la dimensione del problema in un contesto di crisi di mercati
finanziari. Di qui l’interrogativo: fino a che punto è accettabile una sottorappresentazione del goodwill?. Nell’esempio riportato la sottovalutazione è
tale da far emergere una componente positiva di reddito pari a un terzo del fair
value delle attività nette acquisite. L’informazione che si veicolerebbe ai
fruitori di bilancio sarebbe quella di aver realizzato uno straordinario affa49
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re che tuttavia nella sostanza non c’è stato. È quindi legittimo chiedersi se
la presunzione che la quotazione del titolo sia la migliore evidenza di fair value,
in condizioni di mercati finanziari palesemente sotto stress, non finisca con il
distorcere sino a snaturare la rappresentazione della sostanza dell’operazione
di aggregazione aziendale.
Il principio contabile IFRS 3 (Business Combination) chiarisce che al di fuori di
circostanze negoziali particolari che vedano il venditore costretto a cedere la
partecipazione, è difficile che due soggetti indipendenti e razionali con eguale conoscenza del business possano negoziare prezzi in grado di far emergere
goodwill negativo (IFRS 3.BC381). Il principio sottolinea come di fuori di contesti di vendita forzata, il goodwill negativo sia da ritenersi solo apparente in
quanto riconducibile (IFRS 3. BC 373):
a) a errori di misurazione: (i) della price consideration; (ii) delle attività acquisite; (iii) delle passività assunte;
b) all’utilizzo di misure che non esprimono il fair value ai sensi IAS/IFRS.
Al fine di evitare, dunque, una distorta rappresentazione della sostanza dell’operazione sarebbero in linea di principio percorribili due strade:
a) riconoscere che la quotazione del titolo alla data di acquisizione del
controllo non coincide con il suo fair value. Infatti solo utilizzando un fair
value stimato, corrispondente al valore intrinseco delle azioni dell’acquirente come riconosciuto dalle parti nella sottoscrizione del deal, si potrebbe
rappresentare la business combination in forma sostanzialmente corretta.
Infatti a un prezzo di acquisto 180 euro la transazione farebbe emergere un
goodwill positivo pari a 30 euro e il fair value delle attività nette acquisite
per 150 euro;
b) rappresentare il fair value delle attività nette acquisite per un importo
non superiore a 100 euro, corrispondente al controvalore della price
consideration calcolato sulla base della quotazione corrente dell’entità
acquirente. Ciò sulla base della considerazione che gli stessi fattori che sul
mercato azionario deprimono particolarmente il prezzo di borsa delle azioni
dell’acquirente, sarebbero destinati a trasferirsi anche sul mercato dei beni
reali e quindi sul fair value delle attività nette dell’acquisita. Tuttavia come
si è rilevato nei paragrafi precedenti la flessione dei titoli azionari è riconducibile all’esigenza degli investitori di dismettere le attività finanziarie in
portafoglio, per far fronte a riscatti, a rimborsi di debito, a reintegri di margini di garanzia, ecc. Applicare uno sconto di ridotta marketability nella
stima del fair value di attività reali, oltre a rappresentare una prassi valutativa molto arbitraria, porterebbe a una rappresentazione non corretta. Il
venditore non avrebbe mai accettato di cedere a un prezzo cash di 100 euro
le proprie attività nette, essendo il loro valore in assenza dell’applicazione
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di uno sconto di ridotta marketability pari a 150 euro. Il venditore ha invece accettato di acquisire una partecipazione qualificata nella nuova entità
in quanto ritiene che il valore intrinseco o fondamentale della stessa sia
significativamente superiore alla capitalizzazione di borsa. Ed in effetti a
transazione avvenuta il venditore – che non è un trader – non ha nessuna
intenzione di cedere le azioni ricevute in contropartita della vendita.
Il problema connesso alla soluzione sub a) è legato al fatto che il principio
contabile IFRS 3 mentre in appendice A definisce il fair value come: «il corrispettivo al quale un’attività potrebbe essere scambiata o una passività estinta
in una libera transazione fra parti consapevoli e disponibili» e dunque ne fornisce una definizione abbastanza ampia da non obbligare all’utilizzo del prezzo di borsa nella stima della price consideration, nelle basis for conclusion al
paragrafo BC246 chiarisce che la definizione di fair value dell’IFRS coincide con
quella dello IAS 39. Lo IAS 39 al paragrafo 48A chiarisce a sua volta che:
«la migliore evidenza di fair value è la quotazione di borsa in un mercato
attivo».
Il problema connesso alla soluzione sub b) è legato al fatto che il principio
contabile IAS 39 al paragrafo AG 69 chiarisce altresì che il fair value non è il
prezzo che l’acquirente riceverebbe o che l’acquirente pagherebbe in una vendita forzata o per effetto della liquidazione (parziale o totale) dell’attività. Per
questa ragione non sembrerebbe plausibile applicare uno sconto per mancanza
di marketability alle attività nette acquisite.
Un’interpretazione letterale del principio contabile porterebbe dunque
alla paradossale situazione di dover evidenziare goodwill negativo, con la
conseguenza di evidenziare utili apparenti e di sottorappresentare il prezzo di acquisto. Ciò mentre un’interpretazione sostanziale dell’operazione
porterebbe a una rappresentazione contabile completamente differente. Di
qui il problema: può il meta-principio della prevalenza della sostanza sulla
forma essere invocato per impedire una rappresentazione contabile in
grado di distorcere la sostanza economica dell’operazione di aggregazione
aziendale? La risposta a questo interrogativo è anche la chiave attraverso
la quale individuare la più corretta via per realizzare l’impairment test in
condizioni di stress dei mercati finanziari.
Da qui occorre dunque partire.
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