Vita e Destino. Il romanzo della libertà.
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Vita e Destino. Il romanzo della libertà.
Vita e Destino. Il romanzo della libertà. Presentazione del libro “Vita e destino” di Vasilij Grossman Giovedì 2 febbraio 2012 Chiesa di Sant'Angelo al Nilo - Piazzetta Nilo Napoli Interviene: Giovanni Maddalena, Professore di Filosofia teoretica presso l’Università del Molise e fondatore del Centro Studi Vasilij Grossmann. Modera: Luigia Guariglia, presidente del Centro Culturale Neapolis. Questa sera, insieme al nostro amico Giovanni Maddalena, potremo vivere l’esperienza di una scoperta. Siamo qui per la presentazione di “Vita e destino”. Quando l’ho letto, l’estate scorsa, lo dicevo a Giovanni, sono rimasta folgorata da questo romanzo. Giovanni Maddalena è professore di filosofia teoretica presso l’Università del Molise ed è uno dei fondatori del “Centro Studi Vasilij Grossman” di Torino. Ti chiedo innanzitutto di descriverci cosa racconta il romanzo. Il romanzo “Vita e destino”, più precisamente, la seconda parte di quest’opera colossale, doveva descrivere, secondo Grossman, la battaglia di Stalingrado. Il centro della storia, dal punto di vista narrativo, è la battaglia di Stalingrado e le vicende di una famiglia molto composita, con tante ramificazioni, durante la battaglia. “Vita e destino” è la seconda parte del romanzo e c’è una prima parte intitolata “Per una giusta causa” , che non è mai stata tradotta in italiano, ma esiste in russo e francese. Grossman ha cominciato a pensare a questa dilogia, quest’opera in due parti, subito dopo la fine della guerra. Perché? Cosa c’era stato di così speciale nella battaglia di Stalingrado? Che cosa c’era stato di così speciale per Grossman? La battaglia di Stalingrado è stato il momento in cui i due totalitarismi, quello nazista e quello comunista, si sono affrontati in una battaglia mortale. È stato chiaro che la seconda guerra mondiale e il destino del nazismo si sarebbero decisi a Stalingrado. È stato uno scontro effettivamente epico, che meritava, secondo Grossman, una narrazione epica. Il numero dei sovietici morti durante la seconda guerra mondiale non è calcolato, ci sono stime che variano dai dodici ai trenta milioni, quindi più o meno un morto in ogni famiglia. In quella battaglia, l’Unione Sovietica ha impiegato tutte le sue forze, ha riscattato addirittura tutti i suoi nemici, facendo uscire dai gulag tutti, perfino i cattolici, creando anche un battaglione di cattolici ucraini, come Grossman. È stata la grande battaglia dell’Unione Sovietica, non a caso chiamata da Stalin stesso “la grande guerra patriottica” e, ancora oggi, Putin ha rispolverato questo nome. Ad un certo punto, per tutti i russi e gli abitanti delle repubbliche sovietiche, si è trattato della battaglia della vita. Dunque c’è stata una circostanza storica fondamentale, decisiva. In più, per Grossman, personalmente, è stato un momento particolare, perchè era un personaggio particolare, era uno scrittore, era abbastanza arrivista, soprattutto da giovane, faceva di tutto per la sua carriera, aveva fatto di tutto per entrare in quella “intelligencija” sovietica e c’era riuscito. Era uno scrittore affermato. Essere uno scrittore affermato in Unione Sovietica, all’epoca voleva dire far parte di un ristretto circolo di potenti: potenti significava avere un appartamento proprio, andare in vacanza, avere ogni genere di conforto. Grossman soprattutto si sentiva scrittore, anche se aveva fatto studi di ingegneria, e ad un certo punto aveva dato tutto per diventare uno scrittore sovietico importante e lo era diventato anche molto giovane. Per far questo però aveva dovuto, come tutti, chiudere gli occhi su tante cose. Era ucraino ed aveva dovuto chiudere gli occhi sulla grande carestia generata dal potere sovietico nel ’32, che causò milioni di morti, di cui sei milioni solo ucraini. Aveva dovuto chiudere gli occhi sulle purghe del ’37 e su molti altri avvenimenti, però, nonostante questo, è sempre stato una persona molto leale, anche con se stesso, anche molto duro con se stesso. Aveva chiuso gli occhi, ma sapeva quello che faceva, quindi sapeva che stava mentendo. Quando è arrivata la guerra gli è sembrato che fosse il grande riscatto. Era vero che il sistema comunista aveva generato cose mostruose fino ad all’ora, ne era consapevole, però adesso c’era da battersi “per una giusta causa”: la prima parte del romanzo si chiama così. “Ci battiamo per una giusta causa!”era la frase pronunciata da Molotov quando aveva dichiarato guerra alla Germania. La lotta al nazismo è sembrata a Grossman la giusta causa della vita, ed è sembrata così a tutti gli abitanti dell’Unione Sovietica. In più a Grossman è sembrata doppiamente una giusta causa perché nel ’41, ad invasione appena cominciata, i tedeschi sono avanzati in poche settimane, invadendo l’Ucraina, e la mamma dello scrittore è stata uccisa dalle truppe speciali dell’esercito tedesco in quanto ebrea. Questo, per Grossman, è stato causa di enorme sofferenza. Come il libro attesta, il vero sguardo che un uomo si porta addosso è lo sguardo di sua madre, l’unico punto in cui l’uomo si sente guardato davvero è da sua madre o da quel genere di amore. Grossman poi si è arruolato volontario ed è diventato molto famoso perché scriveva dal fronte e, a differenza di tutti gli altri, scriveva dal fronte sul serio, perché lui a Stalingrado c’è stato! Stalingrado è divisa dal Volga, c’è una riva destra e una sinistra, e la battaglia si svolgeva nel centro della città che è a destra del fiume, mentre i dirigenti di partito, la maggior parte dei graduati dell’esercito, tutti i giornalisti, stavano sulla riva sinistra al sicuro. Grossman invece è andato nel mezzo della città, che è diventata il teatro di una battaglia tra qualche milione di tedeschi contro qualche milione di soldati sovietici. È stata una battaglia senza quartiere, casa per casa, piano per piano: in tante pagine del romanzo ci sono i tedeschi ad un piano, i russi all’altro, ancora i tedeschi all’altro. È stata una battaglia vera e Grossman è diventato famosissimo perché scriveva quello che vedeva, questo è stato il suo intento, sempre, in questo romanzo. L’ha sempre detto: << Io voglio scrivere quello che ho visto! >>. Tuttavia, quando si è arrivati alla pubblicazione, la prima parte del libro, bellissima, ha finito per essere condizionata da una filosofia della storia, sovietica, dunque è un libro di regime. Successivamente, invece, per tanti motivi personali, Grossman si è stufato di accettare qualunque tipo di verità di regime e ha scritto la seconda parte:“Vita e destino”. È un altro libro, non esiste più la filosofia della storia marxista, non esiste più nulla se non la descrizione viva dell’umanità. La prima parte,“Per una giusta causa”, parla dei preparativi della battaglia e dell’invasione di Stalingrado. Quando si apre “Vita e destino” si incontrano molti personaggi “a metà”, perché già introdotti prima, per cui bisogna compiere un lavoro tecnico per capire le dinamiche e i legami familiari, che risultano sempre difficili al lettore. Per questa ragione sul sito del “Centro Studi Vasilij Grossman” di Torino abbiamo pubblicato l’elenco dei personaggi in ordine cronologico ed alfabetico. La seconda parte del romanzo, quindi, parla della seconda parte della battaglia, del momento più crudo, in cui i tedeschi stanno vincendo, e poi del famoso contrattacco a tenaglia, in cui sono rimasti vittime gli italiani, quando l’esercito sovietico ha sfondato le linee tedesche, italiane e rumene, a nord e a sud di Stalingrado, una città accerchiata, Grossman descrive anche questo. Una delle grandi bellezze del romanzo è che l’uomo è sempre l’uomo. L’autore descrive i sovietici quando perdono e i sovietici quando vincono, e anche i nazisti quando vincono e i nazisti quando perdono. La cosa bellissima secondo me, è che mostra che l’uomo è sempre uguale, soprattutto quando perde, perché quando perde, soprattutto quando si trova in un regime totalitario, e la morsa di questo si allenta perché sta perdendo, viene fuori quello che uno è, senza ideologia. Senza ideologia gli uomini sono uguali, nel senso che hanno una radice, quella che forse le mamme guardano, una radice di bene e di vita che è sempre la stessa. Questo romanzo racconta del rapporto tra l’uomo e il potere, tra quello che l’uomo è veramente e il potere che è sempre ideologia. Infatti “Vita e destino” è, di per sé, una opposizione: dovrebbe essere “Vita o destino”, perché per Grossman “destino” è quello che noi tradurremmo meglio con “fato”. Egli vuole dire che destino è quello che lo stato decide per te, che il potere ha deciso per te, che l’ideologia ha deciso per te. La “vita” invece è tutto ciò che è singolare, unico, irripetibile, non uniformabile, quindi: o l’uno, o l’altra. Questa opposizione è presente solo in questa parte dell’opera, non nella prima. Questo anticipa anche la seconda domanda che volevo porti. Il primo libro è stato pubblicato, il secondo invece no, tant’è che il ministro sovietico della cultura aveva detto all’autore: << Lo pubblicheremo tra 250 anni! >>. Perché? Cos’ha di così terrificante questo libro da spaventare il regime? Vi leggo le parole esatte di questo plenipotenziario della cultura, perché c’è anche un’altra storia, oltre quella così avvincente del romanzo, avvincente perché è un bellissimo romanzo di guerra. Grossman voleva imitare Tolstoj, addirittura quando gli hanno chiesto quale fosse il suo modello, ha risposto: “Guerra e pace”. Voleva scrivere il “Guerra e pace” del Novecento. In realtà, come diceva un critico russo, suo amico: “Voleva fare il Tolstoj, ma alla fine scriveva come Čechov e pensava come Dostoevskij”. Tolstoj non gli è riuscito, tuttavia gli è riuscita, secondo me una cosa più interessante. Dentro questa storia c’è anche quella del libro medesimo, perché l’autore ha pubblicato la prima parte del romanzo subendo tantissime critiche e tantissima censura, quando Stalin era ancora vivo. Finché Stalin è stato in vita non glielo hanno pubblicato, soprattutto per il fatto che era appena cominciata la grande persecuzione antisemitica dell’Unione Sovietica, sotto lo stesso Stalin, all’inizio degli anni Cinquanta; alla sua morte poi il libro è uscito con grande successo e con grandissime critiche. Una delle critiche mossa a Grossman era di essere ebreo. Quindi, durante gli anni Cinquanta, scrive “Vita e destino” e poi, per misteriose ragioni, su cui gli studiosi ancora dibattono, presenta l’opera, sapendo benissimo che è un libro che dice cose difficili da digerire per un sistema totalitario. Consegna il libro ad una rivista, questa subito denuncia l’autore al KGB che fa irruzione a casa sua prendendo tutto, manoscritto, bobine, e lo stesso Grossman che dopo dieci ore di interrogatorio viene rimandato a casa. Allora Grossmann, privo del libro sul quale aveva lavorato per circa dieci anni, scrive a Krusciov, presidente dell’unione sovietica, perché questi era stato il comandante in capo del fronte di Stalingrado, infatti gli parla da commilitone e gli dice: << Lo sa anche lei, ho scritto solo la verità, ho scritto solo quello che ho visto, lei c’era, sa benissimo che non sto dicendo neanche una parola falsa >>. Allora Krusciov lo fa ricevere da Suslov, una specie di plenipotenziario della cultura, che gli dice: << Il suo lavoro è pericoloso per il popolo sovietico, non dobbiamo sottostimare il male che la pubblicazione del libro produrrebbe. Per quale motivo dovremmo aggiungere il vostro libro alle bombe atomiche che i nostri nemici si apprestano a lanciare contro di noi? Il suo libro è di gran lunga più pericoloso, per noi, del Dottor Živago. Come potremmo noi avere trionfato nella guerra con il tipo di persone che lei descrive? Nel suo libro lei si esprime benevolmente nei confronti della religione, di Dio, del Cattolicesimo. Lei difende Trotsky, lei stesso esprime seri dubbi circa il nostro sistema sovietico. Il suo libro potrà vedere la luce tra 250 anni! >>. Cosa c’era di pericoloso? Di pericoloso c’erano le cose che Suslov gli aveva detto: le aveva dette bene, erano stati “bravi” gli uomini del KGB, avevano detto delle cose difficili da notare. Tuttavia, c'erano delle cose più esteriori e altre più interiori. Esteriormente Grossman diceva due o tre cose che proprio non andavano dette. La prima è che a Stalingrado i soldati avevano vinto perché il partito li aveva abbandonati: cioè i soldati a Stalin grado si erano battuti in nome della patria russa, non di quella sovietica. Si erano battuti benissimo perché il partito codardamente era fuggito sull'altra riva. Quindi Grossman diceva che il partito non aveva vinto. Poi diceva che la famosa manovra a tenaglia non era poi una mossa così intelligente, ma semplicemente la cosa più istintiva che viene da fare ad un uomo, accerchiare il nemico. Raccontava di cose molto sgradevoli, dei gulag, ne raccontava a lungo. Poi diceva di altre verità scomode, come del fatto che a Stalingrado avevano combattuto tanti battaglioni di punizione, detenuti dei gulag a cui avevano detto: << Vi uccidiamo subito o andate a morire a Stalingrado? >>. Erano tutte verità che non si dovevano dire. C'è una scena famosa di "Vita e destino" in cui si confrontano, in un lager nazista, il direttore del lager con uno dei vecchi rivoluzionari, che si chiama Mostovskoj. Questo direttore delle S.S., un po' intellettuale, dice al vecchio rivoluzionario: << Perché ce l'ha con noi? Siamo identici. Noi siamo come uno specchio, perché il nostro capo e il vostro capo hanno pensato la stessa cosa, cioè che non serve a nulla la democrazia e che l'unica cosa che serve è una ideologia incarnata. L'unico principio del capo e la statalizzazione assoluta. I due sistemi sono assolutamente uguali >>. Questa era una verità storica molto scomoda, poi dice una verità privata che è altrettanto scomoda: il fatto che l'uomo singolo non deve niente allo Stato, non è riducibile in nessun modo alla società nella quale si trova. Questa dal punto di vista del marxista è una verità che noi diremmo liberale. Io infatti dico sempre che Grossman è un liberale esistenzialista. Il dire che l'uomo singolo non deve nulla alla società, che ha un punto di sè assolutamente irriducibile alla società, alla storia, un punto che è fatto per dire la verità, ovviamente faceva molto scalpore. Leggo un passo che fa capire un po' come la pensa Grossman: narra dei soldati russi che quando riconquistano Stalingrado, per la prima volta, dopo mesi e mesi di battaglia, ascoltano il silenzio, non c'era stato più silenzio per sei mesi. "Era calato il silenzio, aveva i suoi rumori quel silenzio, rumori silenziosi, e sembrava aver generato una quantità di suoni nuovi, e strani anch'essi: tintinnare di coltelli, frusciare di pagine, cigolio di assi e di piedi scalzi contro il pavimento, lo scatto della sicura di una pistola, il ticchettio dell'orologio sul muro del bunker. Erano i più begli attimi di silenzio della loro vita. In quegli attimi provarono sentimenti solo umani, nessuno di loro in seguito avrebbe saputo spiegare la ragione di tanta felicità è tristezza, di tanto amore e tanta rassegnazione. La verità è una, una sola, non due. Vivere senza verità, o con qualche briciola, qualche suo frammento, qualche verità tosata o potata, è difficile, perché un pezzo di verità non è più verità, e in quella notte di verità splendida e silenziosa, si meritavano di averla tutta nel cuore la verità, tutta quanta”. Don Luigi Giussani durante un incontro pubblico ha detto quella frase che poi abbiamo riportato anche sul nostro invito: <<… Alla fine di un testo del genere, uno capisce, o meglio, sente cos'è la persona: non capisce cos'è, ma la sente; non capisce cos'è la libertà, ma la sente...>>. Cosa significano per te queste parole di Don Giussani? Innanzitutto c'è una storia da raccontare che lega Don Giussani a Grossman. Prima dicevamo che il manoscritto era stato sequestrato. Grossman è morto nel 1964 senza aver visto pubblicato il suo libro, senza avere nessuna speranza di vederlo pubblicato. L'unico residuo di speranza, consisteva nel fatto che l'autore aveva conservato due copie del libro prima di consegnarlo alla rivista. Una copia l'aveva data ad un suo compagno delle elementari, il quale l'aveva conservata in cantina. Questi purtroppo è stato poi investito da una macchina e la copia del libro è rimasta in cantina fino al 1989, quando sua moglie, caduto il regime, l'ha resa pubblica. L'altra copia l'aveva data ad un suo amico poeta, che l’ha data ad un altro amico, che l'ha data ad un altro, e così via sino a che non è arrivata ai Sacharov, famiglia del celebre premio Nobel. I Sacharov hanno fotografato il manoscritto, nella vasca da bagno, e ne hanno fatto un microfilm che nel 1978 è stato contrabbandato nell'Europa occidentale. Non ha trovato nessun editore, cosa che possiamo dire vergognosa per tutti i nostri editori, finché non l'ha trovato un serbo, Dimitrijevic, anch'egli fuggito da un regime, che l'ha pubblicato in francese. Ha avuto un piccolo successo in francese, presso una ristretta cerchia di intellettuali molto importanti, fra cui il famoso filosofo Lévinas. In Italia l’ha pubblicato Jaca Book nel 1984 e Don Giussani è stato sicuramente la persona che in Italia ha fatto più pubblicità a questo libro, perché ne ha parlato, da allora, in tutti corsi che ha tenuto presso l’Università Cattolica di Milano, e anche in tanti incontri pubblici. Per questa ragione c'è grande gratitudine, anche dal punto di vista culturale, nei confronti di Don Giussani. Dalla frase di Don Giussani che abbiamo citato, ciò che capisco, è che, effettivamente, quello che uno prova leggendo il libro, non è tanto una concettualizzazione filosofica. Grossman non ha una concettualizzazione filosofica, non è per niente un filosofo: addirittura nel mezzo del romanzo compare una figura classica della letteratura russa, uno che è un po’ pazzo, un “pazzo di Dio”, jurodivij, rinchiuso in un lager nazista, dove scrive un manoscritto, che altri leggono, che contiene la condanna di ogni teoria. L’idea di Grossman, dal punto di vista concettuale, è che qualsiasi teoria è male, perché qualsiasi cosa, quando diventa una teoria, diventa cattiva, perfino il cristianesimo. Una volta che uno comincia a parlare del bene in generale diventa sicuramente cattivo, perché poi, per il bene generale, si commettono delle violenze. Grossman, invece, crede in “gesti di bontà insensata”: questa è la sua famosa formulazione. Si riferisce a gesti singoli non motivati, addirittura irrazionali, ce ne sono tanti in “Vita e destino”, bellissimi: ad esempio, lo stesso Ikonnikov, il “pazzo di Dio” che ho citato, quando gli chiedono di collaborare alla costruzione di una camera a gas, si rifiuta e si ritrova insieme a tutti gli altri prigionieri, di nazionalità varia, e dice: << Io mi rifiuto di far questo, perché sono un uomo, quindi non mi possono obbligare, io non parteciperò alla costruzione di qualcosa di cattivo! >>. Tutti gli altri prigionieri, soprattutto quelli di ortodossia marxista, gli spiegano che invece bisogna farlo, perché c’è una teoria: il male a volte è necessario per il bene, poi alla fine tutto tornerà a posto; non c’è nessuna responsabilità nel partecipare ad una cosa alla quale si viene obbligati. Nel mezzo di questa scena arriva un altro recluso, un prete italiano. I prigionieri, marxisti ortodossi, cominciano a prenderlo in giro, invitandolo a far la predica a quella pecorella smarrita, che non capisce che non c’è colpa quando si è obbligati. Ikonnikov risponde solo dicendo al prete: << Mio padre! >>. Allora Padre Guardi, questo sacerdote italiano, gli prende le mani e le bacia. Ci son tanti gesti così in “Vita e destino”. Ci sono gesti di donne russe che vorrebbero uccidere il soldato tedesco, una volta che è sconfitto, invece lo sfamano. Ci sono soldati coraggiosissimi, gli emblemi della resistenza di Stalingrado, che rinunciano alla vita: c’è un famoso episodio dove uno di questi soldati quando gli viene assegnata una telegrafista, anche carina, ad un certo punto potrebbe approfittarne, ma poi si accorge che è innamorata di un altro dei soldati, allora li manda via tutti e due, insieme, in modo che non vengano uccisi. Questa è l’idea di Grossman, concettualmente, ma io penso che a Don Giussani non interessasse tanto questo, quanto una cosa ancora più profonda: il fatto che “Vita e destino” è un libro fatto di domande, ce ne sono migliaia, domande di ogni genere e tipo, domande che nascono dalla vita, domande in cui uno sente la vita là dove pulsa. Si pone tutte le domande normali della vita, domande che vanno dalle più semplici: << Chissà dov’è finita la mia compagna delle elementari? >>; << Che cosa sarà di questa persona che ho di fronte? >>. Fino ad arrivare a: << Forse che la vita è male? >>; se lo chiede tante volte. Ancora: << Perché abbiamo affetti così potenti? >>; << Perché sono così contento di quella chiacchierata a cuore libero? >>. C’è una scena bellissima, di un tenente colonnello sovietico che una notte si ubriaca nella steppa, con un soldato che neanche conosceva, e parla con lui tutta la notte di politica. Ad un certo punto guarda le stelle e dice: << Non sono riuscito a dire tutto, però sono così contento che non mi pentirò, in tutta la vita, di questa conversazione che abbiamo avuto >>; anche se gli poteva costar la vita una discussione a cuore aperto. Tutte queste domande fanno sentire il colpo che la vita genera su di noi, e fanno sentire che ciascuno, quando avverte questo urto delle circostanze…(registrazione interrotta).