In Memoriam - Studia Moralia

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In Memoriam - Studia Moralia
Studia
Moralia
Biannual Review
published by the Alphonsian Academy
Revista semestral
publicada por la Academia Alfonsiana
Rivista semestrale
pubblicata dall’Accademia Alfonsiana
46/1 • 2008
EDITIONES ACADEMIAE ALFONSIANAE
Studia Moralia 46/1
Gennaio -Giugno 2008
CONTENTS / ÍNDICE / INDICE
In Memoriam
Omelia per il funerale del Padre Lorenzo Alvarez Verdes . . . . . .
Francisco Lage
7
Pubblicazioni del Professore Lorenzo Alvarez Verdes . . . . . . . .
a cura di Francisco Lage
15
Articles / Artículos / Articoli
“Filialità” e vita cristiana. Saggio sul fondamento antropologico
della morale: coscienza filiale e solidarietà fraterna . . . . . . . .
Carlo Lorenzo Rossetti
21
Costituzione ecclesiale del cristiano e formazione del giudizio
della coscienza. Un saggio tra Oriente e Occidente . . . . . . .
Basilio Petrà
51
La sapienza della sofferenza di Giobbe. La morale “non premiata”
Gabriel Witaszek
81
The Vocation of the Catholic Moral Theologian Formed in the
Alphonsian Tradition . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dennis Joseph Billy
105
La teología del matrimonio cristiano en el pensamiento de Benedicto XVI. Nuevas perspectivas . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
José Silvio Botero Giraldo
115
„Der Mensch wird ein Wesen, das es nicht gibt”. Zur theologischen Ethik als Bewegung der Konversion bei Romano Guardini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Peter Schallenberg
147
4
CONTENTS / ÍNDICE / INDICE
L’alternativa dell’azione cristiana di Max Josef Metzger al messianismo del Terzo Reich. Aspetto sociale, pacifista ed ecumenico
Lubomir Žák
Poppers Vorstoss zum “negativen Utilitarismus”? . . . . . . . . . . .
Dragan Jakovljević
Quale “qualità” della vita umana? Approccio antropologico-etico al concetto di vita nella discussione bioetica . . . . . . . . . . .
Edmund Kowalski
165
203
233
Tesi Accademia Alfonsiana
Victor Paul Furnish’s Theology of Ethics in Saint Paul. An Ethic
of Transforming Grace . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Michael Patrick Cullinan
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Reviews / Recensiones / Recensioni
ALCAMO GIUSEPPE, La catechesi in Sicilia: tra il Concilio Vaticano II
e il Giubileo del 2000 (Alfonso Vincenzo Amarante) . . . . . . . .
293
ASTI FRANCESCO, Dire Dio. Linguaggio sponsale e materno nella mistica medioevale (Alfonso Vincenzo Amarante) . . . . . . . . . . . . .
297
CANTELMI TONINO – BARCHIESI RACHELE, Amori difficili. La crisi
della relazione interpersonale e il trionfo dell’ambiguità
(José Silvio Botero Giraldo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
301
CIATTINI CARLO, Presbitero e dottrina sociale della Chiesa
(Domenico Santangelo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CHIAVACCI ENRICO, Teologia morale fondamentale (Henryk Ćmiel)
304
312
D’AGOSTINO FRANCESCO – PALAZZANI LAURA, Bioetica. Nozioni
fondamentali (Maurizio P. Faggioni) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
318
NEBEL MATTHIAS, La catégorie morale de péché structurel. Essai de
systématique (Aristide Gnada) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
321
RUIZ ALDAZ JUAN IGNACIO, El concepto de Dios en la teología del
siglo II. Reflexiones de J. Ratzinger, W. Pannenberg y otros
(Czesław Rychlicki) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
324
ZAMBONI STEFANO, «Chiamati a seguire l’Agnello». Il martirio,
compimento della vita morale (Jules Mimeault) . . . . . . . . . . . . .
330
CONTENTS / ÍNDICE / INDICE
5
Book Presentation / Presentación del libro
Presentazione del libro
MICHAEL PATRICK CULLINAN, Victor Paul Furnish’s Theology of
Ethics in Saint Paul. An Ethic of Transforming Grace . . . . . . . .
Prosper Grech
337
International Conference / Congreso Internacional
Congresso Internazionale
“Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici
ed operativi”. Cronaca del congresso internazionale della
Pontificia Academia pro Vita (Città del Vaticano, 25-26 febbraio 2008) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Giovanni Del Missier
347
“Quale contributo al bene comune?”, XLV Settimana Sociale dei
cattolici italiani (Pistoia-Pisa, 18-21 ottobre 2007) . . . . . . . .
Domenico Santangelo
357
Books Received / Libros recibidos / Libri ricevuti . . . . . . . . . . .
373
In Memoriam
Professore LORENZO ALVAREZ VERDES, C.Ss.R.
1934-2007
La comunità dei docenti e degli studenti dell’Accademia Alfonsiana ha celebrato
la Santa Messa in suffragio del defunto professore Lorenzo Alvarez Verdes nel
Santuario della Madonna del Perpetuo Soccorso a Roma il 7 dicembre 2007.
Omelia per il funerale
del Padre Lorenzo Alvarez Verdes
Francisco Lage, C.Ss.R.
Ho scelto un vangelo difficile, perché anche per me risulta difficile
pronunciare un discorso che risponda ai meriti di Padre Alvarez e ai
sentimenti di molti di voi che per quaranta anni dal 1975 fino al 2005,
lo avete conosciuto come confratello nella comunità di Sant’Alfonso,
come collega e professore di Morale Biblica nell’Accademia Alfonsiana.
L’esempio dei bambini che giocano in piazza o dei fanciulli indecisi si trova non soltanto nel vangelo di Matteo 11, 16-19, che abbiamo letto, ma anche in quello di Luca (7, 31-35). L’esempio segue
l’ambasciata inviata da Giovanni Battista dalla prigione per accertare
se realmente Gesù fosse il Messia annunciato dallo stesso Giovanni.
Quando partono i discepoli inviati da Giovanni, Gesù fa una riflessione sul giudizio dai contemporanei su Giovanni e su di sé. Il brano,
quasi identico nei due vangeli, si chiude con un riferimento alla “sapienza”, cui “è stata resa giustizia dalle sue opere” (Matteo) o “da tutti i suoi figli” (Luca).
Gesù rimprovera ai suoi contemporanei la resistenza alla conversione fondandosi sia nel rigore ascetico di Giovanni (al quale andrebbero riferiti i lamenti o canti funebri) sia nello stile di vita più
normale di Gesù, caratterizzato dalla musica allegra per le nozze. Gesù si accredita attraverso i miracoli di guarigione: “i ciechi ricuperano la vista, i paralitici tornano a camminare, i lebbrosi sono guariti, i
sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la
buona novella” (Mt 11, 5). I discepoli di Giovanni potranno dedurre
da queste opere che Lui è l’inviato, il Messia, sebbene Gesù non sia
il predicatore minacciante, con la scure posta alla radice degli alberi
per tagliare e gettare nel fuoco ogni albero che non produca frutti di
conversione (Mt 3, 10). Perciò conclude Matteo “alla sapienza è stata resa giustizia dalle le sue opere”. Gesù, che è la Sapienza, conferma la sua missione con le sue opere miracolose.
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FRANCISCO LAGE
Nel vangelo di Luca la giustificazione della Sapienza viene “da
tutti i suoi figli”. La frase è probabilmente più autentica di quella di
Matteo e ha un senso più ampio: coloro che seguono di cuore la strada segnata da Dio, benché non entrino negli schemi dei teologi e moralisti, prendono la decisione giusta su ciò che corrisponde a una religiosità autentica.
Il vangelo di Matteo riporta a continuazione una serie di minacce
contro le città che non avevano accettato il messaggio di Gesù: “Guai
a te, Corazin! Guai a te, Betsaida!”. Alle città recalcitranti si minaccia
un castigo maggiore che quello di Sodoma. In questo modo dimostra
l’evangelista che, se volesse, Gesù potrebbe seguire il modello del profeta di sciagure. Luca invece narra di seguito la scena dell’unzione della donna in casa del fariseo Simone. La donna, dopo aver bagnato con
le sue lacrime i piedi di Gesù, “li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato” (Lc 7, 36-50). Il fariseo e gli altri commensali criticavano la leggerezza di Gesù consentendo tale
prossimità di una donna pubblicamente conosciuta come peccatrice.
La scena verrebbe a giustificare la libertà con cui procedeva Gesù senza paura dello scandalo. L’esempio dei fanciuli indecisi e la scena della peccatrice sono per noi un invito a procedere con libertà senza dipendere da norme esterne che regolano soltanto l’apparenza.
Una persona che vive fortemente la sua fede non deve accettare
norme che distruggono l’autentica umanità, una dimensione che Gesù volle mettere bene in rilievo. Non dobbiamo divenire schiavi di
ciò che gli altri dicono, ma si deve seguire il cammino di libertà iniziato da Gesù nella misura in cui ognuno possa e osi.
Se dall’aldilà – dal paradiso o dal purgatorio – esiste la possibilità
di osservare ciò che accade sulla terra, Padre Alvarez oggi si meraviglierebbe della celebrazione di questa Messa in sua memoria, in cui
presiede il Padre Generale e partecipano tanti dei suoi colleghi professori e degli studenti dell’Accademia Alfonsiana.
Nel difficile compito di elogiare la sua memoria, trovo aiuto nella
frase con cui Matteo finisce l’esempio dei fanciulli indecisi: “Ma alla
sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere”. Le opere di Padre Alvarez rendono giustizia a tutta una vita dedicata allo studio e all’insegnamento della Sacra Scrittura.
OMELIA PER IL FUNERALE DI PADRE LORENZO ALVAREZ VERDES
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Padre Alvarez è nato il 28 Gennaio 1934 in un paese della provincia di Zamora, una provincia che ha dato molti ed illustri redentoristi,
tra i quali il Padre José Pedrero, uno dei fondatori della missione in
Cina e poi consultore generale ai tempi di Padre Gaudreau. Della
stessa provincia di Zamora sono entrati nella Congregazione il Padre
Segundo Miguel Rodríguez, autore di una grammatica delle lingue
ebraica e aramaica e un vocabolario ebraico-spagnolo e aramaico biblico-spagnolo, stampati a Leipzig nell’anno 1925, una vera enciclopledia delle lingue dell’Antico Testamento, che in pocchi mesi arrivò
alla terza edizione. Il vocabolario ancora è usato dagli studenti di filologia semitica in alcune università di Spagna. Altro illustre zamorano
fu il Padre Adriano Simón, iniziatore degli studi biblici nella provincia redentorista di Madrid. Insieme al Padre Juan Prado, è l’autore
delle Praelectiones che, redatte in latino e stampate da Marietti a Torino, hanno offerto fino al Vaticano II un libro di testo per l’iniziazone
biblica di molti sacerdoti in tutto il mondo, dall’Alaska fino all’Australia. Queste origini spiegano forse la continuità degli studi biblici
nella provincia di Madrid. Da Zamora sono entrati nella Congregazione il Padre Fabriciano Ferrero, che per anni lavorò all’Istituto Storico, qui a Roma, e il Padre Manuel Gómez Ríos, collaboratore dell’Istituto Storico, fino alla sua prematura scomparsa un paio di anni fa.
Ordinato sacerdote l’11 gennaio 1959, Padre Alvarez ottiene la licenza in Teologia nella Facoltà dei Gesuiti a Granada, e, dopo due
anni come professore nel Teologato Redentorista di Valladolid, inizia nel 1962 gli studi di Sacra Scrittura a Roma nel Pontificio Istituto Biblico. Ottenuta la Licenza in Sacra Scrittura nel 1964, insegna
alcuni anni nel Seminario Teologico dei Redentoristi in Spagna. Nel
1970 ritorna al Pontificio Istituto Biblico per la preparazione della
Laurea. Interrompe il lavoro per collaborare nell’Istituto di Scienze
Morali a Madrid, dove insegna per quattro anni (1971-1975), occupandosi della biblioteca e di organizzare una grande mostra di Libri
di Morale, che fu uno dei momenti di particolare rilievo nell’inaugurazione dell’Istituto.
Nel 1975 torna a Roma, dove ottiene il Dottorato in Sacra Scrittura (22 Giugno 1979), con la tesi su “Le tensioni indicativo-imperativo
in san Paolo. Studio partendo dall’analisi strutturale di Romani 6”.
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FRANCISCO LAGE
Nello stesso anno inizia la sua attività come Professore di morale biblica presso l’Accademia Alfonsiana (Ponificia Università Lateranense). Presso questa Accademia è prima Professore Straordinario (dal
16 settembre 1981), poi Professore Ordinario (dal 23 novembre
1985). Simultaneamente ha tenuto corsi di Sacra Scrittura in altri
centri universitari, per esempio al Pontificio Istituto Biblico di Roma
(1970-1971), all’Istituto di Teologia a Distanza di Madrid (19711974), alla Facoltà di Teologia del Sacro Cuore di Granada (19721974), alla Pontificia Università Gregoriana di Roma (1978-1979).
La sua attività docente si è inoltre estesa ad ambiti non strettamente universitari, soprattutto per corsi di “attualizzazione”, organizzati dai Padri del Verbo Divino (Nemi), dal Pontificio Collegio
Spagnolo di Roma e dalle Suore Ospitaliere (Roma). Occorre aggiungervi inoltre i corsi tenuti in vari Centri di Formazione teologico-pastorale per laici, a Roma e in altre diocesi d’Italia.
In qualità di membro e co-fondatore dell’Associazione Biblica
Spagnola (ABE, nata nel 1972), Padre Lorenzo ha partecipato alle riunioni annuali dell’associazione tenendo varie conferenze. Nell’ultimo convegno annuale della Associazione a Sevilla gli è stato offerto
un omaggio (Settembre 2007).
Nel suo insegnamento e nelle sue pubblicazioni, il Professore Alvarez ha rivolto un’attenzione specifica ai problemi di ordine metodologico e ermeneutico; privilegiando in particolar modo i metodi
strutturali e sociologici. La tematica che ha sviluppato lungo i suoi
molti anni di docenza ha sempre mirato a porre in rilievo il carattere “liberante” del messaggio di salvezza. Il pensiero etico di San Paolo è stato il suo ambito preferito, dall’epoca della sua tesi di dottorato fino alle sue pubblicazioni più recenti. La produzione scientifica di
Padre Alvarez occupa 14 pagine nel sito web dell’Accademia, tra libri
originali, opere collettive, articoli e recensioni.
“Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli”. Sono le
parole del vangelo di Luca alla fine dell’esempio dei fanciulli indecisi.
Nel caso di Padre Alvarez si ripete un fenomeno non infrequente
nelle comunità religiose: persone che ad intra, nella casa e nel tratto
con i confratelli, sono difficili, sanno dimostrare nelle relazioni ad extra una cordialità e disponibilità che nessuno nella casa potrebbe im-
OMELIA PER IL FUNERALE DI PADRE LORENZO ALVAREZ VERDES
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maginare. Le Figlie della Carità del Preziossimo Sangue, dove per
molti anni celebrava la Messa domenicale, hanno rimpianto la sua
morte elogiando le sue qualità come sacerdote sempre pronto all’attenzione spirituale della comunità.
C’è il caso di una famiglia romana aiutata nel corso di una situazione dolorosa. E il caso di uno studente redentorista nell’Istituto di
Madrid chi per quasi tutto il giorno non si mosse dalla sala in cui fu
esposta la salma. Nei mesi di vacanze quando si fermava nelle comunità redentoriste di Spagna si offriva volentieri ad aiutare nel servizio
pastorale e s’integrava cordialemente nella vita dei confratelli.
Tutte queste persone, “figli della Sapienza”, darebbero oggi una
testimonianza piena d’affetto e gratitudine.
Fra tante cose scritte da Padre Alvarez, e non soltanto sull’indicativo ed imperativo, mi ha da tempo colpito un’affermazione audace
sulla possibilità di conoscere la mente di Cristo. Non soltanto Paolo,
le cui lettere Padre Alvarez poteva citare a memoria dopo tanti anni
di lavoro sui testi paolini, ma anche lo stesso esegeta, e non tanto come esegeta ma come cristiano, presumeva di conoscere la “mente di
Cristo”. Ciò che Paolo presenta in forma interrogativa (“Chi ha conosciuto il pensiero, cioè la mente del Signore, in modo da poterlo
dirigere?”, 1Cor 2, 16), con riferimento a un testo di Isaia 40, 3, Paolo (e Padre Alvarez) rispondono: “Noi abbiamo il pensiero, cioé la
mente di Cristo”.
Nell’inizio del ultimo corso all’Istituto di Scienze Morali a Madrid, Padre Alvarez pronunció la lezione inaugurale sul tema: “Al di
là dell’alternativa sostanzialismo-attualismo. Contributo della pneumatologia al problema del «proprium» della morale cristiana”. La lezione inaugurale si trova adesso pubblicata nella rivista Moralia. E di
nuovo ritorna l’affermazione della possibilità di conoscere la mente
di Cristo. Egli afferma:
«Fondamentale per la nostra tesi è che la sintesi che si realizza nell’esistenziale umano tra il noûs di Cristo e il noûs dell’uomo è opera dello Spirito Santo. Perciò il risultato deve essere secondo la misura dello Spirito, che ha presieduto la sintesi-fusione del logos incarnato. Lo
Spirito ci porta verso realtà personali, vitali, integrali (...) piuttosto che
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FRANCISCO LAGE
verso realtà categoriali. Perciò ogni riduzionismo in questo indirizzo,
come colui che separa tra norma e normante, rivelazione e rivelato,
umano e divino, soggetto e azione (...) non riuscirà mai a dare nuova
luce né alla riflessione dogmatica, né alla riflessione morale».
È un denso linguaggio, troppo difficile per quasi tutti, a cominciare da me.
Morto improvvisamente nel giorno di Tutti i Santi, quando usciva per una passeggiata mattutina come al solito, lo Spirito di Cristo
avrà chiarito la “mente del Signore” nel pensiero di un suo servo zelante nell’interpretazione della teologia paolina. Prima di entrare
nella sala operatoria quello stesso pomeriggio chiese al superiore della comunità di ascoltarlo in confessione e di presentare ai confratelli
le sue scuse per tutti i diverbi, per le offese da lui commesse. Poi, cosciente della gravità del suo stato, esclamò: “Sia fatta la volontà di
Dio”. Queste scuse e questa testimonianza di accettazione della divina volontà, oggi, io le presento anche a voi.
Ho cominciato ricordando un esempio del Vangelo che ci invita a
non giudicare dalle apparenze. Vorrei finire con un esempio del vangelo di Luca che è ancora più difficile che dell’esempio dei fanciulli
indecisi. È l’esempio dell’amministratore disonesto che abbiamo riletto nella Domenica XXV del Tempo Ordinario (Lc 16, 1-13).
In una interpretazione, che san Gerolamo attribuisce a Teofilo di
Antiochia, l’allegoria è applicata in modo sorprendente all’apostolo
Paolo.
Per lungo tempo Paolo non ha forse ingannato Dio, simboleggiato dall’«uomo ricco»? Quando l’amministratore è bruscamente smascherato, si tratta di una raffigurazione del cammino di Damasco e del
Cristo che ferma Paolo con le parole: «Perché mi perseguiti?». Che
fare – si chiede Paolo – per essere accolto dai cristiani quando sarò destituito dalla mia funzione giudaica di dottore? Risposta: cambiare le
richieste, sostituendo, a favore dei gentili, la legge ed i profeti con la
conversione e il pentimento e, a favore dei giudei, nutriti dalla misericordia divina, riducendo i loro debiti: si limitino a credere ormai alla risurrezione del Cristo che si è attuata nell’ottavo giorno (cui alludono le 80 misure di grano invece di cento dovute al padrone).
OMELIA PER IL FUNERALE DI PADRE LORENZO ALVAREZ VERDES
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Nel giorno di Tutti i Santi entravano nel paradiso non soltanto i
centoquarantaquattromila dalle dodici tribù di Israele, ma poi “una
moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione,
razza, popolo e lingua” (Ap 7, 4. 9). Impossibile che in quella moltitudine non si trovasse anche il Padre Lorenzo Alvarez. Per lui è il momento felice per capire la noûs Christou e sentire la gioia dello Spirito,
trovare l’amico Paolo, l’apostolo, il profondo teologo con i suoi indicativi ed imperativi, ma anche Paolo il persecutore che ha certamente
tratto a sè Alvarez, il paolino, il professore, ma anche il persecutore,
poiché nessuno ci spiegherà mai perchè in vita egli abbia perseguitato tutti noi. Ma nella sua ultima lezione, prima dell’intervento chirurgico, ha chiesto un perdono che oggi gli assicuriamo volentieri.
Pubblicazioni del Professore
Lorenzo Alvarez Verdes
a cura di Francisco Lage, C.Ss.R.
Libri
Introducción a la Sagrada Escritura, Instituto español de teología a distancia, Madrid 1971, 100 p.
Introducción al Antiguo Testamento, Instituto español de teología a distancia, Madrid 1971, 248 p.
El Imperativo cristiano en S. Pablo. La tensión indicativo-imperativo en
Rom 6. Análisis estructural, Edic. S. Jerónimo, Valencia 1980, 262 p.
Caminar en el Espíritu. El pensamiento ético de S. Pablo, Editiones Academiae Alfonsianae, Roma 2000, 550 p.
Editore o direttore
Bajo la fuerza del Espíritu, Perpetuo Socorro, Madrid 1966, 120 p.
Libros de Moral. Exposición bibliográfica internacional de ciencias morales
(in colab. con F. Ferrero), Madrid 1970, 172 p.
Homenaje a Juan Prado. Miscelánea de estudios bíblicos y hebraicos, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Madrid 1975, 737 p.
Morale e Redenzione, Quaestiones morales 1, Editiones Academiae Alfonsianae, Roma 1983, 302 p.
Il problema del nuovo nella morale, Quaestiones morales 2, Editiones
Academiae Alfonsianae, Roma 1984, 268 p.
Problemi e prospettive dell’evangelizzazione in Sicilia, (in collab. con E.
Chiavacci et al.), Palermo 1984, 182 p.
La justicia social. Homenaje al Prof. Julio de la Torre, (Coedit. con M.
Vidal. Colec. Estudios de Etica 11), Edit. PS, Madrid 1993, 527 p.
La morale nella Bibbia, (in colabor. con B. Bastianel, F. Lage), Edizioni ISSRA. L’Aquila, 1996, 187 p.
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PUBBLICAZIONI DEL PROFESSORE LORENZO ALVAREZ VERDES
Articoli e contributi
“Kerygma y sacramento en S. Juan”, Pentecostés 8 (1965) 166-194 p.
“El Kerygma de la resurrección hoy”, Pentecostés 21 (1969) 269-225 p.
“Tensión dialéctica esclavitud-liberación en la Biblia”, Pentecostés 10
(1972) 89-113 p.
“Teología de la liberación y señorío de Cristo”, Cultura Bíblica 31
(1974) 131-150 p. (Texto de la ponencia presentada en la Semana
Bíblica Española 1973).
“Personalidad y obra del biblista Juan Prado”, in L. ALVAREZ VERDES
– E. J. ALONSO (Eds.), Homenaje a Juan Prado. Miscelánea de estudios bíblicos y hebraicos, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Madrid 1975, 19-40 p.
“Metánoia-matanoeîn en el griego extrabíblico”, in L. ALVAREZ VERDES – E. J. ALONSO (Eds.), Homenaje a Juan Prado. Miscelánea de
estudios bíblicos y hebraicos, Consejo Superior de Investigaciones
Científicas, Madrid 1975, 19-40 p.
“La obra de W. Eichrodt. Pròlogo all’edizione spagnola di W. EICHRODT”, Teología del Antiguo Testamento, vol. 2, Ediciones Cristiandad, Madrid 1975, 17-20 p.
“La indisolubilidad del matrimonio en el sistema de motivaciones
paulino”, Studium Legionense 16 (1975) 29-61 p. (Intervento nella
Semana de Moralistas Españoles, León 1974).
“¿Salvación o liberación? Criterios metodológicos para el estudio de la
liberación a partir del Exodo”, Studia Moralia 14 (1976) 159-188 p.
“La genesi alla ribalta”, San Gerardo 80 (1980) 6-9 p.
“Lectura desmitologizada de la moral bíblica”, Moralia 14 (1981)
364-388 p.
“Verso un nuovo linguaggio della redenzione”, in L. ALVAREZ – S.
MAJORANO (Ed.), Morale e Redenzione, Quaestiones morales 1,
Editiones Academiae Alfonsianae, Roma 1983, 5-13 p.
“La redenzione come liberazione”, in L. ALVAREZ – S. MAJORANO
(Ed.), Morale e Redenzione, Quaestiones morales 1, Editiones Academiae Alfonsianae, Roma 1983, 31-64 p.
“Sentido ético de la justicia (dikaiosynê) en Rom 6. Aportación semiótico-estructural”, in V. COLLADO – E. ZURRO (Ed.), El miste-
PUBBLICAZIONI DEL PROFESSORE LORENZO ALVAREZ VERDES
17
rio de la Palabra. Homenaje a Luis Alonso Schökel, Ediciones Cristiandad, Madrid 1983, 303-326 p.
“La liberazione degli oppressi, messaggio cristiano della pace”, Segno
9 (1984) 54-64 p.
“La paz bíblica como imperativo de liberación”, Moralia 6 (1984) 4178 p.
IDEM, in Perspectivas de Moral Bíblica, Instituto Superior de Ciencias
Morales, Estudios de Etica Teológica 5, Madrid 1984, 41-78 p.
“Dinamica liberatrice del disegno cristiano di pace”, en L. ALVAREZ
(et al.), Problemi e prospettive dell’evangelizzazione in Sicilia, Palermo 1984, 99-115 p.
“La Bibbia e la Teologia della Liberazione”, IDOC 12 (1984) 22-31 p.
“La sfida del nuovo nella morale”, in L. ALVAREZ (Ed.), Il problema del
nuovo nella morale, Quaestiones morales 2, Editiones Academiae
Alfonsianae, Roma 1984, 5-15 p.
“Il nuovo nel messaggio etico della Bibbia”, in L. ALVAREZ (Ed.), Il
problema del nuovo nella morale, Quaestiones morales 2, Editiones
Academiae Alfonsianae, Roma 1984, 99-128 p.
“L’Ethos della chiamata-risposta”, Rogate ergo 48 (1985) 8-11 p.
“Le due Istruzioni della Congregazione per la Dottrina della Fede
sulla Teologia della Liberazione. Valutazione”, Bollettino dei Padri
Scalabriniani, Roma 1985.
“L’ennomia cristica come principio di flessibilità nella prassi morale. Approccio ermeneutico a 1 Cor 9, 20-23”, in M. NALEPA – T.
KENNEDY (Ed.), La coscienza morale oggi. Omaggio al Prof. Domenico Capone, Editiones Academiae Alfonsianae, Roma 1987, 73108 p.
“Biologia e genetica: tra natura e storia, tra scienza e morale”, Il Regno 23/12 (1988) 316-319 p.
“El método sociológico en la investigación bíblica actual. Incidencia
en el estudio de la ética bíblica”, Studia Moralia 27 (1989) 5-41 p.
“La traducción Alfonsiana de los Salmos. Análisis crítico y valoración
pastoral”, Spicilegium historicum CSsR 38 (1990) 197-223 p.
“Las éticas del Nuevo Testamento. Análisis crítico de las principales
publicaciones de ética bíblica de los últimos tiempos”, Estudios Bíblicos 48 (1990) 113-136 p.
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PUBBLICAZIONI DEL PROFESSORE LORENZO ALVAREZ VERDES
“La ética del indicativo en S. Pablo”, Studia Moralia 29 (1991) 3-26 p.
“La ética del Nuevo Testamento. Panorámica actual”, Studia Moralia
29 (1991)421- 454 p.
“La ley de Cristo en Gal 6, 2. Convergencia semántica de los síntagmas ‘nómos Christoû’ y ‘noûs Christoû’“, in III Simposio bíblico
español, Valencia 1991, 329-346 p.
“La moral del indicativo en Pablo”, in M. VIDAL (ed.), Conceptos Fundamentales de ética teológica, Editorial Trotta, Madrid 1992, 89-103 p.
“La paz en el mensaje bíblico”, en M. VIDAL (ed.), Conceptos Fundamentales de ética teológica, Editorial Trotta, Madrid 1992, 789-799 p.
“Fundamento bíblico del lema ‘copiosa apud eum redemptio’ ”, Spicilegium Historicum CSsR 39 (1992) 343-358 p.
“Nacido de la estirpe de David según la carne. Contenido semántico
del síntagma katà sárka en Rom 1, 3. Homenaje a Salvador Muñoz
Iglesias”, Estudios Bíblicos 50 (1992) 335-358 p.
“Dimensión sociológica de la koinônía cristiana en S. Pablo y en los
Hechos de los Apóstoles”, Studia Moralia 30 (1992) 247-276 p.
“La casa come chiesa. Risvolti sociologici di una formula biblica”,
Synaxis 10 (1992) 7-34 p.
“La estratificación sociológica de la familia según san Pablo”, Moralia 15 (1993) 73-96 p.
“Vangelo e legge”, in Lexicon. Dizionario Teologico Enciclopedico, Ediz.
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“Solitudine”, in Lexicon. Dizionario Teologico Enciclopedico, Ediz. Piemme, Casale Monferrato 1993, 980-981 p.
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“Fede e morale”, in Lexicon. Dizionario Teologico Enciclopedico, Ediz.
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“Speranza e morale”, in Lexicon. Dizionario Teologico Enciclopedico,
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“La syneidêsis en S. Pablo”, Studia Moralia 32 (1994) 275-316 p.
PUBBLICAZIONI DEL PROFESSORE LORENZO ALVAREZ VERDES
19
“La función de la “razón” en el pensamiento ético de S. Pablo”, Studia Moralia 34 (1996) 7-42 p.
“La ética bíblica frente a las nuevas propuestas de la hermenéutica”,
Moralia 20 (1997) 171-198 p.
“Ética bíblica y hermenéutica: una reflexión desde la postmodernidad”, Studia Moralia 35 (1997) 213-244 p.
“Carisma y moral en el pensamiento paulino”, Studia Moralia 36
(1998) 361-392 p.
“El carismatismo en Pablo. Aproximación sociológico-teológica.
Homenaje al Prof. Alfonso de la Fuente Adánez”, Estudios Bíblicos
(1999) 23-38 p.
“Dinamismo creador de la libertad cristiana”, Studia Moralia 39
(2001) 333-370 p.
“La “autosuficiencia” (autarquía), elemento constitutivo de la libertad cristiana”, Studia Moralia 40 (2002) 339-375 p.
“Dimensión creadora de la justicia cristiana”, in M. RUBIO, V. GARCÍA, V. GÓMEZ MIER (eds.), La ética cristiana hoy: horizontes de sentido, Instituto Superior de Ciencias Morales, Editorial P. S., Madrid 2003, 143-158 p.
“La Dei Verbum, una costituzione chiave per la comprensione del
Concilio Vaticano II”, in Inaugurazione Anno Accademico 20032004, Edacalf, Roma 2003, 25-46 p.
“La centralidad de la Sagrada Escritura en la reflexión teológico-moral postconciliar. Criterios hermenéuticos”, in La recezione del Concilio Vaticano II nella teologia morale. Atti del convegn,. Suppl. 2 StMor
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“La costituzione Dei Verbum. Contenuti e risvolti liturgici”, Rivista
Liturgica (2005/3) 423-436 p.
“L’attività editoriale dello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Valutazione in prospettiva morale”, Synaxis XXIII (2005/2).
Recensioni
Sono 181 le sue recensioni lungo quarant’anni, particolarmente nelle riviste di Morale: Pentecostés (1964-1972), Studia Moralia (19892005), Moralia (1973-2006).
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
Saggio sul fondamento antropologico della morale:
coscienza filiale e solidarietà fraterna
Carlo L. Rossetti*
Introduzione
La teologia contemporanea sta recuperando una visione personalistica e trinitaria, capace di abbracciare in una più ampia prospettiva
il tradizionale insegnamento circa la legge naturale e la coscienza
morale. Tale sforzo non solo corrisponde ai dati della rivelazione, ma
è anche più efficace al fine di proporre l’etica cristiana all’uomo d’oggi. Il contesto di globalizzazione socio-culturale in cui viviamo stimola inoltre ad individuare dei valori sempre più condivisibili, allorché il dialogo con il mondo laico e quello delle religioni sospinge alla chiarificazione del rapporto tra humanum e christianum. Avendo a
mente tali istanze, tenteremo una riflessione nell’orizzonte di una
morale filiale e fraterna fondata nell’ontologia stessa del cristiano1.
* The author is professor at the Institute of Philosophy and Theology Study in Scutari (Albania).
El autor es profesor en el Instituto de Estudios de Filosofía y Teología en Scutari (Albania).
1 Dal punto di vista teologico, vedi B. MORICONI, «La filialità divina base
dell’antropologia teologica cristiana», in ID. (ed.), Antropologia cristiana. Bibbia,
teologia, cultura, Città Nuova, Roma 2001, 335-372; F. G. BRAMBILLA, Antropologia teologica. Chi è l’uomo perché te ne curi?, Queriniana, Brescia 2005, 331-337.
Il peccato è “libertà spezzata, ferita incurvata su di sé, una distorsione non solo
delle relazioni della libertà, a della libertà come relazione, che rifiuta di assumere la sua verità nella forma filiale di Gesù” (547). Sul piano morale, R. TREMBLAY, Radicati e fondati nel Figlio. Contributi per una morale di tipo filiale, Dehoniane, Roma 1997, specie cap. 3 (ispirato a F.-X. Durrwell) e cap. 6 (sulla dimensione teologale della morale); ID. «Ma io vi dico...». L’agire eccellente, specifico
della morale cristiana, EDB, Bologna 2005, 67-92.
StMor 46/1 (2008) 21-49
22
CARLO L. ROSSETTI
Fulcro della proposta sarà il concetto di filialità e di coscienza filiale.
Pensiamo che queste nozioni possano non solo illuminare il delicato
dibattito summenzionato circa il rapporto tra l’humanum e lo specifico cristiano, ma anche contribuire alla presentazione semplice ed
organica della morale cristiana e dell’organismo delle virtù. In altre
parole, vorremmo illustrare quanto il rinvenimento della struttura
antropologica fondamentale dell’uomo (filialitas), con la coscienza
che essa comporta, corrisponda alla rivelazione della creaturalità in
Christo – ossia dell’essere creato in vista della somiglianza col Figlio
Primogenito tra molti fratelli2 – e consenta di fondare un’etica della
libertà-responsabilità filiale e della fraternità e che tale etica sia, nel
contempo, tipicamente cristiana e profondamente umana.
La coscienza morale, quale senso interiore del bene e del male,
sensibilità alla voce di Dio e percezione intima della moralità delle
azioni è inseparabile dalla coscienza che una persona ha di sé. Anzi,
l’autocoscienza (Selbstbewußtsein) ‘informa’ e forgia il senso morale.
Soltanto un soggetto consapevole della propria identità e dignità può
formulare un giudizio etico responsabile e rispettoso dell’altro: se
non ci si conosce, non si può ri-conoscere l’altro3.
La nostra tesi consiste in questa affermazione: quanto più una coscienza si apre alla Trascendenza originaria e quindi al senso di pietà, proposto pure dalle religioni positive, verso la maestà e bontà del
Divino, tanto più essa risulterà nel contempo umile, fiduciosa e responsabile. Questo sul versante verticale, del rapporto a Dio. Sul piano orizzontale, una tale autocoscienza filiale/creaturale induce al riconoscimento di se stessi e degli altri esseri umani come compartecipi nel dono della vita e quindi tenuti al reciproco rispetto. Sicché, una
coscienza educata bene (dalla retta ragione e/o dagli insegnamenti
positivi delle religioni) può giungere ad accogliere come norma etica
2
Cfr. Gen 1, 26; Col 1, 15; Rm 8, 29.
Vedi su questo le riflessioni di B. HÄRING, La Legge di Cristo, vol. III: Teologia Morale speciale (2), Morcelliana, Brescia 1959, 549, in cui si cita questa pregnante espressione di J. B. Hirscher: “tutti coloro che portano o portarono dentro di sé il vero sentimento della propria dignità, sono o furono santi”.
3
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
23
il principio basilare della responsabilità e del rispetto4: responsabilità/rispetto insieme reverente e fiducioso nei riguardi della divinità e
responsabilità/rispetto verso l’altro uomo riconosciuto come prossimo e fratello, ossia co-appartenente alla famiglia umana. Tipico
quindi di una coscienza edotta (d)alla propria filialità creaturale sarà
l’aderire alla legge naturale che “ha come perno l’aspirazione e la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni bene, e altresì il senso dell’altro come uguale a se stesso”5.
1. Filialitas: coscienza filiale, umiltà e fiducia
Premettiamo una chiarificazione terminologica. Quando usiamo
l’espressione “coscienza filiale” non abbiamo di mira direttamente la
coscienza morale, la syneidesis paolina (Rm 2, 15), quel richiamo interiore che ammonisce, accusa, rimprovera o conforta il soggetto in
quanto capacità spirituale di percepire la voce di Dio, la legge naturale e quindi la distinzione tra il bene e il male6. Questo aspetto specifico rappresenta per noi soltanto un elemento di ciò che intendiamo con coscienza filiale. Proprio per rispettare la complessità e la
globalità del fenomeno umano7, l’uso che faremo del termine co-
4
Sulla “ragione aperta” si pensi alla Lectio magistralis di Benedetto XVI a Ratisbona, 12. 09. 2006. Cfr. pure R. REPOLE, Il pensiero umile. In ascolto della rivelazione, Città Nuova, Roma 2007. Sulle religioni T. OHM, L’amore di Dio nelle religioni non cristiane, Paoline, Alba (Cn) 1956, “non solo è naturale all’uomo temere Dio, ma naturale anche amarlo” (p. 57; pure p. 87). Per quanto riguarda
la responsabilità come compito della coscienza A. MOLINARO, “Creatività e responsabilità della coscienza”, in T. GOFFI (ed.), Problemi e prospettive di teologia
morale, Queriniana, Brescia 1976, 169.
5 Catechismo della Chiesa cattollica (CCC) 1955. Testo citato pure da papa Benedetto XVI nel Discorso ai membri della Commissione teologica internazionale,
5.10.2007.
6 Gaudium et spes (GS) 16; Cfr. G. BORGONOVO (ed.), La coscienza. Conferenza
Internazionale Orvieto 27-28 maggio 1994, LEV, Città del Vaticano 1996.
7 Sull’intrinseca difficoltà del concetto di coscienza J. STENZELBERGER, “Coscienza”, in Dizionario teologico, vol. I, Queriniana, Brescia 1966, 340. 348. Si ri-
24
CARLO L. ROSSETTI
scienza è volutamente più generico. Però, a scanso di equivoci, precisiamo che intendiamo per “coscienza filiale” l’interiore, innata e graduale percezione che l’essere umano ha di essere figlio, ovvero donato a sé
stesso da un (A/)altro. Tale realtà, che può diventare consapevolezza,
consta non tanto e non solo del senso morale (della coscienza stricto
sensu), bensì dell’intimo nucleo dell’humanum, di ciò che (non a caso)
soltanto una pluralità di termini biblici tentano di indicare come il
centro più recondito della personalità. Si tratta del “cuore” (leb/kardia, Rm 5, 5), dello “spirito” umano (pneuma, 1Ts 5, 23; Rm 8, 15),
della “mente” (nous, Rm 7, 23: 12, 2), ovvero ancora dello “spirito
della mente” (pneuma tou noos, Ef 4, 23). Tutto ciò corrisponde a
quanto la Scolastica chiamava “essentia animae”8 e a quel che si designa oggi come “io”, “identità o coscienza personale”. Tale dato antropologico, quando si dischiude al riconoscimento della propria dipendenza da un’origine affidabile, si connota come autocoscienza filiale. Questa è germinale in ogni uomo nato da donna; è stimolata da
una positiva esperienza infantile in famiglia; può svilupparsi mediante una sana proposta religiosa, e trova nella “coscienza cristiana” il
suo coronamento nella grazia.
Rileviamo inoltre che ci sembra più appropriato parlare di “coscienza” piuttosto che di “consapevolezza” filiale in quanto quest’ultima espressione presuppone una compiuta reditio riflessiva del soggetto su se stesso. La coscienza filiale è invece una realtà previa e più
inglobante; essa è il dato antropologico fondamentale che attende solo di essere risvegliato. Ogni uomo ha una coscienza intrinsecamente filiale, cioè dipendente da e aperta a un’archê che la precede e la interpella. Spetterà all’educazione umana e religiosa il rendere tale coscienza consapevole di se stessa.
cordi pure che “la chiamata di Dio che risuona nel nostro cuore è contemporaneamente un’esperienza religiosa e un’esperienza di coscienza. È sempre connotata dalla totalità. Tutta la persona è chiamata da Dio, per Dio e per il bene...
questa chiamata è la legge dell’amore di Dio e del prossimo che è iscritta nel
cuore dell’uomo” B. HÄRING, Liberi e fedeli in Cristo, vol. I, Paoline, Cinisello
Balsamo 1987, 271.
8 TOMMASO, Summa theol. I, II, 110, 4.
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
25
1.1. Humanum: l’autocoscienza filiale-creaturale
Sul piano creaturale, la coscienza di sé deriva da un’esperienza basilare: l’aver ricevuto la vita in dono da un altro (i genitori): “un bambino viene svegliato alla coscienza solo dall’amore, dal sorriso di sua
madre. In questo incontro gli si apre l’orizzonte di tutto l’essere infinito che gli mostra quattro verità: 1. nell’amore egli è unito con sua
madre, benché le stia di fronte, dunque ogni essere è uno; 2. quest’amore è buono, dunque tutto l’essere è buono; 3. quest’amore è vero,
dunque tutto l’essere è vero; 4. quest’amore suscita gioia, dunque tutto l’essere è bello”9. “L’umano, in maniera molto più sofisticata e più
pertinente di quanto si possa sospettare, sa benissimo fin dall’inizio
che solo affidandosi alla figura dell’Alterità (“terza”) può riuscire ad
identificarsi; e questo processo, di per sé, è un processo normale che
avviene in ogni relazione filiale in cui la figura materna e paterna entrano in gioco correttamente”10. Nessuno nasce adulto: si nasce figli,
filiali. L’io umano prende coscienza di sé solo se interpellato come
“tu” da un altro io che lo precede11. Svegliato all’autoconsapevolezza
umana del suo essere donato a sé come persona, cioè portatore di dignità, di libertà e di ragione, l’uomo può aprirsi all’alterità generante ultima: dai genitori al “Genitore” per eccellenza il Dio PadreCreatore (Parens). Solitamente tale passaggio è mediato da varie religioni positive. Come noto, secondo il magistero cattolico, queste
possono ospitare molti elementi di verità e di santità, ma anche non
19 H. U. VON BALTHASAR, Ultimo rendiconto, in La mia opera ed Epilogo, Milano 1994, 89.
10 R. MAIOLINI, Tra fiducia esistenziale e fede in Dio. L’originaria struttura affettivo-simbolica della coscienza credente, Glossa, Milano 2005, 407.
11 Si può far riferimento qui al pensiero di G. Siewerth e F. Ulrich, sulla metafisica dell’infanzia (Kindheit), ma anche a F. Schleiermacher sul sentimento di
dipendenza assoluta; a M. Nédoncelle sulla reciprocità delle coscienze o ancora
a quello di X. Zubiri sulla religación dell’uomo e la Transcendencia fontanal di Dio;
a H. U. von Balthasar sulla libertà generata. Su questo autore e su H. Küng (la
fiducia fondamentale) e P. Sequeri (affectus fidei e coscienza credente), riletti alla luce di Maldiney, Lacan e Ricoeur vedasi l’importante tesi succitata di R.
Maiolini.
26
CARLO L. ROSSETTI
pochi errori12. Quello che a noi importa dal punto di vista morale è
la possibilità della percezione del Fondamento ultimo del valore incondizionato dell’uomo che si autocomprende come creatura voluta
in modo buono e peculiare (“ad immagine e somiglianza”) rispetto
agli altri viventi da parte di questo Mistero assoluto. Da qui il senso
della sacralità della dignità umana presente in quasi tutte le grandi religioni. La coscienza religiosa dell’uomo lo pone di fronte al Mistero-Numinoso nel contempo tremendum e fascinosum13: ci si trova dinanzi ad una Forza/Sapienza divina (arcana virtus) insieme oggetto di
timore e di desiderio di affidamento. Questa duplice caratteristica del
Sacro, percepito dal cuore umano, sta a fondamento della coscienza
naturale della propria inviolabile dignità. In quanto creatura, io percepisco di esistere perché voluto da “Dio” nel contempo Trascendente-Infinito e Immanente-Prossimo: interior intimo meo, superior
summo meo14. H. de Lubac prospettava una visione di questo tipo
quando, meditando sul principio della vita morale, così si esprimeva:
«sono imbarcato nell’oceano della vita: ma occorre che io consenta a
questo imbarco. Sono radicato nel suolo dell’essere: ma questo radicamento devo trasformarlo con un assenso amoroso e libero. Cammino
totalmente interiore, fiat pienamente mio, che nessuna necessità scalfisce (...). Insomma tutta la mia vita morale è sospesa a questa condizione: che l’Essere che mi fa esistere non abbia per niente la figura di un
tiranno, che in me qualcosa risponda alla sua chiamata, o meglio ancora, che la chiamata venga da quella regione profonda che è mia; più di
12
Vaticano II, Lumen gentium 16; COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIOIl cristianesimo e le religioni (1996).
13 Questa terminologia, diffusa soprattutto da R. OTTO, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, Feltrinelli, Milano 1984, 21ss,
è ripresa pure da B. HÄRING, Liberi e fedeli in Cristo, vol. I., Paoline, Cinisello
Balsamo 1987, 554. L’intuizione fondamentale si trova già in s. Agostino: “che
cos’è che rifulge davanti a me e colpisce il mio cuore senza danneggiarlo; ed io
sono preso da timore (inhorresco) e da ardore (ardesco)? Temo perché gli sono dissimile, ardo perché gli sono simile” (Confessioni, xi, 9).
14 Ib. iii, 6.
NALE,
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
27
me stesso, in altri termini: che sotto le apparenze del Padrone assoluto
io riconosca l’Amore puro, o almeno lo intuisca oscuramente»15.
Notiamo pure che soltanto una prospettiva “creaturale” (e quindi
implicitamente “filiale”) può conciliare, dal punto di vista etico, la
consistenza e autonomia del soggetto con l’accoglienza dell’autorità
della legge morale. Solo nell’orizzonte dell’“autorità buona”, rappresentata in primis dai genitori umani e poi dalla paternità creatrice di
Dio, si può pensare una morale che rifugga tanto dal riflesso “adolescienziale” esistenzialista del soggettivismo anarchico quanto dalla
“scorciatoia infantile” dell’oggettivismo autoritario ed eteronomo del
legalismo. In una logica realistica del dono/debito non v’è spazio né
per un’etica della sola autonomia, né della sola eteronomia; proprio
perché fondamento dell’autonomia è il dipendere da una Fonte trascendente di libertà e personalità. Sicché autonomia e teonomia (eteronomia) lungi dall’opporsi si implicano a vicenda. Giovanni Paolo II
in un celebre passo della Veritatis splendor (VS), così tratteggiava la dimensione “creaturale/filiale” della libertà umana:
«Alcuni parlano, a giusto titolo, di teonomia, o di teonomia partecipata, perché la libera obbedienza dell’uomo alla legge di Dio implica
effettivamente la partecipazione della ragione e della volontà umane
alla sapienza e alla provvidenza di Dio. Proibendo all’uomo di mangiare ‘dell’albero della conoscenza del bene e del male’, Dio afferma
che l’uomo non possiede originariamente in proprio questa ‘conoscenza’, ma solamente vi partecipa mediante la luce della ragione naturale e della rivelazione divina, che gli manifestano le esigenze e gli
appelli della sapienza eterna. La legge quindi deve dirsi un’espressione della sapienza divina: sottomettendosi a essa, la libertà si sottomette alla verità della creazione. Per questo occorre riconoscere nella libertà della persona umana l’immagine e la vicinanza di Dio, che è ‘presente in tutti’ (Ef 4, 6); allo stesso modo, bisogna confessare la maestà
del Dio dell’universo e venerare la santità della legge di Dio infinitamente trascendente. Dio è sempre superiore» (VS 41, corsivo mio).
15
H. DE LUBAC, Spirito e libertà, Jaca Book, Milano 1980, 287.
28
CARLO L. ROSSETTI
Possiamo osservare sin d’ora che il riconoscimento della valenza
esistenziale propria dell’esperienza filiale dell’infanzia ha un corollario etico per quanto riguarda i genitori e gli adulti in genere. Se l’essere figlio radica in me fiducia e consapevolezza di dignità, è anche
perché alla filialità creaturale fa riscontro la chiamata alla responsabilità che gli altri hanno verso di me. Così, il “solo respiro” del neonato “rivolge inconfutabilmente un ‘devi’ all’ambiente circostante affinché si prenda cura di lui (...). Dico “inconfutabilmente” e non “irresistibilmente”, perché è naturalmente possibile resistere alla forza
di questo come di ogni altro ‘devi’; il suo appello può incontrare insensibilità (anche se, per lo meno nel caso della madre, questo viene
considerato una degenerazione) oppure essere soverchiato da altri
‘appelli’...ma questo non toglie nulla all’inconfutabilità dell’istanza
stessa e della sua evidenza immediata (...). Così il ‘dover essere’ che si
manifesta nel lattante possiede un’evidenza, una concretezza, un’urgenza indubbie”16. Anche da questo si evince che in un’etica sensibile alla rilevanza della filialità, l’imperativo morale tipico dell’humanum che si profila al cuore illuminato dalla retta ragione e dal corretto senso religioso potrebbe così formularsi: “agisci in maniera tale che la tua azione riveli che tu stesso, gli altri uomini e il mondo circostante dovete la vostra esistenza a una generosità inesauribile”17.
Siffatta prospettiva trova nella coscienza cristiana il suo compimento. Infatti, se gratia perficit naturam, la peculiarità cristiana consisterà non tanto in un novum radicale e inatteso quanto nell’épanouissement, ossia nella piena rivelazione di questo processo di presa
di coscienza della auctoritas buona (paternità) di Dio, della dignità
personale e dell’imperativo della solidarietà fraterna.
1.2. Christianum: l’autocoscienza filiale nella grazia di Cristo
La fede cristiana svelando il mistero più intimo di Dio svela pure
l’identità ultima dell’uomo (Gs 22). Solo il Dio rivelato come Padre-
16
H. JONAS, Il principio di responsabilità, Einaudi, Torino 1990, 163.
A. M. LÉONARD, Il fondamento della morale, San Paolo, Cinisello Balsamo
1994, 190.
17
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
29
Agape, “unico Padre e unico buono”, è l’assoluta Prima persona18.
Solo Lui può dire in verità “Io”19; e questo però in modo totalmente
non ego-ista. Il suo infatti è un “Io paterno”, Io “agapico”, di totale
auto-dedizione. Allo stesso modo, solo l’Io dell’Unigenito (e potremmo dire “l’Onnigenito”, in quanto originato in tutto dal Padre
e da questi beneficiario della pienezza dell’essere divino) è pienamente filiale, ossia totale ricettività e dipendenza riconoscente: egli
è l’“Amen”, il “Sì” al suo proprio essere-dono-da parte del Padre (Ap
3, 14). La piena ricettività del Cristo, che diventa fiduciosa dipendenza e docile obbedienza, rende conto del potere che egli ha di dare la propria vita (Gv 10, 17-18). Gesù, in quanto unico destinatario
della totalità del dono paterno, è il Figlio (1Gv 5, 12) che durante
tutta la propria vicenda terrena, ma specialmente nel suo mistero
pasquale, assume e traduce la figliolanza divina anche nella natura
umana20. La coscienza filiale di Cristo, espressa nell’invocazione
“Abbà-Padre” dell’orto degli ulivi e della croce (Mc 14, 36 e Lc 23,
46), lo caratterizza come vero Figlio. Il paradosso del mistero di Gesù si sintetizza nella sua umile pretesa: l’essere nulla da se stesso e
l’essere tutto con il Padre: “totalmente sottomesso al Padre in quanto Figlio, e dall’altra, di essere proprio per questo totalmente nell’uguaglianza con il Padre”21.
18
Mt 19, 17; 23, 9. Sul tema della paternità divina, ci permettiamo rimandare a taluni nostri articoli: “Pater tantum est. Paternità divina e fede cristologica”,
in Alpha Omega 2 (1999) 195-214; “Figli e santi per la gloria. Paternità divina e
unità dei credenti in Gv 17”, in Ecclesia Mater 37 (1999) 75-80; “Uno solo è il
Buono. Uno solo è il Padre”, in L. MELINA - J. NORIEGA (edd.), Domanda sul bene, domanda su Dio, Mursia, Roma 1999, 181-183 e soprattutto: “Perché diano gloria al Padre vostro celeste. Paternità divina e missione della Chiesa”, in Lateranum
66 (2000) 235-258.
19 Si ricordi in proposito la litanica espressione “Io sono” (anî) nell’Antico
Testamento (Lv 19 passim).
20 Bisogna rileggere su questo tema la fondamentale pericope di Eb 5,7-10.
21 BENEDETTO XVI, “Gesù di Nazaret”, Rizzoli, Milano 2007, 393. Sulla coscienza filiale di Gesù J. GALOT, La coscienza di Gesù, Cittadella, Assisi 1974 e,
più di recente, lo stimolante saggio di F. MANZI - G. C. PAGAZZI, Il Pastore dell’essere. Fenomenologia dello sguardo del Figlio, Cittadella, Assisi 2001.
30
CARLO L. ROSSETTI
In due diverse parabole dei vangeli sinottici (Mt 21, 28ss e Lc 15,
11ss), il volto di Gesù spicca in filigrana come la figura del vero Figlio e vero fratello, per contrasto con i “due figlioli” esplicitamente
menzionati dal testo. Gesù è il Figlio che, senza né simulare l’obbedienza né tentennare, risponde solo con “il Sì” (2Cor 1, 19) e che alla parola di ossequio fa seguire l’opera portata a termine (Gv 17, 4).
Egli è pure presente nella parabola del figliol prodigo, in un certo
senso come il figlio legittimo accanto a due figli adottivi: il Figlio fedele e riconoscente, colui che condivide sempre tutto con il Padre
(Gv 17, 10) e che anziché condannare il fratello traviato va in sua ricerca fino a ritrovarlo (Lc 19, 10). Gesù è il vero e perfetto uomo (GS
41) perché è totalmente davanti a Dio e per i fratelli22.
L’ethos cristiano non potrà che essere “cruciforme”. Alle due tavole della Torah succedono le due travi della Croce e il loro incrociarsi
indica l’inscindibilità dell’amore di Dio (filialità) e dell’amore del
prossimo (fraternità) (Mc 12, 30-31). La loro dimensione verticale ed
orizzontale esprime la vocazione divina-filiale e comunionale-fraterna
di ogni uomo. Nella preghiera di affidamento al Padre (Lc 23, 46) e di
perdono agli uomini (Lc 23, 34), risplende la verità della santità o perfezione. L’affidarsi a Dio nelle tenebre del dolore e il perdonare i propri nemici espiando i loro peccati sono la cifra ultima dell’etica cristiana suggellata dalla Croce. Questo è il luogo in cui si manifesta
l’uomo vero, l’uomo perfetto e libero (GS 22. 41): il vero Figlio.
Pienezza della filialità, ovvero di quella realtà in cui autonomia ed
eteronomia sono integrate nella libertà filiale, si ha nella partecipazione alla figliolanza di Cristo: “mangiare dell’albero della vita... significa accogliere l’amore di Dio che è la nostra verità, accogliere la
nostra dipendenza da Dio che non significa eteronomia, così come la
figliolanza non significa eteronomia per il Figlio: al contrario proprio
questa ‘dipendenza’ è libertà, perché è verità e amore”23. Aprendoci
22
A. RIZZI, Cristo verità dell’uomo. Saggio di cristologia fenomenologia, AVE,
Roma 1972, 125-227.
23 J. RATZINGER, Creazione e peccato. Catechesi sull’origine del mondo e sulla caduta, Paoline, Cinisello Balsamo 1986, 59.
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
31
al mistero di noi stessi come “figli nel Figlio”24, svelatoci con la “gioia
dello Spirito” mediante l’annuncio del vangelo di Gesù Cristo (1Ts 1,
6), ci scopriamo amati gratuitamente, voluti per noi stessi (GS 24),
beneficiari di una eredità eterna (Rm 8, 15ss; 1Pt 1, 4). Tale autocoscienza filiale, di fatto, non è che la percezione nello spirito umano
dell’eco della voce dello Spirito del Figlio che si riconosce destinatario della parola e dell’amore di Dio (Gv 10, 34; Gv 16, 27), generato
dal Padre-Abbà25. L’io umano/cristiano è primariamente e ontologicamente un “io filiale”, che sorge perché interpellato, in Cristo, come “Tu” da parte di Dio Padre e stabilito nella libertà della hyiothesia. Creato ad immagine della personalità perfettamente filiale dell’Unigenito, eterno Figlio dell’amore del Padre (Col 1, 13), egli è restaurato nella somiglianza mediante lo Spirito di adozione26.
In questo modo il cristianesimo porta a perfezione l’autocoscienza religiosa dell’uomo: la vera umiltà e fiducia della sana religiosità
naturale si trova assunta e glorificata nella figliolanza divina propria
del cristianesimo. Paolo VI dichiarava che “la ricchezza del mistero
di Cristo” può dare all’umanità “in una pienezza insospettabile, tutto
ciò che essa cerca a tentoni su Dio, sull’uomo e sul suo destino, sulla
vita e sulla morte, sulla verità. Anche di fronte alle espressioni religiose naturali più degne di stima, la chiesa si basa dunque sul fatto
che la religione di Gesù, che essa annunzia mediante l’evangelizzazione, mette oggettivamente l’uomo in rapporto con il piano di Dio,
con la sua presenza vivente, con la sua azione; essa fa così incontrare
il mistero della paternità divina che si china sulla umanità; in altri termini la nostra religione instaura effettivamente con Dio un rapporto au-
24
Questa espressione sintetica, favorita da E. Mersch, si trova, come noto,
in GS 22.
25 Sul significato di Rm 8, 16; Gal 4, 6, guarda A. STAGLIANÒ, Il mistero del
Dio vivente. Per una teologia dell’Assoluto trinitario, EDB, Bologna 1997, 115.
26 Come è noto i Padri distinguevano tra “Immagine” (Eikôn) e “Somiglianza” (Homoiôsis), cfr. ORIGENE, Peri Archon, III, 6, 1; IRENEO, Adv. Haer. V, 6, 1;
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom. II, 131, 4-6; ma anche AGOSTINO: “hoc enim
agit Spiritus gratiae: ut imaginem Dei in qua naturaliter facti sumus, instauret
in nobis”, De spiritu et lettera, 27, 47).
32
CARLO L. ROSSETTI
tentico e vivente, che le altre religioni non riescono a stabilire, sebbene esse tengano, per così dire, le loro braccia tese verso il cielo”27.
La coscienza cristiana consta di una autonomia teonoma, nel senso che la verità dell’uomo, della persona è il suo mistero filiale: la sua
dignità, nobiltà e libertà consiste nel riferirsi e somigliare al Padre di
Gesù Cristo. Il Dio della rivelazione biblica non frustra la libertà
umana, ma la suscita in pienezza. Il Padre non obbliga il figlio a dimorare con lui, ma lo lascia libero pur rimanendo sempre pronto a riaccoglierlo.
A fondamento della consapevolezza cristiana della propria straordinaria dignità in forza dell’adozione filiale nello Spirito Santo sta la
coscienza della propria totale dipendenza da e radicale destinazione verso il Padre: l’essereGli in tutto debitore. È questa la ricchezza dei
“poveri in spirito” (Mt 5, 3; 2Cor 8, 9). Tale percezione della propria
povertà in spirito è accresciuta ulteriormente dalla coscienza, insinuata dallo Spirito di verità, dell’essere un peccatore perdonato (Gv
16, 8s; Lc 7, 47).
Tutta la morale cristiana si radica in questa fondamentale, insieme
ontologica, psicologica e spirituale, coscienza del debitum filiale come
correlato del donum paternum (1Cor 4, 7; Gc 1, 17)28. È qui che si innestano infatti le virtù basilari di umiltà, affidamento/fede, speranza,
riconoscenza e gratitudine29. Inoltre, al senso della propria dignità
“divina” di figli redenti in Cristo, corrisponde il dovere di custodirla
27 Evangelii nuntiandi (1975), n. 53; cfr. Nostra aetate, n. 2; GIOVANNI PAOLO
II, Redemptoris Missio (1990), nn. 18 e 55.
28 Circa il nesso ontologia-morale (agere sequitur esse), onde affrontare la critica della “fallacia naturalistica” (legge di Hume), rileviamo che vale qui, come
per l’insieme del nostro discorso, la considerazione che dell’uomo, come del cristiano non bisogna avere una concezione statica e fisicistica, bensì personalistica e storica: noi, di fatto, siamo sempre figli in fieri (cfr. 1Gv 3,2). Sia il descrittivo che il prescrittivo dovrebbero perciò leggersi in una prospettiva di crescita
e di gradualità. Inoltre, è proprio la nozione di coscienza (filiale) che si pone come credibile trait-d’union tra essere e dovere.
29 Vedi H. U. VON BALTHASAR, Epilogo, cit. 140. Alla triade dei trascendentali Bello/Buono/Vero corrispondono le reazioni umane di stupore, gratitudine
e fede.
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
33
e rispettarla con la virtù della temperanza e castità (2Cor 6, 16), ma
pure della eccezionale libertà e fiducia (parrhêsia) davanti a Dio e davanti agli altri.
Dall’autocoscienza filiale scaturiscono quindi in pari tempo sia la
modestia del timor di Dio che il coraggio della testimonianza; l’umiltà
della confessione e l’orgoglio della professione di fede. Il paradosso
dell’autocoscienza cristiana è l’esito della risonanza nello spirito creato della paternità divina con i suoi due principali attributi precedentemente ricordati: la maestosa giustizia/fedeltà (Emeth) e la condi30
scendente misericordia (H
. esed) . Queste rappresentano come le due
braccia della santità dell’amore divino: quello più virile/trascendente
della giustizia si affianca a quello più femminile/immanente, della
misericordia (rah. amim!). La giustizia manifesta la sovrana signoria
(kyriotês); la misericordia la compassione e condiscendenza (synkatabasis). I due termini di timor filiale colgono insieme ed in modo indissociabile queste due dimensioni della relazione umana al divino. Il timore reverenziale onora la giustizia e l’ineliminabile distinzione/distanza esistente tra i figli creati e il Padre celeste; la fiduciosa speranza dell’amore filiale si riversa sull’inaudita misericordia del Padre dal
cuore materno (Is 49, 15).
Si potrebbero usare per l’autocoscienza filiale del cristiano i due
aggettivi coi quali Dante qualificava la Vergine Maria: “umile e alta”31. La singolarità paradossale dell’autocoscienza cristiana non fa
che portare alla sua verità più limpida, radicalizzandolo ed esprimendolo in modo eccelso, il paradosso della dignità umana tout court: l’essere ens finitum capax Dei, una “canna pensante” (Pascal), un “nulla
che adora Dio” (Lamartine). Nel timor filialis o filialità divina rifulge
lo splendore dell’humanum.
La teologalità della figliolanza adottiva porta a perfezione le potenzialità della creaturalità. Il rapporto maturo col Dio rivelato in Gesù
Cristo, ossia l’autocoscienza del cristiano – creatura dell’Onnipotente,
30
Su “grazia” e “fedeltà” come attributi divini, dove il primo dice la misericordia e il secondo al giustizia, vedi Es 34, 6; Sal 86, 15; Gv 1, 14.
31 Divina commedia, Paradiso, cant. 33, v. 1.
34
CARLO L. ROSSETTI
peccatore perdonato, figlio del Padre – lo preserva in modo costante e
indissolubile in un “senso” (coinvolgente e ragione e sentimento) di povertà e ricchezza, di dipendenza e libertà, di gratitudine e riconoscenza32. Tutto questo può tratteggiarsi appunto con la nozione tradizionale di timor Dei filialis: quel sapersi donato a sé, perdonato e responsabilizzato come creatura filiale dall’unico Buono e unico Padre33. Il timore filiale racchiude tanto il sensus Dei, con lo stimolo ad onorare Dio e
ad affidarsi a Lui, quanto il sensus sui con la percezione della dignità filiale graziosamente ricevuta con la responsabilità ad essa inerente.
2. Fraternitas: solidarietà, giustizia e misericordia
In un sobborgo di Manila nelle Filippine, un ragazzo di circa quindici anni porta sulle spalle un bambino più piccolo cui una gamba è offesa. Un signore dopo aver a lungo osservato il giovane, gli dice: «deve essere ben pesante quello che porti così!». Il ragazzo rispose semplicemente: «non è pesante è mio fratello».
Poniamo in esergo questo raccontino anonimo per la sua eloquenza circa le ricadute della consapevolezza della fraternità, la quale è il
corollario “orizzontale” dell’autocoscienza filiale. Di fatti, il sapersi figlio (in rapporto a Dio) genera pure nell’uomo, costitutivamente chia32
Sicché l’autocoscienza cristiana consterà sempre di un’autotrascendenza
teocentrica rifuggendo da riduttive visioni di autorealizzazione, cfr. L. M. RULLA, “Verso un’antropologia cristiana”, in F. IMODA (ed.), Antropologia interdisciplinare e formazione, EDB, Bologna 1997, 296. Sull’autostima in Paolo, vedi M.
DRENNAN-K. O’FLYNN, “Requisiti della stima di sé negli scritti di san Paolo”,
ib. 397-407.
33 In S. Tommaso, il timor filiale è il primo dei doni dello Spirito Santo (II,
II, 19, 9); consiste nella riverenza di Dio (rispetto/riconoscenza) e nel rifuggire
dal separarsi da Lui (ST I, II, 67, 4, ad 2; II, II, 19, 10); è rivolto a Dio in quanto autorità e giudice, come la speranza si volge alla di Lui misericordia (II, II,
19, 1, ad 2). Lungi dall’opporsi alla speranza, le è intrinseco e complementare
(ST II, II, 19, 9 ad 1: “temiamo di sottrarci all’aiuto”). In quanto principio dell’umiltà, contrasta la superbia (II, II, 69, 9, ad 4) e corrisponde principalmente
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
35
mato alla socialità (zoon politikon), una coscienza nuova in relazione
agli altri. Sia sul piano naturale che cristiano, la consapevolezza religiosa, radicata nella santità del Creatore/Padre ricco di amore e di fedeltà (H
. esed e Emeth), sostiene e avvalora la relazionalità interpersonale come senso di fraternità capace di generosità e di giustizia. La coscienza morale, che è fondamentalmente il senso del bene34, edotta
dalla filialità dell’uomo, si illumina come coscienza fraterna capace di
accogliere l’altro come il prossimo affidatomi dall’unico Padre in vista della comunione. La fraternità include quindi di per sé ed esige le due virtù umane di rispetto/giustizia e benevolenza (solidarietà/misericordia), come manifestazioni dell’amore e concrete espressioni del fare il
bene (Tov/kalos). Ora, tentando una approssimazione35, diciamo che il
bene è ciò che conserva e valorizza la vita; mantiene intatto, protegge
e accresce l’essere; unisce le persone, suscita e aumenta la comunione.
In contesto di fraternità il perseguimento del bene si attuerà come verità-giustizia (Emeth-Mishpat. ) mediante tutte quelle virtù che promuovono la pace e l’ordine (il rispetto della vita, del corpo, e dei beni; ma anche la fedeltà, veracità, esattezza, sincerità e correzione fra36
terna) e come benevolenza-misericordia (H
. esed) con le virtù che riparano e recuperano ciò che era debole, perduto o ferito (la sopportazione, la compassione, il perdono).
alla speranza ma anche alla temperanza (II, II, 141, 1 ad 3). Inerente pure alla
carità e al suo crescere, il timore filiale è destinato a rimanere in eterno (cfr. Sal
18,10) nel suo aspetto positivo di reverentia/admiratio di Dio e per il permanere
della distanza naturale tra creatura e Creatore (II, II, 19, 10, ad 3), allorché il suo
aspetto negativo (la paura di separarsi da Dio) scomparirà a causa del possesso
inamissibile (II, II, 19, 11).
34 R. GUARDINI, La coscienza, Morcelliana, Brescia 19482, 29.
35 Per un orientamento filosofico sul bene vedi E. BERTI, Il bene, La Scuola,
Brescia 1983.
36 In Os 2, 21 si può rinvenire la dualità di “giustizia-giudizio” (Tsedaqa/Mishpat. come ricaduta orizzontale, ovvero “dote” di Dio corrispondente alla sua Verità-Fedeltà (Emeth); allorché la “misericordia-compassione” umana (H
. esedRah.amim) corrisponde appunto alla bontà condiscendente del Signore (H
. esed).
Cfr. la nota di E. OSTY nella Bibbia di erusalemme ad. loc. Sul binomio Mishpat. H
. esed vedi pure Mi 6, 8.
36
CARLO L. ROSSETTI
Questa visione coglie il fondamento dell’etica sociale naturale nella solidarietà (inclusiva di giustizia e compassione) e fa capire ancor
meglio perché in ambito cristiano – in cui “la carità non gode dell’ingiustizia” (1Cor 13, 6a) – la sfera della misericordia lungi dal contrapporsi a quella della giustizia non fa che esplicitarla alla luce dell’iniziativa divina, la cui giustizia si è rivelata come salvifica e rigeneratrice (Mt 3, 15; 5, 20-48).
Nella disamina dell’humanum e dello specifico cristiano, dovremo
però mantenere la distinzione esistente tra fraternità umana e cristiana37. Cogliere il nesso tra queste due realtà, distinte ma non separate, giova molto per comprendere la relazione tra “natura” e grazia,
tra convivenza civile e comunione ecclesiale, tra dottrina sociale ed
ecclesiologia.
2.1. Humanum: fraternità universale e solidarietà
Tra i valori condivisibili capaci di integrare una società globalizzata, si tende oggi a considerare in particolare la solidarietà38. Di questa però va cercato il fondamento ontologico. Perché non solo possiamo essere solidali, ma dobbiamo esserlo? Tale motivazione si trova, in ultima istanza, in quella nozione cara al magistero ecclesiastico, ma di fatto di dominio della recta ratio: l’unità della famiglia umana ossia la fraternità universale39. È un principio dell’etica naturale,
ascrivibile all’humanum e accettabile da parte di ogni coscienza rettamente educata, il riconoscere la fondamentale unità del genere umano e la pari dignità di tutti gli uomini accomunati dal vincolo della
creaturalità (CCC 1955).
37
Un indizio neotestamentario della distinzione tra fraternità umana e cristiana si trova in Fm 16: “un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto
più a te, sia come uomo (en sarki), sia come fratello nel Signore (en kyriô-i)”.
38 E. MONTI, Alle fonti della solidarietà. La nozione di solidarietà nella dottrina
sociale della Chiesa, Glossa, Milano 1999.
39 Sulla fraternità universale vedi A. M. BAGGIO (ed.), Il principio dimenticato.
La fraternità nella riflessione politologica contemporanea, Città Nuova, Roma 2007.
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
37
Per circoscrivere la portata sociale della coscienza dell’identità
creaturale/filiale, occorre muovere dalla questione del nesso tra fraternità e solidarietà. Il magistero, seguendo l’adagio classico agere sequitur esse, sostiene chiaramente che la solidarietà affonda le sue radici nella coscienza della fratellanza:
«La coscienza della paternità comune di Dio, della fratellanza di tutti gli uomini in Cristo, “figli nel Figlio”, della presenza e dell’azione
vivificante dello Spirito santo, conferirà al nostro sguardo sul mondo
come un nuovo criterio per interpretarlo. Al di là dei vincoli umani e
naturali, già così forti e stretti, si prospetta alla luce della fede un nuovo modello di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi, in ultima istanza, la solidarietà»40.
«Il principio di solidarietà, designato pure con il nome di ‘amicizia’ o
di ‘carità sociale’, è una esigenza diretta della fraternità umana e cristiana: un errore oggi largamente diffuso, è la dimenticanza della legge della solidarietà umana e della carità, legge dettata e imposta tanto
dalla comunità di origine e dall’uguaglianza della natura ragionevole,
propria di tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, quanto
dal sacrificio offerto da Gesù Cristo sull’altare della croce, al Padre
suo celeste, in favore dell’umanità peccatrice»41.
Sono qui enucleati i fondamenti antropologico e soteriologico del
rispetto della dignità umana. La fratellanza insita nella comunità
umana è primariamente d’ordine creaturale, ma trova il suo compimento e la sua verità ultima nella fraternità cristiana. È da questo dato oggettivo, sostanziale che scaturisce, come esigenza e legge, la solidarietà. Quest’ultima è la virtù morale e sociale sorta dalla consapevolezza dell’interdipendenza e corresponsabilità tra gli uomini e le nazioni che si attua nella “determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno”
40
GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis (1987), n. 40.
CCC 1939. Similmente Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, n.
414: “la solidarietà (...) scaturisce dalla fraternità umana e cristiana”.
41
38
CARLO L. ROSSETTI
(SRS 38). Essa comporta in se stessa l’esigenza della giustizia ed ha
come suo fondamento naturale la fratellanza universale e la comune
origine del genere umano in Dio creatore. È nella vocazione divina
di ogni uomo e nella redenzione operata da Cristo che giace il motivo di esercitare la solidarietà come forma di carità (CCC 2437-2438).
Occorre adesso indagare un po’ più da vicino la relazione tra coscienza naturale e soprannaturale del rapporto di fraternità.
La verità delle cose e degli esseri è il modus videndi Dei, ovvero il
modo in cui Dio li vede e li vuole42. Ora, se la verità sull’uomo consiste nel suo essere persona trascendente, nella sua filialità nei riguardi di Dio; ebbene la verità della socialità umana e quindi il fondamento dell’etica comunitaria è la fraternità. E questa è radicata appunto nella coscienza della paternità divina come dichiara solennemente un importante passo del Concilio: “Non possiamo invocare
Dio come Padre di tutti, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli
(fraterne) verso alcuni uomini creati a immagine di Dio. L’atteggiamento dell’uomo verso Dio Padre e quello dell’uomo verso gli uomini fratelli sono così connessi che la Scrittura dice: “Chi non ama,
non ha conosciuto Dio” (1Gv 4, 8).
Viene dunque tolto il fondamento a ogni teoria o prassi che, tra
uomo e uomo, tra popolo e popolo, introduce discriminazione in ciò
che riguarda la dignità umana e i diritti che ne derivano. Di conseguenza la Chiesa condanna, come contraria alla volontà di Cristo,
ogni discriminazione tra gli uomini e ogni persecuzione perpetrata
per motivi di razza o di colore, di condizione sociale o di religione”43.
Paolo VI, citando questo brano, soggiungeva: “È dovere di tutti, e
specialmente dei cristiani, lavorare con energia per instaurare la fraternità (fraterna coniunctio) universale, base indispensabile di una giustizia autentica e condizione di una pace duratura”44.
42
C. LORENZO ROSSETTI, “La nozione teologica di verità e lo sviluppo della civiltà”, in Aquinas 47 (2004) 397-403.
43 Nostra aetate, n. 5.
44 Octogesima adveniens (1971) n. 17; vedi anche n. 23; 37; vedi Populorum progressio (1967), nn. 43-44.
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
39
Come alla base della corretta relazione con Dio stava la coscienza della propria filialità creaturale; così alla base della giustizia e della pace sta la coscienza della fratellanza tra gli uomini. Il sapersi fratello è il dato sul quale si fonda il dovere della giustizia e della solidarietà. La consapevolezza del dono veicola l’etica del debito45. Il
sapere l’altro donato a se stesso (Gabe), come me, dal Creatore provoca il dovere (Aufgabe) di accoglierlo con riconoscimento/riconoscenza (reconnaissance). Il domenicano Lacordaire ricordava in proposito che “il diritto è il volto egoista della giustizia, il dovere ne è
il volto generoso e devoto”46. Si deve quindi di difendere “l’unità
inviolabile del genere umano” e l’“unità sostanziale che fa del genere umano una famiglia sorta da un solo amore e da un solo sangue”.
Da qui la pari dignità dei sessi (“la donna non sarà la schiava dell’uomo; ne sarà la sorella”) e delle razze (“il negro non ha forse l’anima del bianco?”); da qui altresì la fraternità come vero principio
della convivenza sociale. Il genere umano costituisce difatti “il concilio disperso di una sola razza” sicché “diremo ad ogni uomo: “tu
sei mio fratello”; ad ogni nazione: “tu sei mia sorella”; a tutti, qual
che sia il loro colore, la loro storia, il loro nome: ecco l’osso delle mie
ossa e la carne della mia carne”. Solo nel ricordo di tale derivazione
della famiglia umana dal Creatore si potranno unire “i nostri beni e
i nostri mali in un’immensa e sincera fraternità”, giacché “Lui solo
ci può benedire, lui solo ci può dischiudere un’era di vera libertà,
uguaglianza e fraternità”.
La fratellanza (adelphotês) è il rapporto ontologico esistente tra coloro che hanno una comune generazione, il quale fonda una peculiare relazione di prossimità e sentimento di amicizia (fraternità / philadelphia). A questa prossimità è legata una peculiare esigenza di giusti45
In prospettiva filosofica, vedi N. SARTHOU-LAJUS, L’éthique de la dette,
PUF, Paris 1997.
46 Conferenza LI, 1848 (anche la citazione che segue nel testo). Pensiero ribadito costantemente, cfr. Lettera al duca di Norfolk di J. H. Newman: la coscienza ha dei diritti perché sa di avere dei doveri. Gandhi sosteneva che: “Il
Gange dei diritti discende dall’Himalaia dei doveri”. BENEDETTO XVI, Messaggio per la giornata della pace (1. 01. 2007), n. 12.
40
CARLO L. ROSSETTI
zia e di misericordia, di rispetto e di assistenza. Il riconoscere la fratellanza umana e quindi l’agire secondo fraternità, ossia nella solidarietà, dipende dalla più o meno grande educazione della coscienza filiale. Ci si può riconoscere fratelli soltanto in quanto con-generi,
uguali nella costituzione naturale-biologica. È questo un primo stadio, elementare di fraternità, che comporta il diritto/dovere di rispettare le necessità primarie dell’altro in quanto appartenente come
me al genere umano. La fraternità sarà invece vissuta in modo più intenso qualora alla prospettiva naturale si aggiunga la considerazione
della “genealogia” teologica dell’uomo, il saperlo cioè originato con
particolare amore dalla Divinità47.
La fratellanza fra tutti gli uomini prescindere dalla loro razza, nazione, lingua, religione ecc. in virtù della comune origine in Dio Padre creatore: la “legge di solidarietà umana e di carità, senza escludere la ricca varietà delle persone, delle culture e dei popoli, ci assicura
che tutti gli uomini sono veramente fratelli”48. Si trova, già ribadito
con forza dal concilio Vaticano II, l’auspicio che gli esseri umani
“rendano il mondo più conforme all’eminente dignità dell’uomo,
aspirino a una fratellanza universale e superiore” (“universalem altiusque fundatam fraternitatem”, GS 91), nella certezza che alla base della pace c’è lo “studiosum fraternitatis exercitium” (GS 78). Eppure que-
47
“Non viviamo gli uni accanto agli altri per caso; stiamo tutti percorrendo
uno stesso cammino come uomini e quindi come fratelli e sorelle. È perciò essenziale
che ciascuno si impegni a vivere la propria vita in atteggiamento di responsabilità davanti a Dio, riconoscendo in Lui la sorgente originaria della propria, come dell’altrui, esistenza. È risalendo a questo supremo Principio che può essere
percepito il valore incondizionato di ogni essere umano, e possono essere poste
così le premesse per l’edificazione di un’umanità pacificata. Senza questo Fondamento trascendente, la società è solo un’aggregazione di vicini, non una comunità di fratelli e sorelle, chiamati a formare una grande famiglia” in BENEDETTO XVI, Messaggio per la giornata mondiale della pace (1. 01. 2008), n. 6.
48 CCC 361, il testo cita un importante brano della Summi Pontificatus, prima enciclica di Pio XII (1939); GS 38; 39. Importante missione laicale è quella
di trasformare il diffuso “sensus solidarietatis” in “sincerum et verum affectum fraternum” (Apostolicam actuositatem, n. 14).
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
41
sta fratellanza, iscritta nella stessa natura umana, è per così dire nascosta, o meglio offuscata dal peccato (e dalle strutture di peccato) del
mondo. Misconoscendo la paternità divina, gli uomini mancano anche di riconoscere il legame ontologico che li lega e le loro coscienze non percepiscono appieno l’affetto solidale che dovrebbe scaturirne. Ricordando l’immagine evangelica del “sale della terra” e della
“luce del mondo” (Mt 5, 14ss) diciamo che la fratellanza universale
tra gli uomini è quella “casa” (oikia) che giace nelle tenebre finché
non risplende una “lampada” (lychnon). Tale fonte di luce è la Chiesa,
la fraternità cristiana, soprannaturale, che rifulge anche perché la
bellezza della casa appaia.
2.2. Christianum: fraternità in Cristo e carità
Immerso nella comunità delle persone, l’io umano scopre la sua filialità lasciandosi interpellare come tu dall’io materno/paterno. Gradualmente esso potrà scoprire la sua misteriosa e più vera “genealogia”49: l’essere un Tu filiale rispetto all’Io paterno di Dio svelato nel
kerygma. Dal “tu sei mio figlio” si giungerà poi al “tu amerai il tuo
fratello/prossimo”.
Se, in forza della paternità divina, la filialità è la verità della persona umana (Rm 8, 15s), la fraternità è la verità della comunione interpersonale (Mt 23, 8). Le conseguenze etiche di questi presupposti
teologici sono evidenti e della più grande rilevanza. Così, il problema dell’amore di sé si illumina enormemente: io potrò e dovrò
amarmi come figlio del Padre e fratello di Cristo, Prototokos. L’ego è
“odioso” (Pascal) quando rifiuta la sua filialità. E questa è purtroppo
la condizione normale della soggettività umana post-lapsare. Nello
Spirito di Cristo avviene però la redenzione dell’io umano (così come del desiderio!), la sua “filializzazione” nei riguardi di Dio e la sua
“fraternizzazione” nei riguardi del prossimo. Potrò e dovrò amare
l’altro come me stesso, riconoscendo in lui un figlio di Dio e quindi
un mio fratello. E questo in verità e nella reciprocità verso un mem-
49
GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle Famiglie (1994), n. 9.
42
CARLO L. ROSSETTI
bro della Chiesa, e potentialiter e in spe per un non cristiano; vedendolo sin d’ora con lo sguardo di Cristo50.
Il sapersi un io filiale inserito nella figliolanza del Primogenito tra
molti fratelli (Rm 8, 29), la cui vita è quella dello Spirito di koinonia,
suscita la presa di coscienza della vocazione alla fraternità. Sicché il
“noi” della comunione si presenta come reale possibilità ed esigenza. Il
comandamento dell’amore al fratello, lungi dall’essere un’ingiunzione gravosa, diventa la logica risposta ad un amore che ci ha preceduti nonché intrinseco alla propria realizzazione51.
La comunione fraterna si svilupperà conforme al comando dell’amare il prossimo “come se stessi” che implica il rispetto e l’aderenza
da un lato alla giustizia di Dio (che mi ha fatto degno e responsabile)
e dall’altro alla di Lui misericordia (che mi ha fatto redimibile e di
fatto mi ha perdonato). Giustizia e misericordia, che, in quanto attributi divini, costituiscono – come abbiamo visto – le due fonti del timor filialis, sono ugualmente, come virtù umane, i due assi della moralità ad alios. La coscienza della necessità di giustizia e misericordia
deriva, in prospettiva cristiana (quindi penumatologica e trinitaria)
dalla consapevolezza di appartenere gli uni agli altri come membra di
un unico corpo52. Il debito che l’altro ha contratto verso di me col
suo peccato, io sono chiamato a condonarlo proprio come il Dio di
misericordia ha fatto con me (Ef 4, 32; Mt 18, 21-35). Il circolo virtuoso del perdono cristiano è quindi: il Padre mi ha perdonato (in
Gesù Cristo) / io amo il prossimo come me stesso e quindi lo perdo-
50
E. BALDUCCI, Per una nuova cristianità, Ave, Roma 1964, 72: “L’uomo che
si avvicina me, mi sia amico o nemico, è, nel suo intimo essere, un mistero da
rivivere. Quel che di lui capisco, l’intelligenza viva o l’ignoranza la bontà o la
malvagità, non sono qualità sufficienti a definirlo. Il suo vero volto è quello che
Dio guarda quando lo guarda”. BENEDETTO XVI, Deus caritas est (2005), n. 18:
“Imparo a guardare quest’altra persona non più soltanto con i miei occhi e con
i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo”.
51 Si veda su questo BENEDETTO XVI, ib. 17ss. e Spe salvi (2007), “Cristo è
morto per tutti. Vivere per Lui significa lasciarsi coinvolgere nel suo ‘essere
per’” (n. 28).
52 Rm 12, 5; 1Cor 12, 12; Gal 3, 28.
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
43
no (come Cristo mi e lo ha perdonato) / in forza di questo posso chiedere ancora al Padre di perdonarmi le mie quotidiane mancanze.
Alla base dell’agire morale giusto e fraterno, ossia responsabile e
solidale verso l’altro, sta quindi la coscienza di essere compartecipi di
una medesima grazia (in contesto coniugale 1Pt 3, 7), di essere debitori gli uni verso gli altri, di un amore vicendevole (Rm 13, 8). Tutta
l’esistenza morale cristiana si presenta come l’assolvimento di un debito verso lo Spirito (Rm 8, 12). Siffatta visione neotestamentaria riflette e porta alle sue ultime conseguenze la summenzionata “etica
del debito”, per la quale il mio diritto nei riguardi dell’altro si radica
sul dato della mia dignità donatami o restituitami dal Signore e il mio
dovere verso l’altro non è che il rovescio di questa medaglia.
La fraternità cristiana nasce dal libero e inaudito disegno di Dio di
entrare nella storia degli uomini; essa si radica non tanto nel dono naturale della creazione quanto nella grazia soprannaturale dello Spirito
del Figlio e attinge alla paternità divina rivelata da Cristo e comunicata nel suo Spirito santo. Il vangelo della fratellanza cristiana costituisce quindi, rispetto alla fratellanza umana il ruolo di fermento53; essa è un faro, un segno di ciò che dovrebbe estendersi escatologicamente a tutti: “La Chiesa, in forza della missione che ha di illuminare tutto il mondo con il messaggio evangelico e di radunare in un solo Spirito tutti gli uomini di qualunque nazione, stirpe e civiltà, diventa segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo” (GS 92; pure AG 7-8).
Al fine di illuminare la coscienza dei loro contemporanei sulla verità iscritta nella natura umana, i cristiani non devono certo identificare
la fratellanza cristiana con quella universale, ma piuttosto devono far
brillare la luce propria della Koinonia ecclesiale: quanto più essi avranno coscienza di essere fratelli in Cristo, tanto più gli uomini si riconosceranno come fratelli in umanità. Se i cristiani testimonieranno la lo-
53
Vedi Ad gentes, n. 3; GS 32 (Cristo “novam fraternam communionem instituit”); Unitatis redintegratio, n. 7. Sulla metafora del “fermentum” applicato al
vangelo e alla Chiesa nei riguardi della dignità umana, della società e della storia, vedi GS 26. 40. 44.
44
CARLO L. ROSSETTI
ro adozione filiale nello Spirito Santo, la società civile si aprirà al riconoscimento del valore sacro della vita e della fratellanza naturale tra
ogni uomo. Così come il vangelo del “Dio fatto uomo perché l’uomo
diventasse Dio” ha fermentato al punto da indicare il valore inalienabile della persona umana (i diritti dell’uomo); così il vangelo della “comunione fraterna nello Spirito santo” deve lievitare in modo da rivelare la creaturale ed universale fraternità. Gli uomini nel vedere la comunione fraterna cristiana, potranno scoprire, di riflesso, la loro propria e naturale vocazione filiale/fraterna. Quanto più i cristiani vivranno “con l’Abbà nel cuore”, tanto più i loro contemporanei onoreranno
la paternità creatrice di Dio. La grazia non solo presuppone e perfeziona la natura, essa la anima e la fa risplendere: la fraternità cristiana
insieme perfeziona, serve e mette in luce la fraternità universale54.
La fratellanza, risultata come il valore fondamentale per una vita
civile degna dell’uomo, non si dà senza la coscienza filiale radicata in
Dio; l’unico Dio, conoscibile dalla ragione e amato dalla fede.
In sintesi, il proprio della vita ecclesiale è la fraternità cristiana, soprannaturale, radicata nella grazia della fede e del battesimo e vissuta nella carità. Questa realtà non si identifica, ma piuttosto è come
l’anima di quella fraternità umana che è invece di ordine naturale e
per cui, in forza della creazione e vocazione finale, tutti gli uomini di
qualsiasi razza, nazione e religione sono membri di una sola famiglia.
La fratellanza cristiana si vive nella carità; allorché la fratellanza universale si manifesta nella solidarietà sociale. Di nuovo, il “christianum” porta a perfezione, illumina e fermenta l’“humanum”.
3. Conclusione. Per un’etica della filialità e della fraternità
Tiriamo le fila del nostro discorso dando una visione d’insieme
dell’etica cristiana alla luce del principio della filialità e della fraternità. Dapprima ricapitoleremo, sotto forma di tesi, l’essenziale della
54
Il principio di Identità-Elezione proprio della fraternità cristiana non significa elitismo, ma vocazione al servizio, cfr. J. RATZINGER, Fraternità cristiana,
Paoline, Roma 1962, 113.
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
45
nostra proposta (3.1.); in tale contesto, proporremo una possibile articolazione organica dei vizi e delle virtù (3.2.) ed offriremo infine un
piccolo ritratto-elogio del cristiano come figlio (3.3).
3.1. Tesi sulla filialità
La filialità è il concetto chiave che rende conto di quel dato ontologico – ossia l’essere in rapporto di dipendenza e fiduciosa attesa nei
riguardi di un’autorità buona (maternità/paternità) – che permette il
sorgere di una retta coscienza di se stessi (autocoscienza), di Dio (coscienza religiosa) e degli altri (coscienza interpersonale). Si possono
distinguere “tre gradi” di filialità: naturale, religiosa e cristiana.
Filialità umana: la filialità è innanzi tutto di tipo naturale o creaturale: essa dipende dall’esperienza fondamentale dell’infanzia umana.
Se questa è positiva, cioè carica di attestati di amore e verità, di autorevolezza e bontà, il soggetto si scoprirà insieme umile e forte percependo se stesso con giusta autostima e senso della propria dignità in
quanto essere personale, spirituale e relazionale, percependo gli altri
con senso di solidarietà, inclusivo di esigenza di giustizia e di generosità in forza della co-appartenenza alla medesima famiglia umana.
Filialità religiosa: la filialità può poi svilupparsi, trascendendo il livello familiare e quindi universalizzarsi, in ambito religioso come
rapporto di umiltà e fiducia nei riguardi di Dio, riconosciuto come
Fondamento sacro e assoluto (Archê) degno di affidamento e di adorazione. Tale atteggiamento, vero e giusto, può essere favorito dalle
grandi religioni capaci di instillare il senso della Grandezza/Giustizia
e Bontà/Misericordia di Dio nonché dell’unicità del genere umano.
Sul piano sociale, a codesta filialità religiosa corrisponde il senso della fraternità e solidarietà universale come debito verso il Dio creatore e la condivisione, comune a tutti gli uomini, della sua imago.
Filialità cristiana: la filialità trova la sua pienezza nella figliolanza
cristiana, in cui mediante la grazia dello Spirito di Gesù Cristo, il Figlio perfetto, l’uomo giunge al culmine della coscienza filiale (timor
filialis). Questa è eucaristica nei riguardi del Dio Padre-Amore (Abbà) e soprannaturalmente fraterna per la comunione di carità nella
Chiesa come Corpo di Cristo.
46
CARLO L. ROSSETTI
3.2. Uomo vecchio – uomo nuovo: vizi e virtù alla luce
3.2. della filialità
L’uomo “vecchio”, vivente senza la grazia di Cristo, è fondamentalmente un “orfano di Dio”; basato su se stesso, il suo male originario è la mancanza di coscienza e quindi di relazione filiale con Dio.
Principio della vita peccaminosa è l’essere “carne” (sarx), il dipendere cioè solo da se stessi. Da questa radice perversa spuntano due virgulti maligni apparentemente opposti: la Superbia come auto-affermazione dell’Io e l’Accidia come latente coscienza della propria nullità. Da un lato la presunta forza dell’uomo che idolatra se stesso e dall’altro la sua estrema fragilità che lo induce a disperare. Dal medesimo tronco si dipanano poi le altre caratteristiche dell’uomo vecchio:
alla debolezza dell’Accidia fa riscontro l’Intemperanza, come incapacità di dominare se stessi nella frenetica ricerca di sicurezza e di piacere (Gola-Lussuria), mentre alla Superbia segue l’Ingiustizia come
disprezzo di Dio (Idolatria) e del prossimo (Avarizia). Anima e corona della vita peccaminosa è l’assenza di amore che si esprime in modo passivo come indifferenza verso gli altri e in modo attivo come
odio (o Ira) ed è contrassegnata dalla tristezza della solitudine e della
disperazione.
All’inverso l’esistenza dell’uomo nuovo, rigenerato in Cristo nello Spirito Santo, consiste nella vita teologale di fede, speranza e amore che penetrano e informano tutte le virtù umane. Punto di partenza e radice della santità è la filialità divina, la coscienza di dipendere
dal Dio santo e di poter affidarsi alla sua bontà. Tale atteggiamento
trova compimento e coronamento nella figliolanza cristiana, ovvero
nell’essere “fondati e radicati” nel Figlio (Col 2, 6). Dalla coscienza filiale (che corrisponde alla sapienza della fede) scaturiscono le due
sorgenti che irrigano insieme tutta la vita cristiana: l’Umiltà del Timor di Dio e la Libertà (forza/franchezza) della Fede (parrhêsia): verità e grandezza dell’essere figli del Padre celeste. Alla coscienza filiale nei riguardi del Padre celeste si appoggia la coscienza di sé e il
riconoscimento degli altri come fratelli. Da qui un’esistenza segnata
da tre caratteristiche riconducibili allo Shemà Israel insegnato da Gesù (Mc 12, 29s): l’amore per Dio (Timor filialis); il rispetto della pro-
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
47
pria dignità personale di tempio di Dio (Temperanza-Castità) e l’attenzione al prossimo/fratello (Giustizia e Misericordia). Anima e corona della santità, nonché forma di tutte queste virtù è l’Amore che risplende nella gioia della comunione e della speranza.
Tutto ciò si ricapitola nell’Eucaristia, sacramento e alimento della
vita filiale. Essa fa comunicare al Figlio, lasciando che si sfoghi l’umiltà del timor di Dio (“Kyrie elesion...”; “non sum dignus...”); l’esultanza della lode e dell’adorazione (“nos semper Tibi gratias agere”; “Per
Ipsum...”); l’anelito della speranza (“donec venias”); la franchezza della
preghiera filiale (“audemus dicere...”); la solidarietà della comunione
fraterna (“pax tibi”).
3.3. Elogio del figlio: un ritratto del cristiano
Sia lecito congedarci con linguaggio non tecnico, ma anzi letterario e alquanto lirico, proponendo un ritratto del cristiano. Vorremmo esprimere così anche un poco della bellezza dell’ethos filiale e
paradossale, perché onnicomprensivo, che abbiamo voluto illustrare.
Umile ed alto, più che creatura. Piccolo e nobile, perché figlio.
Pieno di timore e tremore per la sua salvezza ed insieme forte e franco come un re. Servo di Dio e dei fratelli, padrone di se stesso e delle sue passioni. Pieno di pace e di consolazione, perché amato e perdonato dal sangue di Cristo. Colmo di sollecitudine e di angustia per
il male che ancora abita il mondo. Capace di verità, egli vede le cose
con lo sguardo di Dio: considera l’onnipotente sovrano dei mondi,
come suo papà; ogni uomo, ogni creatura come fratello e sorella, coerede con lui della santità e della gloria di Cristo. Egli vive nella storia, ma il suo cuore è nell’eternità. Ama il tempo perché colmo di
Dio, ma anela all’eterno presente dell’abbraccio col suo Signore. Si
ricorda sempre, si protende sempre, e sempre vive intensamente l’attimo presente. Fa memoria della Pasqua, opera d’amore di Cristo per
l’umanità, ma si ricorda anche dei memoriali seminati dalla provvidenza nella sua piccola storia santa, le grazie, gli incontri con messaggeri di liete notizie, le consolazioni ricevute e i momenti di misericordia. Si slancia nel futuro: spera con tutto il cuore che quanto è
iniziato in Gesù, nei santi, in lui, si estenda al mondo intero, la sal-
48
CARLO L. ROSSETTI
vezza, la comunione filiale con il Padre d’amore. Desidera con tutto
il cuore che venga il Regno di Dio, sulla terra come in cielo. Spera
nel Paradiso, ma anche nella Civiltà dell’amore, come una sua alba,
qui sulla terra. Anela alla consolazione e sospira per la redenzione di
ogni lacrima, di ogni dolore. Già li sa, quei dolori innocenti, associati alla gloria del Figlio, abbandonato ed esaltato. Eppure è violento
per il Regno, non si dà pace. Il male e il peccato del mondo, li detesta e denuncia con parrhesia profetica. Affamato di giustizia, egli la
reputa il primo abbozzo di amore. Vive il presente e carpisce l’attimo
fuggente, lo avvolge con la carità come di un manto per renderlo
eterno. Ogni occasione è buona per lui per trasformare un incontro
fortuito, un dialogo casuale in un momento di grazia, cioè di comunione, di fraternità. Filiale verso l’Altissimo, fraterno verso tutti, egli
è l’uomo della comunione. Beato lui, uomo pieno di grazia.
“FILIALITÀ” E VITA CRISTIANA
49
SUMMARIES
“Filiality” may be considered the fundamental anthropological structure which
enables us to recover all the main points of Human and Christian ethics. Filiality consists in the fact of being and then of knowing oneself (filial consciousness) begotten from a good authority (fatherhood/motherhood) which
places the subject in a relationship of dependence and autonomy, submission
and freedom. It establishes, per se, humility and trust towards the parental
source and righteous and merciful solidarity towards the others (fraternity). It
can be initially lived in a healthy familiar context (natural Filiality); it may open
itself to Divine Transcendence and to all humankind in some great religions (religious Filiality) and has its full expression in the Sonship in Christ, the true Son
and the perfect brother.
***
Se puede considerar la “filialidad” como la estructura antropológica fundamental que permite integrar los elementos básicos de la ética humana y cristiana. La filialidad consiste en el ser y en el saberse (conciencia filial) engendrado por una autoridad buena (paternidad/maternidad) que coloca al sujeto
dentro de una relación, al mismo tiempo de dependencia y de autonomía, de
sumisión y de libertad, suscitando así humildad y confianza hacia el OTRO
(Paternidad) y solidaridad justa y misericordiosa hacia los otros (fraternidad).
Una relación que puede ser experimentada y valorada inicialmente en un sano contexto familiar (filiación natural) y que puede abrirse a la transcendencia
divina y a la universalidad del género humano en las grandes religiones (filiación religiosa), culminando en la filiación en Cristo, el verdadero Hijo y hermano perfecto.
***
Il saggio identifica nella “filialità” la struttura antropologica fondamentale capace di ricomprendere i capisaldi dell’etica umana e cristiana. La filialità consiste nell’essere – e secondariamente nel sapersi (coscienza filiale) – generati da
un’autorità buona (paternità/maternità) la quale stabilisce il soggetto in un rapporto insieme di dipendenza e di autonomia, di sottomissione e di libertà, suscitando, di per sé, umiltà e fiducia verso il genitore e solidarietà giusta e misericordiosa verso gli altri (fraternità). Essa può essere vissuta e valorizzata inizialmente in un sano contesto familiare (filialità naturale); può aprirsi alla trascendenza divina e all’universalità del genere umano in alcune grandi religioni
(filialità religiosa) e trova la sua massima espressione nella figliolanza in Cristo,
il vero Figlio e perfetto fratello.
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO
E FORMAZIONE DEL GIUDIZIO
DELLA COSCIENZA
Un saggio tra Oriente e Occidente
Basilio Petrà*
Introduzione
La tradizione orientale, che Giovanni Paolo II ci ha abituato a
chiamare il polmone orientale della Chiesa, è andata conquistando un
ruolo e una presenza sempre più rilevanti nella chiesa cattolica, dopo
secoli di emarginazione e di pura tolleranza. Già a partire dagli anni
’30 del secolo XX l’Oriente cristiano ha cominciato a fermentare il
pensiero di alcuni importanti teologi cattolici, favorendo la reazione
ad una teologia che la neoscolastica antimodernista aveva ridotto ad
una manualistica ripetitiva priva di vita e di contatto con la realtà.
Questa fermentazione però ha portato i primi frutti importanti solo
nel Concilio Ecumenico Vaticano II1.
* The autor is an invited professor at the Alphonsian Academy.
* El autor es profesor invitado en la Academia Alfonsiana.
1 Si veda la testimonianza di Y. CONGAR, J’aime l’Orthodoxie in 2000 ans de
christianisme II (1975) 97. Il testo è tradotto in italiano in Y. CONGAR, Saggi ecumenici: il movimento, gli uomini, i problemi, Note introduttive di Alberto Ablondi,
Città Nuova, Roma 1986, 68-69: “Il riavvicinamento tra le due Chiese ha cominciato a farsi – in modo ancora insufficiente, ma già sostanziale – nel Vaticano
II: gli orientali cattolici (uniti a Roma) non vi erano molto numerosi – un centinaio su 2500 Padri del Concilio – ma vi hanno svolto un ruolo considerevole,
grazie a certe personalità come quella di Massimo IV, a cui il patriarca Atenagora ha dichiarato due volte: ci esprimete, siete la nostra voce al Concilio. Giudicava dunque che le parole di Massimo IV rappresentavano veramente la tradizione orientale. Ora, questa voce è stata udita. E vi è stata incontestabilmente, al
Vaticano II, una certa riscoperta da parte della Chiesa cattolica, nella sua immensa maggioranza latina e occidentale, della parte orientale che le manca”.
StMor 46/1 (2008) 51-79
52
BASILIO PETRÀ
A partire dal Concilio l’apporto significativo della tradizione
orientale si è manifestata chiaramente nell’ambito dell’antropologia
teologica (la dottrina della grazia), della teologia trinitaria e della
pneumatologia, dell’ecclesiologia e della sacramentaria, della spiritualità e della liturgia, dell’iconografia e della musica liturgica.
In molti di questi ambiti sta cominciando a formarsi una teologia
cattolica a due polmoni nella quale la riflessione include sempre più le
tradizioni orientali come proprie fonti costitutive. Detto in altri termini, la cattolicità della teologia cattolica sta diventando sempre più
effettiva e concreta.
Finora l’interesse occidentale per la tradizione morale dell’Oriente è stato molto limitato e per lo più condizionato da esigenze strette della tradizione occidentale (problema della contraccezione e del
divorzio) o collegato con le esigenze di particolari discipline storiche
(patristica, storia dei dogmi e dell’antropologia teologica). Raramente ha trovato spazio nella riflessione formalmente morale qualche riferimento ad autori o tesi della teologia orientale.
Bisogna riconoscere che ciò è dovuto anche al luogo comune che l’Oriente non abbia una teologia morale o che essa si riduca alla spiritualità o che, nella migliore delle ipotesi, non si distingua dalla tradizione
occidentale. In effetti si deve dire che la storia conferma in parte questa idea, ma solo in parte. Essa mette al tempo stesso in luce che anche nella teologia morale si può parlare di una specificità orientale.
Ci sono prospettive e orizzonti morali che hanno una loro caratterizzazione propriamente orientale (greca o siriaca). Si va dalla questione delle fonti (il significato dei Padri, il ruolo della liturgia, l’autorità somma dei Canoni conciliari, la peculiare forma del magistero
episcopale) alla concezione del peccato, della penitenza, della legge
(la nozione di economia ecclesiastica), alla modalità di formazione
della coscienza ovvero del moral decision making2.
Tra gli aspetti che più caratterizzano la visione morale orientale è
certamente l’affermazione della forma ecclesiale della vita morale del
2
B. PETRÀ, L’etica ortodossa: alcune fondamentali caratteristiche, in StMor 43/1
(2005) 153-180.
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO E GIUDIZIO DELLA COSCIENZA
53
battezzato3. Non che tale aspetto sia assente nella tradizione latina;
tuttavia la modalità che assume nel contesto orientale è peculiare, basata su una forte percezione della trasformazione ontologica determinata dall’azione sacramentale.
Le considerazioni che seguono sono proprio dedicate al tema specifico della relazione tra costituzione ecclesiale del cristiano e formazione del giudizio di coscienza, e vogliono tentare l’elaborazione di
una riflessione cattolica in ambito morale che includa l’attenzione alla tradizione orientale, il che inevitabilmente significa anche attenzione alla tradizione delle chiese ortodosse che costituiscono la continuità storico-teologica dell’Oriente cristiano. In altre parole, si
tratta di considerazioni che vogliono essere a due polmoni in quanto
cercano di tenere contemporaneamente conto delle diverse tradizioni e cercano di prospettare la tematica in oggetto passando per vie inconsuete nel pensiero morale cattolico4.
1. Battesimo e costituzione ecclesiale del soggetto umano
Il punto di partenza della riflessione non può essere dato che dal
battesimo, giacché è con il battesimo che nasce al mondo e alla storia
3
Ho trattato in parte di questo aspetto in Ecclesialità ed etica cristiana. Annotazioni sul pensiero di Ch. Yannaras e Y. Zizioulas in Nicolaus 30 (2003) nn.1-2, 203217; Making moral decision ed ecclesialità nella teologia morale ortodossa recente in
Camminare nella luce. Prospettive della teologia morale a partire da Veritatis splendor, a cura di Livio Melina e José Noriega, Lateran University Press, Roma
2004, 727-749; The Christian’s Ecclesial Constitution and Formation of the Conscience in Theologizing in the Malankara Catholic Church, Edited by James Puthuparampil OIC, BVP Publications, Pune (India) 2007, 361-376.
4 Questa riflessione si colloca in continuità con quanto da me sostenuto alcuni
anni fa, in un intervento presso l’Istituto Giovanni Paolo II, nel quale ho mostrato l’attenzione all’ecclesialità dell’agire morale tanto in ambito protestante (in particolare St. Hauerwas e la riflessione del WCC su Ecclesiology and Ethics) quanto in
ambito cattolico (specialmente in H. U. von Balthasar), oltre naturalmente l’ambito ortodosso: cfr. B. PETRÀ, «Communio» ecclesiale e genesi del soggetto morale in
Quale dimora per l’agire? Dimensioni ecclesiologiche della morale, a cura di Livio Melina e Pablo Zanor, Pontificia Università Lateranense/Mursia, Roma 2000, 73-97.
54
BASILIO PETRÀ
un soggetto umano nuovo, esistente nella Chiesa e attraverso la Chiesa.
Il battesimo infatti non è semplicemente una nuova designazione o
una nuova collocazione sociale del soggetto umano preesistente: è
nuova creazione, nuova nascita attraverso l’immersione nella morte di
Cristo e l’emersione dalle acque come creatura nuova ormai vivente
per Lui, animata dal Suo Spirito, e come membro vivo del suo corpo
che è la Chiesa.
Per questo nel battesimo ci è dato il nome proprio. N. Cabasilas
sottolinea l’importanza di questo rito dell’imposizione del nome:
“Forse per questo il giorno salvifico del battesimo è per i cristiani il
giorno in cui si impone il nome, perché appunto in quel giorno siamo plasmati (plattometha) e configurati (typoumetha), e la nostra vita
informe (aneideos) e indeterminata (aoristos) riceve forma (eidos) e figura determinata (horos)” (La vita in Cristo, II, 2).
Le parole di Cabasilas ci aiutano a capire che il battesimo è certamente un’in-corporazione (un diventare membro del corpo di Cristo
che è la Chiesa) ma che questa incorporazione non è soltanto l’aggiungersi del credente ad un corpo già dato, come nuova o ulteriore
parte; non è cioè un evento semplicemente aggiuntivo o quantitativo. Il battezzato non si aggiunge propriamente alla Chiesa ma si unisce
ad essa in modo organico, come l’innesto o il trapianto di una parte
viva che entra in connessione vitale con tutto il resto del corpo. Ma
possiamo dire ancora di più: chi è immerso nelle acque battesimali
viene ricostruito, ricomposto e riconfigurato secondo l’identità di
Cristo del cui corpo (la Chiesa) diventa viva componente.
Come dice Cabasilas, il battezzato in qualche modo emerge dalla
“vita informe e indeterminata”, dal caos iniziale del primo Adamo, ricevendo nel battesimo “forma e figura determinata”. Nasce alla vita
vera, ri-plasmato dalla mano/dal soffio del Padre (lo Spirito) secondo la forma del Signore Gesù, dell’uomo nuovo e futuro, del risorto.
Ora, tale forma è «ecclesiale». Il Cristo infatti muore come singolarità umana e risorge come capo del corpo che è la Chiesa.
Fin dai primi tempi cristiani la straordinaria forza di questa trasformazione battesimale – di questa nuova nascita ecclesiale – è stata
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO E GIUDIZIO DELLA COSCIENZA
55
avvertita e si è tentato di esprimerla con parole molto significative
dell’esperienza umana. Uno dei modi per esprimerla è stata l’affermazione della «maternità» della Chiesa nei confronti dei neofiti. La
Chiesa è stata appunto vista come «madre» perché attraverso il fonte battesimale per la potenza dello Spirito genera figli nel Figlio che
nutre poi attraverso la Parola e i sacramenti.
Tuttavia, questa immagine non è bastata. E a giusto titolo. In ambito umano, infatti, la generazione è un processo ultimamente di separazione, di autonomizzazione e di indipendenza dalla madre: la vera madre è quella che si ritira sempre più per far crescere il figlio come essere separato. Nella realtà suscitata dal battesimo non è affatto
così. Il battezzato non si separa mai dalla madre ma piuttosto è chiamato ad unirsi sempre più a lei, ne condivide sempre più l’essere e la
forma; diventa la madre in qualche modo.
Di qui, la presenza anche di un altro tipo di linguaggio per esprimere quel che nel battesimo avviene: il linguaggio nuziale. Come la
Chiesa «madre» è anche vergine e sposa di Cristo, così il battezzato
stesso – costituito ecclesialmente – può essere detto «sposa di Cristo».
Il carattere nuziale del battesimo è stato sottolineato dai Padri siriaci e greci, in particolare da S. Giovanni Crisostomo. Nella tradizione siriaca è ben presente l’idea del battesimo come fidanzamento
a Cristo5. Riguardo a san Giovanni Crisostomo, poi, può bastare la
citazione di alcune parole di Jean-Pierre Cattenoz nel suo importante studio su Le Baptême mystère nuptial. Théologie de saint Jean Chrysostome 6: “Così, la vita sarà per il nuovo battezzato una festa continua,
5
S. BROCK, The Luminous Eye. The Spiritual World Vision of St Ephrem, Placid Lectures, C. I. I. S., Rome 1985, 99 ove commentando l’inno Digiuno 5, 1
dice: “Così uno dei molti aspetti del battesimo cristiano è il fidanzamento a Cristo. Nel caso delle vergini consacrate ciò era inteso molto letteralmente ed è
probabile che i voti di verginità fossero normalmente fatti al battesimo (che nel
tempo di Efrem avveniva per lo più in età adulta)”. A pagina 115, Brock ricordando i modelli concettuali che motivano il protomonachesimo siriaco enumera come primo modello: “il modello di Cristo come lo Sposo al quale i cristiani
individuali sono fidanzati nel battesimo”.
6 Editions du Carmel, Venasque 1993.
56
BASILIO PETRÀ
la celebrazione delle sue nozze con lo Sposo divino. Per lui, il Cristo
non è semplicemente un fratello, un amico, egli è divenuto il suo
Sposo”7; “Per il Crisostomo la morte è il compimento di un’avventura d’amore, di un mistero nuziale cominciato nel battesimo e consumato nell’eternità”8.
La nuzialità che lega il battezzato al Cristo Signore è la stessa che
lega la Chiesa al Suo Signore, ne è un’attuazione reale, un’esplicitazione particolare. Il battezzato infatti è diventato realmente corpo
vivo del Signore, ovvero Chiesa, e attraverso il battesimo la Chiesa
ha preso nuovamente corpo nello spazio e nel tempo, in un nome
personale.
Per questa inevitabile ed essenziale circuminsessione tra Chiesa e
battezzato, ogni battezzato è al tempo stesso con-corporeo ovvero conecclesiale con gli altri battezzati. Nell’unità della Chiesa, dunque, misteriosamente ma veramente, gli altri sono me e io sono gli altri.
Si costituisce in tal modo una condizione peculiare che potrebbe
essere descritta, attingendo alla teologia ortodossa, in questo modo:
la Chiesa attraverso ogni battesimo si dà un’ipostasi personale nuova
ed insieme questa nuova ipostasi riceve la natura ecclesiale in unità
naturale con le altre ipostasi9.
Ex parte ecclesiae, cioè dal punto di vista del tutto, si danno insieme la poli-ipostaticità e l’unità come immagine della comunione tri7
Ibid., 324.
Ibid., 25.
9 Usando il linguaggio di I. Zizioulas si può dire appunto che in forza del
battesimo l’uomo acquisisce un essere ecclesiale ovvero un’ipostasi ecclesiale. I. Zizioulas, nato nel 1931, ha compiuto i suoi studi a Atene e a Boston. Molto attivo nel Consiglio Ecumenico delle Chiese, ha contribuito in misura notevole alla stesura del BEM. Professore di teologia all’Università di Glasgow, è stato poi
ordinato vescovo, con il titolo di Pergamo, per il trono patriarcale di Costantinopoli. È stato anche presidente dell’Accademia di Grecia; presiede attualmente per gli Ortodossi la Commissione mista per il dialogo teologico tra ortodossi e cattolici. Si veda di lui su tale punto: L’essere ecclesiale, Edizioni Qiqajon (Comunità di Bose), Magnano (Bi) 2007, in particolare le pp.23-69 dedicate a: Dalla maschera alla persona. La nozione di persona e l’ipostasi ecclesiale. L’edizione originale del volume, in francese, è del 1981.
8
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO E GIUDIZIO DELLA COSCIENZA
57
nitaria; ex parte hypostaseos, cioè dal punto di vista della persona, ogni
ipostasi mentre fa essere la Chiesa come natura (la natura esiste nelle persone10) può veramente attuare se stessa, giacché solo nell’attuazione della comunione naturale con le persone l’ipostasi diventa se
stessa, mistero personale di comunione e di amore.
L’essere del battezzato è così un essere intimamente «comunionale» in quanto «ecclesiale» ed «ecclesiale» in quanto «comunionale».
Il rapporto con la Chiesa giunge a lui come appartenenza intima,
come identità fondamentale, come orizzonte originario del suo stesso essere e come inseparabile concomitanza nel suo cammino: egli
non solo è nella Chiesa, è la Chiesa in persona; non solo è un soggetto nella Chiesa, è la Chiesa fatta soggetto11.
10 È questo un tema tipico di teologi ortodossi personalisti come V. Lossky
(1903-1958), Ch. Yannaras (1935-) e lo stesso I. Zizioulas. Cfr. B. PETRÀ, Il pensiero personalista nella Grecia del secolo XX. Un primo tentativo di sintesi in L’idea di
persona nel pensiero orientale, a cura di G.Grandi, Soveria Mannelli (CT) 2003,
37-75; Christos Yannaras (1935-) in Credere oggi 24 (2004) n. 2, 121-130.
11 Questo linguaggio non deve sorprendere; non è davvero nuovo né ad
Oriente né ad Occidente. Si veda quel che scrive C. CAFFARRA, L’autonomia della coscienza e la sottomissione alla verità in AAVV, La coscienza, Conferenza Internazionale patrocinata dallo «Wethersfield Institute» di New York, Orvieto, 2728 maggio 1994, a cura di Graziano Borgonovo, LEV, Città del Vaticano 1996,
142-162, qui 143-144: “Nelle Omelie sul Cantico dei Cantici (1, 7), Origene arriva a dire «io, la Chiesa» e tutta la pagina è basata su questa misteriosa identificazione fra il soggetto, la persona credente e la Chiesa: la Chiesa è nel credente ed il credente nella Chiesa (...) Ed è ben noto che questa mistica identificazione ha costituito il principio ermeneutico fondamentale della Sacra Scrittura:
tutta la Scrittura parla di Cristo, cioè della Chiesa, cioè di ogni credente. Lo ritroviamo anche nel Medioevo. Basti un esempio. Tutto il Commento al Cantico di
san Bernardo si regge su questa mistica identificazione. «Quae est sponsa», si
chiede, «et quis est sponsus?» e risponde: «Hic Deus noster est, et illa, si audeo
dicere, nos sumus» (LXVIII, 1) (...) La pagina di Bernardo è assai utile per proseguire la nostra riflessione. Egli dice: «Quod simul omnes plene integreque
possidemus, hoc singuli sine contradictione participamus». Ha così spiegato la
nostra identificazione con la Chiesa. Questa è pienezza ed integrità (cioè è «cattolica»), il singolo partecipa di questa pienezza ed integrità: il singolo è tutta la
Chiesa, anche se non totalmente. La Chiesa diviene la dimora, cioè l’ethos del
credente”.
58
BASILIO PETRÀ
A questo punto diventa possibile affermare che la vita del nuovo
soggetto che nasce dal fonte battesimale non può non svilupparsi che
come fedeltà al proprio «essere ecclesiale». È su questo punto che ci
fermiamo ora.
2. La vita del cristiano come fedeltà al suo «essere ecclesiale»
Da quanto detto appare chiaro che ogni battezzato che intenda essere se stesso adeguatamente può pensarsi e vivere solo come soggetto ecclesiale, come persona nella Chiesa. La sua vita si nutre del terreno che la Chiesa è, vive del corpo che la Chiesa è. In essa attinge immediatamente o mediatamente tutte le sostanze che gli danno la vita
personale vera. In quanto è Chiesa sperimenta e riceve come propri i
doni dello Spirito alla Chiesa, Sposa di Cristo.
Nella Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica del 28 maggio 1992 che
la Congregazione per la dottrina della fede dedica ad Alcuni aspetti
della Chiesa intesa come comunione, al n. 4 si parla dei “doni divini, realtà ben visibili” mediante i quali Cristo continua ad esercitare la salvezza degli uomini e si enumerano questi doni: la dottrina degli apostoli, i sacramenti, l’ordine gerarchico.
Indubbiamente, la Lettera coglie un’essenziale verità all’interno di
una tradizione ben consolidata. La Chiesa è la forma storica e visibile
del Cristo risorto che effonde lo Spirito di risurrezione e apre al mondo la salvezza; di questa visibile azione effusiva e partecipativa i fondamentali strumenti attuativi sono i doni ricordati, doni istituzionali.
Tuttavia, non ci sono soltanto questi doni. I doni dello Spirito che
rendono bella la Sposa di Cristo sono senza fine e sempre nuovi; ci
sono doni che plasmano l’interiorità mistica dell’esistenza, doni che
edificano la comunità nella carità, doni che animano la sequela Christi nella storia, doni di sapienza che formano il cuore e il nous dei credenti. Si può provare non tanto a darne un elenco completo, quanto
a indicarne gli ambiti:
• il dono della Parola che la Chiesa ascolta dalla bocca degli apostoli e annuncia (kerygma) all’umanità aprendo a tutti la via della salvezza rendendo testimonianza (martyria) della risurrezione
di Cristo;
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO E GIUDIZIO DELLA COSCIENZA
59
• i doni spirituali e sapienziali con i quali la comunità dei redenti
si edifica nella santità (hagiasmos) come corpo del Signore, animato dal Suo Spirito di vita e di amore, come suo Regno e sua
Sposa fino al compimento ultimo, al banchetto di nozze dell’Agnello;
• i doni di servizio reciproco nella carità (diakonia-douleia: Mc 10,
41-45), mediante i quali i figli della Chiesa manifestano la loro
ecclesialità e rivelano la Chiesa una/molteplice come immagine
vivente della Trinità;
• i doni del sacerdozio regale che aprono la via alla trasformazione del mondo in Regno, degli uomini in ipostasi della Chiesa,
dell’umanità intera in Chiesa, venendo incontro ai bisogni degli
uomini e sanando il mondo (Deus caritas est, 19).
Nell’accoglienza e nello scambio dei doni, frutto sempre attuale
della Pentecoste che continua ad infiammare la Chiesa raccolta con
gli apostoli e Maria in preghiera, il battezzato è edificato nel suo essere: diventa ciò che è. Niente di eteronomo accade e niente di esterno è dato. Tutto è carne della sua carne, osso delle sue ossa.
Certo, ogni battezzato è chiamato a seguire Cristo nel suo proprio
modo, con il suo proprio dono, rispondendo alla chiamata del Signore a percorrere il suo personale sentiero con fedeltà (il sentiero di
Pietro, il sentiero di Giovanni).
“Personale sentiero” significa infatti sentiero lungo il quale si attua come nome proprio, come singolarità nella comunione, al modo
stesso di Pietro, Giacomo, Andrea, Giovanni, Giuseppe ecc.
Tutti i diversi sentieri solcano l’unica terra, che è la Chiesa, e ne
rendono ricca l’unità, secondo un disegno che è tratteggiato dalla
mano nascosta di Dio, che è lo Spirito.
Queste due coordinate, l’unità della terra ecclesiale e la particolarità
del sentiero di ognuno, stabiliscono condizioni fondamentali di verità
dell’esistenza cristiana e compongono dimensioni insostituibili della
maturazione di una coscienza cristiana.
60
BASILIO PETRÀ
3. Ecclesialità e cattolicità della coscienza morale cristiana
La coscienza morale del cristiano, in quanto egli è un soggetto –
ovvero un essere – ecclesiale, non può non essere una coscienza aperta
a tutto l’essere della Chiesa, attenta ad integrare armonicamente e fedelmente nel suo cammino tutto quel che nella Chiesa può costituire l’humus del suo giudizio. È cioè una coscienza inevitabilmente tesa alla cattolicità.
La connessione tra ecclesialità e cattolicità della coscienza è magistralmente richiamata da O. Clément. Egli, infatti, dopo aver messo
in luce che l’azione rivelativa dello Spirito si attua nella profondità ecclesiale di ogni coscienza cristiana là dove essa si apre alla comunione
con le altre (“Lo Spirito che non cessa di riposare sul Corpo di Cristo
rende la Verità evidente alla Chiesa, cioè ai cristiani che fanno della
Chiesa la profondità comunicante della loro coscienza personale”12),
scrive queste splendide parole:
“La coscienza cattolica non è individuale, ma personale, cioè ecclesiale. Essa è data non all’individuo che frammenta l’umanità e così si
rende opaco all’amore trinitario, ma alla persona che realizza nello
Spirito Santo la sua «consostanzialità» eucaristica con tutte le altre.
È una conoscenza «in comunione» (...) L’amore reciproco dei cristiani, il misterioso accordo delle loro coscienze attraverso lo spazio e il
tempo costituiscono l’icona ecclesiale della Trinità: al Dio-Trinità
corrisponde l’Uomo-Chiesa”13.
Si avverte in queste parole l’eco di un autore che è stato maestro
di O. Clément, cioè V. Lossky (1903-1958):
“Il mistero della cattolicità della Chiesa si realizza nella pluralità delle coscienze personali come un accordo di unità e di molteplicità, a
12
O. CLÉMENT, L’Église, libre catholicité des consciences personnelles. Point de vue
d’un théologien de l’Église orthodoxe, in Le supplément n. 155 (Décembre 1985) 5563, qui 58.
13 O. CLÉMENT, L’Église, libre catholicité des consciences personnelles, 59-60.
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO E GIUDIZIO DELLA COSCIENZA
61
immagine della santa Trinità (...) le molteplici coscienze personali
non sono coscienze della Chiesa se non nella misura in cui esse cessano di essere «coscienze di sé» e pongono al posto del loro proprio
«io» un solo soggetto delle molteplici coscienze della Chiesa”14.
La cattolicità non è solo un dato della coscienza, è un compito, un
impegno di tipo ascetico. Già quel che abbiamo citato di Lossky lo
lascia capire; Clément vi allude quando afferma che la coscienza cattolica diventa “in qualche modo porosa allo pneuma trinitario liberandosi a poco a poco dalle sue limitazioni individuali, dilatando la
sua vita nell’unità del Corpo, «perdendola» per amore di Cristo e dei
fratelli”15. Lo dichiara espressamente I. Zizioulas sostenendo che l’ipostasi ecclesiale non può non essere tesa verso l’unità escatologica
con Dio e che questa tensione si manifesta come ascesi: “L’ipostasi
ecclesiale, in quanto trascendente quella biologica, trae il suo essere
dall’essere di Dio e da quello che essa stessa sarà alla fine del tempo.
È precisamente questo che rende ascetica l’ipostasi ecclesiale”16.
O. Clément sottolinea un altro aspetto della cattolicità della coscienza cristiana: essa si muove nel cuore di un uomo integralmente
collocato nella novità del mistero di Cristo e perciò capace di ricevere un’intelligenza comunionale.
“La coscienza cattolica – dice il teologo francese – non è unilateralmente affettiva o intellettuale, non più almeno di quanto essa sia individuale: essa concerne l’uomo totale, morto alla «carne e al sangue»,
risuscitato nella «casta» integrità dello spirito unito al cuore; l’uomo
incorporato a Cristo, dunque ai suoi fratelli, riceve al centro del suo
essere in via di unificazione il fuoco che scioglie il cuore di pietra e lo
sostituisce con un cuore di carne, un cuore logikos, intelligente nel senso della partecipazione al Logos, perché è diventato «eucaristico»”17.
14
V. LOSSKY, Ad immagine e somiglianza di Dio, EDB, Bologna 1999, 228.
O. CLÉMENT, L’Église, libre catholicité des consciences personnelles, 59-60.
16 J. D. ZIZIOULAS, Personhood as Being in Being as Communion, St. Vladimir’s
Seminary Press, Crestwood N. Y. 1985, 62.
17 O. CLÉMENT, L’Église, libre catholicité des consciences personnelles, 60.
15
62
BASILIO PETRÀ
4. La formazione “ecclesiale” del giudizio della coscienza
4. e i suoi rischi
Il processo “ecclesiale” di formazione del giudizio della coscienza
non si attua in modo necessario e sempre felice; esso non è esente da
rischi, cioè può fallire o determinare un risultato non corrispondente alla dignità del soggetto “ecclesiale”.
Due sono i pericoli o rischi dai quali la coscienza morale di un
soggetto ecclesiale deve guardarsi: quello dell’individualismo e quello della de-personalizzazione.
Fermiamoci perciò su questi due punti, perché ci consentono di
meglio entrare nell’articolazione interna del giudizio “ecclesiale”
della coscienza.
a) Il rischio dell’individualismo.
a) Il discernimento come processo “ecclesiale”
Quando il soggetto nel suo giudizio morale considera la Chiesa
come una realtà esterna a sé, una sorgente eteronoma del suo agire,
e ne giudica l’apporto – qualunque esso sia, di maggiore o minore autorità – sottoponendolo a criteri valutativi che hanno la loro origine
nel suo porsi come «singolarità separata dalla Chiesa», allora si ha la
condizione dell’individualismo alla quale qui ci riferiamo18.
La radice del carattere individualistico di tale posizione sta proprio nel fatto che essa non rispetta la verità dell’essere del battezzato: egli è infatti ormai un concorporeo con Cristo e in Cristo coi fratelli
attraverso l’unità della Chiesa, corpo vivente di Cristo e perciò corpo proprio del battezzato stesso.
18
Il rischio dell’individualismo è spesso sottolineato e richiamato dagli autori. Qui basti ricordare le messe in guardia nei confronti dell’individualismo
che troviamo in Gaudium et spes, 30-31 e le considerazioni di Veritatis Splendor,
32. Si noti tuttavia che spesso in tali testi l’individualismo è visto come radice
del relativismo; nelle nostre riflessioni, invece, l’individualismo connota il modo di porsi separatamente dalla Chiesa nella formazione della propria decisione
morale.
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO E GIUDIZIO DELLA COSCIENZA
63
Questa qualità individualistica si darebbe anche nell’ipotesi di una
coincidenza ultima tra giudizio «separatamente raggiunto» e giudizio della Chiesa; la questione significativa infatti non sta tanto nel risultato (identità o meno del giudizio) ma nel modo di pervenire ad esso. Un modo individualistico di convergenza con il magistero, ad
esempio, sarebbe solo apparentemente una manifestazione dell’ecclesialità del soggetto. Il soggetto autenticamente ecclesiale vive la
realtà della Chiesa come carne della propria carne e osso delle proprie ossa: tutto quel che la Chiesa è, nella varietà dei suoi doni e nella diversità di essi, lo concerne e lo riguarda; il suo processo decisionale può essere solo un processo interno alla Chiesa, mai esterno, perché egli non è e non si percepisce come esterno alla Chiesa.
C’è un testo di un teologo ortodosso contemporaneo, fra i primi
estensori di un manuale di bioetica ortodossa, John Breck, che esprime quest’idea con parole molto chiare:
“Le decisioni etiche del credente – egli dice – possono essere fedeli allo scopo divino solo nella misura in cui esse sono essenzialmente decisioni ecclesiali, prese sulla base di una coscienza che si conforma a the
mind of the Church (la mente della Chiesa). Ciò significa al tempo
stesso che le decisioni critiche che possiamo essere chiamati a prendere sono prese di fatto all’interno della comunità della Chiesa. Questa
è la comunità dei vivi e dei morti, i ‘santi’ di tutti tempi, che abitano
con noi nel corpo universale di Cristo (...) Ciò vuol dire che noi non
prendiamo mai decisioni etiche da soli. I nostri giudizi morali e le
azioni che da essi conseguono sono sempre fatti entro il Corpo vivo
della Chiesa”19.
Nel determinare il modo concreto in cui la coscienza si forma un
giudizio nella Chiesa Breck richiama le riflessioni di S. S. Harakas sui
19
The Sacred Gift of Life. Orthodox Christianity and Bioethics, St Vladimir’s Seminary Press, Crestwood, New York 20002, 50-51. Questa prospettiva di J.
Breck è semplicemente la posizione ortodossa: cfr. B. PETRÀ, Making moral decision ed ecclesialità nella teologia morale ortodossa recente.
64
BASILIO PETRÀ
criteri del moral decision making20. Harakas pone come primo e fondamentale criterio quelle che chiama “regole etiche” della Chiesa le quali costituiscono – egli dice – “la sapienza etica accumulata (the accumulated ethical wisdom) della Chiesa”, una sapienza che si trova appunto
“nelle Scritture, nella tradizione patristica, nel diritto canonico della
Chiesa, nell’insegnamento etico generale della Chiesa, nell’autorità
magisteriale del vescovo e finanche nella vita liturgica della Chiesa.
Insieme, esse formano la durevole percezione da parte della Chiesa
della volontà di Dio che tutti i cristiani sono chiamati ad osservare”21.
Questa sapienza etica si identifica in fondo con the mind of the
Church, il modo di pensare morale della Chiesa; secondo Harakas, il
soggetto morale cristiano che meglio è in grado di giudicare ecclesialmente è proprio quello formato e cresciuto in questa sapienza etica:
“Un buon carattere – egli dice – è la migliore guida per l’appropriata formazione della decisione. Nutrito dalla vita della fede, con sensibilità per il modo di pensare della Chiesa (the mind of the Church),
con comprensione della Scrittura e della Tradizione, con preghiera,
culto, obbedienza, amore ed interesse per gli altri, il carattere sviluppato ha delle capacità di formare la decisione che rasentano l’istintiva santa sapienza (instinctive saintly wisdom) e perspicacia. Queste sono le migliori garanzie per retti giudizi”22.
Dunque, il carattere «interno» del processo decisionale significa innanzitutto che il soggetto condivide e vive la sapienza etica della Chiesa,
una sapienza che si esprime tanto nei discorsi variamente significativi e
20
S. S. HARAKAS, Toward Transfigured Life. The Theoria of Eastern Orthodox
Ethics, Light and Life Publishing Company, Minneapolis (Minn) 1983, 215-225.
21 Ibid., 216.
22 Ibid., 225. Tra l’altro, dopo una citazione di Rm 12, 2 si dice: “Un buon decision making comincia con una mente (mind) che è rinnovata secondo la divina
immagine. Questa mente sarà spesso capace di «intuire» e «sentire» il retto corso dell’azione in una situazione data”.
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO E GIUDIZIO DELLA COSCIENZA
65
dotati di autorità, quanto nelle attitudini e nella sensibilità etica che essa nutre con la liturgia e con tutte le modalità generative del suo ethos.
La sapienza etica ecclesiale offre contenuti cognitivi di straordinario
valore ma c’è qualcosa di più dei contenuti cognitivi che essa offre:
essa dona una sensibilità morale, una sorta di intuizione morale ‘istintiva’ che può avvertire – seppure in modo non sempre chiaro concettualmente – la congruenza delle situazioni e delle possibilità con la
verità morale che la sapienza persegue e prospetta. In termini occidentali, anzi tomisti23, potremmo parlare di connaturalità del soggetto con la sensibilità etica della Chiesa24.
Harakas cita anche il ruolo della liturgia; non si ferma tuttavia in
particolare su di essa, almeno nel suo manuale di morale. Insiste invece sul ruolo determinante della liturgia in ambito etico T. Engelhardt, il famoso bioetico, convertitosi all’Ortodossia nel 199225:
“È attraverso la liturgia che la vita morale cristiana, inclusa la bioetica cristiana, guadagna il suo orientamento. È qui che la Chiesa è katholike, che la Chiesa ha la sua integralità e completezza. La sociologia della conoscenza, della moralità e della bioetica cristiane è comunitaria, liturgica, eucaristica e gerarchica (...) La liturgia non è usualmente apprezzata come il punto focale della teologia morale, molto
meno dell’etica cristiana (...) Non è solo che la liturgia contribuisca
contenuti alla teologia e una bioetica cristiana, essa definisce il significato della teologia e una bioetica cristiana. La teologia, dopo tutto,
è il frutto del culto (...) La liturgia offre il luogo centrale alla tradi-
23
Cfr. J. M. ROVIRA BELLOSO, Conscience morale et communauté ecclésiale, in La
conscience morale. Questions pour aujourd’hui, Colloque international de Tübingen,
Facultés Catholiques de Théologie Catalogne, Lyon et Tübingen, Tübingen, 47 octobre 1993, Université Catholique de Lyon, Faculté de Théologie, PROFAC,
Lyon 1994, 75-97, qui 93-94. Sulla connaturalità egli rinvia ai seguenti testi tomisti: In Sent., dist. 35 q. 2 a. 1; S. Th. I q. 1 a. 6 ad 3; II-II q. 45 a. 2 co.
24 Cfr. B. PETRÀ, La coscienza “nello Spirito”. Per una comprensione cristiana della coscienza morale, Edizioni OR, Milano 1993, 69-71.
25 Su di lui vedi ora G. ZEPPEGNO, Bioetica. Ragione e fede. Di fronte all’antropologia debole di H. T. Engelhardt Jr, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2007.
66
BASILIO PETRÀ
zione che sostiene la teologia morale cristiana e perciò una bioetica
cristiana tradizionale”26.
Abbiamo fin qui citato autori orientali; non manca però anche in
ambito occidentale la sottolineatura dell’ecclesialità nella formazione
del giudizio della coscienza. Vi sono anzi testi assai autorevoli su questo; basti vedere la Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae, 14 e
la sua ripresa in Veritatis splendor, 64 ove si richiama il fatto che “l’autorità della Chiesa, che si pronuncia nelle questioni morali, non intacca in nessun modo la libertà della coscienza dei cristiani” dal momento che “il Magistero non porta alla coscienza cristiana verità a essa estranee, bensì manifesta le verità che dovrebbe già possedere sviluppandole a partire dall’atto originario della fede”.
Tuttavia, come appare già da queste parole, l’ecclesialità tende a
configurarsi come relazione cognitiva tra coscienza cristiana e aiuto
magisteriale – dotato di autorità – alla formazione del suo giudizio morale27. L’aspetto, se non ontologico, più esistenziale e profondamente
radicato nella realtà vitale della Chiesa emerge solo in alcuni autori.
L’autore nel quale forse maggiormente e per primo sembra essersi manifestata questa ecclesialità esistenziale del giudizio di coscienza
è Antonio Hortelano.
Non era ancora finito il Concilio quando egli scriveva:
“La coscienza cristiana non è altra cosa che l’interiorizzazione di questa voce di Cristo attraverso la Chiesa. Oltre che cristiana, la coscien-
26
The Foundations of Christian Bioethics, Swets & Zeitlinger Publishers, Lisse-Abingdon-Exton (PA)-Tokyo 2000, 191-193.
27 Cfr. quanto scrive R. M. GULA, Moral Discernment, Paulist Press, New
York/Mahwah, N. J. 1997, 62: “La chiesa provvede una guida morale nel modo
con cui preserva le scritture e la fede apostolica in Gesù cosicché ogni persona
possa riuscire a trovare Cristo e a camminare con lui lungo la vita. La chiesa fa
questo in molti modi. I modi in cui essa usa le sue risorse di gente, istituzioni,
denaro, e vita liturgica ne sono alcuni. Ma per lo più noi pensiamo al servizio
della chiesa come maestra morale quando essa promulga dichiarazioni ufficiali
su problemi morali correnti”.
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO E GIUDIZIO DELLA COSCIENZA
67
za è essenzialmente ecclesiale sul piano storico. Nell’attuale economia
della salvezza non si può concepire una coscienza cristiana al margine
o contro la Chiesa. Dio non può contraddire se stesso. Perciò non può
risuonare in nessun modo nella nostra coscienza una voce divina in
contraddizione con la voce della Chiesa che è la voce di Cristo. Tutte
le velleità pseudoprofetiche al margine del magistero ecclesiastico sono pertanto anticipatamente condannate al fallimento”28.
Hortelano vedeva in questa interiorizzazione il processo di realizzazione ecclesiale della coscienza o, come egli diceva, l’ecclesializzazione (eclesialización) della coscienza e riconosceva in essa “la migliore garanzia del fatto che Cristo parla realmente nel fondo dei nostri
cuori”, per cui sosteneva il dovere di sottomettere “le opzioni fondamentali della nostra coscienza ai rappresentanti qualificati della
Chiesa”29. Non se ne nascondeva però le difficoltà. Non sempre la
voce di Dio si manifesta con evidenza cartesiana e dunque la coscienza talvolta incontra l’oscurità:
28
A. HORTELANO, La superconciencia moral cristiana in StMor 2 (1964) 157173, qui 171. Il testo, in forma ampliata, sarà pubblicato anche in A. HORTELANO, Problemas actuales de moral, I, Introducción a la teología moral. La conciencia moral, Ediciones Sigueme, Salamanca 1979, 352-370; in quest’ultima versione, alla p. 363 si ritrova il brano sopra citato ma con alcune interessanti eliminazioni
e aggiunte. Per consentire il confronto lo riportiamo qui: “Nell’attuale economia della salvezza non si può concepire una coscienza cristiana al margine o
contro la Chiesa. Dio non può contraddire se stesso. Perciò non può risuonare
in nessun modo nella nostra coscienza una voce divina in contraddizione con la
voce della Chiesa che è la voce di Cristo. È certo che, come dice Paolo, tanto il
popolo di Dio quanto ognuno dei cristiani e servitori della comunità siamo un
fragile vaso di argilla, ma dentro di esso c’è lo Spirito del Signore (2 Cor 4, 7).
Tutte le velleità pseudoprofetiche al margine del comune sentire del popolo di
Dio e del magistero ecclesiastico, sono condannate al fallimento”.
29 A. HORTELANO, La superconciencia moral cristiana, 172. Cfr. A. HORTELANO, Problemas actuales de moral, I, 364 ove la frase ha questa forma: “Ciò ci deve
muovere a confrontare le opzioni fondamentali della nostra coscienza con la
chiesa, senza cadere tuttavia nell’infantilismo morale. L’ecclesializzazione della
coscienza è la migliore garanzia del fatto che Cristo parla realmente nel fondo
dei nostri cuori”.
68
BASILIO PETRÀ
“La coscienza, interiorizzazione della voce della Chiesa, è anche mistero, che molte volte sarà impossibile risolvere in formule chiare e
matematiche, e che esigerà da noi una dolorosa abnegazione intellettuale, perché nel momento della nostra ultima valutazione morale,
non arriveremo sempre a vedere con chiarezza il senso dell’imperativo divino”30.
Queste cose Hortelano le scriveva nel 1964, e le riscriverà ampliate nel 1979 quando aggiungerà anche un riferimento alla “coscienza comunitaria” della Chiesa:
“La coscienza dei cristiani nella chiesa non consiste in una semplice
somma delle coscienze individuali dei membri che la compongono. È
una realtà che esiste davanti a Dio come un tutto. La chiesa, in quanto
tale è aperta al dialogo e all’amore divino. Tanto nella Bibbia come
nella liturgia, abbiamo innumerevoli prove di questo incontro personale tra Dio e il suo popolo considerato come un tutto. Scheler parla di una personalità collettiva della chiesa in senso stretto. E altri, come K. Adam, insistono sulla preesistenza della chiesa riguardo ai suoi
membri (At 20, 28)”31.
E affermerà con forza la necessità del sentire con la Chiesa:
“La coscienza morale cristiana è una coscienza «nella chiesa». Questa unione con la chiesa è una dimensione della coscienza del cristiano. Al di fuori della chiesa non possiamo udire la voce di Cristo. La
coscienza morale del cristiano deve «sentire con la Chiesa»in un modo attivo e responsabile, poiché, in realtà, il cristiano «è» chiesa.
Questo è qualcosa che il Concilio Vaticano II ha posto in evidenza”32.
30
A. HORTELANO, La superconciencia moral cristiana, 171. Questo brano
scomparirà come tale nella ripresa del 1979 e sarà sostitituito da un altro ove si
pone la questione della difficoltà – e insieme della necessità – di riconoscere
sempre la presenza dello Spirito nella Chiesa sia a livello di sensus fidelium sia a
livello del servizio gerarchico ministeriale.
31 A. HORTELANO, Problemas actuales de moral, I, 364.
32 A. HORTELANO, Problemas actuales de moral, I, 365.
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO E GIUDIZIO DELLA COSCIENZA
69
Piaceranno a Dionigi Tettamanzi queste considerazioni di A.
Hortelano e le riprenderà nella sua morale fondamentale33, letteralmente ed esplicitamente 34. Sarà tuttavia una ripresa con elementi di
originalità. È utile soffermarsi su essa.
“La coscienza del cristiano – dice Tettamanzi – presenta questa fisionomia d’essere la voce della Chiesa interiorizzata nel fedele”. Il rapporto
tra coscienza cristiana e Chiesa non è costituito solo dal necessario riferimento che la prima deve avere con la legge della Chiesa; esso si
attua anche “secondo una forma più ricca e profonda: è la Chiesa
stessa, nel suo essere e nella sua missione (...) che entra nella coscienza del cristiano, come «sacramento», ossia come segno e strumento
della chiamata della Trinità e dell’appello di Gesù Cristo al singolo
fedele, il quale riceve sempre una vocazione e una missione che si riferiscono, oltre che a se stesso, all’intera comunità ecclesiale”35.
Dunque, la coscienza secondo Tettamanzi riceve sempre una chiamata divina attraverso la Chiesa e in rapporto alla Chiesa, è cioè raggiunta da una voce che è inevitabilmente ecclesiale.
Al tempo stesso, la coscienza cristiana
“si deve qualificare, in un certo senso, come imitazione e partecipazione della coscienza stessa della Chiesa. Questa partecipazione si radica e
si sviluppa mediante la progressiva partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa, e cioè nel triplice ambito del ministero liturgicosacramentale, dell’annuncio della Parola, della carità pastorale. Così
la Chiesa, precisamente attraverso la sua liturgia, la sua predicazione
e catechesi, la sua guida pastorale, si fa realmente presente – e come
sacramento di salvezza – anche operante nei giudizi – dettami mora-
33
D. TETTAMANZI, L’uomo immagine di Dio. Linee fondamentali di morale cristiana, Piemme, Casale Monferrato 1992.
34 Ibid., 174-175. Riprende due passi che anche noi abbiamo qui citato: “La
coscienza dei cristiani nella Chiesa (...)”; “La coscienza, interiorizzazione della
voce della Chiesa (...)”.
35 Ibid., 173-174.
70
BASILIO PETRÀ
li della coscienza del cristiano, di colui che è «membro» del corpo
ecclesiale”36.
La coscienza comunitaria della Chiesa – che Tettamanzi richiama
formalmente citando Hortelano – è una coscienza attiva e partecipabile attraverso la sua manifestazione triplice (lo schema dei tria munera): da una parte essa è data per grazia, dall’altra essa deve essere ricercata attivamente dal cristiano.
“Ne segue – scrive Tettamanzi – che il sentire cum Ecclesia diviene grazia e impegno per la coscienza cristiana di ogni membro della Chiesa, affinché nelle sue valutazioni e scelte attui la propria vocazione e
missione all’interno e per la comunità ecclesiale”. Naturalmente, citando ancora Hortelano e il suo passo sulla “abnegazione intellettuale”, Tettamanzi non trascura di ricordare che la coscienza cristiana di
fronte alla Chiesa “può incontrare difficoltà serie ed anche sofferenze acute. Non sempre, infatti, è facile scoprire e riconoscere nella voce della Chiesa la chiamata di Dio, specialmente quando la Chiesa
non offre un insegnamento infallibile o quando essa manifesta il suo
volto umano e difettoso”37.
Il linguaggio di questi autori è particolarmente intenso e significativo, anche se è chiaro che esso si colloca in un contesto inevitabilmente occidentale, come mostra il ruolo attribuito ai rappresentanti
qualificati della chiesa (Hortelano, anche se cambia un po’ prospettiva nel 1979) o il richiamo al magistero infallibile (Tettamanzi). Il magistero è cioè sempre alla fine visto in termini normativi per la coscienza e dunque determinanti.
Ambedue riconoscono però che la norma magisteriale non sempre
è cartesianamente chiara.
Nota la stessa cosa anche un autore come J. M. Rovira Belloso che
per altro presenta il magistero morale della Chiesa in un modo che
36
37
Ibid., 174.
Ibid., 175.
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO E GIUDIZIO DELLA COSCIENZA
71
assomiglia a quello orientale. Infatti, egli parla del Magistero “in
quanto sapere evangelico ed ecclesiale accumulato”.
“C’è – egli dice –, nella storia della Chiesa, un sapere accumulato nella Tradizione e per mezzo della Tradizione”. È un sapere che sta tra razionalità ed esperienza. Da una parte infatti esso può essere indicato
con il termine logos “perché si esprime concettualmente, ma non è un
logos adeguato alla volontà divina poiché nessun concetto umano può
raggiungerla, benché i concetti e i simboli ne segnalino l’essenziale
(quidditative sed non adequate)”. Dall’altra, proprio perché logos ultimamente inadeguato, questo sapere guarda sempre all’“ethos incarnato di
Gesù, sorgente umano-divina dalla quale provengono le forme di vita
evangelica e l’ethos dei santi del quale abbiamo già parlato”38.
Questa distinzione tra logos ed ethos esistenziale consente a Rovira
Belloso di riconoscere senza alcun problema che talvolta “la norma del
Magistero” non è affatto chiara e non ha la forza di provocare “l’assenso che provocano nello spirito le proposizioni semplici ed evidenti”; di qui lo spazio del dialogo morale nella chiesa (che crea “un focolare di co-incidenza reciproca”) e la necessità dell’interpretazione delle
indicazioni magisteriali (del “lavoro ermeneutico”), perché il Magistero non “pretende di imporsi al margine dell’attività della coscienza” ma
attraverso la connotazione libera e razionale della coscienza stessa39.
Rovira Belloso sembra tuttavia dimenticare che il magistero non è
solo oggetto dell’ermeneutica ma anche soggetto di essa: non infrequentemente il magistero offre interpretazioni dei testi e della moralità dei comportamenti che sono date come normative, almeno per
un determinato tempo.
Probabilmente, l’idea orientale delle regole etiche della chiesa come sapienza etica della Chiesa potrebbe offrire un contesto capace di
esprimere la normatività magisteriale manifestandone più adeguatamente il carattere direzionale e vitale più che legale. Caratteristica, in-
38
39
J. M. ROVIRA BELLOSO, Conscience morale et communauté ecclésiale, 94-95.
Ibid., 95-97.
72
BASILIO PETRÀ
fatti, della modalità sapienziale dell’etica è quella di non avere una forma impositiva ma propositiva, di non rivendicare un valore per l’autorità di chi la propone ma per la forza dell’intriseco significato – vitale e verificabile da ogni essere umano – di ciò che è proposto, di fare
appello all’unità integrale del soggetto (ragione/cuore) e non soltanto alla ragione, di sollecitare le profondità dell’uomo (del suo desiderio e della sua storia) e non le zone periferiche della sua esistenza40.
La prospettiva sapienziale dell’etica ecclesiale è anche quella che
meglio potrebbe evitare l’altro rischio al quale soggiace il processo
decisionale del soggetto ecclesiale, cioè la rinuncia o la negazione
della diversità personale. È quel che si è voluto dire parlando del rischio o pericolo della de-personalizzazione.
b) Il rischio della de-personalizzazione.
b) Il coraggio della solitudine “profetica”
Dicendo rischio di de-personalizzazione si intende il caso in cui il
soggetto credente, muovendosi con serietà ed in modo «ecclesiale»
nel suo percorso di discernimento etico, sperimenta la necessità di
prendere una decisione che non appare conforme a quanto prima facie corrisponde all’identità ecclesiale così come è prospettata da indicatori autorevoli della sapienza etica della Chiesa. Può accadere infatti in quel momento che egli rinunci alla proprio decisione per timore, per debolezza o per disinteresse nei confronti della verità,
mancando così di fedeltà alla propria personale chiamata (o sentiero)
entro la comunità della Chiesa41.
40
Sul significato della sapienza per la teologia morale rinvio al mio Dall’esperienza etica di Gesù al Cristo, norma della vita morale in Gesù di Nazareth...Figlio
di Adamo, Figlio di Dio, GIAMPIERO BOF (ed.), Paoline, Milano 2000, 311-352.
41 Il senso da noi attribuito al termine de-personalizzazione è, come si vede,
diverso da quello che Hortelano attribuiva a despersonalización in A. HORTELANO, Problemas actuales de moral, I, 459-464. Egli infatti pensava alla massificazione e all’oppressione della coscienza morale, cioè all’influenza oppressiva che
l’esteriorità sociale può esercitare sulla coscienza. In questo saggio si pensa piuttosto alla coscienza che cede alle pressioni o alle paure rinunciando alla sua vocazione personale e tradendo il senso stesso di tale vocazione nella Chiesa.
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO E GIUDIZIO DELLA COSCIENZA
73
La fedeltà al proprio essere infatti investe il soggetto ecclesiale
sotto due aspetti: da una parte è un soggetto ecclesiale, dall’altra però
è anche un soggetto ecclesiale. Con il battesimo il soggetto acquista
natura ecclesiale ma insieme la realtà della Chiesa viene a sussistere
in una particolare (nuova, dissimile, propria) soggettività o coscienza
personale. Sono due aspetti diversi della stessa realtà e solo insieme
conservano la verità della persona immersa nelle acque battesimali e
la verità della Chiesa stessa.
Per meglio chiarire questo concetto, vorrei richiamare un testo
del Concilio Ecumenico Vaticano II che può sembrare lontano dalle
nostre considerazioni ma che, a parer mio, non lo è affatto.
Mi riferisco a Gaudium et spes (GS), 78 dove si delineano le condizioni di una società edificata nella pace secondo il progetto di Dio. In
questo numero della GS si parla infatti della pace terrena nella luce
della manifestazione di Cristo giacché, si dice, “la pace terrena, che
nasce dall’amore del prossimo, è essa stessa immagine (figura est) ed
effetto della pace di Cristo che promana dal Padre”.
Tra le varie cose che si dicono riguardo alla pace (“opera della giustizia”, “frutto dell’ordine impresso nella società umana dal suo divino
Fondatore”, “edificio da costruirsi continuamente”) si ricorda anche
con un certo rilievo il riconoscimento delle persone e del loro bene:
“Tale pace non si può ottenere sulla terra se non è tutelato (in tuto collocetur) il bene delle persone (bonum personarum) e se gli uomini non
possono scambiarsi con fiducia e liberamente le ricchezze del loro animo e del loro ingegno (divitias sui animi et ingenii). La ferma volontà
di rispettare gli altri uomini e gli altri popoli e la loro dignità, e l’assidua pratica della fratellanza umana sono assolutamente necessarie per
la costruzione della pace. In tal modo la pace è frutto anche dell’amore, il quale va oltre quanto può apportare la semplice giustizia”.
La comunità degli uomini vivente secondo il disegno di Dio nella
pace esige che le persone possano scambiare liberamente le ricchezze
che la loro diversità personale reca: l’attuazione delle diversità personali nell’unità fa della comunità umana l’immagine viva della comunione divina e lo spazio di una vera fraternità. Questa diversità e que-
74
BASILIO PETRÀ
sto scambio devono essere tutelati, rispettati, assunti nella pratica fraterna. I Padri conciliari, affermando che la Chiesa deve diventare segno di fraternità, potranno perciò scrivere nel successivo GS, 92:
“Ciò esige che innanzitutto nella Chiesa stessa promuoviamo la mutua stima, il rispetto e la concordia, riconoscendo ogni legittima diversità, per stabilire un dialogo sempre più fecondo fra tutti coloro che
formano l’unico popolo di Dio, che si tratti dei pastori o degli altri fedeli cristiani (sive pastores sive ceteri christifideles sint). Sono più forti infatti le cose che uniscono i fedeli che quelle che li dividono; ci sia unità nelle cose necessarie, libertà nelle cose dubbie e in tutto carità”.
Dunque, un soggetto ecclesiale non può in linea di principio semplicemente rinunciare alla propria diversità personale nella Chiesa,
ricchezza per la Chiesa stessa e via di attuazione della sua stessa verità comunionale: al contrario deve assumerla e viverla con consapevolezza adeguata cioè ecclesiale.
Ora, ci sono circostanze storiche nelle quali la fedeltà a se stessi
sembra entrare in conflitto con la determinata comunione che la
Chiesa sperimenta in quel momento. Paolo si oppone apertamente a
Cefa venuto ad Antiochia e lo critica (Gal 2, 11-13. 14).
Circostanze analoghe possono darsi anche per altri credenti; può
accadere anche ad altri battezzati di ritenere di trovarsi dinanzi ad un
conflitto tra quel che appare doveroso alla loro coscienza e quel che
sembra l’attitudine ufficiale della Chiesa. In quei momenti sembra
quasi di essere dinanzi ad una linea di confine, che separa l’essere «in
armonia con» la Chiesa dall’essere «in disarmonia con» essa.
Per un vero soggetto ecclesiale una tale questione è terribile, lacerante, come accade quando si entra in contrasto con la carne della
propria carne, l’osso delle proprie ossa. Non può non portare a un
processo serio di confronto, di preghiera, di verifica fraterna, senza
arroganza, senza superficialità, senza fughe in avanti. Non può non
portare a un grandissimo senso di responsabilità verso il Signore Dio,
verso la Chiesa, verso se stessi.
Per quanto sofferto tuttavia possa essere un simile percorso di discernimento il soggetto potrebbe legittimamente giungere ad una
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO E GIUDIZIO DELLA COSCIENZA
75
decisione diversa da quella considerata come appropriata dalle voci
autorevoli e gerarchiche della comunità ecclesiale. Può accadere ed
è accaduto. E non poche volte è stato il destino sofferto proprio da
coloro che poi sono stati considerati dalla Chiesa stessa come voci
profetiche42.
Come scrive opportunamente Michel Rondet43:
“Se l’apertura al discernimento suppone l’interrogazione della Scrittura a partire dalle domande e dalle provocazioni del tempo, essa implica anche il radicamento nella tradizione della Chiesa. Lo Spirito del
quale noi vogliamo vivere è lo Spirito di Gesù che edifica il Corpo di
Cristo, la Chiesa, per la salvezza del mondo. Discernere è dunque an-
42
Sono passati molti anni ma probabilmente sono ancora valide queste considerazioni di A. VALSECCHI, La coscienza come norma, in A. MOLINARO – A. VALSECCHI, La coscienza, EDB, Bologna 1971, 75-84, qui 80-81: “la coscienza personale deve essere costantemente confrontata con la comunità: essa cioè consegue il suo pieno valore di norma quando il suo giudizio è accolto, ratificato, difeso, promosso dalla comunità. Non si può tuttavia escludere che esistano casi
così singolari o situazioni di coscienza talora così drammatiche, che la loro soluzione non possa trovarsi se non nell’immediata (e immancabile) illuminazione
dello Spirito santo (...) il pensiero tradizionale non ha temuto di avanzare l’ipotesi dell’«ispirazione profetica» per spiegare taluni comportamenti diversamente condannabili: si ricordi quanto s’è già detto circa la legge naturale, e i casi di
«decisione di morire» di alcune sante cristiane (De civitate Dei, 1, 21; Summa
Theologiae, II-II, q. 64, a. 5, ad 4 Duo praecepta... ed. Marietti, n. 1261). Nessuno ignora i pericoli che si nascondono in questa impostazione; senza dubbio il
moralista cristiano non può erigersi a giudice dello Spirito («chi è condotto dallo Spirito non può essere giudicato da nessuno», 1 Cor 2, 15), ma ha pure il dovere di chiedersi come lo si possa e debba discernere, Resta comunque vero che
lo Spirito è superiore a qualunque lettera; che si deve dare spazio alla «coscienza ispirata». È un discorso delicato, evidentemente; eppure ogni cristiano sa che
nella vita morale talvolta «è in gioco un agire insolito della coscienza che in tono imperioso reclama obbedienza a un appello divino»: è quanto scrive in una
splendida pagina Walter Nigg (Grandi Santi, Roma 1955, 133) circa la decisione che portò san Nicola di Flüe ad abbandonare la moglie e i dieci figli (l’ultimo era ancora atteso), il 16 ottobre 1467, per farsi «randagio e pellegrino»”.
43 La pratique, educatrice de la conscience, in La conscience morale. Questions pour
aujourd’hui, Colloque international de Tübingen, 165-176, qui 172-173.
76
BASILIO PETRÀ
che confrontare un’idea, un’opinione, un progetto, con la fede vissuta
della Chiesa. Come accoglie la coscienza cristiana quel che può apparire come una novità, cioè una rottura con dei comportamenti abituali? Il cristiano non può evitare questa domanda. Quand’anche si sente
chiamato a porre dei gesti profetici, si augura di farlo nella fede della
Chiesa, per illuminarla forse, per stimolarla, ma in coerenza profonda
con essa. Se noi siamo veramente chiamati alla libertà, alla creatività
nel dominio spirituale ed etico, noi dobbiamo ammettere che le attitudini profetiche fanno parte del comportamento cristiano, portando
la responsabilità di vivere per il bene di tutti”.
O. Clément, da un punto di vista orientale, giunge ad una conclusioni non dissimili e lo dice con un linguaggio di notevole suggestione:
“Il consensus della Chiesa è indispensabile. Non ha niente di giuridico,
di numerico, non dipende da una concezione democratica della Chiesa. In circostanze eccezionali è successo e succede ancor oggi che alcuni uomini, profeticamente, difendano la verità contro tutto o parte
dell’episcopato. Durante la crisi iconoclasta, san Teodoro Studita, perseguitato dai vescovi e dal suo patriarca affermava che in una tale congiuntura «tre fedeli uniti nella fede ortodossa costituiscono la Chiesa»
(Epist. I, 39: PG 99, 1049B) (...) È una certezza di fede per l’Ortodossia che lo Spirito non abbandonerà la Chiesa e che i profeti, presto o
tardi, saranno ascoltati dal Magistero (...) Così un «battezzato responsabile» ha il dovere, in caso di incertezze gravi, di esigere un nuovo
giudizio del Magistero, giudizio al quale la Chiesa potrà rispondere
con un amen analogo a quello che essa pronuncia dopo l’epiclesi. Nella Chiesa, la libertà non è un diritto, ma un dovere. Ma la contestazione non può avere altro scopo che una più lucida comunione”44.
In realtà, ci sono sentieri personali nella Chiesa che talvolta sembrano inoltrarsi per spazi che portano lontano dalla comunità ma in
realtà sono spazi ecclesiali ancora non venuti alla luce o che soltanto
44
O. CLÉMENT, L’Église, libre catholicité des consciences personnelles, 62.
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO E GIUDIZIO DELLA COSCIENZA
77
il futuro consentirà di coltivare e di sottrarre all’oscurità. C’è in questi casi un dovere di seguire il proprio destino di apparente solitudine giacché alla fine “homo in omnibus quae dicit vel facit, fideliter
sequi tenetur quod ipse iustum et rectum esse scit” (Catechismus Catholicae Ecclesiae, 1778)45.
Per una conclusione
Tanto il rischio dell’individualismo quanto quello della de-personalizzazione possono essere superati o almeno attenuati se il soggetto ecclesiale cercherà intenzionalmente di formarsi una coscienza la
cui voce diventi sempre più vox ecclesiae, non nel senso di una coscienza che memorizzi il Denzinger o semplicemente obbedisca al
Magistero ma nel senso di una coscienza che cresca nell’identificazione interiore con la vita ecclesiale e acquisisca sempre più il sensus
ecclesiae, «the mind of the Church», la sensibilità “istintiva” ai valori
morali coerenti con la fede, la connaturalità. Ciò non può e non deve avvenire in opposizione ai doni istituzionali dei quali il Signore ha
dotato nello Spirito la sua Chiesa. Tuttavia tali doni – innanzitutto il
Magistero – in quanto sono per l’attuazione della verità delle persone
possono rispettare questa finalizzazione solo assumendo seriamente
la dignità originaria di ogni persona in quanto soggetto nella Chiesa46.
45 In questo numero il CCC offre la traduzione latina di una parte del celebre
testo di J. H. Newman pubblicato inizialmente in A letter addressed to His Grace the
Duke of Norfolk in occasion of Mr Gladstone’s recent expostulation in Certain Difficulties felt by Anglicans in Catholic teaching, v. 2, London 1891, 248-249. Newman scrive tra l’altro: “Conscience (...) is a messenger from Him, who, both in nature and
in grace, speaks to us behind a veil, and teaches and rules us by His representatives. Conscience is the aborigenal Vicar of Christ, a prophet in its informations, a
monarch in its peremptoriness, a priest in its blessings and anathemas”.
46 Noi ci riferiamo qui al processo del discernimento morale, cioè al modo
in cui la fede diventa principio di vita. Non ci riferiamo formalmente all’atto di
fede: su questo si veda R. FISICHELLA, “Ecclesialità dell’atto di fede”, in R. FISICHELLA (ed.), Noi crediamo. Per una teologia dell’atto di fede, Edizioni Dehoniane,
Roma 1993, 59-97.
78
BASILIO PETRÀ
La piena coincidenza tra fedeltà alla vocazione personale e armonia senza incrinature con la Chiesa è l’ideale al quale il fedele consapevole della propria costituzione ecclesiale non può non guardare.
Cercherà in tutti i modi di far coincidere la propria soggettività con
la vita divina comunicata nella Chiesa – con l’unità noumenale del
Noi che è la radice stessa della Chiesa47 – perché tale armonia possa
compiersi sempre.
Talvolta però essa non potrà subito darsi; potrà darsi solo con il
tempo e, forse, in alcuni casi solo alla fine del tempo. Ci sono state,
ci sono e ci saranno sicuramente anche in futuro situazioni nelle quali la Chiesa soffrirà nei suoi profeti per la disarmonia con la Chiesa
nelle sue istituzioni. Certe disarmonie però sono inevitabili: nessun
corpo reale infatti giunge alla maturità – alla condizione adulta – senza attraversarle e soffrirle.
47
H. U. VON BALTHASAr, Neuf thèses pour une éthique chrétienne, in Enchiridion Vaticanum (EDB, Bologna 1979),V, 1020: “il fatto d’appartenere come
membra a «un solo corpo» include, a livello della Chiesa (nella quale noi siamo
impegnati a titolo personale, in un modo che trascende le rappresentazioni organiche), il dono della coscienza personale del «Noi» che le membra formano.
È nella sua realizzazione vivente che consiste l’agire morale dei cristiani”.
COSTITUZIONE ECCLESIALE DEL CRISTIANO E GIUDIZIO DELLA COSCIENZA
79
SUMMARIES
The essay wants to attempt a “catholic” moral reflection which includes both
great traditions of the Church, the Western (Latin) and the Oriental – on the
theme of the ‘ecclesiality’ (ecclesial nature) of conscience. In fact, the East and
West converge in the affirmation of the necessity of this ‘ecclesiality’ – although
with differing foundations – of the Christian conscience and of its judgment.
Both manifest an awareness of the risks (individualism, de-personalization) to
which the Christian conscience is exposed in its path. In this way, the author
proposes the perspective of a coming to maturity which is at the same time a
growing acceptance of its proper ecclesial nature and a seriously held fidelity
to its proper personal calling in the Church. This proposal aligns itself to the wisdom-filled vision of the role of the moral magisterium and its relationship to the
believer’s conscience.
***
Este ensayo intenta ofrecer una reflexión moral ‘católica’ ‘a dos pulmones’, es
decir, empleando simultáneamente las dos grandes áreas tradicionales de la
iglesia: la iglesia occidental-latina y la iglesia oriental. Esto con el objetivo de
desarrollar el tema de la eclesialidad de la conciencia. De hecho, Oriente y Occidente convergen en torno a la afirmación de la necesidad de la eclesialidad
de la conciencia cristiana, aunque fundada en forma diversa. Una y otra son
conscientes de los riesgos (de individualismo, de despersonalización) que amenazan a la conciencia cristiana. El autor plantea de este modo, a la conciencia
cristiana, la perspectiva de una maduración que es, en forma conjunta, un asumir progresivamente el propio ser eclesial y la fidelidad a la propia vocación personal dentro de la iglesia. Esta indicación tiene en cuenta la visión sapiencial del
Magisterio moral y la relación entre éste y la conciencia del creyente.
***
Il saggio vuole costituire un tentativo di riflessione morale “cattolica” ovvero “a
due polmoni “ – utilizzando cioè simultaneamente le due grandi aree tradizionali della Chiesa, quella occidentale (latina) e quella orientale – sul tema dell’ecclesialità della coscienza. Di fatto, l’Oriente e l’Occidente convergono nell’affermare la necessità dell’ecclesialità – variamente fondata tuttavia – della
coscienza cristiana e del suo giudizio, ed ambedue manifestano la consapevolezza dei rischi (individualismo, de-personalizzazione) ai quali la coscienza
cristiana è esposta nel suo cammino. L’autore indica così alla coscienza cristiana la prospettiva di una maturazione che è insieme crescente assunzione
del proprio essere ecclesiale e fedeltà seriamente perseguita alla propria vocazione personale nella Chiesa. Questa indicazione si accompagna alla visione sapienziale del ruolo del magistero morale e del rapporto tra esso e la coscienza del fedele.
LA SAPIENZA DELLA SOFFERENZA DI GIOBBE
La morale “non premiata”
Gabriel Witaszek, C.Ss.R.*
Introduzione
Il libro di Giobbe narra di un uomo, chiamato Giobbe, ricco, buono e giusto, raggiunto improvvisamente da molte disgrazie e privato
di tutto in breve tempo1. Egli non solo perde figli ed averi, ma viene
colpito da una malattia umiliante che lo riduce in uno stato così pietoso da farne il prototipo di ogni malato e di ogni sofferente: si trova coperto di piaghe e reietto, ad aspettare la morte presso la discarica della città. Tre suoi amici Elifaz, Bildad e Zofar, giunti da diversi
* The author is an extraordinary professor at the Alphonsian Academy.
* El autor es profesor extraordinario en la Academia Alfonsiana.
1
Giobbe proviene da Uz (Gb 1, 1), che è da ricercarsi nel territorio di Edomiti, al di fuori del territorio d’Israele, cfr. J. VERMEYLEN, “L’énigme des ruines
et des villes inhabitées. Un ancrage historique au livre de Job?”, in RivB LV 2
(2007) 129-144; TOD LINAFELT, “The wizard of Uz: Job, Dorothy, and the limits of the sublime”, in Biblical Interpretaion. A Journal of Contemporary Approaches, XIV 1/2 (2006) 95-109; Lam 4, 21 lo cita come territorio edomita, e Ger
25, 20 con Edom. Egli ha esercitato la sapienza (Ger 49, 7; Abd 8; Bar 3, 23). Il
racconto risale a una tradizione popolare che sembra fosse nota anche ad Ezechiele (Ez 14, 14. 20), il quale nomina Giobbe accanto a Noè e Daniele come
esempio di particolare pietà. Egli non appartiene al popolo d’Israele. Giobbe è
ogni uomo di sempre e la sua storia assume dimensioni universali. Cfr. A. WEISER, Il Libro di Giobbe, Traduzione e commento di A. WEISER, Traduzione italiana di Giovanni Casanova, Paideia, Brescia 1975, 39; J. RADERMAKERS, Il libro
di Giobbe. Dio, l’uomo e la sapienza, EDB, Bologna 1999, 13. 33-34; L. ALONSO
SCHÖKEL e J. L. SICRE DIAZ, Giobbe, commento teologico e letterario, Borla, Roma
1985, 111-112; F. PIERI, Giobbe e il suo Dio. L’incontro-scontro con il semplicemente
altro, Edizioni Paoline, Milano 2005, 7. L’essenziale della sua storia è contenuStMor 46/1 (2008) 81-103
82
GABRIEL WITASZEK
paesi, vanno a trovarlo per consolarlo. Essi si sforzano di dimostrargli che la malattia è il castigo per i suoi peccati. Il loro rimprovero nasce sulla base della divina giustizia retributiva terrena2. Giobbe rifiuta con fermezza l’opinione dei suoi interlocutori e cerca altre spiegazioni alle sue sofferenze. Un quarto personaggio, Eliu, interviene e
pretende di risolvere l’enigma illustrando la virtù educatrice della
sofferenza. Infine appare Dio che fa notare le meraviglie della creazione e rimprovera a Giobbe l’indiscrezione dei suoi lamenti3. La
storia di Giobbe si chiude con la sua guarigione e con una rinnovata
benedizione di Dio. La grande risposta finale di Dio è la consolazione per tutta l’umanità, è il riscatto di coloro che hanno continuato a
credere e ad amare senza pretendere nulla in cambio: senza mercanteggiare con Dio.
to nel Prologo (Gb 1, 1-2, 13) e nell’Epilogo (Gb 42, 7-17). Fra l’uno e l’altro è
inserita una larga parte poetica, il cui genere dominante è il dialogo. Il dibattito si apre con un monologo di Giobbe (Gb 3). Seguono tre serie di dialoghi fra
Giobbe e gli amici (Gb 4-27). Alla fine del dibattito tra Giobbe e gli amici, è inserito un inno alla Sapienza (Gb 28). Poi un lungo monologo di Giobbe (Gb 2931), l’intervento di Eliu (Gb 32-37) e l’intervento di Dio (Gb 38-42, 6). I passi
della Sacra Scrittura sono stati presi dalla Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 1974. M. BALDA, “La version arabo-chrétienne de l’histoire de Job: itinéraire d’un récit”, in Rivista di Storia e Letteratura Religiosa XLII 2 (2006) 311339; M. CIMOSA, “La data probabile della traduzione greca (LXX) del libro di
Giobbe”, in Sacra Scrittura. Monografia 51 (2006), n. 6, 18-34. Preparando questo articolo mi sono riferito a molti studiosi che ringrazio e con i quali mi scuso per non averli citati lungo lo studio come avrebbero meritato.
2 La dottrina della giustizia retributiva rappresenta il culmine e il fondamento della giustizia divina, secondo la quale a ciascuno, secondo le proprie azioni e
intenzioni viene elargito o il premio o il castigo, conseguenza della propria colpa e del proprio peccato. Sul tema della giustizia retributiva cfr. L. ALONSO
SCHÖKEL e J. L. SICRE DIAZ, Giobbe, commento teologico e letterario, 383; L. MAZZINGHI, “Morte e immortalità nel libro della sapienza: alcune considerazioni su
Sap 1, 12-15: 2, 21-24: 3, 1-9”, in Vivens Homo 17/2 (2006) 283-286.
3 B. MAGGIONI, “La rivelazione come dialogo”, in In principio. La comunicazione nella Bibbia, a cura di G. RAVASI – B. MAGGIONI – A. BONORA, Supplemento a Jesus – anno XVII – gennaio 1995, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, 65-96.
LA SAPIENZA DELLA SOFFERENZA DI GIOBBE
83
L’interpretazione della sofferenza dell’uomo innocente non è facile, perché da una parte è un fatto doloroso e dall’altra non si trova
nelle norme generali di giustizia retributiva. Giobbe soffre, ma la sua
sofferenza non viene dal suo peccato, è infatti un uomo d’integrità e
moralità profonda4. Egli si sente innocente perché fedele all’alleanza.
Il dolore di Giobbe non è solo esteriore, come la perdita dei beni,
prima prova alla quale fu sottoposto (Gb 1, 13-22). Non è neanche
nella malattia, nell’incomprensione della moglie e nel rifiuto della società. È nel profondo, un dolore che nasce dalla fede: Giobbe si sente lontano da Dio. Questo è il suo dramma. Vede dileguarsi quella sicurezza religiosa che sempre lo ha sostenuto, cioè la certezza che Dio
è giusto e che le sue benedizioni non vengono meno. L’esperienza gli
ha mostrato che esiste il male “ingiusto”, non dovuto al peccato.
D’altra parte, Giobbe non può attribuire tale male a un Dio capriccioso, un Dio, che la gente di quel tempo considerava capace di far
pagare le colpe nella vita terrena. Giobbe è un credente, egli si imbatte nel mistero di Dio: è costretto a scegliere se perdere la fede o
credere in un Dio diverso. In questo secondo caso Giobbe si vede
obbligato a prendere le distanze da tutta una fede che ha sempre nutrito la sua vita e quella del suo popolo.
La storia di Giobbe merita di essere riletta oggi, in questa nostra
epoca, nella quale, come non mai, si leva da tutte le parti della terra
il grido di dolore di tanta gente colpita da diverse sventure, senza
spiegazione: spesso si tratta di uomini buoni e timorati di Dio5. Solo
4
F. MIES, “Le corps souffrant dans l’Ancien Testament”, in RivB LIV 3
(2006) 265-290.
5 Nei tempi moderni ci sono stati diversi tentativi di capire la sofferenza dell’uomo e la sua fede in Dio. Il cardinale CARLO MARIA MARTINI, Avete perseverato con me nelle mie prove. Riflessioni su Giobbe, Piemme – Centro Ambrosiano di
documentazione, Casale Monferrato, 1990 afferma che il senso finale del libro
di Giobbe è l’abbandono al mistero, l’affidamento totale a Dio. Non è la ragione, strumento imperfetto a disposizione dell’uomo, che ci consente di uscire dal
vicolo cieco, nel quale spesso ci troviamo, ma l’assoluta fiducia in Dio; cfr. G.
WITASZEK, “Cierpienie Joba – ma˛drość “nieortodoksyjna”, in S. HARE˛ZGA
(red.), U źródeł ma˛drości, Rzeszów 1997, 335-348.
84
GABRIEL WITASZEK
l’interpretazione profonda di questa storia, può chiarire quel mistero
che quotidianamente ci impegna: la sofferenza.
Questo studio si prefigge lo scopo di rivedere eticamente quel filone della sapienza biblica veterotestamentaria che ha trovato la sua
espressione in veste morale e ha lanciato ponti indispensabili per lo
sviluppo della Rivelazione proprio della «pienezza dei tempi» nell’evento di Cristo. Solo la piena rivelazione di Dio in Gesù Cristo permette un’adeguata comprensione del problema della sofferenza e di
tutto ciò che essa porta con sé. Tale scopo della ricerca esige l’impostazione metodologica teologica e sapienziale dell’indagine. Il doppio
approccio può essere reciprocamente fecondo.
1. Giobbe, l’antropologia dell’uomo che soffre:
1. ribelle o sottomesso?
Giobbe che condivideva le sue ricchezze e godeva di un’enorme
stima presso i suoi contemporanei non ha più nulla da dire, è stato
privato di tutto. Il giudizio degli uomini nasce dalla considerazione
della sola realtà terrena, e la gente crede che Dio giudichi nello stesso modo. Giobbe è stato rigettato dal mondo, dalla sua cerchia di conoscenti, è diventato lo scherno delle persone senza onore, di coloro
che la società ha emarginato. È inseguito anche dai “meno di niente”, che rifiutano di lavorare e vivono di espedienti. Giobbe si trova
in una situazione disperata, poiché anche costoro lo disprezzano.
Giobbe fa il bilancio della sua vita, del suo felice passato quando
viveva sereno, nel successo e nella stima di tutti, quando godeva della presenza e dei benefici del suo Dio (Gb 29, 3. 6). L’alta considerazione che Giobbe rivestiva nella vita sociale, in particolare presso gli
anziani che si riunivano alle porte della città per commentare gli avvenimenti è regolare le cose pubbliche, era la manifestazione più piena della protezione divina di cui egli godeva. Giobbe era, per i suoi
contemporanei, l’immagine modello del giusto che prospera perché
Dio è con lui. Dio gli dava l’autorità per prendere la parola e consolare o guidare coloro che si rivolgevano a lui. Egli si descrive non solo nell’atto di aiutare materialmente gli altri, ma anche nel ruolo di
LA SAPIENZA DELLA SOFFERENZA DI GIOBBE
85
consolatore. Le sue parole ci rinviano non solo alla prosperità di cui
un tempo godeva, ma soprattutto alla sua buona reputazione. Giobbe descrive la sua felicità passata secondo i canoni biblici più tradizionali della retribuzione: il giusto è amico di Dio (Gb 29, 2-6).
L’evocazione del proprio passato diviene un mezzo per chiamare
in causa Dio. Il lamento di Giobbe è contestazione del Creatore e del
suo modo di reggere il mondo. Il Giobbe paziente si è trasformato
nel Giobbe ribelle6. Egli presenta la sua apologia personale (Gb 3:
30), e si lancia in una sfida di imprecazioni, invocando che l’ira divina si abbatta su di lui se veramente ha avuto un comportamento empio. Giobbe si avvia alla sfida finale, invoca una risposta “L’Onnipotente mi risponda” (Gb 31, 35b). Tale cambiamento di stile, tra prologo in prosa e parte principale del libro in poesia, sottolinea il nuovo modo di affrontare il problema della sofferenza. Essa non è più vista, come una prova che saggia il disinteresse della fede, bensì come
una esperienza che fa incontrare il mistero di Dio e ne purifica la conoscenza. Siamo sul piano teologico e per questo la reazione di Giobbe non è più quella della pazienza, ma quella dell’uomo che si scontra con il mistero di Dio e vede crollare gli schemi teologici che hanno a lungo sostenuto la sua sicurezza e nutrito la sua fede.
Dal capitolo terzo, incontriamo un Giobbe diverso, una persona
che vedendosi così ridotta dal suo male, non vorrebbe essere mai nata (Gb 3, 3-4) 7. Si tratta del giorno della nascita e del concepimento
6
A. BONORA, Il contestatore di Dio, Marietti, Torino 1978, 58-64; idem, Dio e
l’uomo sofferente. Riflessioni sul libro di Giobbe, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990, 5-9.
7 Nella Bibbia ci sono anche altri testi in cui si maledice il giorno della nascita. In Ger 20, 14-18, il profeta, sotto il peso della persecuzione, maledice, come Giobbe, il giorno della sua nascita e si augura di non essere mai nato. Altro
testo letto in questa chiave è il lamento di Giona (Gen 4, 3), quello ben più amaro del Qoelet (Qo 4, 1-3: 6, 3). In questi testi, uomini di fede si lamentano del
male di vivere e preferirebbero morire; tale lamento nasce davanti a Dio e a lui
si dirige. Di fronte a un’esperienza psicologica molto comune come il momento della depressione, nasce nell’uomo un desiderio di annientamento e di autodistruzione (Gb 3, 1-29; Sir 41, 1-2).
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GABRIEL WITASZEK
contro cui Giobbe, quasi si trattasse di esseri senzienti, si scaglia come fossero i responsabili del suo stato attuale. Proprio al contrario di
quanto avvenne il primo giorno della creazione che vide splendere la
luce (Gen 1, 3), Giobbe vuole che il giorno della sua nascita lo riprendano le tenebre e che Dio lo cancelli dal calendario (Gb 3, 5-6).
Quanto alla notte in cui fu concepito, egli vuole che sia destinata ad
essere del tutto sterile: “Ecco, quella notte sia lugubre e non entri
giubilo in essa” (Gb 3, 7). Il troppo dolore lo porta a desiderare l’assurdo. Giobbe invoca perfino la forza del caos, rappresentata dal Leviatan e incatenata dal Creatore, perché, avrebbe potuto impedire
che, almeno quella notte, rientrasse nell’ordine o fosse, almeno, una
notte senza aurora (Gb 3, 8-9). Racchiuso nel seme paterno, Giobbe
non avrebbe trovato la via del seno materno e non sarebbe mai nato
(Gb 3, 10). Giobbe non pensa di distaccarsi da Dio; piuttosto lo chiama direttamente in causa con il suo lamento, vorrebbe rovesciare
l’ordine della creazione (Gen 1, 1-5). Ma Giobbe sa bene che si tratta di un desiderio impossibile e che l’ordine della creazione non può
essere stravolto8.
Il lamento si fa universale, diventa la voce di quanti si trovano nella situazione di Giobbe, di coloro che vedono nella morte una liberazione, dato che la vita è divenuta una dura prigione, cosa inespugnabile in ogni parte da Dio (Gb 3, 11-12. 20-23). Ma a dispetto di
questa esperienza Giobbe resta aggrappato alla certezza, non certo di
ordine sperimentale, ma di fede, che Dio interverrà come difensore
dei giusti:
«Io lo so che il mio Vendicatore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da
straniero. Le mie viscere si consumano dentro di me» (Gb 19, 25-27)9.
8
H. W. WOLFF, Antropologia dell’Antico Testamento, Queriniana, Brescia
19852, 205-212. 284-292.
9 B. MORICONI, Giobbe. Il peso della sofferenza, la forza della fede, Edizioni Camilliane, Torino 2001, 69-71; H. GROSS, Giobbe, Morcelliana, Milano 2002, 93.
LA SAPIENZA DELLA SOFFERENZA DI GIOBBE
87
Il dualismo di accusa e di speranza in Dio fa comprende la fede incrollabile di Giobbe. Soltanto in questo modo, Giobbe riesce a continuare a vivere. È necessario cercare un senso della vita, anche quando tale senso ci sfugge.
Le sue parole, introducono la domanda radicale sul perché della vita, se essa deve essere, come la sua, tutta intrisa di sofferenza. Si dice
che è un dono ma, talvolta, è un peso doloroso. Si nota anche la mancanza di ogni speranza in una vita ultraterrena, che faccia in qualche
modo da antidoto alle ingiustizie presenti. In quel tempo per l’ebreo
l’aldilà era una sorta di fossa comune, dove i morti relegati allo stato
di ombre non sperimentavano più nulla. Il regno dei morti è descritto come un paese di ombre, senza la possibilità di una vera vita e senza una distinzione tra buoni e cattivi. Per Giobbe, piombare nel regno
della morte significa così cadere nell’unico luogo dove ci può essere
davvero riposo, dove non sperimenta più nulla. Negli inferi, inoltre,
non si sente più la voce dell’aguzzino o del padrone (Gb 3, 17-18)10.
Giobbe, dopo aver espresso dubbi sul senso della propria vita piena di sofferenze, critica Dio stesso che non riesce a capire. Egli mette in discussione il fatto che Dio si preoccupi realmente dell’uomo
(Gb 7, 17-19; Sal 8) e giunge a parafrasare la Bibbia in chiave ironica, riprendendo il Salmo 139, 1: “Dio tu mi scruti e mi conosci”, e il
Salmo 8, 5: “Che cos’è l’uomo perché tu te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché tu te ne prenda cura?”. Per Giobbe non è possibile,
che il Creatore disprezzi l’opera delle proprie mani (Gb 10, 3). Il Dio
contro il quale Giobbe si lamenta appare come un Dio che può fare
ciò che vuole (Gb 9, 5-10). Per Giobbe l’onnipotenza divina sconfina
nell’indifferenza (Gb 9, 9), e quasi una parodia dei bei testi profetici
di Amos 4, 13: 5, 8: 9, 5-6, nei quali viene esaltato il potere di Dio
sulla creazione. La creazione, perciò, è ambivalente: può parlare di
Dio, ma può anche condurre lontano da lui. Ma Giobbe non si ferma qui e giunge a dichiarare che Dio toglie all’uomo persino la spe-
10
Il pensiero di Giobbe rispecchia la situazione teologica del tempo. Israele
non aveva ancora raggiunto la consapevolezza dell’aldilà. Solo in seguito, a partire dal III sec. a. C., si svilupperà una fede nella vita futura.
88
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ranza e questa è l’ultima cosa che in genere resta all’uomo (Gb 14, 1819). Giobbe mette addirittura in dubbio che Dio stesso, se esiste, sia
un dio buono con l’uomo è buono. Anzi Giobbe arriva ad asserire
che, se Dio c’è, è comunque inutile tentare di parlargli, in quanto ha
sempre ragione lui (Gb 9, 11-18. 21-23).
2. Giuramento d’innocenza
Giobbe si trova a confrontarsi con un dolore ingiusto, che non
può ricondursi al peccato e al castigo. Se così fosse, la giustizia di Dio
sarebbe, chiusa entro schemi ragionevoli, a misura d’uomo. Giobbe
sa bene di essere innocente. Rivendicando la propria innocenza, intende ribellarsi a questo pregiudizio11. Il versetto Gb 1, 1 ce lo descrive con quattro caratteristiche, segno di totalità: uomo integro12,
cioè innocente, perfetto; retto, cioè leale, giusto nei confronti di Dio
e degli uomini; timorato di Dio e alieno al male. La Bibbia lo presenta come modello ideale di persona. Egli fa anche più del necessario, offre sacrifici per gli eventuali peccati commessi dai suoi figli (Gb
1, 5). Il comportamento di Giobbe è segnato da una estrema scrupolosità, che lo spinge a prendere in considerazione tutte le possibili
mancanze. Egli descrive se stesso, come un uomo compassionevole
che, ha obbedito alla Legge, non ha mai trascurato di aiutare le categorie deboli della società del tempo: moribondi, vedove, ciechi, zoppi, poveri e oppressi. Giobbe ha usato il suo benessere, la sua ricchezza e la sua potenza per soccorrere i deboli e per ristabilire la giu-
11
Nei capitoli Gb 29-31 Giobbe fa un esame totale della sua vita e valuta la
sua situazione. Egli è provato in ogni aspetto della sua vita. Nel confronto tra il
presente e il passato prende consapevolezza della dimensione di precarietà che
caratterizza l’esistenza umana. Il tono di questi capitoli è apertamente giuridico.
Egli pronuncia già la sua difesa nel Gb 29, 1. Di fronte agli uomini e di fronte a
Dio Giobbe alza con forza la sua ultima protesta e attende. Questi capitoli riecheggiano i salmi di lamento nei quali l’orante, alla felicità perduta, contrappone la propria sofferenza e si rivolge a Dio perché lo salvi.
12 Il termine integro è riferito anche a Noè (Gen 6, 9) e ad Abramo (Gen 17, 1).
LA SAPIENZA DELLA SOFFERENZA DI GIOBBE
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stizia intorno a sé. Egli incarna perfettamente l’idea del giusto secondo la Bibbia: colui che viene in soccorso dei deboli e risponde alle esigenze dei bisognosi. Giobbe parla di se stesso come di un uomo
che imita il comportamento di Dio: come Dio, anche Giobbe si riveste di giustizia (Gb 29, 14; Is 59, 17); come Dio, anche Giobbe è padre dei poveri (Gb 29, 16; Sal 68, 6).
Nel capitolo 31 del libro di Giobbe, egli formula con una lunga
protesta di innocenza. Il suo genere letterario è quello del giuramento imprecatorio contro se stesso. Lo si pretendeva dall’accusato in
giudizio (Es 22, 9-10; Nm 5, 20-22; 1Re 8, 31-32) come una specie di
confessione pubblica. Tale genere si incontra anche nei Salmi di lamentazione individuale (Sal 7, 4-6. 8-9: 17, 1-5. 15: 18, 21-26: 59, 45: 109, 4. 5. 31). Si tratta infatti di una specie di esame di coscienza:
un’interrogazione personale. Giobbe elenca, a sua difesa, davanti a
Dio una lista di peccati che egli non ha commesso:
• impurità del cuore e delle mani (31, 7-8),
• adulterio in pensieri e atti (31, 9-12),
• il disprezzo dei diritti dello schiavo (31, 13-15),
• il rifiuto di aiutare il povero (31, 16-18),
• il rifiuto di vestire gli ignudi (31, 19-20),
• la violenza contro l’innocente (31, 21-23),
• la fiducia posta nelle ricchezze (31, 24-25),
• l’idolatria (31, 26-28),
• la gioia per la disgrazia di un nemico (31, 29-30),
• il rifiuto dell’ospitalità (31, 31-32),
• il tener nascosto il proprio peccato (31, 33-34).
Giobbe non si limita ad un elenco formale di peccati non commessi che riguardano ogni aspetto della vita dell’uomo (fisico, sociale, religioso), ma mette in luce la propria innocenza per poter così accusare
Dio. Se Dio giudicasse “sulla bilancia della giustizia” (Gb 31, 6) dovrebbe riconoscere, sulla base di quest’elenco di peccati non commessi, che Giobbe è integro e concedergli il premio della sua rettitudine.
La giustizia di Dio trova la sua espressione nell’alleanza. La relazione tra Dio e il suo popolo era analoga ai trattati tra i re e i loro
vassalli con tutte le formule annesse. Così ad ogni peccato non com-
90
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messo è quasi sempre annesso un giuramento di auto-maledizione:
“se commetto questo peccato, venga io punito in questo modo...”.
Questa è un’espressione tipica dell’alleanza religiosa. In base al concetto stesso di giustizia contenuto nell’alleanza, qualsiasi rapporto
con Dio, necessariamente prevedeva un complesso schema di ricompense o di castighi in relazione al peculiare comportamento del popolo. Inoltre non esisteva una chiara distinzione tra l’ambito della
legge civile e quello della legge religiosa, perché il sacro e il profano
si intrecciavano nella vita quotidiana13. L’adempimento o l’inosservanza degli obblighi assunti mettevano in azione quella promessa di
ricompense e di castighi già definita.
La morale giudaica di quell’epoca, riscontrabile nel capitolo 31 del
libro di Giobbe rivela una grande delicatezza di coscienza e una profonda sensibilità interiore. La fedeltà di Giobbe verso Dio è certa,
egli non ha mentito. Giobbe non vuole giustificarsi di fronte alla prospettiva dell’aldilà nel quale ancora non spera. Egli oscilla fra timore
e fiducia e la sua condizione gli appare inaccettabile. Giobbe si appella più volte a Dio descrivendolo come colui che è stato il fondamento e la ragione ultima del suo comportamento morale. Egli è ancora convinto che Dio, vedendo la sua condotta e contando tutti i
suoi passi (Gb 31, 4) lo dichiarerà innocente. La levatura morale di
Giobbe è veramente ammirevole (Gb 1, 1-3). È la premessa che il lettore deve tener presente per capire quanto ingiustamente sia stato
colpito e quanto grande sia la sua pazienza e la sua rassegnazione nel
sopportare tutte le disgrazie che lo colpiscono. Ma l’uomo non può
comprendere il senso ultimo della vita basandosi soltanto sul comportamento morale. La sola giustizia umana non basta come chiave
di lettura unica per poter indagare sull’intima essenza e sulla ragione
degli eventi. Se l’insegnamento tradizionale non è in grado di spiegare perché l’uomo innocente soffre, vuol dire che esso trae le sue
norme solo dall’esperimento, mentre alcune di esse si può conoscerle direttamente dalla rivelazione divina. La sofferenza dell’uomo in-
13
J. M. MCDERMOTT, La sofferenza umana nella Bibbia, Edizioni Dehoniane,
Roma 1990, 32.
LA SAPIENZA DELLA SOFFERENZA DI GIOBBE
91
nocente è l’esempio di tale situazione. Perciò Giobbe non è stato
chiamato per abolire la tesi della giustizia retributiva, ma per ricercare un nuovo senso della sofferenza. Tutti gli interlocutori di Giobbe
ammettono che Dio non tollera il male, e la sorte dell’uomo perverso viene descritta come la tragedia dell’uomo peccatore.
3. La sapienza di Dio nella creazione
Giobbe cosciente della sua rettitudine, chiama Dio a rendere ragione del suo comportamento (Gb 31, 35). Spetta a Dio farsi conoscere all’uomo e comunicargli qualche cosa del suo piano di creatore e redentore14. Egli risponde a Giobbe nella teofania15, nel mezzo della tempesta16 (Gb 38, 1: 40, 6), muove il suo cuore e lo strappa dall’egocentri-
14
L. ALONSO SCHÖKEL si esprime così sull’atteso intervento di Dio: “In termini drammatici, Dio deve parlare per annullare come istanza superiore o suprema il processo dei quattro amici, perché il processo ha Dio come oggetto e mette in causa il suo prestigio. In termini drammatici Dio deve parlare perché Giobbe gli ha lanciato la sfida di un duello verbale. A queste altezze, la neutralità di
Dio è impossibile: se non interviene, la dottrina degli amici si trova screditata,
perché non si può impunemente accusare Dio. E Giobbe si trova vincitore perché ha lasciato Dio senza parola. La dinamica del poema esige che Dio intervenga; attori e pubblico lo aspettano” (“La réponse de Dieu”, in Concilium 189 (1983)
75-84). Solo quando Dio interviene in prima persona, si stabilisce un dialogo a
domande e risposte, e così è possibile affrontare il problema del dolore, che è in
realtà il problema di Dio. Egli risponde a Giobbe con due discorsi (Gb 38, 1-42,
6), dandogli la possibilità della conversione che affrontano lo stesso problema da
due diversi punti di vista. Il primo discorso contiene la critica del ragionamento
di Giobbe (Gb 38, 2-39, 30), che si chiude la bocca con la mano (Gb 40, 1-5). Nel
secondo discorso, tenuto nello stesso tono che primo, Dio fa vedere a Giobbe,
che la sua ribellione non gli servirà a niente (Gb 40, 6-41, 26), è l’ha condotto a
riconoscere della propria debolezza (Gb 42, 1-6).
15 La teofania in cui Dio si è rivelato a Giobbe rappresenta un’esperienza
personale di Dio, che noi non abbiamo, ma in questa prospettiva si evidenzia
che il vero valore della vita è il vivere la propria esistenza biologica e spirituale.
16 La tempesta è il simbolo della presenza di Dio. L’immagine di Dio che
sorge dalla tempesta si trova spesso nella Bibbia. Dio si rivela così a Mosé
92
GABRIEL WITASZEK
smo e lo eleva alla contemplazione della propria sapiente grandezza e
provvidenza. Questo modo divino di rivelarsi è la risposta al lamento
di Giobbe, che rimproverava a Dio il suo silenzio e lo supplicava di manifestarsi. Alla teofania di Dio è legato il suo discorso, che dà il significato esatto dell’intervento. L’intervento di Dio evidenzia la verità e
insieme l’insufficienza della protesta di Giobbe. Dio è libero nel suo
agire, e perciò può mandare sventura anche sul giusto. Nel suo intervento Dio riprende il nome proprio Jahve, cioè il Dio dell’esodo, Dio
di Israele e signore della storia17. Nel prologo Egli sedeva in trono nel
cielo; adesso appare sulla terra degli uomini. Si instaura così una nuova relazione, più diretta e più personale, fra Giobbe e il suo Dio.
Dio rispondendo alle proteste di Giobbe dice: “Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza!” (Gb 38, 4)18. Il racconto sulla creazione ha il carattere di una
rilettura da parte di Dio del primo capitolo della Genesi e 2, 18-20:
l’opera dei sei giorni, tracciata brevemente, lasciando da parte la
creazione dell’uomo. La creazione della terra e del mare (Gb 38, 411) è l’opera del terzo giorno della creazione (Gen 1, 9-10)19. Dio invita il suo interlocutore a scoprire negli elementi che gli sono familiari, cioè nella terra e nel mare, una porta d’entrata verso i segreti
della Sapienza divina. Dio ha costituito la terra che serve abitualmente all’uomo (Gb 38, 4-7). Il mare nella Bibbia simboleggia spesso le forze malefiche (Gb 38, 8-1). Esso è per gli Ebrei un elemento
(Es 19, 16), ai profeti (Ez 1, 4; 2Re 2, 1. 11; Zc 9, 14); spesso segnala una manifestazione storica del Dio giudice (Is 29, 6: 40, 24: 41, 16; Ger 23, 19: 30, 23; Ez
13, 11.13; Na 1, 3; Abd 3, 8-11; Sal 18, 8-14: 50, 3: 77, 18-19: 81, 8: 97, 2-6). La
tempesta può essere anche segno della punizione divina (Am 5, 18), ma spesso è
il segno della salvezza, come in Is 29, 6. Il simbolo cosmico della tempesta è connesso alla voce di Dio.
17 L’autore ha usato nel prologo i termini comuni come El, Eloah o Shaddai
(la divinità, il divino, l’Altissimo) per indicare Jahvè.
18 Giobbe non risponde, ma si accontenta del fatto che Dio gli abbia risposto in prima persona. Alla fine, Dio risarcisce in abbondanza Giobbe di tutti i
danni che ha dovuto subire (Gb 42, 10-16).
19 La descrizione poetica trova dei paralleli in Pr 8, 22-31; Sal 104, 5-9; Bar
3, 34-35.
LA SAPIENZA DELLA SOFFERENZA DI GIOBBE
93
pericoloso, quasi un mostro, ma Dio lo domina e lo incatena. La
creazione non è un caos incontrollato. La creazione della luce e delle tenebre (Gb 38, 12-21). Luce e tenebre, poi cielo e abissi sono le
opere dei primi due giorni della creazione (Gen 1, 3-8). L’avvento
dell’aurora significa l’apparizione della luce che è Dio. Dio fa sorgere l’aurora e scuote le tenebre come fossero un tappeto pieno di
parassiti. Creando la luce, relega la tenebra a se stessa e manifesta il
trionfo finale della luce che caratterizza il disegno di Dio. Il colore
rosso dell’aurora ricorda l’argilla da cui l’uomo è tratto (Gen 2, 7), per
ricevere l’impronta divina (Gb 10, 8-9).
Jahvè aveva tratto il mondo dall’abisso (Gen 1, 2), ma il luogo di
nascita del mondo e del mare è inaccessibile all’uomo, come pure il
luogo di soggiorno dei morti da cui non si ritorna (Gb 7, 9: 10, 2122)20. Dio invita Giobbe a esplorare il cosmo, dal fondo del mare al
mondo dei morti del quale tante volte egli ha parlato (Gb 3, 16-19).
Ma Giobbe nonostante sua lunga esperienza non conosce l’estensione della terra che abita: C’è un abisso fra la conoscenza dell’uomo e
l’incommensurabile Sapienza del Creatore. L’uomo non può penetrare fino al mistero di colui che chiama tutte le cose all’esistenza.
Dio invita Giobbe a guardare le leggi della fecondità del suolo (Gb
38, 22-30). Nel secondo e terzo giorno della creazione (Gen 1, 6-10)
sono stati creati gli elementi che permettono alla vita di esistere: neve, grandine, vento, scirocco, acquazzoni, tuoni, ghiaccio, brina. Neve e freddo sono rari in Israele (Sal 147, 16-17; Sir 43, 19-20) e costituiscono fenomeni che suscitano meraviglia. Dio si serve di tutti
questi elementi cosmici in un modo incomprensibile per l’uomo per
punire o per salvare. Dio si fa gioco degli elementi, senza che l’uomo
possa scoprire le ragioni segrete del suo agire. Ne usa anche in favore del suo popolo, con una sorprendente prodigalità, come mostra la
storia di Israele (Es 9, 22-26; Gs 10, 11) o come lascia supporre la visione escatologica (Is 28, 17: 30, 30).
Anche il mondo celeste è regolato da leggi (Gb 38, 31-38). Nella
costellazione e nelle stelle regna una perfetta armonia. Le leggi del
20
Cfr. Sal 9, 14: 107, 18; Is 38, 10.
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mondo celeste ritmano le stagioni e hanno su di loro un’influenza.
Le une e le altre hanno un luogo e un tempo di apparizione. L’uomo, nonostante la finezza della sua osservazione, non è in grado di
cogliere la forza profonda dell’ordine che vi si dispiega. L’uomo è
incapace di far piovere, come di scatenare l’uragano21. Attraverso
queste descrizioni, Jahvè tocca l’opera creatrice del quarto giorno
(Gen 1, 14-19).
Creazione degli animali e del loro istinto (Gb 38, 39-39, 4) è l’opera del sesto giorno della creazione (Gen 1, 24-25): il discorso di Dio
si concentra sugli animali del deserto: sul comportamento dello
struzzo (Gb 39, 13-18), del cavallo (Gb 39, 19-25), costumi degli uccelli da preda (Gb 39, 26-30). Anche l’istinto degli uccelli è ugualmente un segno della presenza creatrice. Dio veglia sulla conservazione di ogni specie, tenendo conto della loro diversità. Non agisce
con una protezione o con un intervento esteriore, ma facendo partecipare ciascuna di esse alla sua Sapienza di Creatore. In questo modo
l’istinto degli animali è vara espressione di libertà, come l’istinto di
conservazione e di rivendicazione che c’è nel cuore di Giobbe.
Dio fa un panorama del mondo naturale senza entrare con un discorso preciso nulle vicende umane, compresa quella di Giobbe. Dio
fa fare a Giobbe un salto qualitativo. Giobbe deve saper scorgere nei
tratti cosmici e nel creato la mano di Dio, che è il vero fondamento
della giustizia divina. Il discorso di Dio rivela l’esistenza di un mondo dinamico e costantemente curato da Dio, che esercita la sua provvidenza anche sulle parti più aride e selvagge con una libertà assoluta che l’uomo non può arrivare a comprendere. Giobbe è invitato a
percorrere un itinerario ideale e impossibile che si estende dal tempo allo spazio, dal cielo fino al mondo degli inferi, un percorso fantastico e meraviglioso che alla fine riporta l’uomo in se stesso e lo aiu-
21
Certi animali sono dotati di un istinto particolarmente sensibile alla percezione di questi fenomeni: l’ibis, uccello simbolo della sapienza, nell’antico
Egitto, annunciava le piene del Nilo; il gallo presagisce il sorgere del sole, prima ancora che appaia, meritando così di rappresentare la risurrezione, ma annuncia anche le piogge d’autunno, secondo una tradizione popolare d’oriente.
LA SAPIENZA DELLA SOFFERENZA DI GIOBBE
95
ta a collocarsi in modo giusto davanti alla realtà. Il cosmo non è un
ammasso di cose, ma è creazione, un mondo dal quale Dio non è
estraneo e nel quale, anzi, egli esercita la sua provvidenza.
Dio dopo avere mostrato a Giobbe la sua Sapienza di Creatore, gli
manifesta anche la sua potenza sulle forze del male per completare la
risposta iniziata col discorso sulla creazione che pare ancora insufficiente a Giobbe per poter capire la totalità del problema. Il discorso
di Dio è completato da un lungo passaggio nel quale Egli mette in
campo due strani animali, che portano i nomi di Beemot e Leviatan.
Le loro descrizioni fanno evidentemente pensare all’ippopotamo (alcuni pensano al bufalo), che incarna la forza brutale, il male fisico: cataclismi e accidenti della natura; e al coccodrillo. Dio tratta come animali domestici quelle bestie che l’uomo non può sperare di sottomettere e che considera estremamente pericolose. Dio è in grado di
controllare le forze del male, pur senza distruggerle come vorrebbe
l’uomo. L’uomo è incapace di dominare la malvagità, di addomesticarla, o di ridurla a un giocattolo inoffensivo. Queste realtà fanno
parte di un ordine che sorpassa l’intelligenza umana anche se tutto
questo fa parte del mondo terreno. Ci si può stupire di ciò, ma nulla
sfugge al piano divino. Il Signore lascia che buoni e cattivi coesistano insieme, come in natura22. L’uomo ragiona con la logica dell’antitesi: buono-cattivo; amico-nemico; giusto-ingiusto; utile-inutile e
vorrebbe applicare anche al creato questa logica. Dio, invece, utilizza la logica dell’essere, del crescere, del divenire: egli è un Dio che
cura la vita in tutti i suoi aspetti, anche in quelli che a noi paiono inutili o persino dannosi. In questa creazione esistono delle tensioni:
22
In questo punto si deve ricordare la parabola della zizzania (Mt 13, 24-30),
dove si racconta che il Signore lascia che “buoni” e “cattivi” coesistano insieme,
come nel mondo naturale. L’uomo ragiona con la logica dell’antitesi buono-cattivo, amico-nemico, giusto-ingiusto, utile-inutile, e vorrebbe applicare anche al
creato questa logica. Dio, invece, utilizza la logica dell’essere, del crescere, del
diventare. Egli è un Dio che cura la vita in tutti i suoi aspetti, anche in quelli che
a noi paiono inutili o persino dannosi. Cfr. J. RATZINGER, Creazione e peccato. Catechesi sull’origine del mondo e sulla caduta, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo
1986, 47-59.
96
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animali selvaggi e domestici, presenza di cattivi, realtà del combattimento, opposizione fra luce e tenebre, fra forza e debolezza. Ma questo tema dell’opposizione è ancora solo abbozzato.
Il discorso di Dio ci aiuta a uscire da una visione esclusivamente
antropocentrica della creazione, una visione cioè che giudica il cosmo solo a partire dall’uomo. Anche fuori della sfera umana esiste un
rapporto fra Dio e le sue creature. Il creatore ama ogni vita. Vi è nel
cosmo un intero mondo che sfugge al controllo dell’uomo, che pure
sul cosmo vorrebbe esercitare il suo dominio. Il discorso di Dio (Gb
38, 39-39, 30) indica i limiti del potere dell’uomo. Quest’opera di
Dio può sembrare un paradosso e ci pone davanti alla disparità dei
doni che Dio fa agli uomini. Questo è contrario al nostro sentimento di “uguaglianza”. Il Creatore vede le cose in un altro modo. Il modo umano di ragionare di Giobbe, che chiedeva a Dio di spiegare il
senso della sofferenza, oscurava il Suo piano divino (Gb 38, 2). La
sofferenza dell’uomo innocente, voluta da Dio trova posto nel Suo
progetto salvifico. Non si può criticare Dio solo perché non lo si capisce. Il panorama della creazione dovrebbe far capire a Giobbe che
non possiede la conoscenza della natura del mondo, e quindi non
può comprendere il mistero, che ha la sua fonte nell’imprescutabile
sapienza Divina. La sofferenza dell’uomo innocente appartiene dunque alle verità, che l’uomo non riesce a capire, ma può accettarle nello spirito della fede.
4. Giobbe di fronte ai propri limiti sapienziali
Giobbe è un uomo spogliato delle sue certezze e delle convinzioni
della sapienza corrente. La ricerca della sapienza è una ricerca della
verità che rende omaggio alla gloria di Dio, poiché l’uomo è creato intelligente e libero, proprio al fine di ricercare il disegno divino, vivente espressione della vera Sapienza. Se tuttavia Giobbe contesta
l’insegnamento della sapienza che i suoi amici incarnano (Gb 26, 3),
resta però fedele a questa ricerca fondamentale, perché si applica a
trovare il segreto dell’azione di Dio attraverso la realtà della sua disgrazia. Egli respinge le soluzioni facili dei suoi amici che rifiutano le
LA SAPIENZA DELLA SOFFERENZA DI GIOBBE
97
smentite che egli oppone alla loro esperienza. Come dice Andrea Poma in “Avranno fine le parole vane”23:
“Giobbe oppone alle parole vane” degli ipocriti suoi consolatori e falsi interpreti della Misericordia divina, parole vere e, in definitiva, ribadisce “una difesa nella giustizia di Dio che si esprime anche in parole di autodifesa, di interrogazione e di invocazione, ma ancor più,
si manifesta nella nostalgia struggente per la manifestazione di Dio
stesso, della sua parola e della sua fedeltà”.
Si vede uomo vero davanti al Dio vero. Ma il vero Dio è mistero
come scrive J. Lèvêque:
“Il silenzio di Dio ha fatto esplodere i limiti della sapienza dell’uomo,
e Giobbe ha compreso che essere saggio era accettare nella sua vita
l’irruzione della sapienza di Dio”24.
Dio dando la risposta a Giobbe lo rimanda alla grandezza e vastità della creazione, la quale rimane inaccessibile e incomprensibile all’intelletto umano, e tuttavia è così magnifica e stupenda che l’uomo
davanti al Creatore può solo inchinarsi in atto di reverenza. La creazione è messa al servizio del piano della rivelazione e della salvezza
che Dio riserva all’uomo. Il libro della Genesi è anche una prefazione alla storia dell’Alleanza, e numerosi Salmi e libri sapienziali sviluppano il disegno di Dio congiuntamente nella creazione e nella storia (Sir 42, 15-50, 26). Giobbe rimproverava a Dio di servirsi della
creazione per torturarlo. Dio lo rende attento alla sua sollecitudine
materna verso le sue creature, soprattutto le più deboli, poi lo chiama a scoprire in questa provvidenza infinitamente rispettosa il cammino della sua giustizia. Questo riconoscimento lo può compiere so-
23
A. POMA, Avranno fine le parole vane?, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, 214.
24 J. LÉVÊQUE, Job et son Dieu. Essai d’exégèse et de théologie (Études Bibliques),
vol. II, Gabalda, Paris 1970, 624.
98
GABRIEL WITASZEK
lo con la fede: il Dio che si prende cura della più piccola delle sue
creature e che domina le forze del male può condurre l’uomo ad accogliere il mistero dell’azione divina nel cuore della sua vita. Dio lo
ha reso maggiormente cosciente dei suoi limiti; non per annientarlo
però, ma per aprirlo al suo proprio mistero.
Ed è appunto la parola del Creatore alla sua creatura che l’uomo
è invitato ad ascoltare, pur se espressa nel turbine della tempesta,
perché solo questa può dare senso anche ai più piccoli episodi della
sua storia.
L’autore sacro sa che l’uomo può oscurare il progetto di Dio, leggendo la realtà in un’ottica limitata al “finito” e totalmente chiusa al
trascendente. Lo richiama perciò a considerare sia la realtà cosmica
in cui è immerso, sia gli avvenimenti in cui è coinvolto o di cui è protagonista alla luce del pensiero di Dio. La serie di interrogazioni che
Dio pone a Giobbe nei capitoli 38 e 39 del libro, sono la guida per
scoprire qualcosa del misterioso piano salvifico di Dio.
Dio ha un suo progetto misterioso che l’uomo con la sua esile mente non riesce a percorrere; in questo progetto ogni realtà ed ogni
evento hanno una loro collocazione e Dio con i suoi interventi salvifici nella storia non fa che porre ogni tessera di questo mosaico al suo
posto giusto così che si attui il regno di Dio. Anche l’uomo è invitato a collaborare a questo progetto cosmico-salvifico; ma è proprio
l’uomo, l’unico tra gli esseri dotati di libertà, che può sottrarsi a questo impegno, anzi che può ostacolarlo e tentare di demolirlo (Gen 23). Ma il piano divino non si arresterà mai. Diversamente dalle macchinazioni umane esso è efficace: “Molte sono le idee della mente
dell’uomo, ma solo il disegno del Signore resta saldo” (Pr 19, 21). È
un progetto irrevocabile: “Il piano del Signore sussiste per sempre”
(Sal 33, 11). È un piano dinamico: “Come ho pensato accadrà, come
ho deciso succederà. Io sperderò l’Assiro nella mia terra e sui miei
monti lo calpesterò. Allora sparirà da loro il suo giogo, il suo peso
dalle loro spalle. Questa è la decisione presa per tutta la terra” (Is 14,
24-26). È un disegno storico, destinato a Israele e all’umanità: “Tu sei
grande nei progetti e nelle opere (...) Tu hai operato segni e miracoli nel paese d’Egitto e fino ad oggi in Israele e fra tutti gli uomini”
(Ger 32, 19-20). È un piano pedagogico che prevede da parte del-
LA SAPIENZA DELLA SOFFERENZA DI GIOBBE
99
l’uomo disprezzo e rifiuto, ma che con pazienza conduce l’uomo all’accettazione: “Avete trascurato ogni mio consiglio e la mia esortazione non avete accolto (...) Ascolta il consiglio e accetta la correzione per essere saggio in avvenire” (Pr 1, 25: 19, 20).
Essendo Dio Luce, anche il progetto di Dio nella storia non può essere che luce (Gb 12, 22: 34, 22). Per questo l’intelligenza umana non
può che oscurare il piano di Dio proiettando su di esso le sue tenebre; la sufficienza umana non è che un ostacolo all’illuminazione della fede.
La conoscenza del creato, che pure è disponibile all’uomo, sfocia
qui nell’ammirazione per le opere meravigliose di Dio. Il senso del
cosmo è disponibile agli uomini, ma resta loro sconosciuto nella sua
reale profondità. Per questo, quando l’uomo intende parlare della
grandezza o della giustizia di Dio deve porsi nell’atteggiamento di
meraviglia e di adorazione che nasce dalla consapevolezza del proprio
limite. Il creato esprime la libertà creatrice e la gioia di un Dio che
trascende le ristrette categorie umane e anche un’eventuale relazione
causa-effetto. In tal modo comprendiamo che il tema principale del
libro di Giobbe non è il dolore, ma la scoperta del vero volto di Dio.
Attraverso la creazione riusciamo a coglierne un aspetto e, in questa
luce, possiamo capire meglio noi stessi.
La rivelazione di Dio provoca il completo pentimento di Giobbe
che si arrende al mistero divino: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma
ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento su
polvere e cenere” (Gb 42, 5-6). Giobbe non insiste più nel sostenere la
rettitudine della sua coscienza e la sincerità del suo cuore (Gb 27, 65);
gli è stata ormai rivelata una legge di giustizia e di lealtà più grande, anche se non riesce a comprenderla. J. Lévêque nota a questo proposito:
“Giobbe si vede invitato serenamente a chinarsi sotto la potente mano di Dio e a realizzarsi nel faccia a faccia della fede. Dio dà così ragione a Giobbe mettendolo nel suo torto. Ha avuto torto infatti nell’esigere questa teofania, e questa è stata una debolezza della sua fede;
ma ha avuto ragione, anche nei peggiori momenti della sua aggressività, nello sperare e nell’attendere che Dio parli. Adesso Jahvè ha parlato e Giobbe ascolta; si avvia infine un dialogo che rispetta Dio e san-
100
GABRIEL WITASZEK
tifica l’uomo. La potenza di Dio ha preso lo slancio dall’impotenza di
Giobbe, per introdurlo nelle profondità della Sapienza”25.
In tal modo la sofferenza di Giobbe diventa l’espressione della
grazia di Dio nel suo cuore. Che cosa ha compreso Giobbe? Si chiede G. Gutiérrez:
“Ciò che lo ha colto e portato alla contemplazione è che la giustizia,
da sola, non ha l’ultima parola nel linguaggio relativo a Dio. Ci troviamo, totalmente e definitivamente, davanti al Dio della fede soltanto quando riconosciamo la gratuità del suo amore. La grazia non
si oppone alla ricerca della giustizia, né le toglie merito; al contrario,
le conferisce il suo pieno significato. L’amore di Dio, come ogni amore, non si muove in un universo di cause ed effetti, ma in quello della libertà e della gratuità”26.
Il cosmo è un mistero da contemplare, non da ridurre a categorie
“morali” create dall’uomo. Il discorso sulla giustizia di Dio e su Dio
stesso, che costituisce il cuore del libro, è così condotto dall’autore a
un altro livello, diverso da quello della domanda sul giusto o l’ingiusto. La sapienza di Giobbe non si limita al mistero delle cose del
mondo, ma si estende con preferenza al campo morale e religioso.
Conclusione
Il problema di Giobbe non è il problema della sofferenza ma è il
problema della fede espressa nella vita morale27. La morale senza fe-
25
Ibid., II, 531.
G. GUTIÉRREZ, Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’innocente. Una riflessione sul libro di Giobbe (Nuovi Saggi), Queriniana, Brescia 1986, 173.
27 L’interrogativo posto da Satana è la chiave della discussione e mostra che
il dibattito non gira intorno al significato della sofferenza, bensì intorno alla
gratuità della fede. La sofferenza è solo in grado di scandagliare il cuore dell’uomo. È la prova che saggia la fede e la purifica. Cfr. R. E. MURPHY, Giobbe,
Salmi, Queriniana, Brescia 1979, 95-98.
26
LA SAPIENZA DELLA SOFFERENZA DI GIOBBE
101
de non permette di capire fino in fondo la sofferenza dell’uomo. La
fede di Giobbe, che si esprime nell’accettazione finale della parola
del Signore e della volontà di Dio, non è neppure aliena dal ragionamento, ovvero dall’uso della ratio da parte dello stesso Giobbe. Su
questa linea va l’Enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II, pubblicata il 14 settembre 1998, nella quale si può intendere che la fede rafforza la ragione e la ragione rafforza la fede. Riflettendo sulla sofferenza si cercano le ragioni della fede. Giobbe tenta in tutti i modi di
capire il perché delle continue sofferenze che egli deve affrontare e
anche il perché della sofferenza in generale. Egli interrogandosi, finisce col fare da cerniera ideale tra indagine filosofica e religiosa.
Nel saggio di Mario Luzi e Gianfranco Ravasi, Il libro di Giobbe28 si
osserva che Giobbe supera la teoria retributiva di “delitto-castigo” e
di “bene-premio”, nonché quella che mira a ridurre la fede a uno
schema razionale, per giungere al punto che legittima la ricerca umana (razionale) all’interno del mistero di Dio. Giobbe, è soprattutto la
storia di un credente che attraverso l’oscurità vuole giungere non tanto alla comprensione di Dio, quanto al dialogo col suo Signore. In
questo saggio si legge:
“la questione centrale dell’opera non è il male di vivere ma il come poter credere e in quale Dio credere nonostante l’assurdo della vita.
Contro il razionalismo etico della teoria retributiva, contro il razionalismo teologico degli amici, Giobbe ribadisce la necessità del temere
Dio per nulla, cioè la gratuità della fede e l’esigenza di “vedere” attraverso un’autentica esperienza di fede”.
Dio non svela a Giobbe il perché della sua sofferenza, ma gli fa
comprendere (Gb 38-42), come siano tante le cose che egli non può
capire; fra esse l’operato divino; e che quindi il suo dramma non si può
risolvere con una spiegazione, con un processo logico, ma solo con la
28
M. LUZI e G. RAVASI, Il libro di Giobbe, Armando Dadò, Locarno 1977,
138. Cfr. LUIGI FERLAZZO NATOLI, Giobbe don’t forget, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2004.
102
GABRIEL WITASZEK
fede in Dio. Dio offre a Giobbe una riflessione di tipo sapienziale sul
disegno divino, facendo con questo opera di educazione. Mette in
questione l’immagine di Dio con cui Giobbe ha riempito il suo spirito al fine di trovare una difesa contro le angosce che lo tormentano.
Permetterà quindi a Giobbe di scoprire il vero Dio, invisibile certo in
se stesso, ma che si rivela attraverso le realtà visibili della natura creata (Rm 1, 19-20). Dio traspare nelle sue opere (Sap 13, 1-9).
La creazione non rivela solo la grandezza di Dio, ma anche la sua
saggezza e la sua fedeltà. Dio non è impotente di fronte al male, all’ingiustizia e al dolore. Così la ragione che ha fatto sorgere in Giobbe il dilemma e lo ha indotto a porre Dio sotto accusa, diventa la ragione che riporta alla serenità. Dio mostra a Giobbe i segni della sua
potenza e del suo amore, sparsi ovunque nel mondo. Nello stesso
tempo gli fa vedere i molti misteri che circondano l’uomo. L’uomo
non è l’unico essere nel mondo e quindi non è l’unico mistero. Giobbe deve ammettere che il suo destino doloroso non è una strana anomalia in un ordine facilmente intelligibile, ma un caso tra molti altri
di un atteggiamento divino che lo supera.
L’uomo conoscendo la sua condizione e la sua storia, può costruire la realtà umana, esserne co-creatore e portarla a compimento, è
aperto ai cambiamenti e al dialogo. La realtà creata è sempre mutevole e sfuggente, l’uomo è un soggetto con cui bisogna instaurare un
rapporto29. È un soggetto imprevedibile, perché possiede in sé il
marchio del divino. Dio che ha creato l’ordine del cosmo è presente
e interviene per assicurarne il funzionamento, l’uomo è parte del cosmo e Dio interviene anche nelle vicissitudini della sua vita.
29
A. NICCACCI, La casa della sapienza. Voci e volti della sapienza biblica, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, 54; F. PIERI, Giobbe e il suo Dio. L’incontroscontro con il semplicemente altro, Paoline, Milano 2005.
LA SAPIENZA DELLA SOFFERENZA DI GIOBBE
103
SUMMARIES
The Book of Job poses the universal questions about the meaning of suffering, indeed about the very meaning of our human existence. Job is conscious
of his own uprightness and calls on God to account for his predicament. God
shows him the limits of all human power and gives him to understand that as
Creator he loves every life. Human suffering is part of the truth that cannot be
fully comprehended but which can be accepted in a spirit of faith. The events
of Job’s personal life are a probing of the vocational implications of the gift and
of a conscience which calls for an active moral involvement.
***
El libro de Job plantea dos interrogantes universales acerca de la razón del
sufrimiento, es decir, sobre el sentido mismo de la existencia humana. Job,
consciente de su rectitud, invoca a Dios en espera de una explicación de su
situación. Dios le hace ver los límites del poder humano y le hace entender
que el Creador ama a cada ser creado. El sufrimiento del hombre forma parte de la verdad que no se alcanza a penetrar en toda su profundidad, pero
que se puede acoger con espíritu de fe. La experiencia personal de Job es
una interiorización de las implicaciones de la vocación del don y de la conciencia que urgen un empeño moral activo.
***
Il libro di Giobbe pone gli interrogativi universali sul senso della sofferenza, cioè
sul senso stesso della nostra esistenza umana. Giobbe consapevole della sua
rettitudine chiama Dio a rendere ragione della sua situazione. Dio gli indica i limiti del potere dell’uomo e fa capire come il Creatore ami ogni vita. La sofferenza dell’uomo fa parte delle verità che non si possono penetrare fino in fondo, ma che è possibile accettare nello spirito della fede. La vicenda personale di Giobbe è un’approfondimento delle implicazioni vocazionali del dono e
della coscienza che invitano a un coinvolgimento morale attivo.
THE VOCATION
OF THE CATHOLIC MORAL THEOLOGIAN
Formed in the Alphonsian Tradition1
Dennis J. Billy, C.Ss.R.*
Introduction
During my many years of teaching in this postgraduate institute,
I have often asked myself what it means to be a Catholic moral theologian, and, more precisely, one formed in the Alphonsian tradition. After much thought and reflection on what we do here at the
Alphonsian Academy and how we relate to one another and go
about our business, I do not think there is a single answer to this
question.
Catholic moral theology today has become so vast and involves so
many fields of knowledge that it would be virtually impossible to arrive at a single, universally valid description of a typical practitioner
of this important theological discipline. What is more, a mere glance
at the history of Catholic moral theology shows that a number of traditions of moral discourse have often coexisted, sometimes peaceably,
sometimes not, within the Catholicism itself. Indeed, the tensions
among them have often been responsible for preventing Catholic
moral theology from stagnating and helped to propel it forward. The
difference between Bonaventure and Thomas Aquinas on the authority of conscience is a case in point. The theological wars during
the age of casuistry involving probabilism, probabiliorism, and the
* The author is an ordinary professor at the Alphonsian Academy.
* El autor es profesor ordinario en la Academia Alfonsiana.
1
This article is the English original of the inaugural lecture at the Alphonsian Academy for the opening of the 2007-2008 academic year.
StMor 46/1 (2008) 105-114
106
DENNIS J. BILLY
equiprobabilist position of Alphonsus, yet another. The post-Vatican
II debate on normative ethics, still another2.
What is more, I do not believe that we can generalize by speaking of the legacy left to the Church by St. Alphonsus as if it were a
single, homogeneous entity. On the contrary, within the Church,
within the Redemptorist Congregation, within this very Academy,
there are differences in approach concerning Alphonsus’s significance for the Catholic moral and spiritual life and what impact it
should have on a moral theologian’s formation and outlook. Although these approaches tend to overlap and generally complement
each other, they all compete for a wider hearing in the intellectual
forum and seek a growing influence in both academic and pastoral
settings. One approach, for example, emphasizes the importance of
a strict historical exposition and critical assimilation of Alphonsus’s
moral and spiritual doctrine. Another focuses on providing a relevant translation of his moral and spiritual outlook, one appropriately interpreted and suitably adapted to the needs of the world today.
Still another believes that the entire moral theological curriculum
should be imbued with Alphonsus’s spirit of pastoral benignity and
care for the poor3.
Although nearly everyone in this academic institution would agree
that a strong interdisciplinary focus is the best way to equip future
Catholic moral theologians with the tools they need for their min-
2
For the differences between Bonaventure and Aquinas on the authority of
conscience, see DENNIS J. BILLY, “The Authority of Conscience in Bonaventure
and Aquinas,” StMor 31(1993) 237-63. For the debates on probabilism in
Catholic moral casuistry, see SERVAIS PINCKAERS, Les sources de la morale chrétienne, Les Éditions du Cerf, Paris 1985, 276-79; THÉODULE REY-MERMET, La
morale selon Saint Alphonse de Liguori, Les Éditions du Cerf, Paris 1987, 28-32.
For the debate on normative ethics in in post-Vatican II Catholic moral theology, see GIUSEPPE ANGELINi, Teologia morale fondamentale: Tradizione, Scrittura
e teoria, Glossa, Milano 1999, 233-35.
3 For a brief presentation of the various approaches to Alphonsian study, see
DENNIS J. BILLY, With Open Heart: Spiritual Direction in the Alphonsian Tradition,
Liguori Publications, Liguori 2003, xii-xiv.
THE VOCATION OF THE CATHOLIC MORAL THEOLOGIAN
107
istry, not all will agree on how much emphasis should be given in the
curriculum to the critical historical study and interpretative adaptation of Alphonsus’s teachings. This disagreement is of no small concern and, at some point, will need to be confronted. As an institute
of postgraduate studies rooted in the Alphonsian tradition, we need
to ask ourselves in what concrete ways does Alphonsus’s spirit and
teaching influence our approach to the teaching and study of
Catholic moral theology today. How have we made his approach to
moral theology relevant for today? What difference does his spirit
and teaching make to the way we go about doing moral theology? To
my mind, an adequate response to such questions has much to do
with considering Catholic moral theology from the point of view of
vocation and call.
1. A Call within a Call
Before going any further, let me step back and provide a larger
context for speaking about the vocation of the Catholic moral theologian. To my mind, the best way to describe this vocation is as “a
call within a call” or, better yet, as “a call within a call within a call
within a call.” It is not unlike a Chinese puzzle box, where one box
conceals a slightly smaller box, which itself conceals a slightly smaller box, and then another even smaller box, and so on, until one finally reaches the smallest of the small. To be a Catholic moral theologian presupposes a number of prior callings: (1) the call to discipleship, (2) the call to Catholic discipleship, (3) the call to a particular state of life in the Church (i.e., religious, priestly, lay), (4) the call
to be a Catholic theologian, and (5) the more specific call to be a
Catholic moral theologian. For our present purposes, we can say that
the call to be a Catholic moral theologian is even further specified by
a call to carry out one’s research within the parameters of a particular school of Catholic moral thought (in our case, the Alphonsian tradition). It can also be further specified by one’s dedication to particular subdiscipline of moral theology (fundamental moral, sexual
morality, social ethics, bioethics).
108
DENNIS J. BILLY
To put it another way, it is of tantamount importance for a
Catholic moral theologian to be a believing Catholic committed to a
particular state of life within the Church and dedicated to uncovering the ethical dimensions of what it means to lead a life of fides
quaerens intellectum (“faith seeking understanding”). Each of these
prior callings, moreover, has something to contribute to the vocation
of the Catholic moral theologian. Moral theologians do not work in
a vacuum. Their following of Christ, their Catholic identity, their vocational commitments, their knowledge of the Catholic tradition, the
particular school of thought they follow, shape the way they view the
world, confront pressing moral issues of the day, give rise to the very
questions they ask, and condition the way they respond to them. The
Catholic moral theologian, in other words, carries out his or her task
as both a member of and a servant to the community of believers.
This task requires a vital, living faith in the God of Jesus Christ, one
that ponders the radical difference between the culture of life and the
culture of death and seeks to make rational sense out of the ethical
choices facing today’s believers.
Above all else, the Catholic moral theologian is called to use his
or her study, teaching, writing, action, and prayer as a means of dedicated, loving service. Scripture itself attests, “God is love, and he
who abides in love abides in God, and God abides in him” (1Jn 4:16).
These words from the First Letter of John open Pope Benedict’s first
encyclical letter, Deus caritas est, and remind us that, regardless of
one’s state and circumstances, the Christian vocation is primarily
about God’s love for humanity and the call to live in that love4.
2. Some Insights from Deus caritas est
One of Benedict’s distinctive insights in his encyclical letter is the
way he grounds eros (or passionate, ascending love) and agape (or disinterested, descending love) in the mystery of divine love. In his
4
BENEDICT XVI, Deus caritas est, no. 1.
THE VOCATION OF THE CATHOLIC MORAL THEOLOGIAN
109
mind, the two can never be completely separated: the need to give is
complemented by the need to receive; “gift love” and “need love” are
two sides of the same coin. The Fathers of the Church, he says, often employ the image of Jacob’s ladder from the Book of Genesis (Gn
28:12) to describe how the passionate, ascending love of eros is intimately related to the disinterested, descending love of agape5. “Fundamentally,” he says, “‘love’ is a single reality, but with different dimensions; at different times, one or other dimension may emerge
more clearly”6.
I believe that Benedict’s insight into the mystery of love has much
to teach us about the vocation of the Catholic moral theologian. This
noble calling is a response to the call to love, but to love in a very special way. The vocation of a Catholic moral theologian is not only a
call within a call, within a call, within a call, within a call, but also one
that expresses itself through eros and agape, that is to say, through ascending and descending love, through passionate attraction and holy,
disinterested service. At one point or another (and the sooner the
better), we Catholic moral theologians need to get in touch with the
passion that moves us. Why are we studying moral theology? What
are the issues that we truly care about? What motivates us? What
gets us excited? What moves us to study? What moves us to write?
What moves us to discuss? What moves us to pray? What moves us
to action? As Catholic moral theologians, we are responding to a special call from God. We need to ask ourselves how hard are we listening to it. How hard are we responding to it? Being a Catholic moral
theologian demands having a passion for our craft. It asks us to be
passionate about what we do, about our study, our research, our
teaching, our seminars, our writing. This passion for our craft should
lead us into asking hard questions about the nature of human action
in all spheres of life. It should propel us to seek solutions to the pressing moral issues of the day that preserve the dignity of the human
person, protect the common good, and promote the cause of social
5
6
Ibid., no. 7.
Ibid., no. 8.
110
DENNIS J. BILLY
justice. It should move us to devote ourselves to lives of service to
Church and society on all their various levels.
To my mind, Pope Benedict’s description of the close interconnection of eros and agape in the mystery of Christian love has something to teach us about Catholic moral theology itself and how it
should be carried out at the Alphonsian Academy. If you bear with
me for a few moments, I would like to develop this thought by first
referring to one of the “old masters” of the Alphonsian Academy, the
late Father Sean O’Riordan C.Ss.R. (1916-1998).
In 1995, Prof. O’Riordan delivered a lecture in this very auditorium entitled, “The Role of the Moral Theologian in the Alphonsian
Academy”7. In it, he reflects on his experience of almost 30 years of
teaching moral theology in these hallowed halls. At one point, he
provides a brief summary of the Academy’s role in the development
of moral theology in the years leading up to the Second Vatican
Council. He describes the Academy as playing a formative role in the
transition from the manualist approach to moral theology to one representative of the “theology of the Council”. During this period, its
main contribution to the renewal of moral theology was its interdisciplinary approach that emphasized praxis over abstract theory. St.
Alphonsus wanted all of moral theology to be ordered toward praxis, what O’Riordan calls “the authentic living in practice of the
Christian life” by focusing on “the realization of the Gospel of Jesus
Christ in the concrete reality of life, to the way actual human beings
think, decide, and commit themselves”8. This strong emphasis on
praxis, coupled with a sense of moral theology’s interdisciplinary nature and close connection to the spiritual life of the believer, has been
one of the Academy’s enduring strengths and remains so to this day.
Let us now return to Benedict XVI’s depiction of the relationship
between eros and agape. To my mind, this insight sheds light on the
7
SEAN O’RIORDAN, “Il teologo moralista nell’Accademia Alfonsiana,” StMor
33 (1995) 45-56. For other discussions of the vocation of the moral theologian,
see BASILIO PETRÀ, “Le sfide del teologo moralista oggi,” StMor 33 (1995) 5-20;
SABATINO MAJORANO, “Il teologo moralista oggi,” StMor 33 (1995) 21-44.
8 SEAN O’RIORDAN, “Il teologo moralista nell’Accademia Alfonsiana”, 46.
THE VOCATION OF THE CATHOLIC MORAL THEOLOGIAN
111
meaning of authentic Christian praxis. The focus on “the authentic
living in practice of the Christian life” has everything in the world to
do with love of God and neighbor. Benedict’s important insight is that
such love is, by its very nature, both ascending and descending, both
passionate and dispassionate, both need and gift-oriented. The close
connection between eros and agape in the mystery of God’s love tells
us a great deal about how that love should be manifested concretely
in the lives of Jesus’ followers. For one thing, it tells us that our lives
of service must flow from our passionate love for God and humanity.
Our giving of ourselves to others must be rooted in a profound spirituality of the heart that finds its motivation only in seeking God’s will.
On this point, Alphonsus’s teaching matches very closely that of Pope
Benedict, the reason probably being because each has a deep regard
for the importance of prayer in nurturing one’s personal relationship
with God9. To be sure, Alphonsus’s “spirituality of the heart” has
everything to do with his concern for prayer and moral praxis. For
him, the two are like two sides of the same coin. His great spiritual
and moral classic, The Practice of the Love of Jesus Christ is a case in
point. This book is a veritable handbook for how eros and agape come
together in the daily life of the believer. It is a book concerned not just
with the love of God (eros) but also with living out that love in a life
of prayerful service (agape). It is a book about the close relationship
between spirituality and morality, between prayer and action, about
how a profound “spirituality of heart” can be dutifully transformed into a genuine “spirituality of practice”10.
In his book, The Holy Longing, Ronald Rolheiser, one of the preeminent spiritual authors of our day, describes spirituality as how
we channel our eros what we do with the fire burning within us11.
19
See, for example, BENEDICT XVI, Deus caritas est, no. 37; ALPHONSUS DE
LIGUORI, Del gran mezzo della preghiera, Opere ascetiche, vol. 2, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1962, 7-9.
10 See DENNIS J. BILLY, Plentiful Redemption: An Introduction to Alphonsian
Spirituality, Liguori Publications, Liguori 2001, 130-43.
11 RONALD ROLHEISER, The Holy Longing: The Search for a Christian Spirituality, Doubleday, New York 1999, 7, 11.
112
DENNIS J. BILLY
Alphonsus did many things with the passion within him. He founded a missionary congregation; he moved the hearts of simple country folk through his mission sermons; he composed hymns and
heartfelt poetry; he painted portraits; he wrote over 110 books and
pamphlets, not the least of which were those devoted to moral theology; he wrote countless letters; and he spent hours on end in the
throes of deep personal prayer. He lived his life with the single purpose of doing God’s will. For him, that meant doing as much as possible to lead people closer to deep intimate relationship with God.
Alphonsus’s work in moral theology was just one of many expressions of his deep passion and love for God. He wrote his moral textbooks in order to help people find practical ways to experience the
depths of God’s love for them and to respond accordingly. His
moral writing is but one facet of a life entirely given over and converted to God.
At the beginning of this academic year, it is important for us to
remember what motivated Alphonsus, why he did what he did and
wrote what he wrote. It is important for us to remember that moral
theology must be a critical reflection on Christian life and needs to
be understood as a broad, interdisciplinary discipline that meets
people where they are and deals with the issues and problems closest to them.
Conclusion
What does it mean to be a Catholic moral theologian, and, more
precisely, one formed in the Alphonsian tradition? As I said in my
opening remarks, there is no single answer to this question. The
complexity of the moral issues facing the Church requires today’s
moral theologians to have a creative imagination that employs a critical assessment of Church’s moral teaching as it seeks to build a “culture of life” through the promotion of the dignity of the person, the
common good, and human solidarity.
In his own day, Alphonsus used his thorough knowledge of the
Church’s tradition to find creative solutions to the theological im-
THE VOCATION OF THE CATHOLIC MORAL THEOLOGIAN
113
passe in which the opposing probabalist and probabiliorist schools of
moral casuistry had become inextricably mired. He was also humble
enough to recognize the need to change in his own theological position as he gradually moved from the probabiliorist position, to the
probabalist, and then to his own nuanced equiprobabilist stance12.
Those who follow in Alphonsus’s footsteps need to embrace the
same kind of creativity and humility before the truth as they face the
practical spiritual and moral issues of today’s believing community.
I also think it is very important to remember that, in addition to
being the patron saint of confessors and moral theologians, Alphonsus is also known as “Doctor Zelantissimus” (“Most Zealous Doctor”),
as well as the “Doctor of Prayer.” Prayer and the spiritual life are
what enkindled in him and sustained his deep passion for God. They
are what propelled him forward in his life of service to the Church,
to the Congregation he founded, and to the poor and most abandoned. They are what enabled him to see that spirituality and morality, prayer and praxis, yes, even eros and agape were intimately related. Everything in Alphonsus flows from his deep passion for God.
Catholic moral theologians today can look at their patron saint and
see in him a model of what it means to love God and neighbor and
how to live the call to Catholic moral theology, this “call, within a
call, within a call, within a call”, with professional acumen and holy
passion. This is an important (if sometimes forgotten) part of the
legacy that Alphonsus has left to the Church. Catholic moral theologians, especially those teaching and studying here at the Alphonsian
Academy, would do well to ponder it and keep it close to their hearts.
12
See THÉODULE REY-MERMET, La morale selon Saint Alphonse de Liguori,
73-81; MARCIANO VIDAL, La morale de Sant’Alfonso:Dal rigorismo alla benignità,
Editiones Academiae Alfonsianae, Roma 1992, 264-272.
114
DENNIS J. BILLY
SUMMARIES
What does it mean to be a Catholic moral theologian, and, more precisely, one
formed in the Alphonsian tradition? There is no single answer to this question.
The complexity of the moral issues facing the Church requires today’s moral
theologians to have a creative imagination that employs a critical assessment
of the Church’s moral teaching as it seeks to build a “culture of life” through
the promotion of the dignity of the person, the common good, and human solidarity. Those who follow in Alphonsus’s footsteps need to embrace the same
kind of creativity and humility before the truth as they face the practical spiritual and moral issues of today’s believing community.
***
¿Qué significa ser teólogo católico del la moral y, más exactamente, teólogo
formado en la tradición alfonsiana? No existe una única respuesta a esta pregunta. La complejidad de cuestiones morales que afronta la Iglesia en la actualidad, exige que los teólogos de la moral posean una imaginación creativa
que les permita valorar críticamente la enseñanza moral de la Iglesia, la cual
busca construir “la cultura de la vida” por medio de la promoción de la dignidad de la persona, el bien común y la solidaridad humana. Quienes siguen las
huellas de Alfonso, deben adoptar la misma creatividad y humildad frente a la
verdad, a medida que afrontan los asuntos prácticos de índole espiritual y moral de los actuales creyentes.
***
Cosa significa essere un teologo moralista cattolico, e più precisamente, un
teologo formato nella tradizione Alfonsiana? Non c’è una sola risposta a questa domanda. La complessità dei temi morali che affronta la Chiesa richiede
che i teologi moralisti di oggi abbiano un’immaginazione creativa che impieghi
una valutazione comprensiva dell’insegnamento della morale della Chiesa che
cerca di costruire “la cultura della vita” attraverso la promozione della dignità
della persona, il bene comune e la solidarietà umana. Coloro che seguono le
orme di Alfonso devono abbracciare lo stesso genere di creatività ed umiltà di
fronte alla verità man mano che essi affrontano i temi pratici spirituali e morali
della comunità dei credenti di oggi.
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO CRISTIANO
EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
Nuevas perspectivas
José Silvio Botero Giraldo, C.Ss.R.*
Introducción
El Papa Benedicto XVI aparece llamado popularmente ‘teólogo y
pastor’1. Su condición de ‘teólogo’ profundo la atestigua la abundante y rica literatura de su ‘curriculum vitae’; su condición de ‘pastor’ la
había demostrado como arzobispo en su Arquidiócesis de München
und Freising y ahora como Pontífice Romano. No es fácil hallar una
personalidad que reuna estas dos condiciones.
Benedicto XVI podría afirmar como Pablo de Tarso: “Dios nos ha
puesto a modo de espectáculo del mundo, de los ángeles y de los
hombres” (1Cor 4, 9); ciertamente; toda la iglesia, incluso los hombres de ‘buena voluntad’ están a la espectativa de sus palabras, de sus
actitudes. Como teólogo y como Pastor tiene una gran misión que
realizar durante su pontificado.
El tema del matrimonio cristiano lo ha ocupado en diversas ocasiones: como Teólogo-Relator al Sínodo de (1980), como Pastor de la Arquidiócesis de München und Freising (Alemania), como Prefecto de la
Congregación para la Doctrina de la Fe y ahora como Papa. A este respecto su produción teológico-literaria sobre el matrimonio no es abundante, pero es lo bastante significativa para que sea objeto de reflexión2.
* The author is an invited professor at the Alphonsian Academy.
* El autor es profesor invitado en la Academia Alfonsiana.
1
J. RATZINGER – V. MESSORI, Informe sobre la fe, BAC popular, Madrid 1985,
21-24.
2 J. RATZINGER, “Zur Theologie de Ehe”, Theologische Quartalschrift 149
(1969) 53-74; IDEM, “Matrimonio e famiglia nel piano di Dio”, en La ‘Familiaris
StMor 46/1 (2008) 115-145
116
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
La segunda parte de esta reflexión sobre el pensamiento de Benedicto XVI acerca del matrimonio cristiano se centrará en tres momentos particularmente importantes: su participación al Sínodo de
Obispos (1980) como Teólogo-Relator, su actuación como CardenalPrefecto de la Congregación para la Doctrina de la Fe y, finalmente,
el período más reciente como Sumo Pontífice de la Iglesia Católica.
1. La ‘renovación’ en el Concilio Vaticano II.
1. Plataforma del pensamiento del Papa
El Concilio Vaticano II puede considerarse como la ‘plataforma’
para el comienzo de una ‘teología renovada del matrimonio’. El vocablo ‘renovación’ aparece en los documentos conciliares al menos
31 veces, lo que sugiere el serio interés que esta magna asamblea de
la iglesia tenía en favor del cambio. Este interés lo revela una sentencia de la Gaudium et Spes: “la humanidad pasa de una concepción más
bien estática de la realidad a otra más dinámica y evolutiva, de donde
surge un nuevo conjunto de problemas que exige nuevos análisis y
nuevas sintesis” (5).
J. Ratzinger, refiriéndose al Esquema 13 del Concilio, destacó el
impacto que causó entre la gente el empleo del término ‘renovación’
(aggiornamento’); raras veces una palabra había impresionado tan
consortio’ nel commento di H. Alessandri e Altri, Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1982, 77-88; IDEM, “Lettera pastorale: Una valutazione globale del Sinodo sulla famiglia”, Il Regno-Doc. 26/5 (1981) 161-169; G. CAPRILE, Il Sinodo dei
Vescovi (1980), La Civiltà Cattolica, Roma 1982; CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, “Epistula ad catholicae Ecclesiae Episcopos de receptione
communionis eucharisticae a fidelibus qui post divortium novas inierunt nuptias” (14 Septembris 1994) en Documenta inde a Concilio Vaticano II expleto edita
(1966-2005), Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, 449-453; CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, “Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella chiesa e nel mondo”, en
Documenta inde a Concilio Vaticano II expleto edita (1966-2005), Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 2006, 604-619.
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
117
fuertemente la opinión pública. “Renovación’, comentaba Ratzinger,
puede decir mucho o poco; ‘mucho’ si se piensa que con ella la iglesia intenta poner como criterio de su existencia adecuarse a los tiempos; ‘poco’ si se cree que se trata solamente de una táctica pedagógica, meramente externa, que no afecta al proceso de transposición del
mensaje de ayer a hoy3.
A propósito de la Gaudium et Spes, Ratzinger hizo un largo comentario a los nn. (11-22) de esta constitución pastoral que versa sobre la
‘dignidad de la persona humana’. En torno al n. 12 que hace una referencia explícita a la pareja humana, afirma: el ser humano es social por
razón de la esencial capacidad de relación; sobre esta base se funda la
teología de los sexos y la teología del matrimonio; la diferencia sexual
entre varón-mujer es mucho más que un factor meramente biológico
en vista a la procreación; en la sexualidad se apoya la razón o el sentido de una verdadera humanidad que se cumple en la intrínseca relación con el ‘tú’ que es lo que constituye a él, a ella, como ser humano4.
El mismo método de análisis de la realidad presente, propuesto
por el concilio (ver, juzgar, actuar) para llevar a cabo la renovación,
plantea el objetivo de dicha renovación: “a fin de que la Verdad revelada pueda ser mejor percibida, mejor entendida y expresada en forma adecuada” (GS 44). La misma constitución pastoral al n. 4 afirma:
“es necesario por ello conocer y comprender el mundo en que vivimos, sus esperanzas, sus aspiraciones y el sesgo dramático que con
frecuencia le caracteriza”.
La participación en el concilio del grupo de cardenales, obispos y
teólogos alemanes fue especialmente significativa.
“Un historiador del concilio – R. Wiltgen – ha resumido la influencia de los teólogos alemanes en un libro titulado The Rhine flows into
3
J. RATZINGER, “Il cristiano e il mondo d’oggi. Riflessioni sullo ‘Schema 13’
del Vaticano II”, en Comprensione del mondo nella fede, Dehoniane, Bologna 1969,
179-180.
4 J. RATZINGER, “The dignity of the human Person”, en Commentary on the
Documents of Vatican II, vol. V. Pastoral Constitution on the Church in the modern
World, Burns and Oates-Herder, New York 1969, 122.
118
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
the Tiber5. Así en Alemania no sólo los obispos se presentaban como
verdaderos renovadores y reformadores de la fe, sino que también los
teólogos se sintieron protagonistas de este processo”6.
En esta perspectiva postconciliar de cambio se inscribe la obra
teológico-pastoral de Benedicto XVI. Como teólogo y pastor que es,
la comunidad eclesial espera de él la iluminación doctrinal de los problemas actuales y las directrices pastorales necesarias para resolver los
conflictos que asedian al hombre de hoy. Uno de estos conflictos es
la problemática que hay en torno al matrimonio cristiano. A lo largo
del Magisterio de Benedicto XVI como Arzobispo de MünchenFreising7 (1977-1981), como Prefecto de la Congregación de la Doctrina de la Fe (1981-2005) y ahora como Sumo Pontífice se pueden
espigar elementos válidos para hablar de ‘nuevas perspectivas’.
Los documentos conciliares revelan algunos puntos claves para
una renovación de la teología del matrimonio: el amor conyugal, la
sacramentalidad del matrimonio, el ‘sensus fidelium’, la dimensión
(unitiva y fecunda) del matrimonio, la fidelidad-indisolubilidad (...),
entre otros. Estos son temas que encontraremos expuestos en el pensamiento de Benedicto XVI en forma más explícita, ya que los documentos del concilio, a juicio de D. Tettamanzi, reflejan a veces un
‘compromiso’ entre las diversas corrientes teológicas en debate.
Entre algunos de los padres conciliares había madurado la idea de
buscar algo nuevo; según Ratzinger, algunos llegaron al concilio con
el propósito de no limitarse a aprobar textos ya preparados como si
su oficio fuera el de hacer ‘de notarios’. De hecho el Cardenal Fring
le confió diversos textos para leer y revisar8. Asi se abrió camino la
5
R. WILTGEN, The Rhine flows into the Tiber. A History of Vatican II (1967),
Tan Books, Rockford 1985.
6 P. BLANCO SARTO, “Joseph Ratzinger, un retrato teológico”, en Diálogos de Teología VIII. Perspectivas del pensamiento de Benedicto XVI, Edicep, Valencia 2006, 46.
7 J. RATZINGER, La mia vita. Ricordi (1927-1977), S. Paolo, Milano 1977,
117-121.
8 A. NICHOLS, The Thought of Benedict XVI. An Introduction to the Theology of
Joseph Ratzinger, Burns and Oates, New York 1988, 76-103.
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
119
necesidad de reelaborar muchos de los esquemas preparatorios para
el Concilio9.
La reflexión teológica postconciliar continúa avanzando, si bien
muchas veces con dificultad, a causa de diversos tropiezos: miedo a la
renovación, posturas fundamentalistas, falta de diálogo, etc. A este
propósito, Ratzinger en diálogo con Vittorio Messori, afirmaba:
“no ha sido el concilio, ni tampoco sus documentos, los que han creado el problema de dos errores contrapuestos: la ‘ala progresista’ que
considera que el concilio está totalmente superado; la ‘ala conservadora’, en cambio, que juzga al concilio como responsable de la actual
decadencia de la iglesia”10.
Continúa Ratzinger afirmando que está convencido de que los daños, que se le atribuyen después de 20 años, no se deben al concilio,
sino al hecho de haberse desencadenado dentro de la iglesia fuerzas
agresivas, centrífugas, de un falso optimismo, de un énfasis a la modernidad que ha identificado el progreso técnico actual con el progreso auténtico integral; y al exterior, al impacto de la revolución cultural y del establecerse en Occidente la ‘nueva burguesía’11.
Después de cuatro décadas del fin del concilio, aún quedan temas
por desarrollar y traducir a la vida concreta; por lo que se refiere al
matrimonio, por ejemplo, el ‘bonum conjugun’ (GS 48, 50), el ‘perfeccionamiento progresivo’ de la pareja humana (GS 48, 49, 50), la
conciencia de pareja de ser “una sola carne” (GS 50, 87), la perpetua
fidelidad (GS 48).
Es posible descubrir en los escritos de Ratzinger la ‘renovación’
propiciada por el Concilio. Por ejemplo, en “Zur Theologie del Ehe”
hace un reccorido desde la Carta a los Efesios, pasando por el ‘ethos’
del matrimonio según el Obispo de Hipona, siguiendo a través del
19
E. BIANCO, Benedetto XVI, Lavoratore nella vigna. Piccola biografia, LDC,
Leumann (Torino) 2007, 42-45.
10 J. RATZINGER – V. MESSORI, Informe sobre la fe, 37.
11 Ibid., 28.
120
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
antiguo ‘naturalismo’ del ‘ethos’ escolástico hasta llegar a intentar
‘una nueva orientación’12.
Se trata de un camino que condensa en cuatro tesis: la primera
versa sobre la ‘sacramentalidad del matrimonio; es significativo que
aluda a ‘sacramentalidad’ en general, más bien que a ‘sacramento’ en
particular. Antes de hacer referencia a la Carta a los Efesios (5, 21-33),
como tradicionalmente lo hacían los teólogos, Ratzinger se remite al
‘orden de la creación’ de Dios, es decir, ‘al comienzo’ de la historia.
La unión de varón-mujer ya desde un principio hacía parte de la
voluntad de Dios. “Los hombres son unidos por Dios mediante el
matrimonio”13; esta sentencia hace pensar que Ratzinger, citando el
libro del Génesis (2, 24) es muy posible que estuviera aludiendo al verbo hebreo ‘dabaq’ (unirse) que en su última evolución semántica quería decir: el israelita al unirse a la mujer, al mismo tiempo estaba haciendo alianza con Yahvé. Génesis (2, 24) aparece en estrecha relación
con Efesios (5, 21-33) por cuanto, según él, a la luz de Efesios el texto
del Génesis debe ser entendido como una ‘profecía cristológica’14.
La segunda tesis que propone se refiere al ‘ethos’ del matrimonio
cristiano: éste se desarrolla a partir del núcleo de la sacramentalidad,
es decir, desde la creación y el vínculo. La historia de la moral del matrimonio aparece como un capítulo trágico y oscuro en la tradición
del pensamiento cristiano, afirma. Esto por causa de una situación
concreta y de una base histórica abstracta acerca de Dios como Partner de la alianza y de la unidad del vínculo divino.
En puesto de relieve, por lo que se refiere al ‘ethos’ del matrimonio, aparecen S. Agustín y el influjo del antiguo ‘naturalismo’ de la
ética escolástica. Del Obispo de Hipona destaca Ratzinger los temas
de los ‘bienes del matrimonio’ y de la sexualidad en su relación con
la concupiscencia y con el ‘eros’.
12
J. RATZINGER, “Zur Theologie der Ehe”, en Theologische Quartalschrift 149
(1969) 56-67; IDEM, “Zur Theologie der Ehe”, en Theologie der Ehe, hrgs. G.
Krems und R. Mumm, Friedrich Pustet, Regensburg 1972, 81-115.
13 J. RATZINGER, “Zur Theologie der Ehe”, 55.
14 Ibid., 56.
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
121
Del antiguo naturalismo subraya el problema del ‘control de los
nacimientos’ como resultado de la concepción que Ulpiano tenía de
‘naturaleza’. De aquí hace derivar dos consecuencias: el señorío se
convierte en criterio natural; se hace necesario, partiendo de la creación y de la alianza, definir el carácter del matrimonio cristiano.
La tercera tesis aparece formulada en estos términos: el matrimonio es una realidad personal, social y religiosa al mismo tiempo. A este respecto, Ratzinger hace mención de los escritos de H. Doms15, un
autor que, a juicio de varios estudiosos16, estuvo en la mente de algunos padres conciliares de la línea de avanzada.
La alusión a Doms es particularmente significativa en este momento: en la obra de Doms y en los documentos conciliares que hacen referencia al matrimonio aparecen unos temas comunes: el amor,
la sexualidad, el personalismo, la perfección17. Anticipándonos un
poco a la reflexión posterior, es posible constatar la línea de continuidad de Ratzinger desde la plataforma del concilio.
La cuarta y última tesis se refiere al objetivo, propiedades y bienes
del matrimonio según la tradición de la iglesia latina, que deberá estructurarse con una nueva reflexión. En vista a esta nueva perspectiva,
Ratzinger propone dos indicaciones a tener presentes: tanto el amor y
la generación como la unidad y la indisolubilidad. Estas cuatro tesis
que, en alguna forma, las encontramos sugeridas en la doctrina conciliar, tendrán una mayor explicitación en las tres secciones siguientes.
2. Tres momentos representativos de su pensamiento
Estos tres momentos representativos son: la participación de Ratzinger en el Sínodo de Obispos (1980) como Relator, su ministerio
15
H. DOMS, Vom Sinn und Zweck der Ehe. Eine umfassende Synthese der verschiedenen Aspekte versucht das spätere Werk desselben Verfassers, Mainz 1965.
16 A. SEVILLA SEGOVIA, El pensamiento de H. Doms sobre algunos aspectos ignorados del matrimonio, Pontificia Universidad de Comillas, Madrid 1985. Ver la
IV Parte, capítulo 13º: “Doms y el Concilio Vaticano II”.
17 Ibid., 309-325.
122
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
en la Congregación para la Doctrina de la Fe como Prefecto y su magisterio como Sumo Pontífice. No abundan los pronunciamientos;
pero los que conocemos son suficientes para dar una clara visión del
pensamiento de Benedicto XVI.
La obra de G. Caprile18 ha recogido en un volumen todas las disertaciones de los padres sinodales durante el Sínodo de Obispos
(1980) y señala al Cardenal Ratzinger como el padre sinodal que más
veces ha intervenido durante el Sínodo: en 33 oportunidades; muchas
de ellas en la cualidad de Relator del Sínodo. Si bien el sínodo trató
de la familia, ésta no es posible desvincularla del matrimonio.
Ya en la primera sesión del sínodo (26 de Sept. 1980) el Cardenal
Ratzinger presentaba a la asamblea sinodal la ‘Relatio’ acerca de “la
‘misión’ que las familias cristianas deben desempeñar en el mundo
actual”19.
Durante la ‘relación’ centró la atención sobre estos temas: la familia en el mundo presente (crisis de la tradición, angustia y esperanza en torno a la familia, nuevo aprecio por la familia); el plan de
Dios sobre la familia de hoy (matrimonio como alianza, como sacramento, el matrimonio en las culturas humanas, matrimonio y virginidad); los problemas pastorales (construir una comunidad de personas, la familia debe santificarse y santificar el mundo, el servicio a la
vida, la misión de la educación, preparación al matrimonio y a la vida en familia, la familia y la iglesia, la función social).
A la ‘Relatio’ siguieron las múltiples intervenciones de los padres
sinodales, el debate en los ‘círculos menores’, que serán condensados
en la ‘Relatio post disceptationem’ (la relación al final de la discusión)20 y la propuesta de las ‘43 Proposiciones’21 que el sínodo enviará al Papa para la elaboración de la Exhortación postsinodal Familiaris consortio.
18
G. CAPRILE, Il Sinodo dei Vescovi 1980, La Civiltà Cattolica, Roma 1982.
Ver Índice de nombres, 807.
19 Ibid., 739-756.
20 Ibid., 757-769.
21 SINODO DEI VESCOVI SULLA FAMIGLIA, “Le 43 Proposizioni”, Il Regno-doc.
26 (1981) 386-397.
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
123
La ‘Relatio post disceptationem’, más breve que la ‘Relatio’, recogía seis puntos: el método a emplear, la situación de la familia católica y cristiana en el mundo de hoy, el sacramento del matrimonio (fe
y sacramento, la indisolubilidad, el matrimonio mixto), la misión de
transmitir la vida, la espiritualidad familiar y el cuidado pastoral en
favor de la familia.
Espigando entre la primera ‘Relatio’22 y la ‘Relatio post disceptationem’23, aparecen algunos elementos que merecen se les dé relieve.
Un primer elemento es la cuestión del método a emplear cuando se
trata de disertar sobre matrimonio-familia; en la ‘Relatio post disceptationem’ afirmó Ratzinger:
“Algunos padres sinodales han insistido que no se repitan fórmulas fijas, como si la doctrina hubiera sido hecha una vez por todas; sostienen, en cambio, que la doctrina no puede consistir en conceptos teóricos, sino que debe ser considerada en la historia del pueblo de Dios
en camino. Criterio de la doctrina debe ser el sentido de fe del pueblo de Dios, la experiencia de los esposos, el trabajo de los teólogos y
de los filósofos, el progreso de las ciencias humanas y las valoraciones del Magisterio de la iglesia”24.
Ratzinger destacó en esta ocasión un elemento muy importante: la
participación de los laicos dotados del ‘sensus fidelium’ y de su experiencia conyugal. En diálogo con un periodista, éste le objetó el dominio en la iglesia por parte del estamento clerical (varones y célibes); a esto respondió Ratzinger subrayando la importancia de que la
moderna teología sea pensada por los laicos y los célibes para corregir así la unilateralidad25.
Un segundo elemento es el hecho de proponer la teología del matrimonio a partir de la alianza, de tal manera que los presupuestos an22
J. RATZINGER, “Prima relatio”, Il Regno-Doc. 21 (1980) 482-488.
J. RATZINGER, “Seconda relatio”, Il Regno-Doc. 21 (1980) 488-492.
24 G. CAPRILE, Il Sinodo dei Vescovi 1980, 758. La traducción es nuestra.
25 J. RATZINGER, “La ricerca della verità è sempre scomoda”, en Viaggio attraverso la teologia scomoda, Coines, Roma 1975, 120.
23
124
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
tropológicos del matrimonio y de la sexualidad hagan posible la comprensión de la dimensión sacramental del mismo26. Un tercer elemento es el relieve dado al amor entre varón y mujer; no es una cuestión meramente privada, ni solo biológica; es participación al amor
de Dios y al misterio de la creación que se prolonga mediante la fecundidad27.
A propósito de la sacramentalidad del matrimonio, ésta ya aparece en los matrimonios de las religiones pre-cristianas, que a través de
la purificación y del perfeccionamiento se hacen capaces de ser signo
del misterio que une a Cristo con la iglesia28. Esta reflexión insinúa
el pensamiento de algunos teólogos que aluden hoy a los diversos niveles de la sacramentalidad (natural o embrionaria, fundante o cristiana, plena o eclesial).
Una referencia a la concepción tradicional de la ‘castidad conugal’
es el cuarto elemento que se intenta subrayar. La castidad conyugal,
afirma, es difícilmente entendida hoy; se hace necesario reproponerla como expresión del amor recíproco, como misterio de alianza que
constituye el núcleo del sacramento29.
Respecto de la situación de los divorciados vueltos a casar, un problema tan difundido en nuestro tiempo, el sínodo deberá mostrar a
los pastores las vías concretas a seguir; este fue un problema repetidas veces mencionado durante las sesiones sinodales; algunos padres
se preguntaban si el ‘favor juris’, que el Derecho Canónico reconoce al
matrimonio debidamente celebrado, corresponde a la mentalidad de
hoy, sugiriendo de este modo la necesidad de una revisión30.
Unos pocos meses después de clausurado el sínodo, el Cardenal
Ratzinger envió una carta pastoral a los fieles de su arquidiócesis
(München und Fresing) haciendo una evaluación del sínodo31. Este
26
G. CAPRILE, Il Sinodo dei Vescovi 1980, 743.
Ibid., 744.
28 Ibid., 741.
29 Ibid., 748-749.
30 Ibid., 145, 231, 332, 338, 354, 360, 369, 373, 383, 468.
31 J. RATZINGER, “Lettera pastorale: una valutazione globale del sinodo sulla
famiglia”, Il Regno-Doc. 26/5 (1981) 161-169.
27
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
125
documento, a diferencia de las ‘Relaciones’, refleja una visión y valoración más personal de Ratzinger de frente al Sínodo; las ‘relaciones’
hacían eco a las intervenciones de los padres sinodales.
En dicha carta pastoral tocó, además de los temas tradicionales
(como la indisolubilidad, la relación ‘fe-sacramento’, el problema de
la Humanae vitae), otros temas que fueron, en alguna forma, novedad
en el sínodo: el ‘sentido de la fe’, la ‘ley de la gradualidad’, el matrimonio cristiano entre las culturas no cristianas, el papel de la sexualidad en el contexto de la sacramentalidad del matrimonio.
En cuanto al ‘sentido de la fe’, que ya la Lumen Gentium había aludido (12), escribe Ratzinger que la grandeza del cristiano es buscar la
voluntad de Dios y conformar a ella la propia existencia; la voluntad
de Dios no se detecta a través de estadísticas o de la norma de la utilidad; allí donde el ‘ethos’ humano se rebaja al cálculo de la utilidad,
allí el hombre acaba por perder la propia dignidad32.
Respecto de la ‘ley de la gradualidad’, dice que los hombres, como
individuos y como pueblo de Dios, estamos todos ‘en camino’; cada
cristiano deberá preguntarse a lo largo de las diversas estaciones de la
vida cuál es la voluntad de Dios; se trata de un designio divino que se
realizará sólo en la totalidad del itinerario, porque la perfección no es
posible colmarla plenamente en un instante33.
La posición del matrimonio cristiano entre las culturas no cristianas fue un tema que interesaba particularmente a los obispos africanos en su trabajo pastoral de ‘inculturación’ del mensaje cristiano. De
las culturas del Asia y del Africa tenemos muchos elementos válidos
para aprender. Ratzinger afirma también que una cultura, como la
nuestra, que se aleja de las tradiciones humanas centrales tiene mucho que aprender de ellas, tratando de recuperar una conciencia originaria que habíamos perdido34.
Ratzinger destaca el papel de la sexualidad en el contexto de la sacramentalidad del matrimonio. La sexualidad no puede ser considera-
32
Ibid., 162.
Ibid., 162-163.
34 Ibid., 165.
33
126
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
da como algo meramente corporal, como objeto de consumo; la donación recíproca que se hacen los esposos del propio cuerpo sería una
mentira si no es donación total entre dos personas que se aman; el
amor permea también el cuerpo y éste participa del amor espiritual.
De aquí se deriva que el matrimonio sea el lugar legítimo del encuentro de dos personas, y que sea el sacramento de la relación con Dios35.
El segundo momento de análisis del pensamiento del Cardenal
Ratzinger es su ministerio en la Congregación para la Doctrina de la
Fe (1981-2005). De este período se deben destacar principalmente
dos documentos: la ‘Carta a los Obispos de todo el mundo acerca de
la admisión de los divorciados vueltos a casar a la comunión eucarística’ (14 Sept. 1994)36 y la ‘Carta, igualmente para todos los obispos,
sobre la colaboración del varón y de la mujer en la iglesia y en el
mundo’ (31 Mayo 2004)37.
El primer documento de este segundo período tiene un contexto
particular: en 1993 tres Obispos (K. Lehmann, W. Kasper, O. Saier,
hoy cardenales de la iglesia los dos primeros), de la Provincia del
Oberrhein (Alemanía) habían enviado a las tres diócesis respectivas
una carta pastoral conjunta; en ella intentaban estos pastores hacer
‘un acompañamiento a los divorciados’: tienen en cuenta la situación
de los cristianos que viven en esta condición, la iluminan con el mensaje del Evangelio, acuden a la responsabilidad de la comunidad cristiana y sugieren algunos principios en vista a una posible admisión a
los sacramentos38.
35
Ibid., 163.
CONGREGATIO PRO DOCTRINA FIDEI, “Epistula ad catholicae ecclesiae
episcopos de receptione communionis eucharisticae a fidelibus qui post divortium novas inierunt nuptias”, en Documenta inde a Concilio Vaticano II expleto edita (1966-2005), Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, 449-453.
37 CONGREGATIO PRO DOCTRINA FIDEI, “Lettera ai Vescovi della chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella chiesa e nel mondo”,
en Documenta inde a Concilio Vaticano II expleto edita (1966-2005), Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, 604-619.
38 VESCOVI DELL’OBERRHEIN (Germania), “Accompagnamento pastorale dei
divorziati”, Il Regno-Doc. 38/ 19 (1993) 613-622.
36
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
127
Ratzinger, Prefecto de la Congregación para la Doctrina de la Fe,
los invita a dialogar en Roma sobre dicha carta pastoral y envía a todos los obispos del mundo la carta arriba mencionada. El contenido
de este mensaje se centra fundamentalmente en la enseñanza de Juan
Pablo II al respecto en la Familiaris consortio; a esta Exhortación
Apostólica se refiere repetidas veces porque el Cardenal Prefecto tiene en mente mantener en pie la doctrina y la disciplina ya establecida por el Papa.
En cuatro puntos se puede condensar el mensaje de esta carta:
1. En los últimos años han aparecido algunas soluciones que reconocen que una admisión general no sería posible, pero que en
algunos casos, ateniéndose al juicio de la conciencia, sería posible hacerlo.
2. Algunos acuden a los Padres de la Iglesia para afirmar una tal
posibilidad, pero esta costumbre no llegó a ser doctrina común.
3. La disciplina a seguir es la que la Familiaris consortio (84) ha determinado, la no-admisión, a no ser que se cumplan las condiciones que la misma Exhortación Apostólica señala.
4. Para discernir la situación objetiva de una pareja en situación
conflictiva, recomienda atenerse a la disciplina canónica respecto de la validez o invalidez de un matrimonio determinado.
Los Obispos del Oberrhein, con posterioridad a la Carta mencionada del Cardenal Ratzinger, enviaron un nuevo mensaje conjunto a
sus diócesis39; en él informan acerca del coloquio tenido con el Cardenal Prefecto en Roma, señalan los aspectos fundamentales que tienen en común con la Congregación de la Doctrina de la Fe y postulan la necesidad de una ‘pastoral diferenciada’ que no se puede confundir con una ética de la situación’; es decir, que “la colegialidad
universal de los obispos no los exceptúa ni les prohibe buscar, con
sentido de responsabilidad, soluciones pastorales viables a las situaciones difíciles”40.
39
40
“Lettera dei Vescovi dell’Oberrhein”, Il Regno-Doc. 39/19 (1994) 581-583.
Ibid., 582.
128
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
Esta confrontación podría compararse con la que se conoció en
torno a la Humanae vitae (1968); entonces las Conferencias Episcopales emanaron directrices pastorales para aplicar a las iglesias locales los
principios doctrinales promulgados por Pablo VI41. En esta aplicación
del principio general (universal e inmutable) a la situación concreta e
histórica, (mudable y singular) se inspiraban en el principio sugerido
por el Doctor Angélico (S.Th. I-II, q. 94, a. 4): “la ley natural en cuanto a los principios universales es idéntica en todos los hombres en la
mayor parte de los casos; pero en algunos pocos casos puede haber excepciones porque se presentan obstáculos particulares”.
A propósito de la Carta de la Congregación de la Doctrina de la
Fe, firmada por el Cardenal Ratzinger hay algo llamativo: en una extensa ‘introducción’ hecha por él en vista a la publicación de esta
Carta en la obra en colaboración titulada Sulla pastorale dei divorziati
risposati. Documenti, commenti e studi42(1998) aparecen unas insinuaciones sugestivas: en principio, reafirma diversos pronunciamientos
de Juan Pablo II en la Familiaris consortio (84) en relación con la situación en la iglesia de los divorciados vueltos a casar.
Luego hace algunos planteamientos significativos: ‘los divorciados
vueltos a casar no deben perder la esperanza’ de alcanzar la salvación
porque podrán obtener la gracia de la conversión; a propósito de la
interpretación flexible acerca de la indisolubilidad que hacen Mateo
(5, 32 y 19, 9) y Pablo (1Cor 7,12-16) afirma que los documentos magisteriales no pretenden presentar en modo completo y exhaustivo la
fundamentación bíblica de la doctrina sobre el matrimonio; esta es
tarea de los expertos. Jesús de Nazareth ha puesto en claro que la pra-
41‘Humanae
vitae’ e Magistero Episcopale, a cura di L. Sandri, Dehoniane, Bologna 1969; J. Silvio BOTERO G., La Famiglia, Comunità d´amore. Dialettica tra
unità/fecondità, Logos, Roma 2004, 183-190.
42 CONGREGAZIONE PER LA DOCTRINA DELLA FEDE, Sulla pastorale dei divorziati risposati. Documenti, commenti e studi, Editrice Vaticana, Città del Vaticano
1998, 7-29: Introdución de J. Ratzinger; G. MURARO, “Alla ricerca di una via di
uscita. Riflessioni e indicazioni teologiche per affrontare il problema dei separati e dei divorziati”, CredereOggi 23/136 (2003) 75-96.
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
129
xis del Antiguo Testamento se debió a ‘la dureza de corazón’ del
hombre, porque ‘al principio no fue así’.
Continuando con los planteamientos, Ratzinger recoge la propuesta de algunos teólogos que ven en la categoría de la ‘epiqueya’ y
de la ‘equidad’ la posibilidad de una excepción a la norma eclesial.
A este respecto, Ratzinger ve como posible que, en línea de principio, no queda excluído el recurso a la epiqueya en el ‘fuero interno’, si se tiene en cuenta que no siempre los tribunales eclesiásticos
funcionan bien y que, a veces, definen un caso con sentencias problemáticas43.
En relación con la afirmación magisterial acerca de la indisolubilidad del matrimonio ‘rato y consumado’, admite que la iglesia puede aclarar las condiciones que se deberán cumplir para definir un matrimonio ‘rato y consumado’. Hay ejemplos en la historia de la iglesia, antigua y reciente, acerca de diversas intervenciones del Magisterio en vista a establecer dichas condiciones.
La ‘Carta para todos los obispos sobre la colaboración del varón y
de la mujer en la iglesia y en el mundo’ (31 Mayo 2004) presenta
prácticamente tres objetivos: hacer una crítica a las concepciones antropológicas modernas, plantear una fundamentación de la antropología bíblica necesaria para una recta comprensón de la persona humana y subrayar la actualidad de los valores femeninos en la vida de
la sociedad y de la iglesia.
Respecto de las concepciones modernas, Ratzinger denuncia dos
tendencias: la primera intenta subrayar la sumisión de la mujer con el
objetivo de promover la contestación; la segunda, quiere borrar las
fronteras que establecen diferencias entre varón-mujer porque las
considera resultado de una tradición histórico-cultural. A la raíz de
estas tendencias está la contraposición actual entre ‘naturaleza’ y ‘cultura’, para liberarse de cualquier predeterminación que esté unida a
la constitución esencial del ser humano.
43
CONGREGAZIONE PER LA DOCTRINA DELLA FEDE, Sulla pastorale dei divorziati risposati. Documenti, commenti e studi, Editrice Vaticana, Città del Vaticano
1998, 25-26.
130
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
Por lo que respecta a la antropología bíblica, Ratzinger la concretiza en tres momentos: lo que los relatos bíblicos (Génesis 1-2) informan acerca del Plan de Dios sobre la creación del hombre y de la mujer, la experiencia del pecado que los hace enemigos de Dios y, por
tanto, enemigos entre ellos mismos y, finalmente, la historia subsiguiente a la creación que se extiende a lo largo del Antiguo y del
Nuevo Testamento hasta culminar en el Apocalipsis44.
A propósito de la fundamentación bíblica, la carta destaca algunos
detalles especiales: la ‘imagen de Dios’ según la cual fueron creados
el varón y la mujer se trasluce no solo a través de la participación en
el ser de Dios, sino también en su actuar en la creación, al separar las
tinieblas de la luz, el agua de la tierra, el día y la noche. La intervención directa de Dios en la creación del varón y de la mujer explica el
por qué se esté usando en nuestro tiempo la expresión ‘uni-dualidad’
que Juan Pablo II empleó repetidas veces, sobre todo en la Mulieris
dignitatem (6-7).
Esta categoría de la ‘uni-dualidad’ es muy expresiva: alude a diferencia y a relación interpersonal; hace referencia a reciprocidad y a
complementariedad; lleva a pensar que el uno es para el otro en vista
a la comunión, que es ‘fusión’, pero no confusión. Esta ‘uni-dualidad’
se traduce, finalmente, en la vocación ‘esponsal’ de varón-mujer, que
se convierte en la estructura de base de toda la revelación cristiana.
Llegamos a la tercera sección del estudio del pensamiento de Benedicto XVI sobre el matrimonio cristiano; como Pontífice Romano
han sido numerosas las referencias al matrimonio y a la familia; por
razón de espacio nos limitamos al análisis de los discursos a la Rota
Romana con ocasión de la apertura del año judicial y la encíclica Deus
caritas est (25 Dic. 2005).
Los Discursos de Benedicto XVI a la Rota Romana (28 de Enero
2006, 27 Enero 2007, 26 Enero 2008) estuvieron centrados, el pri-
44
CONGREGATIO PRO DOCTRINA FIDEI, “Lettera ai Vescovi della chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella chiesa e nel mondo”,
en Documenta inde a Concilio Vaticano II expleto edita (1966-2005), Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, 604-613.
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
131
mero sobre “el amor por la verdad, punto fundamental de encuentro
entre derecho y pastoral”45; el segundo acerca del “redescubrimiento de la belleza de la ‘verdad sobre el matrimonio’ que Jesús había
enseñado plenamente”46; en el tercero propone “una justicia para toda la iglesia’47.
El Papa deja entrever en su primer discurso, una polémica que ya
en el pontificado de Pablo VI había sido ventilada por él mismo en
dos ocasiones (1970 y 1973), precisamente ante la Rota Romana48: se
trataba de conciliar el rigor de la ley con la equidad canónica; Benedicto XVI aludía en su alocución a dos corrientes de pensamiento: de
una parte, los padres sinodales durante el Sínodo sobre la Eucarístía
insistieron en facilitar la participación de los fieles no canónicamente casados en el banquete eucarístico; de otra parte, la legislación canónica y la Instrucción Dignitas connubii (2005) parecen poner límites a a esta finalidad pastoral; de este modo surge la contraposición
entre derecho y pastoral.
‘El amor por la verdad’, afirma Benedicto XVI, no debe orientarse
a entorpecer inútilmente la vida de los fieles, ni tampoco a agravar los
conflictos, sino a ‘mitigar el deber de la justicia’49. Aquí está implícita
45
BENEDETTO XVI, “Udienza in occasione dell’inaugurazione dell’Anno
Giudiziario del Tribunale della Rota Romana: L’amore per la verità, fondamentale punto di incontro tra diritto e pastorale”, L’Osservatore Romano 29 Gennaio
2006, 5.
46 BENEDETTO XVI, “L’inaugurazione dell’Anno Giudiziario del Tribunale
della Rota Romana: La riscoperta della bellezza di quella ‘verità sul matrimonio’
che Gesù ci ha pienamente insegnato”, L’Osservatore Romano 28 Gennaio 2007, 5.
47 BENEDETTO XVI, “Udienza in occasione delll’Inaugurazione dell’Anno
Giudiziario del Tribunale della Rota Romana: Una giustizia per tutta la Chiesa”, L’Osservatore Romano 27 Gennaio, 2008, 8.
48 PAULO VI, “Natura e valore pastorale delle norme giuridiche nella chiesa”, en Insegnamenti di Paolo VI, vol. VIII, 1970, Poliglotta Vaticana, Città del
Vaticano 1971, 130-132; IDEM, “Libertà e autorità, valori essenziali inscindibili” en Insegnamenti di Paolo VI, vol. XI, 1973, Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1974, 82-90.
49 BENEDETTO XVI, “Udienza in occasione dell’inaugurazione dell’Anno
Giudiziario del Tribunale della Rota Romana: L’amore per la verità, fondamentale punto di incontro tra diritto e pastorale”, 5.
132
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
la sentencia de Pablo VI cuando acudía al Hostiensis para definir la
equidad canónica como “la moderación de la justicia con el dulce sabor de la misericordia” (‘justitia dulcore misericordiae temperata’)50.
Benedicto XVI destaca el relieve que ha tenido y tiene el derecho en
los procesos matrimoniales, pero advierte, como ya lo había anotado
Juan Pablo II que “la justicia por sí sola no basta” (Dives in misericordia,
12), porque “las personas tienen necesidad del amor”. Y añade: “el criterio de la búsqueda de la verdad puede servir para lograr el otro criterio pastoral que no se puede separar el amor de la verdad”.
Al final del mensaje Benedicto XVI afirma que “la sensibilidad
pastoral debe llevar a prevenir la nulidad matrimonial en sede de admisión a las nupcias y preocuparse porque los cónyuges puedan resolver sus problemas y hallen el camino de la reconciliación”.
Longhitano hizo un comentario a este discurso pontificio; en dicho discurso el Papa exhortaba a la Rota Romana, escribe, a no buscar una verdad abstracta, separada del bien de las personas; deberá ser
una verdad que se integre en el itinerario humano y cristiano de cada fiel, teniendo presente que ‘la Providencia divina sabe sacar bien
del mal’, incluso cuando las instituciones eclesiásticas descuidan su
deber o cometen errores51.
En la inauguración del Año Judicial de la Rota Romana (2007),
Benedicto XVI comienza haciendo alusión a la inauguración del año
anterior en que se refirió a la perspectiva que surge del amor a la verdad como punto de convergencia entre el trabajo procesual y el servicio pastoral a las personas.
El Papa, refiriéndose a la ‘verdad del matrimonio’, afirma que la
indisolubilidad del matrimonio no deriva del compromiso definitivo
de los contrayentes, sino de la intrínseca naturaleza del vínculo establecido por el Creador; se trata de un vínculo que para el varón y la
mujer representa una exigencia de justicia y de amor, de la cual no se
50
PAULO VI, “Natura e valore pastorale delle norme giuridiche nella chiesa”, en Insegnamenti di Paolo VI, vol. VIII, 1970, Poliglotta Vaticana, Città del
Vaticano 1971, 130.
51 A. LONGITANO, “Benedetto XVI alla Sacra Rota”, Settimana 6 (2006) 3.
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
133
pueden liberar sin contravenir al bien propio y de los otros y sin contradecir lo que Dios ha realizado en ellos.
Para el ‘positivismo’, la dimensión jurídica de la relación conyugal
consistiría únicamente en la aplicación de una norma humana y, en
consecuencia, la realidad humana de la vida y del amor conyugal sería algo extrínseco a la institución jurídica. Es llamativo el hecho de
que en este discurso, centrado sobre la ‘verdad del matrimonio’, el
Papa no pierde ocasión de aludir al ‘amor’. El binomio ‘verdad-amor’
es muy significativo en su magisterio; ya desde la homilía en la eucaristía de apertura del conclave que lo eligió Sumo Pontífice está aludiendo a él muy frecuentemente.
En la inauguración del Año Judicial de la Rota Romana (26 Enero, 2008) el Papa, proponiendo “una justicia para toda la iglesia”,
subraya algunos aspectos en particular: en primer lugar, que la realidad matrimonial ya intrínsecamente posee una dimensión antropológica, teológica y jurídica; en segundo lugar, ha insistido en que el derecho no puede reducirse a un conjunto de normas a aplicar (positivismo), sino que debe ser ejercicio de la ‘prudentia juris’ que pide hacer una lectura de los acontecimientos porque el matrimonio tiene su
peso humano y salvífico; en último lugar, Benedicto XVI exhorta a
los Miembros de la Rota Romana a tener en cuenta los discursos del
Romano Pontífice a la misma Rota.
Estos tres elementos, leídos a la luz de los dos mensajes anteriores
de Benedicto XVI a la Rota Romana, ponen de presente que el matrimonio no es sólo una cuestión jurídica; es algo en que la dimensión
humana y teológico-salvífica están implicadas; los problemas en torno al matrimonio no se resuelven sólo desde un positivismo jurídico,
sino que exigen una actitud prudencial que deberá conjugar los binomios ‘verdad y amor, ‘derecho y pastoral’, como lo había sugerido a
la Rota Romana en los discursos anteriores.
La Primera Carta Encíclica – Deus Caritas est – (25 Dic. 2005) que
tantos comentarios positivos ha tenido52, es un momento muy válido
52
A. SCOLA, Benedetto XVI, ‘Deus Caritas est’. Introduzione e commento, Cantagalli, Siena 2006; L. MELINA – CARL A. ANDERSON, a cura di, La via dell’amore.
134
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
para conocer el pensamiento del Papa sobre el matrimonio después
de un proceso evolutivo de maduración. Ya en la introducción da a
conocer la intención de la primera parte de su encíclica: “precisar algunos puntos esenciales sobre el amor que Dios, de manera misteriosa y gratuita, ofrece al hombre y, a la vez, la relación intrínseca de
dicho amor con la realidad del amor humano” (1).
A lo largo de la historia de la iglesia se habían contrapuesto dos aspectos del amor humano: la dimensión erótica (‘eros’) y la dimensión
espiritual (‘ágape’)53. A causa de la dicotomía griega se consideraba el
‘eros’ como algo que pertenece al cuerpo, a la materia y, por tanto, algo
menos bueno por ser finito, temporal; en cambio, el ‘ágape’ era visto como superior, por estar en relación con el espíritu, con el alma. Ésta ha
sido una mentalidad que prevaleció en Occidente por muchos siglos.
Para Benedicto XVI el tema del ‘amor’ no es nuevo; ya anteriormente había sido objeto de estudio en varios de sus escritos54. El Papa parece emplear en sus escritos los términos alemanes ‘Eros’, ‘Liebe’ y Agape’55. Se podría afirmar que en alguna forma se ha inspira-
Riflessioni sull’enciclica ‘Deus Caritas est’ di Benedetto XVI, Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, Roma 2006; M. LÁZARO PULIDO (Ed), El Amor de Dios que es
Amor. Reflexiones en torno a la encíclica de Benedicto XVI ‘Deus Caritas est’, Instituto Teológico ‘S. Pedro Alcántara’, Cáceres 2007; ELENA L. BARTOLINI – V.
COLMEGNA – ALTRI, Dio è Amore. Commento e guida alla lettura dell’enciclica ‘Deus
Caritas est’ di Benedetto XVI, Paoline, Milano 2006; Francisco VARO, “La encíclica Deus Caritas est”, en Diálogos de teología VIII. Perspectivas del pensamiento de
Benedicto XVI, Edicep, Valencia 2006, 215-229.
53 A. NYREN, Eros e agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, Il Mulino, Bologna 1971; J. SILVIO BOTERO GIRALDO, “El amor conyugal,
integración de éros’ e ‘ágape’ (Deus Caritas est, n. 2-11)”, Cauriensia 2 (2007)
343-362.
54 R. PIÑERO MARIÑO, “El amor como relación, reflexiones sobre el amor en
algunos escritos de J. Ratzinger”, en El amor de Dios que es Amor. Reflexiones en
torno a la encíclica de Benedicto XVI ‘Deus Caritas est’, M. LÁZARO P. (Ed), Instituto Teológico de ‘S. Pedro Alcántara’, Cáceres, 2007, 305-342.
55 BENEDIKT XVI, Enzyklika ‘Deus Caritas est’ an die Bischöfe and die Priester
und Diakone an die Gottgeweihten Personen und an alle Christgläubigen über die
christliche Liebe, Editrice Vaticana, Vatikanstadt 2006.
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
135
do en las referencias del Concilio Vaticano II al amor humano (GS
46-52) en que el amor es como la síntesis de la circularidad dinámica
entre “las expresiones del cuerpo y del espíritu” (GS. 49)?. Es posible; así aparece en el artículo “Zur Theologie der Ehe”56 y en la encíclica Deus Caritas est (3-4). Ha sido Benedicto XVI quien ha logrado conciliar estas dos dimensiones:
“si el hombre pretendiera ser sólo espíritu, escribe, y quisiera rechazar la carne como si ésta fuera una herencia meramente animal, espíritu y cuerpo perderían su dignidad. Si, por el contrario, repudia el
espíritu y por tanto considera la materia, el cuerpo, como una realidad exclusiva, malogra igualmente su grandeza” (Deus Caritas est, 5).
En este mismo sentido de la necesidad de complementación entre
espíritu y materia es posible entender también la complementariedad
entre varón-mujer según las palabras del Papa:
“el hombre es de algún modo incompleto, constitutivamente en camino para encontrar en el otro la parte complementaria para su integridad, es decir, la idea de que sólo en la comunión con el otro sexo
puede considerarse completo” (11).
Partiendo de la revelación bíblica, Benedicto XVI descubre que el
Dios de los cristianos es el
“Dios único en el que cree Israel y que ama personalmente. Él escoge a Israel y lo ama, aunque con el objeto de salvar precisamente de
este modo a toda la humanidad. Él ama, y este amor suyo puede ser
calificado sin duda como eros que, no obstante, es también totalmente agape” (9).
El Papa intuye que el matrimonio es lugar de encuentro del ‘eros’
y del ‘ágape’:
56
J. RATZINGER, “Zur Theologie der Ehe”, 109-110.
136
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
“en una perspectiva fundada en la creación, el eros orienta al hombre
hacia el matrimonio, un vínculo marcado por su carácter único y definitivo; así, y sólo así, se realiza su destino eterno. A la imagen del
Dios monoteista corresponde el matrimonio monógamo. El matrimonio basado en un amor exlusivo y definitivo se convierte en el icono de la relación de Dios con su pueblo y, viceversa, el modo de amar
de Dios se convierte en la medida del amor humano” (11).
El Papa hace la integración de ‘eros’ y ‘ágape’ precisamente en el
contexto del matrimonio; los numerales 2, 3, 6, 9, 10 y 11 de la encíclica así lo revelan.
“Eros’ y ágape, – amor ascendente y amor descendente – nunca llegan a separarse completamente. Cuanto más se encuentran ambos,
aunque en diversa medida, la justa unidad en la única realidad del
amor, tanto mejor se realiza la verdadera esencia del amor (‘Liebe’)
en general” (Deus Caritas est, 7).
“El matrimonio cristiano es, pues, la relación dinámica en que eros y
ágape se entrelazan recíprocamente: el varón y la mujer, en el momento en que se buscan para amarse y satisfacer la sed personal de
amor, se abren a la totalidad del don y, al tiempo que hacen visible a
Dios, se ayudan uno a otro a alcanzar la comunión eterna en Dios que
es Amor”57.
3. Nuevas perspectivas
El pensamiento de Benedicto XVI sobre el matrimonio cristiano
se enmarca sobre la plataforma del Concilio Vaticano II abierto a
57
J. SILVIO BOTERO G., “El amor conyugal: integración de ‘eros’ y ‘ágape’
(Deus Caritas est 2-11)”, en El amor de Dios que es Amor. Reflexiones en torno a la
encíclica de Benedicto XVI ‘Deus Caritas est’, M. LÁZARO P. (Ed), Instituto Teológico de ‘S. Pedro Alcántara’, Cáceres, 2007, 353.
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
137
nuevas perspectivas. Su pensamiento tiene una característica muy especial: es una reflexión que juega inteligentemente con la dialéctica
humana; en esto ha sabido superar la ‘ley del péndulo’ (o espíritu o
materia, o eterno o temporal, etc.) que tipificó a la cultura griega. Era
una cultura excluyente.
El Papa opta dedicidamente por la ‘ley de la espiral’ que se esfuerza por integrar los polos que antes parecían opuestos: verdad y
amor, eros y ágape, derecho y pastoral, fidelidad y renovación, cultura griega y cultura occidental, varón-mujer como el encuentro entre
claridad-oscuridad, entre otras antinomias. El pensamiento de Benedicto XVI es eminentemente incluyente.
El Cardenal Ratzinger, como Decano del Colegio Cardenalicio
celebraba la Eucaristía en la apertura del conclave (19 Abril 2005) en
que fue elegido Sumo Pontífice; durante la homilía mostró un interés particular por el binomio ‘verdad-amor’; un binomio que tiene
profundas raíces en el pensamiento bíblico y que está presente también en el magisterio de la iglesia58.
En dicha homilía aludió cuatro veces a este binomio tomándolo de
la Carta a los Efesios (4, 14): “hacer la verdad en el amor”; hacía con
él una referencia, como el autor de la carta, a la construcción de la comunidad cristiana y cerraba esta alusión citando la Primera Carta de
Pablo a los Corintios (1Cor 13, 1): “el amor sin la verdad es ciego; la
verdad sin el amor es como campana que suena”59. En labios del Papa este binomio adquiere un valor significativo, pues posteriormente
ha recurrido repetidas veces a él.
Acerca del binomio ‘eros-ágape’ ya se hizo alusión anteriormente
a propósito de la encíclica Deus Caritas est. El Papa se pregunta
“si todas las formas de amor se unifican al final de algún modo, a pesar de la diversidad, siendo en último término uno solo, o se trata más
58
J. SILVIO BOTERO G., “La ‘Verdad y el Amor’: presencia de un binomio en
la S. Escritura y en el Magisterio”, StMor 40 (2002) 425-465.
59 J. RATZINGER, “Omelia nell’Initium Conclavis”, AAS 97/5 (2005) 687688.
138
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
bien de una misma palabra que utilizamos para indicar realidades totalmente diferentes?” (Deus Caritas est, 2).
Parece responder así:
“si el eros inicialmente es sobre todo vehemente, ascendente –fascinación por la gran promesa de felicidad –, al aproximarse la persona
del otro se planteará cada vez menos cuestiones sobre sí misma, para
buscar cada vez más la felicidad del otro, se preocupará de él, se entregrará y deseará ‘ser para’ el otro. Así, el momento del ágape se inserta en el eros inicial; de otro modo, se desvirtúa y pierde también
su propia naturaleza. Por otro lado, el hombre tampoco puede vivir
exclusivamente del amor oblativo, descendente. No puede dar únicamente y siempre; también debe recibir” (Deus Caritas est, 7).
El binomio ‘derecho-pastoral’ lo ha mencionado el Papa en los
encuentros con la Rota Romana en que se ventila de modo expreso la
justicia en la relación conyugal cuando ésta se ve amenazada por el
peligro del divorcio o de la separación. En la primera alocución a la
Rota Romana (28 Enero 2006) anotaba:
“el peligro de que la formalidad jurídica del proceso se olvide de la finalidad pastoral del mismo”, creando de este modo una contraposición. Como ya había enseñado Juan Pablo II, también Benedicto XVI
parece afirmar que “la sola justicia no basta, porque las personas tienen necesidad del amor; no se puede separar el valor pastoral del
amor a la verdad”.
La cuarta antinomia a que hace alusión es el peligro de ‘reduccionismo’ cuando se pretende eliminar una cultura en ventaja de otra. A
este reduccionismo hizo referencia en su discurso al mundo científico en la Universidad de Regensburg (12 Sept. 2006)60; en esta opor-
60
BENEDETTO XVI, “Discorso ai Rappresentanti del Mondo Scientifico nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg (12 Settembre 2006): Fede, ragione
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
139
tunidad destacó la urgencia de integrar la cultura griega con la cultura occidental en el pensamiento de nuestro tiempo.
Aludía a una pretendida ‘des-helenización’ del cristianismo, un
intento que en forma creciente se manifiesta en la cultura moderna
en lo que respecta a la investigación teológica; el Papa llamaba la
atención acerca del peligro de eliminar la ‘teologización’ que la iglesia realizó en los primeros siglos de cristianismo, para negar a la teología el carácter de disciplina científica. Ante la amenaza de ‘reduccionismo’ del hombre, Benedicto XVI apela a la integración de ‘razón y fe’: lograremos (la integración) si razón y fe se encuentran unidas de un modo nuevo, si superamos la limitación auto-decretada de
la razón de cara a lo que es verificable en el experimento y le damos
toda la amplitud posible.
La quinta antinomia que encontramos en el pensamiento del Papa Benedicto XVI hace referencia a varón-mujer como integración
de ‘luz-oscuridad’; esta antinomia aparece en la ‘Carta a los Obispos
de la Iglesia Católica sobre la colaboración del hombre y de la mujer
(31 Mayo 2004)’. En ella Ratzinger, refiriéndose a los fundamentos
de esta colaboración, alude a la separación, que hizo Yahvé en la creación, de luz y tinieblas, tierra y mar, cielo y tierra, día y noche, etc.
(Gn 1, 3-4. 7-8. 9-11. 16-20).
Dentro de este contexto de polaridades en relación piensa el Creador al hombre y a la mujer61; no dice el Papa quién de ellos sea luz,
quién sea tinieblas. Lo masculino y lo femenino, escribe Ratzinger,
aparecen en la revelación como elementos que pertenecen a la creación y, por tanto, destinados a perdurar más allá del tiempo presente, en una forma transfigurada62.
e università”, en Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. II/2 2006, Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 2007, 257-267; E. BIANCO, Benedetto XVI, Lavoratore nella vigna. Piccola biografía, LDC, Leumann (Torino) 2007, 126-128.
61 CONGREGATIO PRO DOCTRINA FIDEI, “Lettera ai Vescovi della chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella chiesa e nel mondo”,
en Documenta inde a Concilio Vaticano II expleto edita (1966-2005), Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, 604.
62 Ibid., 613.
140
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
Es muy fácil que él esté pensando en las culturas antiguas que tenían esta concepción, pero advirtiendo que lo masculino y lo femenino no se hallan en estado puro; lo que se encuentra en realidad es la
prevalencia en los individuos de una y otra dimensión. Zuanazzi afirma que antes de que los filósofos aludiesen a esta perspectiva, ya el
pensamiento mítico la conocía: la oposición entre alto y bajo, día y
noche, visible e invisible, celeste y terrestre, son dimensiones que
pertenecen a la oposición entre lo masculino y lo femenino. Zuanazzi se está refiiriendo al mito del Yin-Yang entre los chinos63.
L. Boff es más explícito a este respecto:
“lo masculino en el hombre-varón y en el hombre-mujer expresa el
otro polo de lo humano hecho de luz, de sol, de tiempo, de impulso,
de poder suscitador, de orden, de exterioridad, de objetividad y de razón. (...) No decimos que el varón realice todo lo que significa lo
masculino y que la mujer realice todo lo que expresa lo femenino. (...)
El proceso de indivualización se establece en el diálogo entre lo opáco, lo oscuro, lo pasional, las sombras, la vida profunda y el misterio
con lo claro, lo racional, lo objetivo, lo organizativo, con el principio
de orden en la vida humana”64.
La polaridad ‘luz-tinieblas’, que expresa una diferencia en vista a
la complementariedad de varón-mujer, la reconduce Ratzinger a la
estructura esponsal, nupcial, de la pareja humana que tiene su fuente
y modelo en la relación Cristo-iglesia. De esta relación-modelo deriva el tipo de colaboración a desarrollar el varón y la mujer dentro de
la iglesia y en el mundo.
Una antinomia muy significativa en el pensamiento del Papa es la
relación que establece entre ‘teología’ y ‘kerigma’:
“la teología no puede contentarse con reflexionar sobre la fe en un paraíso científico, y dejar abandonado a sus propias fuerzas al que tiene
63
G. ZUANAZZI, Temi e simboli dell’eros, Città Nuova, Roma 1991, 46.
L. BOFF, El rostro materno de Dios. Ensayo interdisciplinar sobre lo femenino y
sus formas religiosas, Paulinas, Madrid 1980, 67-68.
64
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
141
que predicar. Debe proporcionarle señales claras para llegar a la vida
misma, y ha de encontrar modelos de transición de la reflexión a la
predicación; la idea sólo es válida cuando es comunicable”65.
Una última antinomia, sin pretender ser exhaustivos, es ‘fidelidadrenovación’, que podría considerarse como la síntesis del pensamiento del Papa: fidelidad a la sana tradición eclesial y actitud de apertura y de renovación ante los signos de los tiempos. Ratzinger participó en el Concilio Vaticano II como ‘consejero teológico’ del Cardenal Frings. Tuvo ocasión de conocer los ‘esquemas preparatorios’ al
concilio y de ellos da este juicio: de la renovación bíblica y patrística
que había tenido lugar en las décadas anteriores sólo aparecían pocas
huellas; daban la impresión de rigor y de poca apertura, de excesiva
relación con la teología escolástica; reflejaban un tipo de pensamiento más teórico que pastoral66.
Es el mismo Ratzinger quien narra las dificultades con que tropezó el concilio para lograr reelaborar un esquema en que se conjugase la Escritura con la Tradición que en conjunto sería la revelación.
En diálogo con Vittorio Messori subrayó que ‘la iglesia debe reformarse siempre’ (‘ecclesia semper reformanda’); queriendo explicar
esta sentencia, afirmó que ‘reforma no significa erigir nuevas fachadas, sino al contrario, hacer desaparecer en la mayor medida posible
todo aquello que es nuestro para que aparezca mejor todo lo que es
de Cristo’67.
La experiencia de J. Ratzinger, como Teólogo y como Pastor, infundió la suficiente confianza a Juan Pablo II para que le confiase el
cargo de Prefecto de la Congregación para la Doctrina de la Fe. Messori afirma que las obras de Ratzinger “no se movían por eruditos intereses meramente sectoriales, sino por la investigación global de lo
65
P. BLANCO SARTO, “Joseph Ratzinger, un retrato teológico”, en Diálogos
de teología VIII. Perspectivas del pensamiento de Benedicto XVI, Edicep, Valencia
2006, 56.
66 J. RATZINGER, La mia vita. Ricordi (1927-1977), S. Paolo, Milano 1977, 86.
67 J. RATZINGER – V. MESSORI, Informe sobre la Fe, 58-62.
142
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
que los alemanes llaman ‘das Wessen’, la esencia misma de la fe y su
posibilidad de confrontación con el mundo moderno”68.
La antinomia ‘fidelidad-renovación’ parece definida por el mismo
Ratzinger en diálogo con Messori:
“el diálogo es posible únicamente sobre la base de una identidad indiscutida; podemos y debemos abrirnos, pero sólo cuando estemos
seguros de nuestras convicciones. La identidad firme es condición de
la apertura”69.
Un periodista le preguntaba si la imposibilidad de la iglesia de ofrecer plena certeza no contrasta con la indefectibilidad y la infalibilidad?
‘La infalibilidad, respondió, no es total, sino que se limita a lo indispensable en el plano de la fe, a aquello que está contra la fe; la búsqueda de la verdad en cada momento es una aventura siempre nueva’70.
Las diversas antinomias que se han expuesto en torno al pensamiento de Benedicto XVI, que iluminan la reflexión sobre el matrimonio cristiano, han dejado al descubierto una reflexión bien fundada en la tradición bíblica, teológica y antropológica. Se trata de una
reflexión que no se agota, que no permanece estática, sino que, en la
medida en que se intenta profundizar, se intuye el maravilloso plan
de Dios sobre la pareja humana y se abre el horizonte amplísimo a
nuevas perspectivas.
Conclusión
El pensamiento de J. Ratzinger – hoy Benedicto XVI – sobre el
matrimonio cristiano se puede encuadrar entre dos coordenadas: la
vertical que representa el ‘don’ y la horizontal que se proyecta como
‘tarea’ o ‘misión’ a realizar. En esta perspectiva se desenvuelve el pen-
68
Ibid., 22.
Ibid., 41-42.
70 J. RATZINGER, “La ricerca della verità è sempre scomoda”, 123.
69
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
143
samiento del Papa siguiendo el principio dinámico de la dialéctica,
como se ha podido constatar.
‘Don’ y ‘Tarea’ que, en alguna forma, equivalen a fidelidad y renovación; fidelidad al genuino mensaje revelado como don a la pareja humana a participar en el amor esponsal de Dios, y renovación en
cuanto el hombre y la mujer descubren cada día mejor el don de Dios
y se empeñan en hacerlo vida concreta en su propia existencia como
individuos y como pareja.
Estos dos elementos – fidelidad y renovación – aparecen constantemente a lo largo del magisterio del Teólogo y del Pastor que ha sido J. Ratzinger: como teólogo-consultor durante el Concilio Vaticano II, como Obispo-Relator al Sínodo de Obispos (1980), como Prefecto de la Congregación de la Doctrina de la Fe y al presente como
Sumo Pontífice.
La teología del matrimonio, gracias a la reflexión de Benedicto
XVI en sus diversas etapas de maduración, se ha liberado de los aditamentos de la Escolástica (teórica, abstracta) y se está proyectando
como una sabia conciliación de ‘verdad y amor’, el binomio que tan
frecuentemente está empleando en su magisterio pontificio. Igualmente, el binomio ‘teología-kerigma’ es particularmente representativo, porque, si la reflexión teológica no se concretiza en la vida, en
la vida del individuo y de la pareja humana, a qué sirve?
La inteligente combinación de ‘verdad-amor’ se revela en la contribución teológica y magisterial del Papa en dos actitudes fundamentales: una fidelidad respetuosa al Magisterio conciliar y a la enseñanza de Juan Pablo II y una apertura a los signos de los tiempos:
entre otros signos de tipo práctico, el ‘sensus fidelium’, la participación de los laicos en el pensar la teología del matrimonio, la necesidad de crear tribunales eclesiásticos interdisciplinares, el papel de la
‘epiqueya’ en el proceso judicial, la conveniencia de integrar ‘derecho
y pastoral’.
No sólo los signos de los tiempos a nivel práctico; sobre todo se
deben subrayar los aportes estrictamente teológicos: el relieve dado a
la ‘sacramentalidad, al amor humano como síntesis del ‘eros’ y del
‘ágape’, al ‘pueblo de Dios en camino’, o sea al principio de ‘gradualidad’, a la espiritualidad conyugal y familiar, a la educación de la con-
144
JOSÉ SILVIO BOTERO GIRALDO
ciencia como un ‘imperativo primario’ para hacer de la pareja-familia sujeto de evangelización’, etc.
Se diría que el magisterio de Benedicto XVI en sus diversas etapas
como Teólogo y como Pastor se asemeja a la pedagogía del buen
Sembrador: abonar el terreno, espacir la semilla y dar un compás de
espera para recoger la cosecha. Como decía Pablo, “yo planté, Apolo regó, mas fue Dios quien dió el crecimiento” (1Cor 3,6), otro tanto podrá afirmar Benedicto XVI: él ha estado sembrando y la iglesia
recogerá la cosecha de su magisterio.
LA TEOLOGÍA DEL MATRIMONIO EN EL PENSAMIENTO DE BENEDICTO XVI
145
SUMMARIES
This reflection intends to offer a synthesis of Benedict XVI’s thought on Christian marriage. This article underlines three moments of his thought: his interventions during the Synod of Bishops (1980), his ministry as Prefect of the
Congregation for the Doctrine of the Faith, and finally, as Pope. A special characteristic of his teaching is the ‘dialectical’ form of his reflection: ‘Truth and
Love’, ‘Eros and Agape’, ‘Law and Pastoral Practice’, ‘Theology and Preaching’. The Thought of Benedict XVI adapts completely to the orientations of Vatican Council II: fidelity to the Christian Revelation and openness to the signs
of the times.
***
Esta reflexión ha intentado hacer una síntesis del pensamiento de Benedicto
XVI sobre el matrimonio cristiano tomando tres momentos de su trayectoria
como Teólogo y como Pastor: en el Sínodo de Obispos (1980), como Prefecto de la Congregación para la Doctrina de la Fe y en su ministerio de Sumo
Pontífice. Una caraterística de su reflexión es la dialéctica que se revela en diversas formas: verdad y amor, eros y ágape, derecho y pastoral, teología y kerigma. Es una reflexión que se ajusta a las coordenadas del Concilio Vaticano
II: fidelidad a la revelación cristiana y apertura a los signos de los tiempos.
***
Questa riflessione si propone di fare una sintesi del pensiero di Benedetto XVI
riguardo al matrimonio cristiano, prendendo in considerazione tre momenti del
suo insegnamento: nel Sinodo dei Vescovi (1980); come Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede e finalmente, come Sommo Pontefice.
Una caratteristica particolare del suo pensiero è la forma ‘dialettica’ delle diverse espressioni adoperate: verità e amore, eros e agape, diritto e pastorale,
teologia e kerigma. Si tratta di una riflessione che si adatta pienamente alle coordinate del Concilio Vaticano II: fedeltà alla Rivelazione cristiana e apertura ai
‘segni dei tempi’.
„DER MENSCH WIRD EIN WESEN,
DAS ES NICHT GIBT”
Zur theologischen Ethik als Bewegung der Konversion
bei Romano Guardini1
Peter Schallenberg*
Einführung
Die christliche Botschaft wird vom ersten Anfang an von der Frage nach der praktisch-existentiellen Relevanz des Dogmas von der
Erlösung des Menschen durch Gott durchformt. Dogmatik und
Ethik, Glaube und Leben bilden daher eine unlösbare Einheit. Und
dies gilt insbesondere im Blick auf eine konkrete Entfaltung des
Dogmas von der gnadenhaften Erlösung des Menschen durch Gott.
Wenn nämlich Gottes Liebe in der zweiten Person der Trinität, also
in der geschichjtlichen Menschwerdung, jedes jemals geborenes Individuum erreichen soll, wenn objektive Erlösung sich auswirken soll
in subjektiv größerer Freiheit zum Guten, dann ist eine zutiefst radikale Verinnerlichung dieser Erlösung vom Individuum gefordert.
Oder anders: Dann muß das innerliche Bewußtsein dieser Erlösung
sich auswirken in einer inneren und äußeren Konversion, in einer
Änderung von Denken und Handeln. Klassisch-scholastisch wird
Sünde bei Thomas von Aquin definiert als „aversio a deo et conversio ad creaturas”. Soll diese Bewegung der Grundsünde revidiert
werden, so braucht es eine erneute „conversio ad deum”. Und eine
* The author is a professor of moral theology at the Theology Faculty in Fulda.
* El autor es profesor de moral teológica en la Facultad Teológica de Fulda.
1
Zum Ganzen vgl. besonders R. GUARDINI, Glaubenserkenntnis, Würzburg
1949; Ders., Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Würzburg 1962; Ders., Ethik. Vorlesungen an der Universität München. Aus dem Nachlaß herausgegeben von Hans Mercker, 2 Bde., Mainz-Paderborn 1993.
StMor 46/1 (2008) 147-164
148
PETER SCHALLENBERG
solche Konversion geschieht in einer konkreten biographischen Existenz, denn hier wird deutlich, was Emmanuel Lévinas einmal nannte „Wenn Gott ins Denken einfällt”2. Für die ethische Fragestellung
zugespitzt hieße: „Was geschieht, wenn Gott und seine Offenbarung
in den Lebensentwurf einer menschlichen Person einfällt?”.
1. Biographische Konversion und ethische Lebensgestalt
Die theologische Ethik fragt nach dem objektiv wie subjektiv geglückten menschlichen Leben. Sie ist damit in des Wortes weitester
Bedeutung Lebenskunst. Die konkrete Wirklichkeit eines Individuums steht vor Augen und wird auf die innere und äußere Durchsetzungskraft zum Guten, zu Gott hin befragt. Alfons Auer unterstrich,
Romano Guardini bediene sich der „Vorstellung von Lebensgestalten”, in denen „Schicksalsgestalt” wie „Freiheitsgestalt” sich zu geglückter Identität eines Menschen Verbinden, und er präzisiert: „Lebensgestalt meint die in der Daseinswirklichkeit jedes einzelnen
Menschen implizierte sittliche Verbindlichkeit. Wo diese Verbindlichkeit eingelöst wird, sprechen wir von glückender oder geglückte
Identität eines Menschen mit sich selbst. Guardini hat dies zwar in
seiner Präsentation des Begriffs „Lebensgestalt” klar ausgesprochen.
Aber die Lebensgestalt ist nicht die konzeptionelle Mitte seiner
Ethik geworden. Er spricht vom Guten und von den Werten, in denen es sich entfaltet”3.
Auch wenn leise Kritik an der unverbundenen Parallelisierung
vonm Lebensgestalt einerseits und dem objektiv Guten und seinen
Werten andererseits anklingt, wird doch deutlich: Im Hintergrund
steht die scholastische Verknüpfung von Ontologie und Ethik, sowie
2
Vgl. E. LÉVINAS, Wenn Gott ins Denken einfällt. Diskurse über die Betroffenheit von Transzendenz, Freiburg/Br. 1988.
3 A. AUER, “Identität und Wandel. Auf der Suche nach der persönlichen Lebensgestalt”, in Hans-Günther Gruber / Benedikta Hintersberger (Hgg.), Das
Wagnis der Freiheit. Theologische Ethik im interdisziplinären Gespräch, Würzburg
1999, 203-214, hier 209.
THEOLOGISCHE ETHIK ALS KONVERSION BEI ROMANO GUARDINI
149
die daraus folgende Qualifizierung des Seins durch das Gute: ens et
bonum convertuntur. Leitend ist demnach die Überzeugung: Die Verwirklichung des Guten in der Wirklichkeit des eigenen Seins führt
zum vollkommen geglückten Leben.
Und ebenso gilt dies umgekehrt: „Das Glück im Sittlichen”4
führt zur Wirklichkeit des Guten. Die vorausgehende Unterscheidung von Gut und Böse als den zwei großen existentialen und fundamentalen Möglichkeiten des Menschen ermöglicht die konkrete
Existenz. Angestrebt wird die Wahrheit des eigenen und unverwechselbaren Lebens, die fortschreitende Erkenntnis des tieferen
Sinns der eigenern Existenz. In dieser Sicht kann Romano Guardini
mit Recht als Ethiker bezeichnet werden,5 und dies in theologischer
Zuspitzung, insofern nämlich die Unterscheidung von Gut und Böse getragen wird von der Teilhabe des menschlichen Geistes am
göttlichen Geist und an der göttlichen Wahrheit. Göttliche Wahrheit und menschliche Freiheit erscheinen dann wie korrelative Größen, die beide im Dienst an der umfassend geglückten Lebensgestalt
eines Menschen stehen.
Modelle dafür findet Guardini im konkreten Leben und in der
Biographie von paradigmatischen Gestalten christlicher Existenz:
zuerst natürlich in der geoffenbarten Person Jesu Christi, sodann in
den Lebensgestalten von Augustinus und Pascal, bemerkenswerterweise auch in der Gestalt des Bernhard von Clairvaux als „Meister
4
Ebd. 210.
Vgl. B. KURTH, “Obbedienza nei confronti di Dio e libertà dello spirito.
Una introduzione al pensiero etico-cristiano di Romano Guardini”, in M. Nicoletti / S. Zucal (Hgg.), Tra coscienza e storia. Il problema dell´etica in Romano
Guardini, Brescia 1999, 103-126, hier 108: „Guardini può certamente venir
considerato un pensatore nel campo dell´etica, se con etica si intende in generale la riflessione critica sull´agire umano fondato sulla differenza di bene e di
male. Non lo è stato invece se con questo termine si vuole indicare lo specialista della disciplina scientifica di ambito filosofico e teologico. Si è occupato di
etica come pedagogista, come teologo e (certamente anche) come curatore d´anime. Il suo intento è stato quello di cogliere la realtà dell´agire etico alla luce
della fede, ovvero di sensibilizzare a questa percezione, che deve esser sopratutto una percezione del Bene”.
5
150
PETER SCHALLENBERG
des kontemplativen Lebens”, „quel contemplante” von Dante genannt6. Solche auf Gott zuschreitenden Biographien verdeutlichen:
Eine Gestalt und ihr Leben ist geglückt, wenn und insofern sie die Sicherheit der Liebe Gottes zur eigenen Person verwirklicht. Oder
deutlicher noch: Wenn die Liebe Gottes verinnerlicht wird und sich
sodann wiederum veräußerlicht in einer konkreten Lebensgestaltung.
Paradigmatisch und gleichsam als innerster Angelpunkt des theologisch-ethischen Denkens bei Romano Guardini mag der zentrale
Wendepunkt in seinem grundlegenfden Buch „Der Herr” stehen.
Denn hier finden sich die neuzeitlichen Koordinaten von Streben
nach Liebe und Sicherheit der Existenz verknüpft im Angesicht der
Offenbarung Gottes. Gott selbst gewinnt in Jesus Christus irdische
und geschichtliche Lebensgestalt, um die umfassend geglückte Lebensgestalt eines Menschen mit Sicherheit zu offenbaren7. Romano
Guardini notiert:
„Wenn jeman fragt: was ist denn sicher? So sicher, daß man darauf
leben und sterben kann? So sicher, daß alles dahinein verankert werden kann? – dann lautet die Antwort: die Liebe Christi (...) Das Leben lehrt uns, daß dieses Letzte nicht Menschen sind, und seien es
die Besten und Liebsten; auch nicht Wissenschaft, oder Philosophie,
oder Kunst, oder was sonst Menschenkraft hervorbringt. Auch nicht
die Natur, so voll tiefen Truges, oder die Zeit, oder das Schicksal...
Nicht einmal einfachhin Gott; denn über der Sünde ist ja Gottes
Zorn erwacht – und wie könnten wir ohne Christus wissen, was wir
von ihm zu erwarten haben? Sicher ist nur die Liebe Christi. Wir
können nicht einmal sagen: die Liebe Gottes, denn daß Gott uns
liebt, wissen wir endgültig nur durch Christus. Und wenn wir es
selbst ohne Christus wüßten – Liebe kann auch unerbittlich sein, und
6
Romano Guardini, Bernhard von Clairvaux in Dantes „Göttliche Komödie”, in Ders., Unterscheidung des Christlichen, Gesammelte Studien 1923-1963,
Mainz 1963, 555-568, hier 568.
7 Daher bezeichnet das II. Vaticanum in „Gaudium et spes” Nr. 22 Christus
als „homo perfectus”!
THEOLOGISCHE ETHIK ALS KONVERSION BEI ROMANO GUARDINI
151
um so härter, je edler sie ist. Erst durch Christus wissen wir, daß Gott
verzeihend liebt. Nein, fest steht nur, was sich am Kreuz geoffenbart
hat: die Gesinnung, die da lebt; die Kraft, die jenes Herz erfüllt”8.
Innerhalb des Buches gleicht dieser Text in der Tat einem Angel –
und Wendepunkt: An zentraler Stelle, nach der Betrachtung von Jesu Tod und als Überleitung zu Auferstehung und Verklärung steht
genau der Sprung von der Zeit in die Ewigkeit auf dem Spiel. Und
es ist durchaus kein Zufall, daß ein klassisches Thema der neuzeitlichenTheologie, nämlich das durch die Reformation neu beleuchtete
Problem der Sicherheit unbezweifelbarer Gottesliebe, hier im Zentrum des Interesses steht. Tief empfindet Guardini die „Unsicherheit, welche der Wandel des Weltbildes seit Kopernikus für das innere Sichstellen zu Gott verursacht hat”9. Hier findet sich die radikale christozentrische Wende: Nichts ist absolut sicher in der Relativität von Raum und Zeit, absolut sicher ist nur der absolute Gott,
dessen Offenbarung in Raum und Geschichte aber nur geglaubt,
nicht mathematisch bewiesen werden kann. Als Beweis kann nur dienen die auf diesem Glauben an Gottes absolute Liebe gegründete
Lebensgestalt eines konkreten Menschen.
2. Der Weg zum eigentlichen Selbst: Guardini und Augustinus
Für Romano Guardini veranschaulichen konkrete Lebensgestalten normative Möglichkeiten objektiver Lebensgesaltung. Augustinus steht für das bekennende Ringen um eine solche, vor Gott gültige Lebensgestalt, er ist eine Gestalt der Wende und der Vermittlung.
„Augustinus hat eine Verbindung von der Antike zum Mittelalter geschaffen, aber auch eine solche von der Antike zur Neuzeit”10. Das
18
R. GUARDINI, Der Herr, Mainz 1977, 487.
R. GUARDINI, Anfang. Eine Auslegung der ersten fünf Kapitel von Augustins
Bekenntnissen, München 1953, 31.
10 Ebd. 9.
19
152
PETER SCHALLENBERG
große Augustinus-Buch11 von Guardini umkreist und beleuchtet diesen inneren Kampf einer Suche nach endgültiger Vollendung im
Geist, ohne die ein vollendet geglücktes Leben nicht vorstellbar erscheint: „Es gibt Geistiges, das sich einem aufdrängt, weil man seiner bedarf”12. Die Gestalt des Augustinus fasziniert Romano Guardini wegen der Begegnung eines selbstbewußten Subjektes mit der
eigenen „endlichen und doch aufs Unendliche ausgerichteten Innerlichkeit”13 und wegen der geradezu akribischen Beschreibung dieses
Vorganges der Bekehrung eines Individuums hin zum lebendigen
Gott: „Die augustinische Innerlichkeit hat die ganze Kraft eines ungewöhnlichen Selbstgefühls, welches sich dem übrigen Sein gegenüberstellt”14. Fasziniert ist er aber sicher auch wegen der biographischen Nähe zur eigenen ersten Bekehrung und seines Weges hin zur
zweiten Bekehrung als „hoffnungsspendende Bewährung des mündig
gewordenen Einzelnen”; daher der dezidiert ethisch-pädagogische
Grundzug seines Denkens, das am „Ende seines Lebens die Ethik als
die eigentliche Synthese seines ganzen Schaffens betrachtet”, so daß
Augustinus und seine Bekehrung zum Programm wird: „Guardinis
theologisches Hauptanliegen ist es, den Menschen in diese Mündigkeit der zweiten Bekehrung zu führen”15. Gerade der Anfang der Be11
R. GUARDINI, Die Bekehrung des heiligen Aurelius Augustinus. Der innere
Vorgang in seinen Bekenntnissen, Leipzig 1935.
12 H. KUNITSCH, “Interpretatio Christiana. Anlaß und Grundzüge der Deutung großer schöpferischer Gestalten durch Romano Guardini”, in J. RATZINGER (Hg.), Wege zur Wahrheit. Die bleibende Bedeutung von Romano Guardini, Düsseldorf 1985, 96-120, hier 104, und erläuternd: „Der „Augustin” ist Guardinis
am wenigsten klassische Buch. Es ist stark von Augustins Kreisdenken geprägt,
vom heiligen Kreislauf jener ewigen Melodie ergriffen, oft unruhig, sich wiederholend, über den engeren Gegenstand hinausführend, die geistliche Unruhe Augustins zum Anlaß nehmend, sich seiner eigenen, immer in Frage gestellten Position zu vergewissern: Was ist Glaube, Geist, Liebe, Licht?”
13 A. SCHILSON, Perspektiven theologischer Erneuerung. Studien zum Werk Romano Guardinis, Düsseldorf 1986, 173.
14 R. GUARDINI, Die Bekehrung des heiligen Aurelius Augustinus, aaO, 37.
15 K. HEINZ WIESEMANN, Zerspringender Akkord. Das Zusammenspiel von
Theologie und Mystik bei Karl Adam, Romano Guardini und Erich Przywara als theologische Fuge, Würzburg 2000, 173.
THEOLOGISCHE ETHIK ALS KONVERSION BEI ROMANO GUARDINI
153
kehrung ist von besonderer Bedeutung, denn dies wird zum Paradigma des Individuums überhaupt, das freilich zunächst, im frühen
Christentum und im Mittelalter, ganz im Ordnungsgefüge eines vorgebenen Rahmens verbleibt. Erst die Neuzeit bringt den radikalen
Bruch und damit die ungeheure Aktualität der augustinischen Bekehrung. Denn das „neuzeitliche Bewußtsein sieht das Dasein als das
autonome, keiner Begründung bedürftige und keine übergeordnete
Norm zulassende Gefüge von drei Momenten: als Natur, als Subjekt
und als Kultur”16. In dieser Dreiheit muß sich eine neuzeitlich geprägte theologische Ethik neu verorten und ansiedeln.
Augustinus bewegt die Frage, wie der Mensch sei und wie er sein
solle, um bestehen zu können – und dies nicht bloß vor der eigenen
und immer bestechlichen Subjektivität, sondern angesichts einer unbestechlich wahren Berufung durch Gott. Das kennzeichnet Größe
und Aktualität des Augustinus, insbesondere in seinen von der Konversion geprägten Bekenntnissen: Der einzelne und vereinzelte
Mensch in einer sich auflösenden äußeren Ordnung sieht sich dem
absoluten Gott und seiner Forderung gegenübergestellt. So wird Augustinus für Guardini zum Menschen der Neuzeit, weil er radikal das
Gelingen und den ewigen Sinn der eigenen Lebensgestalt befragt,
auch wenn diese Fragen erst viel später wieder aufgegriffen werden:
„Erst bei den Denkern der beginnenden Neuzeit – etwa in den Theorien der Renaissance über das Glück, in den Betrachtungen eines
Michel de Montaigne über die Seltsamkeiten des Daseins und in den
heftigen Problemstellungen Pascals – dringen jene Fragen durch, um
von da ab nicht mehr zu verstummen”17. So steht Augustinus gewissermaßen am Anfang der Neuzeit, weil er im Angesicht der Ewigkeit
Gottes nach der gelungenen und vollendeten Gesamtgestalt der ei-
16
H. KUHN, Romano Guardini. Der Mensch und das Werk, München 1961, 73.
Vgl. R. GUARDINI, Welt und Person, aaO, 23: „Auf die eingangs gestellte Frage,
in welcher Weise das Daseiende da sei, antwortet das neuzeitliche Bewußtsein:
als Natur, als Subjekt und als Kultur. Das Gefüge dieser Momente bedeutet ein
Letztes, hinter das nicht zurückgegriffen werden kann”.
17 R. GUARDINI, Anfang, aaO, 10.
154
PETER SCHALLENBERG
genen Person und seines Lebens fragt. Wiederum sieht Guardini
hier Parallelen zum eigenen inneren Ringen um die endgültige zweite Bekehrung.
Denn die Lebenshingabe als Weg zum endgültigen Gewinn des
Lebens vor Gott ist Guardini biographisch selbst erst nach langem
Kampf um Berufswahl und Glaubensentscheidung aufgeleuchtet.
Dies verdichtet sich in jener Stunde mit dem Freund Karl Neundörfer in der Dachstube des Elternhauses zu Mainz, von der er in so intimer und berührender Weise berichtet, als sei jene Erkenntnis vielleicht der geheime Schlüssel zu seinem Gottesbild überhaupt: „Es
war mir allmählich klar geworden, daß ein Gesetz bestehe, wonach
der Mensch, wenn er seine Seele behält, das heißt, in sich selbst
bleibt und als gültig nur annimmt, was ihm unmittelbar einleuchtet,
das Eigentliche verliert.
Will er zur Wahrheit und in der Wahrheit zum eigentlichen
Selbst gelangen, dann muß er sich hergeben. Diese Einsicht hat sicher Vorstufen gehabt, sie sind mir aber entfallen. Karl Neundörfer
war auf diese Worte hin ins Nebenzimmer gegangen, aus welchem
eine Türe auf einen Balkon führte. Ich saß vor meinem Tisch, und
der Gedanke ging weiter:
„Meine seele hergeben – aber an wen? Wer ist im Stande, sie mir abzufordern? So abzufordern, daß darin nicht doch wieder ich es bin,
der sie in die Hand nimmt? Nicht einfachhin Gott, denn wenn der
Mensch es nur mit Gott zu tun haben will, dann sagt er Gott und
meint sich selbst. Es muß also eine objektive Instanz sein, die meine
Antwort aus jeglichem Schlupfwinkel der Selbstbehauptung herausziehen kann. Das aber ist nur eine einzige: die katholische Kirche in
ihrer Autorität und Präzision. Die Frage des Behaltens oder Hergebens der Seele entscheidet sich letztlich nicht vor Gott, sondern vor
der Kirche.”
Da war mir zu Mute, als ob ich wirklich alles – wirklich alles, mein
Dasein – in meinen Händen trüge, wie in einer Waage, die im
Gleichgewicht stand: „Ich kann sie nach rechts sinken lassen oder
nach links. Ich kann meine Seele hergeben oder sie behalten.” Und
THEOLOGISCHE ETHIK ALS KONVERSION BEI ROMANO GUARDINI
155
da habe ich denn die Waage nach rechts sinken lassen. Der Augenblick war ganz still”18.
In großer Klarheit erkennt Guardini in dieser erinnernden Selbstbeobachtung die Hingabe einer reinen, nicht kalkulierenden Liebe
an Gott vermittels der Kirche: Dies erscheint als das einzige Gegenmittel zum naturalen Narzißmus der Subjektivität des Menschen.
Denn alles, selbst noch Gott, wird zum Medium der verzweifelten
Selbstsuche und Selbstsicherung.
Das eigene Selbst aber wird nicht in Selbstbehauptung gewonnen,
sondern in Selbsthingabe, nicht in besitzender, sondern in hingebender Freiheit. Diese Freiheit der Entscheidung zum Guten, zu Gott
also zu gewinnen, ist dann das letzte und eigentliche Ziel der christlichen Ethik. Nichts anderes war ja mit dem klassischen Axiom des
non posse peccare gemeint: Freiheit meint dann die schiere Unfähigkeit
zur Sünde, die Unfähigkeit mithin, sich selbst und die geglückte eigene Lebensgestalt zu verfehlen. Dies ist dann ethisch qualifizierte
Freiheit:
„Damit ist auch klar, das nur die psychologische, nicht aber die sittliche Freiheit etwas von vornherein Gegebenes ist. Letztere ist vielmehr ein Ziel, das nur in allmählichem Fortschreiten erreicht werden kann. Man kann sie sogar als die sittliche Aufgabe schlechthin
bezeichnen, denn wenn man in einem Wort den Inbegriff sittlicher
Vollkommenheit zusammenfassen wollte, so würde dies am besten in
dem alten Begriff von der Freiheit des Geistes geschehen”19.
Was die französische Mystik die „reine Liebe” nannte, umschreibt
Guardini hier mit dem Begriff des reinen Gehorsams gegenüber der
Autorität Gottes, die allein das Gelingen der eigenen Lebensgestalt
zu verbürgen vermag. In jenem existentiellen Gehorsam ist jede Ver-
18
R. GUARDINI, Berichte über mein Leben. Autobiographische Aufzeichnungen,
Düsseldorf 1985, 71f.
19 R. GUARDINI, “Zum Begriff der sittlichen Freiheit (1916)”, in Wurzeln eines großen Lebenswerkes, Bd. I, Mainz-Paderborn 2000, 72-89, hier 88.
156
PETER SCHALLENBERG
zwecklichung Gottes aufgehoben. Wenn Gott wirklich als Gott gedacht wird, muß jede Berechnung weichen:
„Der Mensch ist nun bereit, Gott als Norm, Inhalt und Ziel des eigenen Lebens anzunehmen. Und zwar nicht zuerst deshalb, weil er
so zur Vollendung gelangt, sondern weil Gott Gott ist, der Heilige,
das lebendige höchste Gut”20.
Im Blick auf Augustinus kommt schließlich noch ein Gedanke
hinzu, nämlich der Gewinn des geistigen und wirklich den Menschen
sättigenden Glücks. Denn für Augustinus steht fest, daß der Mensch
ein vollkommenes Glück in Raum und Zeit, in Selbstbestätigung und
Bedürfnisbefriedigung, in den Kategorien der Endlichkeit also ganz
vergeblich sucht, und sich bei dieser verzweifelten Suche beständig
verfehlt. Allein die Ewigkeit Gottes vermag ihn zu sättigen. Diese
Ewigkeit aber ist inhaltlich bei Augustinus bestimmt als frui deo, als
zweckfreier Genuß der Liebe Gottes. Daher wird der Begriff des
Geistes schärfer noch präzisiert im Begriff des Herzens als lebendiger Mitte des Menschen. Denn Herz meint in der Tradition augustinischen Denkens ein erkennendes und strebendes Gewissen als Mitte menschlicher Freiheit: „sentimento del valore”21. Augustinisch gesehen ist die Wahrheit der Existenz Gottes zugleich die Wahrheit
der eigenen individuellen Existenz. Und es hängt alles davon ab, daß
diese Existenz Gottes als persönliche Wahrheit erkannt und für das
eigene Leben ethisch aufgeschlüsselt wird.
20
R. GUARDINI, “Der religiöse Gehorsam (1916)”, in Wurzeln eines großen
Lebenswerkes, aaO, 35-44, hier39.
21 G. CANTILLO, “L’Ethik di Romano Guardini nell’orizzonte dell’etica del
Novecento”, in M. NICOLETTI / S. ZUDAL (Hgg.), Tra coscienza e storia, aaO,
79-102, hier 97, und erläuternd ebd. Anm. 66: „Guardini si rilaccia, oltre che
alla nozione platonica di eros, alla tradizione agostiniana del „cuore”, inteso
come centro della persona che fa esperienza del bene e del valore, e si richiama esplicitamente a Agostino, a Dante, a Pascal ed a Scheler (e in questa tradizione di theologia et philosophia cordis ci si sarebbe potuto riferire anche ad Antonio Rosmini)”.
THEOLOGISCHE ETHIK ALS KONVERSION BEI ROMANO GUARDINI
157
3. Die Überwindung der Natur: Guardini und Pascal
Wie bei Augustinus, so steht auch bei Pascal das konkrete individuelle Selbst im Mittelpunkt fdes ethischen Interesses. Und wie bei
Augustinus nimmt Pascal den Begriff des Herzens, um die Schwelle
hin zur Konversion zu beschreiben, die radikaler ausfällt als bei Augustinus gedacht.
„Es ist die Trennung zwischen Vernunft und Herz, die bei Pascal einem kontinuierlichen Aufstieg zu Gott, wie ihn Augustin dachte, im
Wege steht, da der Abstand zwischen diesen beiden Ordnungen unüberbrückbar ist”22.
Romano Guardini fasziniert an Pascal die eigentümliche und typisch neuzeitliche Perspektive einer Ethik des Konkreten. Moral
wird zur Kunst konkreter Lebensführung, wiederum bewußt im Angesicht und in der Perspektive Gottes. Aber das neuzeitliche Subjekt
ist angefochten, Zweifel und Skepsis haben das Individuum und seine moralische Lebensgestalt ergriffen und von Grund auf erschüttert. Und Pascal antwortet darauf:
„Nicht nur will er jedes in sich geschlossene Denksystem erschüttern, sondern alle menschliche Selbstsicherheit überhaupt. Erschüttern will er jedoch vor allem die in der höheren Gesellschaft des damaligen Frankreich um sich greifende religiöse Unverbindlichkeit,
die ja nur eine Weise der Selbstbewahrung bedeutet, samt deren
Kehrseite, der Hoffnungslosigkeit”23.
„Das Bewußtsein, der Mensch sei nicht, wie er sein sollte, sammelt sich in Pascals Erfahrung vom Selbst”24. Dieser existentiellen
22
P. STOLZ, Gotteserkenntnis bei Blaise Pascal, Frankfurt/M. 2001, 160.
R. LEUENBERGER, Die Vernunft des Herzens. Studien zu Pascal, Zürich
1999, 13.
24 R. GUARDINI, Christliches Bewußtsein. Versuche über Pascal, Leipzig 1935,
91.
23
158
PETER SCHALLENBERG
Erschütterung ist nur zu entkommen durch den Sprung aus der eigenen Mitte, durch den Wechsel der Perspektive, durch die entschiedene Frage nach dem wirklich Guten, durch den Sprung in die
Perspektive Gottes. „Und daraus eine Ethik, worin der Mensch dem
Anspruch seines Selbst, Mitte zu sein, entgegenhandeln soll: Alles
Gott geben und mit allen Kräften Gott dienen”25.
An dieser Stelle wird ein bloß philosophisch-ethischer Begriff der
Autonomie aufgebrochen hin zu einem theonomen Verständnis von
Ethik. Ermöglicht wird dies, weil der sittliche Anspruch nicht mehr
in der Form des buchstäblichen Gesetzes, sondern in der menschgewordenen Person Gottes selbst dem Menschen entgegentritt.
Kein Jota des Gesetzes ist aufgehoben, aber die Erfüllung des Gesetzes erscheint nicht mehr als bloße Pflicht, sondern als liebender
Gehorsam.
Erst in dieser menschgewordenen Perspektive Gottes entsteht für
Guardini die echte Möglichkeit ethischer Motivation, die eine bloße
Berechnung von Nutzen oder Gewinn überschreitet. Denn die
„letzte Instanz, auf die sich unser sittliches Dasein bezieht, ist nicht
ein Gesetz, sondern ein Jemand. Es ist der lebendige Gott”26. Erst
der Gedanke ewiger und unbedingter Liebe Gottes führt über eine
bloße Ethik des (autonomen oder heteronomen) Sollens hinaus in
eine spezifisch theologische Ethik der in Anspruch genommenen
Freiheit. Und Guardini präzisiert im Blick auf ein spezifisch theologisches Sittengesetz:
„Von hier gewinnt das sittliche Sollen erst seine letzte Tragweite, seine wirkliche, nicht nur gedankliche Ewigkeit. Hier versteht sich der
tiefste Sinn des Sittlichen als eines Wirklichen und Lebendigen. Vor
das Angesicht Gottes treten, führt in die innere Aufrichtigkeit, in die
Freiheit, über psychologische und sachliche Bindungen hinaus. Hierin löst sich auch der moralische Bann. Die Erfüllung des Sittenge-
25
Ibid., Christliches Bewußtsein, aaO, 93.
R. GUARDINI, “Der Glaube an die Gnade und das Bewußtsein der Schuld
(1934)”, in Ders., Unterscheidung des Christlichen, aaO, 367-390, hier 389.
26
THEOLOGISCHE ETHIK ALS KONVERSION BEI ROMANO GUARDINI
159
setzes ist nicht mehr nur der Vollzug eines abstrakten Sollens, sondern der Aufbau lebendigen Heiles”27.
Daraus ergeben sich zwei Konsequenzen. Erstens nämlich: Die
Natur des Menschen ist verderbt, so die feste Überzeugung Pascals,
aber – zweitens – sie bleibt auch nach dem Sündenfall wesenhaft hingeordnet auf die Gnade und auf die Vollendung durch Jesus Christus. Daher wird auch die Rede von einem naturlichen Endziel der
menschlichen Natur obsolet: „Das Letzte, den Menschen eigentlich
Definierende, stammt nicht aus der Natur, sondern aus Gott. Es
kann nicht aus der Welt abgeleitet werden, sondern nur aus der Gnade entgegengenommen werden”28.
Und daraus folgt in der Konsequenz, daß nur die entschlossene
Selbstüberwindung der naturhaften Neigung des Menschen, sich
und seine Existenz zu sichern, seine auf Überleben ausgerichteten
Bedürfnisse zu befriedigen, daß nur solcher Verzicht auf die naturhafte Selbstdurchsetzung den Menschen in wirklich ethische Freiheit
zum Guten zu führen vermag. Guardini unterstreicht daher mit
Blick auf Pascal und dessen berühmt-berüchtigte Aussage vom „moi
haissable”:
„Die Notwendigkeit, sich selbst zu übersteigen – eben das ist die tiefste
Natur des Menschen. So bedeutet die Absage an diese Selbstüberschreitung gerade die Zerstörung seiner eigentlichen Natur”29.
Erst in dieser Sicht ist nach Pascal die menschliche Natur wirklich
verstanden, und genau dies leistet die christliche Offenbarung:
„Wenn man die ganze Natur des Menschen verstanden hat, und dann
bewirken will, daß unsere Religion wahr sei, muß man zeigen können, daß sie unsere Natur erkannt hat. Sie muß unsere Größe und
27
R. GUARDINI, Das Gute, das Gewissen und die Sammlung, Mainz 1952, 65.
R. GUARDINI, Christliches Bewußtsein, aaO, 98.
29 Ibid., 100.
28
160
PETER SCHALLENBERG
unsere Niedrigkeit erkannt haben und den Grund für diese wie für
jene. Wer hat sie erkannt außer dem Christentum?”30.
Denn in der menschlichen Natur liegt die doppelte Möglichkeit
der Freiheit, zum Guten oder zum Bösen. Und erst die Konversion
der Freiheit zu Gott hin entspricht dem innersten Wesen des Menschen. Nur eine so im Anblick der menschgewordenen Liebe Gottes
entscheidende Freiheit ist wirkliche Freiheit. Und nur Liebe ist die
letztgültige Form jener Freiheit, und es entsteht das wahre, das von
Gott ursprünglich gemeinte menschliche Selbst. Letztlich ist dies
immer ein Sprung des menschlichen Geistes und folgend des Handelns aus der befangenen Zeitlichkeit hinaus. Das Gute in den Kategorien von Raum und Zeit ist immer zu kurzfristig betrachtet; erst
die Perspektive Gottes läßt das umfassend Gute erkennen, erst die
Gnade vermag den Menschen zum umfassend Guten zu befreien31.
„Dann erwacht überhaupt erst das gottgemeinte Selbst; das wirkliche, nicht jenes gespenstische des „moi haissable”. Und in ihm erwacht eine neue Liebe; eine neue Kraft der Wertung mit einer neuen, inneren Sicherheit und Freiheit”32.
4. „Ethik”, oder: „Was geschieht,
4. wenn ein Mensch sich ethisch verhält?”33
Die erst posthum erschienen Ethik-Vorlesungen von Romano
Guardini an der Universität München in den Jahren von 1950 bis
1962 beleuchten in systematischer, wenngleich fragmentarischer
und unvollendeterWeise die Verankerung seines Denkens in dem
30
PASCAL, Pensées Nr. 235.
Vgl. BLAISE PASCAL, Scritti sulla grazia, Milano 2000.
32 R. GUARDINI, Christliches Bewußtsein, aaO, 185.
33 R. GUARDINI, Ethik. Vorlesungen an der Universität München, 2 Bde., Paderborn-Mainz 1993, 1.
31
THEOLOGISCHE ETHIK ALS KONVERSION BEI ROMANO GUARDINI
161
weitgespannten Horizont des Problemes von Natur und Gnade34.
Dementsprechend gliedert sich seine Ethik in Ausführungen zur
natürlichen Sittlichkeit und sodann in einen zweiten Teil zu einer
explizit sich christlich verstehenden Ethik. Von hier gewinnt die
Frage nach dem Proprium einer chtristlichen und theologischen
Ethik eine besondere Relevanz. Was schon in der Darstellung vorbildlich geglückter Lebensgestalten christlicher Existenz deutlich
wurde, wird nunmehr unterstrichen: Das christliche Ethos als
durch innere Konversion zu Gott hin entstandene Existenzhaltung
wirkt sich aus in einer fast unlösbar zu nennenden Verschränkung
von Inhalt und Motivation. Die Person des Menschen sieht sich von
der Person Gottes aufgefordert und angerufen – wo diese Berufung
in die Tat einer neuen Lebensführung umgesetzt wird, da entsteht
gläubige Ethik.
Auf diesem Hintergrund meint Sünde immer die Ablehnung der
Liebe Gottes, eine Ablehnung, die letztlich zur Ablehnung des Geschaffenseins und der verdankten Annahme des eigenen Selbst führt.
Ein Blick auf Dostojewski illustriert für Guardini das Gemeinte.
„Davon gibt es eine große dichterische Darstellung in Dostojewskis
Roman „Die Brüder Karamasoff”. Darin sagt Iwan Karamasoff: „Ich
nehme Gottes Schöpfung nicht an.” Er sagt nicht: „Ich leugne, daß
Gott alles geschaffen habe.” Er ist kein Atheist; dafür ist er zu wach
und zu gescheit. Sondern er sagt: Ich empöre mich dagegen, geschaffen zu sein. Die Tatsache kann ich nicht ändern, ich nehme sie
aber nicht in meinen personalen Selbstvollzug hinein”35.
Ungehorsam im existentiellen Sinn, Verfehlung des eigentlichen
Lebenszieles, Verweigerung der zum Guten ermächtigten Freiheit –
dies bündelt sich im Begriff der fundamentalen Sünde, die an der
34
Vgl. EVA MARIA FABER, „Zum Verständnis von Natur und Gnade in den
Ethik-Vorlesungen Romano Guardinis”, in Theologische Revue 93 (1997)1-15;
A. SCHILSON, „Gottes Hoheit in die Welt hineintragen”. Über Romano Guardinis posthum veröffentlichte „Ethik”, in Herder Korrespondenz 49 (1995) 94-99.
35 R. GUARDINI, Ethik, Bd. I, aaO, 91.
162
PETER SCHALLENBERG
Wurzel aller kategorialen Sünden und Schwächen im menschlichen
Leben steht. Wiederum leuchtet im Hintergrund der Gedanke der
verdankten Schöpfung auf. Das menschliche Sein, näherhin: die eigene Existenz gibt zu denken und fordert auf zur Verantwortung.
Daraus erst erwächst die Aufgabe und die Notwendigkeit der Ethik:
„Sittliches Bewußtsein ist der Ausdruck davon, daß ich weiß, ich stehe in Verantwortung. Ich bin nicht bloß, sondern soll etwas aus meinem Sein machen – und nicht nur etwas, sondern das Richtige. Ethik
aber ist der Versuch, diese Aufgabe theoretisch zu verstehen und sie
nach ihren Grundlagen und Konsequenzen zu entfalten”.36
Und diese Entfaltung kann nicht gelingen ohne die Bewegung der
Konversion, ohne das Vertrauen auf die zuvorkommende Liebe
Christi. Erst dann vollendet sich die Natur des Menschen, zu dessen
Wesen es gehört, in liebender Beziehung zu Gott und zum Mitmenschen zu leben. Hier liegt die innere Problematik des menschlichen
Naturbegriffs, der sich erst als Personalität überwindet und erfüllt.
Denn die bloße Natur des Menschen ist unabgeschlossen.
„Sein Dasein ist nicht „Natur” in dem Sinne, wie Pflanze und Tier es
sind. Er ist auf die Gnade, d.h. die personale Beziehung zum liebenden und schenkenden Gott hingeordnet. Mehr noch: in dieser Beziehung wird er erst jenes Wesen, das er nach Gottes Willen werden
soll. Erst darin ersteht seine eigentliche Natur (...) Die vollendete
Menschennatur ist Frucht der Gnade”37.
Im letzten Versuch einer Überarbeitung seiner Ethik-Vorlesungen notiert Romano Guardini einen kurzen, fast rätselhaften Satz,
der wie der Schlußpunkt seines ethisch-theologischen Denkens anmutet: „Aus dem Menschen wird ein Wesen, das es nicht gibt”38.
36
Ibid., Bd. II, aaO, 1088.
Ibid., 1208.
38 Ibid., 1263.
37
THEOLOGISCHE ETHIK ALS KONVERSION BEI ROMANO GUARDINI
163
Hier ist auf der Linie von Augustinus und Pascal in meisterhaft paradoxaler Form auf den Punkt gebracht, worauf es ankäme: einen
Punkt nämlich anzustreben, der jenseits von Raum und Zeit liegt,
der sich zwar in Raum und Zeit in der Lebensgestalt Jesu Christi offenbart, der aber seine vollendete Entfaltung erst in der Ewigkeit
Gottes erfährt. Es ist der Punkt, auf dem die ganze menschliche Existenz allein ruhen kann: die Liebe Gottes zum eigenen Selbst.
164
PETER SCHALLENBERG
SUMMARIES
The article is based on the fundamental ethical ideas of the German-Italian
theologian Romano Guardini (1885-1968): Christian ethics results from a personal, biographically-nurtured ethos. Guardini focuses often in his writings,
especially in his biography and in the ethics of St. Augustine and Blaise Pascal, on the movement of conversion with the aim of confrontation with Christ.
As a consequence of this confrontation, there is one fundamental ethical
question. How it is possible to live according to God´s will, how it is possible
to live in an authentic way a devoted love? These questions and possible answers can be exemplified not only by Guardini´s own life, but also by a paradigmatic glance on the Augustinian and Pascalian concept of ethics.
***
El autor parte de una idea fundamental de Romano Guardini, teólogo italo-alemán (1885-1968). Una ética propiamente cristiana proviene de un “ethos” personal, es decir, de una biografía madura y explícitamente comprendida como
vocación divina. Guardini se centra con frecuencia en su escritos, especialmente en aquellos acerca de su biografía y de la ética de San Agustín y Blaise
Pascal, en el movimiento espiritual de conversión que sale de sí mismo hacia
el encuentro con la persona de Jesucristo. Como consecuencia de este encuentro surge un interrogante ético fundamental: ¿es posible vivir en conformidad con la voluntad de Dios? ¿Es posible vivir de manera auténtica el amor
fiel? Esta cuestión y la posible respuesta no puede ser verificada sólo por la
propia existencia de Guardini, sino también por la visión paradigmática de
Agustín y de Pascal acerca de la ética.
***
L´articolo affronta uno dei temi centrali del pensiero del teologo di ambito italiano-tedesco Romano Guardini (1885-1968): Un’etica propriamente cristiana
proviene da un “ethos” personale, quindi da una biografia matura ed esplicitamente compresa come vocazione divina. Infatti, si tratta di un movimento
spirituale di conversione al di là di se stesso, verso la persona di Gesù Cristo
e verso l’incontro con lui. Davanti alla sua persona incarnata e reale emerge la
domanda di una vera e autentica decisione di vita, di una opzione fondamentale per il bene, di un’amore puro verso Dio e gli uomini. Guardini vede queste questioni come centrali non soltanto nella sua vita, ma anche nel pensiero etico di Sant`Agostino e di Blaise Pascal: l’etica teologica diventa così un’etica esistenziale e biografica.
L’ALTERNATIVA DELL’AZIONE CRISTIANA
DI MAX JOSEF METZGER
AL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
Aspetto sociale, pacifista ed ecumenico
Lubomir Žák*
Introduzione
La triste e sanguinosa storia del Terzo Reich, quella della sua costruzione politica e della sua espansione militare, è una storia tedesca
e insieme europea molto complessa, determinata dalla situazione
economico-politica generale creatasi in Europa dopo la prima guerra mondiale, ma anche dalle ambizioni nazionaliste di Adolf Hitler,
politico fanaticamente dedito al compito di far salire la Germania,
umiliata dagli accordi di pace di Versailles, sul piedistallo politico ed
economico, per farne il timoniere principale delle sorti dei popoli sia
del ‘vecchio continente’ che delle altre parti del mondo.
Tuttavia, non c’è dubbio che tale storia della nazione tedesca e tale azione politica del Führer sono contrassegnate in modo indelebile
dalla personalità di quest’ultimo, dalle sue visioni politico-sociali,
economiche, etiche e culturali, e soprattutto dalla suo stesso autocomprendersi come leader dotato di uno ‘straordinario carisma’ umano e politico.
Certo è che una simile autocomprensione porta i tratti di una chiara inclinazione verso l’autocelebrazione ‘messianica’1 e coincide con la
nascita e la diffusione di una vera e propria Weltanschauung ammanta* The author is a professor at the Pontifical Lateran University.
* El autor es profesor en la Pontificia Universidad Lateranense.
1
Tra i numerosi studi dedicati alle aspirazioni ‘messianiche’ di Hitler segnalo il recente saggio di M. DOLCETTA, Nazionalsocialismo esoterico: studi iniziatici e
misticismo messianico nel regime hitleriano, Cooper & Castelvecchi, Roma 2003.
StMor 46/1 (2008) 165-201
166
LUBOMIR ŽÁK
ta di simboli e di riti impregnati dall’alone pseudomessianico di Hitler, condiviso dai suoi collaboratori più vicini2.
Che l’azione politica del Führer avesse a che fare con l’elaborazione di una Weltanschauung ‘confezionata’ e propagata con il ricorso ad
una terminologia volutamente ‘religiosa’, è stato segnalato in Germania e in Europa da molti sin dalla pubblicazione, nel 1925, del Mein
Kampf e, nel 1930, del ‘catechismo nazionalsocialista’ di Alfred Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts. Eine Wertung der seelisch-geistigen Gestaltenkämpfe unserer Zeit3, un’opera che nel 1935 (!) giunse
2
La visione nazionalsocialista del mondo ebbe, infatti, la funzione e la finalità di una Ersatzreligion, con una pretesa totalitaria sull’anima dell’uomo tedesco. Tale progetto, non apertamente dichiarato ma perseguito da Hitler e dai
suoi seguaci, mirava a sostituire la fede delle confessioni cristiane tradizionali.
Ciò spiega il fenomeno che si riscontra fin dagli albori del movimento nazista:
il moltiplicarsi dei tentativi di rivestire i concetti e le celebrazioni del partito del
Führer e del Terzo Reich con elementi desunti dalla religione cristiana. «Questi tentativi furono compiuti da personalità di spicco del nazionalsocialismo come Richard Walter Darré, Baldur von Schirach, capo supremo della Hitlerjugend, e Heinrich Himmler, capo delle SS. Himmler, ad esempio, oltre a ispirarsi all’ideale dei cavalieri teutonici, costituì le SS sul modello della Compagnia di
Gesù. Gli statuti che regolavano il servizio e gli esercizi spirituali della Compagnia formavano un modello che Himmler cercava di copiare diligentemente per
la formazione delle SS come strumento di assoluta elezione della nuova ‘fede tedesca’» (S. FALASCA, Un vescovo contro Hitler. Von Galen, Pio XII e la resistenza al
nazismo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, 96). Cfr. H. HÜRTEN, Deutsche Katholiken: 1918-1945, Schöningh, Paderborn-München-Wien-Zürich 1992 (in
particolare il cap.: Nationalsozialismus als Religion, 299-314).
3 Le idee di Rosenberg, sviluppate in Der Mythus, costituirono «il cuore della Weltanschauung nazista e Hitler le appoggiava in pieno, anche se non sempre le
sue teorie venivano ufficialmente proclamate» (G. LEWY, I nazisti e la Chiesa,
Net, Milano 2002, 228). Il 21 gennaio 1934 Rosenberg venne incaricato dal Führer della sorveglianza di tutta la direzione e l’educazione ‘spirituale’ e ideologica
del partito nazionalsocialista e delle associazioni ad esso collegate. La vergognosa manipolazione del cristianesimo da parte di Rosenberg e del suo libro fu denunciata, tra gli altri, dal vescovo von Galen di Münster, il quale, in un messaggio diretto ai fedeli (nel 1934), scrisse: «Una nuova nefasta dottrina totalitaria che
pone la razza al di sopra della moralità, pone il sangue al di sopra della legge (...)
ripudia la rivelazione, mira a distruggere le fondamenta del cristianesimo. (...)
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
167
alla cinquantaduesima edizione. Tra gli uomini e le donne del mondo
della scienza della cultura e della Chiesa seriamente preoccupati per le
conseguenze provocate nella società tedesca dalla rapida e ampia diffusione di questi due saggi e, in seguito, per il conseguente orientamento della politica interna ed estera del Terzo Reich secondo le idee
ivi esposte, va annoverato anche Max Josef Metzger (1874-1944), teologo e sacerdote, pioniere del movimento pacifista cristiano e dell’ecumenismo cattolico4. Il suo nome viene spesso citato tra i protagoni-
Con un linguaggio oscuro, ad essi proprio, parlano di un nuovo mito (...). È un
inganno religioso. A volte accade che questo nuovo paganesimo si nasconda perfino sotto nomi cristiani... Questo attacco anticristiano che stiamo sperimentando ai nostri giorni supera, in quanto a violenza distruttrice, tutti gli altri di
cui abbiamo conoscenza dai tempi più lontani» (citato in S. FALASCA, Un vescovo contro Hitler, 97). Riguardo a Rosenberg si veda: G. MAY, Kirchenkampf oder
Katholikenverfolgung? Ein Beitrag zu dem gegenseitigen Verhältnis von Nationalsozialismus und christlichen Bekenntnissen, Christiana-Verlag, Stein am Rhein 1991.
4 Metzger nacque il 3 febbraio 1887 a Schopfheim (Baden) primo di quattro
figli. Frequentò le scuole elementari e medie sotto la guida del padre che era un
insegnante. Dopo la conclusione degli studi liceali a Donaueschingen, Lörrach
e Konstanz decise di studiare teologia a Freiburg im Breisgau, per diventare sacerdote. Negli anni 1908-1910 studiò all’Università di Feibourg in Svizzera, dove conseguì il dottorato con la dissertazione Zwei Karolingische Pontifikalien vom
Oberrhein (Herdersche Verlagshandlung, Freiburg im Br. 1914), ottenendo il
premio per la miglior tesi. Nel 1911 fu ordinato sacerdote, lavorando come cappellano nelle parrocchie a Karlsruhe-Mühlburg, Mannheim e OberhausenBreisgau. Dopo l’esperienza sul fronte (nel 1915) si trasferì con il permesso del
vescovo in Austria, dove divenne attivo come pubblicista e una delle guide del
movimento sociale e pacifista cattolico. Dal 1927 visse in Germania (a Meitingen; più tardi a Berlino), partecipando attivamente al movimento liturgico.
Metzger è autore di numerosi saggi dedicati alle tematiche teologiche (liturgia,
ecclesiologia), sociali, pacifiste ed ecumeniche. Per una presentazione più dettagliata della sua persona e della sua opera cfr. M. MÖHRING, Täter des Wortes. M.
J. Metzger-Leben und Wirken, Kyrios-Verlag, Meitingen-Freising 1966; K. DROBISCH, Wider den Krieg. Dokumentarbericht über Leben und Sterben des katholischen
Geistlichen Dr. Max Josef Metzger, Union Verlag, Berlin 1970; L. SWIDLER,
Bloodwitness for Peace and Unity. The Life of Max Josef Metzger, Ecumenical PressDimension Books, Philadelphia-Denville 1977 (il saggio è pubblicato integralmente anche sull’hurl http://global-dialogue.com/swidlerbooks/metzger.htm).
168
LUBOMIR ŽÁK
sti del Widerstand tedesco contro Hitler e la politica nazionalsocialista
del Reich, ma finora poco ancora è stato fatto, da parte degli studiosi,
per rilevare i tratti peculiari della sua azione di opposizione. Il fatto è
che il suo Widerstand non mirava né ad un sabotaggio diretto o indiretto del sistema economico, militare o politico del Reich, né all’eliminazione fisica di Hitler, né al voler denunciare pubblicamente – come faceva dal 1933 il coraggioso Clemens August von Galen, vescovo
di Münster – le barbarie antidemocratiche del partito nazionalsocialista. Metzger ha semplicemente cercato di contrastare il Führer proprio in quel punto nevralgico del suo pensiero e della sua azione, che
coincideva con l’ideologia pseudomessianica, incluse le sue implicazioni etiche, annunciando apertamente la necessità di una Weltanschauung alternativa di matrice squisitamente cristiana.
1. Un solo Führer, un solo Reich, un solo sangue
È noto che Hitler, soprattutto dopo l’ascesa al potere nel 1933,
esternò in molte occasioni la persuasione di avere un destino personale e una missione messianici5. Tale autocomprensione, però, emerse già nel Mein Kampf, concepito come una sorta di ‘buona novella’
che intendeva annunciare l’arrivo di ‘tempi nuovi’. Basta sfogliare le
prime pagine di questo libro per rendersi conto del taglio ‘religioso’
o, meglio, pseudoreligioso conferitogli dall’autore. Colpisce subito
F. POSSET, Krieg und Christentum. Katholische Friedensbewegung zwischen dem Ersten und Zweiten Weltkrieg unter besonderer Berücksichtigung des Werkes von Max Josef Metzger, Kyrios-Verlag, Meitingen-Freising 1978; R. PUTZ, Das ChristkönigsInstitut, Meitingen, und sein Gründer Dr. Max Josef Metzger (1887-1944). Für den
Frieden der Welt und die Einheit der Kirche, Theos, Hamburg 1998. H. LIPP, Max
Josef Metzger. Prophetischer Märtyrer, Topos plus, Dortmund-Regensburg 2007. Si
veda, inoltre, il mio “«Scomodo profeta di un mondo migliore». Max Josef Metzger e una nuova visione della Chiesa e dell’Europa”, in M. J. METZGER, La mia
vita per la pace. Lettere dalle prigioni naziste scritte con le mani legate, tr. it. a cura di
L. Žak, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008, 9-80, con la bibliografia (81-86).
5 Cfr. M. DOLCETTA, Nazionalsocialismo esoterico, 167ss.
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
169
l’analogia in Hitler tra il concetto di religione e quello di nazione,
con la quale non solo eleva il secondo al rango del primo ma, addirittura, riconosce in esso una dimensione strutturalmente religiosa.
Come la realtà della religione si fonda sulla fede, proponendo una sua
concezione del mondo, così anche la realtà nazionale si fonda su una
«decisa fede politica», organizzando le proprie idee «in forma più o
meno dogmatica»6.
Come la religione porta alla nascita di una comunità orientata secondo determinate leggi, così anche la nazione necessita di un unico partito con principi indiscutibili che costituiranno le «leggi statali della comunità di un popolo»7.
La nazione, come la religione, è proiettata verso la verità eterna:
la sua lotta politica nazionale è una lotta che si concluderà con «la
vittoria della verità eterna»8.
Sono ben note le idee razziste e le mistificazioni dell’homo germanicus che accompagnano una simile concezione. Secondo Hitler –
che intende interpretare il volere di Dio –, il futuro del mondo è legato alla (e dipende dalla) creazione di «una superiore civiltà umana». E tale costruzione è il compito della nazione tedesca, ossia del
popolo di Ario, la cui organizzazione in un unico Stato, un unico
Reich, deve facilitarne la missione. Infatti, il «fine ultimo dello Stato nazionale è quello di serbare quegli elementi di razza originari
che, come datori di civiltà, creano la bellezza e la nobiltà di un’umanità superiore».
Per dirla con le altisonanti parole di Hitler:
«Noi Ariani, in un’organizzazione Statale possiamo soltanto vedere il
complesso vivente di una nazione: complesso che non solo garantisce
il prolungarsi nel tempo di questa nazione, ma la porta alla suprema
libertà evolvendone le qualità spirituali ed intellettuali»9.
6
A. HITLER, Mein Kampf, tr. it., La Lucciola ed., Albairate 1992, 9 e 13.
Ibid., 9.
8 Ibid., 13.
9 Ibid., 20-21.
7
170
LUBOMIR ŽÁK
Ciò che ora, però, ci interessa rilevare è in particolare che l’Autore del libro mette in relazione l’attuazione di un tale futuro con la
comparsa di un uomo dai tratti messianici che egli identifica, seppur
indirettamente, con la sua stessa persona.
Per introdurre e descrivere questo evento ‘salvifico’, Hitler adopera espressioni che sembrano richiamare alle celebri profezie messianiche presenti nel Libro di Daniele o nell’Apocalisse. Egli fa capire che il futuro ariano del mondo consiste nella fedeltà ad un’idea
immortale che, come ‘stella polare’, deve adattarsi alle debolezze dell’umanità. Per questo, però, è necessario che all’uomo, che ricerca
una simile idea e intende seguirla come verità,
«deve unirsi l’uomo che ha piena cognizione della psiche del popolo
per trarre dal regno della verità perpetua e dell’ideale ciò che è umanamente possibile a noi veri mortali, e formarlo»10.
È necessario, perciò,
«che dalla massa di milioni di uomini che hanno più o meno chiaramente presentimento o la comprensione di queste idee emerga un uomo. Tale uomo dovrà, con vigore incontestabile, assieme alle fluttuanti idee della grande massa formare principi ferrei e guiderà la lotta per attuarli finché, dalle onde di un mare e di idee libere, si alzi la
rupe bronzea di un’unità di fede e volontà»11.
Secondo Hitler, tre sono le principali caratteristiche che deve avere tale uomo messianico: dev’essere, insieme, un idealista, un organizzatore e un condottiero12. Riconoscendo nella propria persona la
presenza di queste tre importanti qualità, all’Autore del libro non rimaneva altro che scegliere un percorso politico adatto alle sue aspirazioni messianiche.
10
Ibid., 10.
Ibid., 10.
12 Cfr. ibid., 165.
11
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
171
Nello stesso momento in cui Hitler, con l’aiuto di Rudolf Hess e
Karl Haushofer, è impegnato nella stesura del suo programmatico libro, Metzger si dedica in Austria ad un’ampia attività sociale e culturale-formativa. Anche lui, come Hitler, ha fatto l’esperienza – da cappellano militare – della Grande Guerra ed è tornato convinto della
necessità per il popolo tedesco di un radicale cambiamento dell’andamento della politica nazionale e internazionale, ragionando, però,
in termini del tutto diversi rispetto all’Autore del Mein Kampf. Secondo il parere di Metzger, cioè, andava riscoperta la figura e l’ideale ‘politico’ di Colui che il cristianesimo confessa come Messia, Gesù di Nazareth, assieme al suo Reich di giustizia e di pace. Quando
nel 1924 Hitler si trova in carcere – dopo il putsch di Monaco sventato dalla polizia – e scrive il suo libro, Metzger pubblica sulle pagine del giornale Katholischer Missionsruf l’articolo intitolato Wir brauchen einen Monarchen (Abbiamo bisogno di un monarca), in cui – preoccupato del disorientamento della società tedesca, ma anche della progressiva diffusione del mito del Führer e delle idee nazionalsocialiste
di quest’ultimo – invita a tornare verso il trono della ‘politica evangelica’ di Cristo: essa, ne è convinto, contiene i principi basilari, universalmente validi, di ogni convivenza umana e come unica può garantire un futuro per il popolo tedesco e per i popoli europei.
Come direttore e capo redattore di alcuni giornali religiosi austriaci e tedeschi, Metzger osserva attentamente il corso della politica, pubblicando numerosi articoli, suoi o dei suoi collaboratori, con titoli come: Was brauchen wir für einen Führer (Di quale guida abbiamo bisogno)13, Es lebe der König! (Viva il Re!)14, Er muß König sein! (È Lui che
deve essere il Re)15, Friede dem deutschen Volke! (Pace al popolo tedesco)16,
Wir rufen zum Kreuzzug (Invochiamo la crociata)17 o Was ist Heidentum?
(Cosa è il paganesimo?)18, titoli che – anche dopo il fatale 1933 – mani13
Cfr. Katholischer Missionsruf IX/11 (1927) 162-163.
Cfr. Christkönigsbote II/1, 4 (1930) pp. 1-2.
15 Cfr. Christkönigsbote II/10, 13 (1930) 1-3.
16 Cfr. Christkönigsbote 52 (1934) 1.
17 Cfr. Christkönigsbote 55 (1934) 1-3.
18 Cfr. Christkönigsbote 64 (1935) 1.
14
172
LUBOMIR ŽÁK
festano la presenza di uno sguardo, sulla realtà del popolo tedesco e
sul suo futuro, diverso rispetto a quello sempre più diffuso del crescente partito di Hitler.
Non bisogna pensare che la proposta politica di Metzger nasca
semplicemente dalla nostalgia di chi rimpiange il tramonto del mito
dell’Abendland, sperando in una sua ricomparsa19. Dietro le visioni
del sacerdote e teologo, infatti, si cela un esplicito invito ad un’interpretazione alternativa della situazione socioculturale e politica della
nazione tedesca, diametralmente opposta a quella del nazionalsocialismo, assieme ad un’interpretazione alternativa degli ideali di impronta pseudomessianica che iniziano ad affascinare le masse degli
assetati di una nuova Weltanschauung legata alla promessa dell’attuazione di un nuovo ordine sociale. Metzger sa che una delle parole
chiave dello pseudomessianismo di Hitler è quella del ‘sangue’. Secondo l’Autore del Mein Kampf, il futuro migliore della Germania e
del mondo è legato al dominio di un «sangue migliore»20. Tale dominio, però, potrà verificarsi solo se la nazione tedesca riuscirà a salvaguardare «l’unità di sangue»21, impedendo il mescolamento con il
sangue delle razze inferiori, mescolamento che imbastardisce la razza superiore. Stupefatto di fronte ad un simile pensiero, Metzger insiste sulla purezza di un unico sangue, quello di Gesù di Nazareth, il
Cristo, sottolineando allo stesso tempo la consanguineità, in e per
mezzo di Cristo, di tutti i seguaci del Re dei giudei. Sì, è giusto dire
che il futuro del mondo consiste nel dominio del ‘sangue migliore’,
ma soltanto se con ciò s’intende il versamento del ‘sangue santo’ del
Messia che, del tutto innocente, è venuto per rivelare ad ogni uomo
la sua originaria dignità e appartenenza reale, la sua figliolanza divi-
19
Da questo punto di vista mi discosto dal parere di Dagmar Pöpping che
annovera Metzger tra gli accademici (di confessione protestante e cattolica) impegnati con nostalgia e preoccupazione, nella prima metà del ‘900, nella salvaguardia dell’Abendland; cfr. il paragrafo “Der Weg Max Josef Metzgers in den
Widerstand”, in D. PÖPPING, Abendland. Christliche Akademiker und die Utopie
der Antimoderne 1900-1945, Metropol, Berlin 2002, 187-199.
20 A. HITLER, Mein Kampf, 17.
21 Ibid., 23; cfr. anche 26-27, 63.
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
173
na e, quindi, ad inaugurare i tempi di una grande fratellanza universale. Per questo Metzger lancia ripetutamente, nei suoi numerosi articoli, con enfasi il motto: «Cor Iesu Eucharisticum Oportet Te Regnare». E, sottolineando l’origine ebraica di Gesù, aggiunge:
«Orsù, afferriamo la Sua bandiera! È la bandiera della giustizia, dell’amore e della pace. [...] Sia Lui ad essere sempre il Re nella comunità, nello Stato e nella società. Perché tutti i partiti e i gruppi, tutte
le classi e le razze, tutti i popoli e tutte le nazioni si possano incontrare per mezzo Suo in una grande comunione del servizio reciproco, in una grande comunità di giustizia, di amore e di pace!»22.
2. Per un’educazione alla pace e per un’Europa unita
Sin dal 1915 Metzger si schiera apertamente contro la guerra vista come unica soluzione delle tensioni tra i popoli23, iniziando un’intensa collaborazione con Johannes Ude24, professore di teologia morale e convinto pacifista, molto attivo in Austria. Così facendo, egli
rafforza la voce debole ma autorevole dei pacifisti cristiani europei,
tra cui quella di Friedrich Wilhelm Foerster25. Trasferendosi nel
22
M. J. METZGER, “Wir brauchen einen Monarchen”, in Katholischer Missionsruf 10 (1924) 2.
23 Una dettagliata presentazione del pacifismo di Metzger si trova nel già citato saggio di F. POSSET, Krieg und Christentum; per uno sguardo di sintesi si vedano i contributi presenti in R. FENENBERG – R. ÖHLSCHLÄGER (edd.), Max Josef Metzger. Auf dem Weg zu einem Friedenskonzil, Akademie der Diözese Rottenburg-Stuttgart, Stuttgart 1897; W. DIRKS (ed.), Die Aufgabe der Christen für
den Frieden. Max Josef Metzger und die christliche Friedensarbeit zwischen den Weltkriegen, Verlag Schnell & Steiner, München-Zürich 1987.
24 Secondo Posset, fu Ude ad aver convertito Metzger definitivamente al pacifismo. Cfr. F. POSSET, Krieg und Christentum, 333-334.
25 F. W. Foerster (1869-1966), docente di filosofia e di pedagogia morale alle Università di Zurigo, Monaco e Vienna. Sin dai tempi della Grande Guerra
divenne molto critico nei confronti della politica militare della Germania. Attaccato duramente per le sue idee politiche ed etiche dai circoli nazionalsocialisti,
174
LUBOMIR ŽÁK
1915 a Graz, Metzger inizia a diffondere le idee pacifiste, utilizzando per questo scopo le sue spiccate doti oratorie e soprattutto la sua
abilità di scrittore. Alla luce dell’esperienza personale (da piccolo
aveva subìto un indottrinamento nazionalista), nel 1916 decide di
pubblicare periodicamente due riviste per ragazzi austriaci e tedeschi,
in quel tempo investiti dai furiosi venti di guerra e dalla propaganda
nazionalista, ma anche feriti dalle spesso drammatiche situazioni familiari causate dalla presenza, sul fronte, dei parenti più vicini. Tale
decisione scaturisce dalla convinzione secondo cui il problema della
guerra e della pace è anche un serio problema di educazione. Gli articoli del giovane Max vogliono insegnare a pensare e a vivere secondo una mentalità nuova, veramente europea e veramente cristiana,
completamente diversa da quella del fanatico patriottismo senza coscienza. Ecco perché, tra le altre cose, invita i ragazzi a studiare l’esperanto, da lui compreso come lingua di un mondo unito e solidale26. Per incoraggiare i suoi giovani lettori, introduce nella Katholische
Jugendzeitung una rubrica dove spiega in modo semplice e comprensibile la grammatica dell’esperanto, scrivendo in tale lingua brevi racconti facili da decifrare. Ma la sua azione pacifista mira, ovviamente,
anche verso il cuore degli adulti. Metzger utilizza a tale scopo le riviste e i giornali cattolici (Österreichs Kreuzzug, Katholischer Missionsruf, Ruf, Friedensherold, Christkönigsbote, Die neue Zeit), di cui egli è il
direttore o il capo redattore; per non parlare delle numerose brossuabbandonò nel 1920 la cattedra (a Monaco), trasferendosi in Svizzera e, più tardi, in Francia. Dopo la salita al potere del nazionalsocialismo di Hitler nel 1933
furono bruciati pubblicamente i suoi libri, considerati opera di un ‘traditore’ del
popolo tedesco. Nel 1940 emigrò negli Stati Uniti. Metzger fu attratto dalle
idee pacifiste di Foerster sin dagli studi all’Università di Fribourg (in Svizzera).
Tra le opere di Foerster ricordiamo: Weltpolitik und Weltgewissen, Verlag für Kulturpolitik, München 1919; Mein Kampf gegen das militaristische und nationalistische Deutschland, Verlag Friede durch Recht, Stuttgart 1920; Europe and the German Question, Sheed & Ward, New York 1940. Su di lui: M. HOSCHEK, Friedrich
Wilhelm Foerster (1869-1966). Mit besonderer Berücksichtigung seiner Beziehungen
zu Österreich, Peter Lang Verlag, Frankfurt am Main 20023.
26 Cfr. U. LINS, Max J. Metzger und Esperanto, in http://home.arcor.de/gmickle/metzger1de.html.
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
175
re che divulgavano le sue conferenze pubbliche sul tema della pace e
sui temi connessi.
Le idee di Metzger, soprattutto dopo la Grande Guerra, non piacciono a molti. Il sacerdote tedesco, però, è fermamente convinto delle sue ragioni pacifiste ed europeiste. Ad un anno dalla conclusione
del primo conflitto mondiale, in un breve ma profetico articolo intitolato Das neue Europa (La nuova Europa), si rivolge ai lettori con le
seguenti parole:
«Deve rinascere una nuova Europa che, diversamente da quella vecchia, non avrà più ambizione di espandere il potere, ingrandire il territorio e cose simili. Un’Europa, che metterà insieme i popoli racchiudendo in una grande unione pacifica gli interessi comuni e l’impegno di tutti nella soluzione dei comuni problemi... Quest’unione
degli Stati d’Europa verrà, dovrà venire. Perché se non la forgeranno
insieme la comprensione e gli ideali, essa sarà saldata dall’egoismo e
dalla paura. Infatti, il perpetuarsi della stessa identica situazione che
portò alla guerra, la perdurante anarchia nella vita comune dei popoli europei potranno causare, in un prossimo futuro, una nuova guerra. Il che significherebbe indubbiamente la fine dell’Europa. L’unione pacifica degli Stati dovrà esserci. Ed essa ci sarà tanto più velocemente, quanto più si sarà rapidi nel convincere tutti i popoli della sua
necessità, e quanto più si riuscirà a fissare i fondamenti che potrebbero garantire la pace dell’Europa»27.
Va ricordato che l’impegno pacifista di Metzger oltrepassa le frontiere della Germania e dell’Austria. Ancora nel 1917 pubblica un articolo intitolato Rassenhaß oder Völkerfriede (Odio razziale oppure pace
dei popoli?), al cui interno inserisce un Programma di pace28 che, in seguito, diventerà il punto di riferimento per alcune nascenti istituzio-
27
M. J. METZGER, “Das neue Europa”, in Die neue Zeit I/10 (1918) 69.
Il Programma fu ripubblicato in M. J. METZGER, “Rassenhaß oder Völkerfriede”, in ID., Friede auf Erden. Ein Aufruf zur Völkerversöhnung, Volksheil, Graz
1918; cfr. la sua trad. italiana in M. J. METZGER, La mia vita per la pace, 255-257.
28
176
LUBOMIR ŽÁK
ni pacifiste sia tedesche che internazionali. Il Programma, che definisce in modo sintetico i presupposti necessari per una convivenza pacifica tra le nazioni, viene inviato anche a Benedetto XV, il quale lo
saluta come un’importante iniziativa in sintonia con i suoi stessi sforzi di fermare la guerra29. Eppure, nonostante Metzger cerchi di ideare altre numerose iniziative pacifiste, egli si rende dolorosamente
conto di essere uno dei pochi a occuparsi del problema della pace e a
considerarlo un problema cruciale per il futuro dei popoli d’Europa.
Allo stesso tempo, però, sin dal concludersi della Grande Guerra, inizia ad avere la netta percezione dell’avvicinarsi di una nuova catastrofe. Ne parla anche pubblicamente, come ad esempio all’Aia nel
1929, dove tiene una relazione in occasione della Giornata dell’opposizione contro il servizio militare, affermando:
«Il cielo della sera della storia mondiale è ancora coperto dalla coltre
di esalazioni del sangue della prima guerra mondiale, la più tremenda e più brutale di tutta la storia, e già il cielo mattutino sembra colorarsi con un nuovo rosso sangue. L’umanità non ha imparato niente. È rassegnata nella sua pigra letargia ad aspettare una nuova, ultima guerra che porterà alla distruzione dell’Europa»30.
Sotto la pressione di una simile consapevolezza Metzger cerca di
intensificare la sua attività di defensor pacis, e perciò inizia a instaurare rapporti di collaborazione con i pacifisti all’estero. Conosce Marc
Sangnier31 e partecipa dal 1917 al 1929 a quattordici convegni internazionali di pace, tra i quali, nel 1921, l’importante Congrès démocratique international organizzato a Parigi. È soprattutto qui che il
nome di Metzger s’iscrive nella memoria di molti: sia perché è il primo tedesco, dopo la fine della prima guerra mondiale, a tenere un
discorso pubblico sul suolo francese; sia perché il suo carisma di ora-
29
Cfr. M. MÖHRING, Täter des Wortes, 217.
M. J. METZGER, “Menschen aller Staaten, vereinigt Euch”, in Ruf IV/7
(1929) 1.
31 Cfr. F. POSSET, Krieg und Christentum, 186-198.
30
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
177
tore e le sue idee pacifiste conquistano i cuori dei presenti, attirando l’interesse della stampa francese32. Tuttavia, l’attività pacifista del
sacerdote e teologo tedesco ha un’espressione ancora più ampia. Diventa membro dell’Unione internazionale di riconciliazione e, soprattutto, cofondatore nel 1920 dell’Internazionale cattolica (IKA), unita
all’Internacia Katolika Unuigo Esperantista, associazione olandese di
esperanto.
Nonostante l’intenso impegno nel diffondere l’idea della pace, il
progressivo avvicinamento di Metzger ai variegati ambienti del pacifismo europeo conferma in lui una duplice percezione: la spinta più
decisiva verso un pacifismo vero ed efficace potrà arrivare solo da
parte del Cristianesimo, depositario degli ideali etici e pacifisti più alti; purtroppo, i convinti pacifisti cristiani e cattolici sono troppo pochi, e inoltre vengono poco seguiti e sostenuti dalle comunità ecclesiali e dai gerarchi. Guidato da tale percezione, di fronte al crescente pericolo della nuova guerra, Metzger si rivolge ai fratelli e alle sorelle nella fede con l’articolo Ich suche... (Io cerco...), pubblicato paradossalmente nello stesso anno della stesura dell’aberrante Mein
Kampf. Richiamandosi all’esempio dell’eccentrico filosofo Diogene
di Sinope, Metzger scrive come uno che cerca, con la lanterna in mano e alla luce del sole, uomini «che pensano ragionevolmente e giudiziosamente, che non si lasciano ingannare dallo stupido gioco di
prestigio dei seduttori e truffatori della politica e dell’economia»33.
Mutando le parole di Diogene, egli esclama:
«Io cerco i cristiani! Sì, io cerco i cristiani che si oppongono alla pazzia di questo mostro che con freddezza sta preparando l’arrivo della
guerra. Io cerco i cristiani che con calma si lasciano dire che sono
sciocchi, perché rimangono in minoranza rispetto ai credenti nella
violenza, che ingannano il povero popolo. Io cerco i cristiani che sanno perché sono cristiani e che, perciò, antepongono le realtà eterne a
quelle temporali: Dio allo Stato, la Verità alla patria, la giustizia ai
32
33
Cfr. M. MÖHRING, Täter des Worte, 67-68.
M. J. METZGER, “Ich suche...”, in Katholischer Missionsruf 8 (1924) 1.
178
LUBOMIR ŽÁK
propri interessi. Io cerco i credenti che credono nell’amore, nella pace di Cristo, nel Suo Regno, nella vittoria di Dio nel mondo, e che
per tali ideali offrono anche l’ultima cosa che possiedono e sono
pronti a dare anche la propria vita»34.
3. Lavorare per un ‘nuovo ordine’ sociale
Fa parte di tale visioni di Metzger l’idea di un inevitabile cambiamento del sistema economico e dell’ordine sociale in Austria, in Germania e in altri Stati europei; cambiamento che, a suo avviso, deve
coinvolgere i cristiani per far nascere un nuovo e più giusto sistema
economico e sociale che, unico, può garantire la pace35. Il Cristianesimo, però, ha in sé la forza di offrire un simile contributo? È in grado di passare alla società quella luce di cui essa ha un imminente bisogno? Metzger è turbato da tali domande, intravedendo attorno a sé
pochi esempi concreti di un Cristianesimo vissuto secondo uno spirito veramente evangelico. È proprio a causa di questa mancanza di
esempi – scrisse in un articolo intitolato Rückgewinnung des Proletariates (Riconquista del proletariato) – che molti, soprattutto gli operai,
non vogliono «sentir parlare più della Chiesa»36. E constata: «Si deve purtroppo onestamente ammettere che da parte nostra, sia come
singoli che in generale, sono stati fatti molti errori»37. Eppure, niente o solo poco sembra preannunciare un cambiamento di rotta. Nemmeno quando, più tardi, in Germania scoppia la grande crisi economica, lasciando sulla strada più di un milione di disoccupati con le loro famiglie. Toccato da un’emergenza di tali proporzioni, Metzger
34
Ibid., 1-2.
Secondo Fenenberg, Metzger giunse a elaborare una vera e propria ‘teologia politica’, finora purtroppo poco conosciuta e studiata. Cfr. R. FENEBERG,
“Max Josef Metzger – ein politischer Theologe”, in R. FENENBERG – R.
ÖHLSCHLÄGER (edd.), Max Josef Metzger, 3-19.
36 M. J. METZGER, “Rückgewinnung des Proletariates”, in Katholischer Missionsruf VIII/3 (1926) 34.
37 Ibid., 34.
35
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
179
alza la voce nei giornali contro i cristiani e i cattolici insensibili alla
sfortuna dei loro fratelli nella fede, indisposti a condividere i propri
beni. E punta il dito anche contro i ‘capi della Germania cattolica’,
perché non si sono mossi per invitare i cattolici tedeschi a fare un
comune gesto di generosa carità per soccorrere insieme i bisognosi.
La posta in gioco di una simile indifferenza umana e religiosa e dell’assenza di un sentire comunionale è alta e perciò occorre decidere:
«O mezzo-Cristianesimo dei discorsi vuoti, sotto-Cristianesimo della
vigliaccheria, o Cristianesimo totale dei gesti di un sacrificio cristiano.
Da questa decisione dipende il futuro del mondo e della Chiesa»38.
Non decidere per la seconda eventualità significa, per Metzger,
privare il mondo di ogni speranza, ma prima ancora tradire, come
cristiani e come Chiesa, le proprie origini evangeliche. Ma optare
per il Cristianesimo ‘totale’ richiede una svolta radicale verso lo spirito autentico dei primi cristiani, davanti ai quali i loro contemporanei esclamavano con stupore: «Guardate, come si amano a vicenda!»39. Quello che stupiva gli uomini nei tempi del nascente Cristianesimo e che – secondo Metzger – può stupirli ancora, rivoluzionando positivamente la società, è il ‘comunismo’ dei primi cristiani, la loro ‘comunionalità’. Il ‘comunismo’ puro e splendido dei
primi cristiani,
«che si privavano dei loro beni e che deponevano tutto ai piedi degli
apostoli, mettendolo nella cassa della comunità perché se ne potesse
distribuire a tutti, affinché non vi fosse nessun bisognoso tra quelli
che, in quanto figli di un unico Padre celeste, erano una comunità di
fratelli e sorelle»40.
38
M. J. METZGER, “Die fehlende Million!?”, in Ruf 58 (1931) 1.
Cfr. M. J. METZGER, “Seht, wie sie einander!”, in Katholischer Missionsruf
9 (1922) 1.
40 M. J. METZGER, „8 Tage Kommunismus”, in Ruf I/3 (1926) 1.
39
180
LUBOMIR ŽÁK
Un ‘comunismo’ evangelico che nella storia del cristianesimo è
stato predicato e messo in pratica da molti altri. Egli spiega:
«Si tratta sempre dello stesso comunismo cristiano quando i cristiani, per amor di Cristo, rinunciano al possesso e al piacere di ogni tipo, volendo essere uguali ad altri fratelli in Cristo, per poter entrare
in comunione con loro. O quando teologi cattolici durante le vacanze vanno a lavorare come operai nelle fabbriche per condividere la
sorte dei loro fratelli. O quando studiosi cattolici vanno da un posto
all’altro per condividere altruisticamente le conoscenze che hanno
potuto acquisire in lunghi anni di studio, condividendole con quelli
che non avevano la fortuna di poter studiare. È il comunismo cristiano, quando le persone benestanti non considerano le loro ricchezze un avere di cui possono disporre liberamente ed esclusivamente, ma una proprietà di Dio destinata, grazie ad un loro disinteressato impegno, al servizio della società. È il comunismo autenticamente cristiano, quando colui che viene benedetto ricevendo una
grande fortuna rinuncia per amor di Cristo a tutti i privilegi e posizioni dovuti a tale ricchezza, per poter coltivare la piena comunione
con coloro che devono provvedere ai propri bisogni quotidiani disponendo soltanto di ciò che sono riusciti a guadagnare grazie al loro
lavoro di ogni giorno»41.
Metzger è convinto che una simile visione del Cristianesimo e
della Chiesa non è affatto un’utopia, e che essa indica una strada che
va imboccata obbligatoriamente: sia per riportare i cristiani al cuore
di un’esperienza autentica di fede, sia per contrastare le soluzioni del
grave problema sociale offerte, con sempre maggiore insistenza, da
parte dell’industria bellica e di una politica incline alla corsa agli armamenti. Allo stesso tempo è persuaso di dover offrire l’esempio
concreto di un ‘comunismo’ cristiano ecclesiale che può convincere
e trainare i credenti di tutte le estrazioni, contribuendo in modo decisivo al rinnovamento sociale e culturale della società. Ed è, infatti,
41
Ibid., 2.
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
181
per fare un passo in questa direzione che Metzger, in collaborazione
con l’amico Wilhelm Impegoven, fonda nel 1919 a Graz la Società
missionaria della Croce Bianca che più tardi assumerà il nome di Societas Christi Regis. La sua ambizione è di fondare una comunità di tipo
nuovo. Non, cioè, un ordine religioso tradizionale, ma una sorta di
movimento internazionale aperto ai laici, sposati o meno, alle donne
e agli uomini, agli intellettuali e ai lavoratori, ai colti e alle persone
semplici, tutti reciprocamente uniti nello spirito del ‘comandamento nuovo’ di Gesù, con il desiderio di essere insieme una cellula vivente destinata al rinnovamento della Chiesa e del mondo.
Egli scrive:
«Lo spirito della comunità dev’essere quello dei primi cristiani, così
come viene presentato negli Atti degli apostoli; cioè lo spirito della
comunità protocristiana, dell’amore fraterno e della prontezza quotidiana nell’aiutarsi; lo spirito della fede in grado di sacrificarsi, della
semplicità e della sobrietà»42.
Metzger, che tra i suoi vuol essere chiamato fratel Paulus (per sottolineare così la sua grande stima nei confronti dell’Apostolo delle
genti)43, è persuaso che soltanto una comunità ecclesiale capace di
custodire e testimoniare lo spirito dei primi cristiani offra un contributo valido, autenticamente cristiano, alla costruzione della pace tra
i popoli. Lo spirito di chi
«vede nel prossimo, anche nel cittadino di uno Stato straniero e in
chi parla una lingua straniera, prima di tutto un fratello, aprendo a lui
amichevolmente il cuore e la porta; di chi professa coraggiosamente
la fraternità di tutti gli uomini con le adeguate soluzioni delle questioni economiche e sociali, con il superamento del capitalismo
42
Proposta di Statuto, del 1923, nell’Archivio del Christkönigs-Institut a
Meitingen (=AM).
43 Cfr. G. REIMANN, “Zur Einführung”, in M. J. METZGER, Für Frieden und
Einheit. Briefe aus der Gefangenschaft, Kyrios-Verlag, Freising 19643, XII-XIV.
182
LUBOMIR ŽÁK
odierno e, insieme, con la soluzione del problema sociale internazionale e di quello dell’unione dei popoli e della pace tra di essi»44.
Da parte sua Metzger non nasconde l’intenzione di voler servire
con la sua comunità alla propagazione di tale spirito protocristiano
per dare vita ad un movimento di ampie proporzioni e riunire tutti
quelli che, «diversamente dalla ‘Chiesa dormiente’ e dalle masse disordinate dei battezzati che erano cattolici solo in apparenza»45, desiderano essere missionari di un mondo migliore, ordinato secondo le
leggi del Reich di Cristo. Rivolgendosi ai suoi lettori, Metzger scrive: «Ti senti in sintonia con questo movimento? Allora aderisci ad
esso anche esteriormente!»46.
4. L’unità dei cristiani: condizione della credibilità
4. del Vangelo di Cristo
Se il teologo tedesco è convinto del ruolo chiave del Cristianesimo nella ricerca di un ‘nuovo ordine’ sociale e nella soluzione pacifica delle crescenti tensioni tra i popoli in Europa, egli, allo stesso
tempo, intravede un grave ostacolo nella divisione dei cristiani, in
una situazione, cioè, che mette in ombra e rende difficilmente credibile la stessa verità cristiana su Dio come Colui che si rivela per
introdurre gli uomini nella comunione con Lui e, perciò, anche tra
di loro.
Per rimediare a una simile grave mancanza, che tiene paralizzata
la comune azione pacifista dei cristiani, Metzger diventa straordinariamente attivo nel campo dell’ecumenismo47. Anche in questo caso
44
M. J. METZGER, “Eine katholische Heilsarmee”, in Katholischer Missionsruf
5 (1921) 1.
45 Ibid., 1.
46 Ibid.
47 Oltre ad un’azione concreta di tipo organizzativo Metzger portò avanti
anche un’attività teologica, dedicando ai temi ecumenici – approfonditi in particolare nella prospettiva ecclesiologica – numerosi saggi, tra i quali: “Einheit
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
183
i giornali diventano il pulpito dal quale, assieme ai collaboratori e agli
amici, diffonde le sue riflessioni sul tema dell’unità, sottolineandone
l’urgenza e invitando i cattolici ad aprirsi al movimento ecumenico.
E continua a farlo anche quando nel 1928 l’enciclica Mortalium animos di Pio XI vieta ai cattolici di partecipare ai raduni ecumenici, di
collaborare ad essi e di sostenere tali iniziative48. Infatti, ancora nel
1927 così si esprime sul movimento ecumenico:
«Il vero ecumenismo non è niente altro che l’unificazione e la riconciliazione per mezzo dell’abnegazione e a favore della piena e completa verità». Come tale, esso è «un’opera dello Spirito Santo, di cui
attendiamo l’attuazione, a causa della sua complessità e dell’ammirevole imponenza, soltanto nel futuro»49.
Una cosa, però, potrebbe ostacolarla:
der Kirche?”, “Was trennt uns Christen?”, “Die Liebe vermag Alles”, “Ein Hirt
und eine Herde”, pubblicati in J. CASPER (ed.), Um die Einheit der Kirche. Gespräche und Stimmen getrennter christlicher Brüder, Friedrich Beck (Schöningh &
Haindrich), Wien 1940, 48-52, 65-87, 238-240, 322-328. Si vedano inoltre Um
die Einheit der Kirche, H. Rombach & Co., Freiburg im Br. 1939 (si tratta della
‘lettera missionaria’ n. 20) e Muß die Glaubensspaltung sein?, Kyrios-Verlag, Meitingen 1939. Una presentazione dell’azione e dell’opera ecumenica di Metzger
si trova in M. MÖHRING, Täter des Wortes, 94-138 (cap. VIII: Metzger, ein Wegbereiter für die Wiedervereinigung im Glauben); L. ŽAK, “Max Josef Metzger. Pioniere dell’ecumenismo cattolico e la sua lettera a Pio XII dal carcere nazista”, in
Lateranum LXXII/3 2006, 577-616; J. ERNESTI, Ökumene im Dritten Reich, Bonifatius, Paderborn 2007, 182-208 (nel volume vengono pubblicati alcuni preziosi materiali d’archivio riguardanti la storia dell’ecumenismo, tra i quali la corrispondenza tra Metzger e Friedrich Heiler, vescovo evangelico). Quanto al significato e all’attualità dell’opera ecumenica del Nostro per il movimento ecumenico cfr. G. TAVARD, Petite histoire du Mouvement œcuménique, Editions
Fleurs, Paris 1960, 136-139; M. BIEBER, ”Dem Anfang verpflichtet – Max Josef
Metzger und die Ökumene heute”, in Una Sancta 50/4 (1995) 274-279.
48 Cfr. P. NEUNER, Teologia ecumenica. La ricerca dell’unità tra le chiese cristiane, tr. it., Queriniana, Brescia 2000, 146-147.
49 M. J. METZGER, “Was heißt Ökumenisch?”, in Katholischer Missionsruf
IX/8-9 (1927) 118.
184
LUBOMIR ŽÁK
«L’avvelenamento della Chiesa ad opera del fariseismo; un fariseismo
che giustifica l’agire superficiale e legalista e la superba autogiustificazione».
Al contrario:
«A chi stanno a cuore le parole di addio di Gesù, ‘ut omnes unum!’,
colui pregherà lo Spirito Santo in modo davvero efficace se chiederà
per tutti i membri della Chiesa la grazia di avere umile sentimento di
penitenza, autocontrollo interiore, rinnovandosi interiormente nello
spirito della Chiesa primitiva»50.
Tra la fine del 1938 e l’inizio del 1939 Metzger, ormai da anni impegnato nel dialogo soprattutto con il mondo protestante tedesco,
prende una decisione che fa di lui, accanto a Max Pribilla, Romano
Guardini, Hermann Volk, Lorenz Jäger e altri ancora, uno dei protagonisti più in vista del nascente ecumenismo cattolico in Germania:
egli fonda la Fraternità interconfessionale Una Sancta51.
Tale decisione nasce dal desiderio di contribuire, a pochi mesi dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, alla manifestazione dell’unico vero Reich possibile: quello di Gesù Cristo, generosamente
aperto a tutte le razze e a tutti gli uomini. Accennando, in una lettera del 1938, all’intenzione di fondare l’Una Sancta, Metzger enuncia
i seguenti obiettivi che intendeva raggiungere:
50
M. J. METZGER, “Pharisäer”, in Katholischer Missionsruf IX/8-9 (1927) 122.
Cfr. G. VOSS, “Movimento Una Sancta”, in Dizionario del movimento ecumenico, a cura di G. Cereti, A. Filippi, L. Sartori, EDB, Bologna 1994, 759760. La paternità di Metzger nei confronti dell’Una Sancta è generalmente conosciuta; finora, però, sono poco conosciuti e studiati dettagli attorno alla sua
fondazione. Un importante documento che espone le principali intuizioni ecumeniche di Metzger, connesse con la nascita dell’Una Sancta, è il breve scritto
Thesen zur Una Sancta (dattiloscritto, in AM); cfr. inoltre Gemeinschaft im Herrn
(dattiloscritto, in AM) e Die Gliedschaft in der Una sancta Ecclesia Christi (dattiloscritto, in AM).
51
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
185
«(...) essere maggiormente consapevoli della già data (anche dogmaticamente) unità di tutti in Cristo per mezzo dell’unico battesimo;
pregare per una più ampia attuazione di quest’unità anche nel ‘corpo’
della Chiesa; impegnarsi come costruttori di ponti per un reciproco
avvicinamento dei fratelli separati a causa di molteplici malintesi e
dell’umana incapacità di comprendere»52.
Il 1939 è l’anno di un ampio lancio dell’idea e della concreta proposta organizzativa dell’Una Sancta e di un’intensa campagna di informazione orientata sia verso i cattolici che verso i protestanti in
Germania e all’estero. Metzger sceglie la via dei contatti personali e
invia a numerosi pastori e laici del mondo della Riforma una lettera
che informa sulle sue convinzioni ecumeniche e sull’Una Sancta.
Inoltre scrive alcuni brevi saggi dedicati al tema dell’unità dei cristiani e al progetto della Fraternità, pubblicati come piccola brossura
predisposta ad un’ampia e agile distribuzione. Nella Pentecoste dello stesso anno, nonostante il divieto di raduni pubblici emanato dal
governo del Reich, organizza l’incontro dei cattolici e dei protestanti a Meitingen (nei pressi di Augusta), concepito come esperienza di
dialogo teologico e di spirituale convivenza. A causa di tale attività
Metzger viene arrestato nel 1939 – e questo è il suo secondo arresto
– e viene tenuto nel carcere di Augusta per alcune settimane. Ma
nemmeno tale circostanza gli impedisce di portare avanti la sua missione. Dal carcere scrive a Pio XII53, invitando il papa a fare un gesto senza precedenti: convocare, cioè, ad Assisi un gruppo di autorevoli e teologicamente competenti rappresentanti delle confessioni
cristiane d’Occidente e d’Oriente per avviare un fraterno dialogo in
vista di un sincero avvicinamento; e, subito dopo, convocare un Concilio ecumenico della Chiesa unita. Metzger scrive:
52
M. J. METZGER, “Gemeinschaftsbrief im Advent 1939”, in AM (citato in
M. MÖHRING, Täter des Wortes, 111).
53 Cfr. M. J. METZGER, Christuszeuge in einer zerrissenen Welt. Briefe und Dokumente aus der Gefangenschaft 1934-1944, a cura di K. Kienzler, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1991, 82-90; la trad. italiana in M. J. METZGER, La mia vita
per la pace, 105-115.
186
LUBOMIR ŽÁK
«Sette anni fa (1932), per intimo impulso, scrissi al beatissimo predecessore di Vostra Santità riguardo al futuro destino dell’Europa, già allora chiaramente previsto, ricordando ch’era giunto il momento di richiamare i popoli europei dalla nuova corsa agli armamenti e di indurli alla pacifica intesa, se non si voleva rendere inevitabile, entro breve
tempo, la catastrofe di una nuova guerra mondiale. L’immane responsabilità che la Chiesa dovette portare in quei giorni venne da me percepita come mio onere personale e, perciò, dovetti scrivere, contro
ogni speranza. Una sollevazione, in quei giorni, di tutta la cristianità,
consapevole del pericolo, non avrebbe forse potuto impedire la catastrofe? Ma dov’è questa cristianità? Essa non può mai alzare energicamente la sua voce, non può esercitare nessun influsso decisivo sugli avvenimenti del mondo nel nome dei principi eterni del nostro Signore,
in quanto non è una. (...) Santo Padre! I travagli del nostro tempo – ed
è per mezzo di essi che Dio ci parla – impongono urgentemente l’estremo sforzo per superare la lacerazione della Chiesa di Cristo onde
attuare efficacemente, in tutto il mondo, il Suo Regno della pace. Forse proprio per questo ci hanno colpito le sventure dell’ora presente, e
ci umilieranno in modo ancora più pesante, affinché tutti noi possiamo
finalmente pervenire a una grande ‘metanoia’, abbandonando le vie
dell’autogiustificazione, dell’accecamento e della superbia, e ritornare
pienamente a Cristo, Principe della pace, Re dell’amore»54.
Dopo il rilascio, Metzger si trasferisce a Berlino e continua ad occuparsi della diffusione dell’Una Sancta55 intesa come luogo di un’esperienza genuina di Chiesa fondata sul principio della fraternità evangelica, un’esperienza di dialogo e di riconciliazione che deve infondere nella società un nuovo coraggio e, in un mondo lacerato dalla peggiore
guerra di tutti i tempi, una nuova speranza. Egli è convinto che il pro-
54
Cfr. M. J. METZGER, La mia vita per la pace, 106-108.
In questo periodo Metzger parla dell’Una Sancta, della sua natura e del suo
scopo, anche sulla rivista Theologie und Glaube, dove compare un suo contributo
intitolato “Aufbruch zur Una Sancta” (n. 1, 1941), con in allegato “Grundlegende Darstellung der Bruderschaft Una Sancta”.
55
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
187
pagarsi di una simile esperienza può conferire ai cristiani e ai cattolici
una maggiore credibilità nei loro sforzi di richiamare la società ad abbandonare l’odio e la violenza, e di seminare nel mondo quella verità,
alla quale anche nei momenti più oscuri e travagliati della storia aspira
ogni cuore umano: la verità dell’amore. Purtroppo, nel 1943 viene arrestato una terza volta e condotto di fronte al Tribunale di giustizia del
Popolo che lo condanna alla pena capitale, eseguita il 17 aprile 1944.
5. Un idealista cristiano da eliminare
Per comprendere la dinamica dell’arresto e i motivi della condanna
di Metzger occorre ricordare che egli ha seguito con molta attenzione
e preoccupazione la salita politica di Adolf Hitler, prendendo pubblicamente posizione (seppur indirettamente e fin quando è stato possibile) contro il Führer e il nazionalsocialismo sulle pagine dei suoi giornali56. Ad esempio, nel 1932, anno in cui la Conferenza episcopale dei
vescovi prussiani vieta ai cattolici di aderire al partito hitleriano, lascia
comparire su Christkönigsbote brevi segnalazioni che raccomandano la
lettura dei saggi di Ingbert Naab, Ist Hitler ein Christ? (Hitler è un cristiano?), di Alfons Wild, Hitler und das Christentum (Hitler e il Cristianesimo), e di Michael Buchberger, Gibt es noch eine Rettung? Gedanken
zur heutigen Zeit und Lage (Esiste ancora una via di salvezza? Riflessioni
sul tempo e sulla situazione presente)57. Le sintetiche segnalazioni di
Metzger riguardanti questi e altri simili saggi, scritti con l’intenzione
di analizzare criticamente il pensiero di Hitler e l’ideologia nazionalsocialista, intendono mettere in guardia i lettori dal pericolo incombente, da molti purtroppo non visto o del tutto sottovalutato58.
56
Sulla posizione di Metzger nei confronti del nazionalsocialismo cfr. M.
MÖHRING, Täter des Wortes, 139-155 (cap. IX: Metzger und der Nationalsozialismus).
57 Cfr. Christkönigsbote 29 (1932) 8; 31 (1932), 7-8.
58 Tra quelli, in Germania, che sin dall’inizio compresero la pericolosità della persona di Hitler va ricordato il vescovo von Galen, il quale aveva letto il
Mein Kampf alla sua prima pubblicazione nel 1925. E già nel 1929, riguardo a
Hitler, avrebbe affermato: «Quest’uomo è completamente invasato; tutto ciò
188
LUBOMIR ŽÁK
Quando il 30 gennaio 1933 il presidente della Repubblica Paul
von Hindenburg nomina Hitler cancelliere del Reich, Metzger non
riesce a trattenere la sua preoccupazione. A meno di due settimane da
quel giorno scrive:
«Ieri sera abbiamo ascoltato Hitler alla radio. Sono state superate le
mie peggiori previsioni. Si tratta di un vero e proprio isterico, malato
di mente, o di un bruto del peggior genere. Dopo il suo discorso ho
affermato che non avrei nessun rimorso a sparargli, per poter così proteggere migliaia di uomini che, per causa sua, dovranno perdere la vita. Lo farei, anche se io stesso dovessi perire... Guardo al futuro della
Germania con molto pessimismo. Anche quando nelle elezioni non
raggiungerà la maggioranza, Hitler è palesemente deciso a non lasciarsi più strappare dalle mani il potere e a fare un colpo di Stato»59.
Gli eventi successivi confermano le previsioni di Metzger: il 5
marzo del 1933 il partito di Hitler ottiene il 43,9 per cento di voti; il
13 giugno viene proibita a tutte le associazioni, eccetto quelle nazionalsocialiste, ogni forma di riunione; il 28 giugno vengono arrestate
circa duemila persone, fra le quali molti esponenti cattolici di primo
piano; nel luglio Hitler ottiene l’eliminazione definitiva del cattolicesimo politico; nel novembre si forma la Gestapo. Di fronte a tali fatti Metzger sente di trovarsi in una situazione che richiede da tutti, in
particolare dai cristiani, una chiara presa di posizione nella coscienza. Per questo scrive, nel 1933, a Friedrich Heiler: «Una cosa, però,
deve precedere tutto il resto: non possiamo vendere il Vangelo per
salvarci la ‘vita’!»60.
che non gli serve, lo distrugge; tutto ciò che dice e scrive, porta il marchio del
suo egocentrismo; quest’uomo è capace di calpestare i cadaveri e di eliminare
tutto ciò che gli è di ostacolo. Non riesco a capire come tanti in Germania, anche tra le persone migliori, non lo capiscano e non sappiano trarre insegnamento da ciò che dice e che scrive. Chi di questi ha almeno letto il suo raccapricciante libro Mein Kampf?» (citato in S. FALASCA, Un vescovo contro Hitler, 94).
59 Lettera privata del 11 febbraio 1933, in AM.
60 Citato in J. ERNESTI, Ökumene im Dritten Reich, 194.
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
189
Malgrado la gravità della situazione, Metzger rimane un convinto
sostenitore del dialogo e, perciò, invita ad un confronto tra i nazionalsocialisti e i cattolici. La risposta del nuovo regime non si lascia attendere: viene arrestato una prima volta e tenuto in prigione per tre
giorni (dal 23 al 26 gennaio 1934). Durante questa breve permanenza nel carcere annota nella sua agenda una poesia che recita:
«Sono e rimango un uomo libero,
mi si possa anche incatenare.
La verità continua a sventolare,
ed io continuerò ad annunciarla coraggiosamente.
E se mi verrà tagliata la lingua,
allora parlerò con il mio silenzio.
Fin quando arderà ancora in me la vita,
mi batterò contro la stupidità»61.
Nel 1935 inizia nel Terzo Reich una dura offensiva contro sacerdoti e religiosi. Solo nel mese di marzo vengono arrestati settecento
parroci, sospettati di appartenere alla ‘Chiesa confessante’. Assieme a
ciò vi è un attacco alla stampa cattolica, accompagnato dal divieto del
ministero del Reich, rivolto ai quotidiani, di pubblicare articoli a carattere religioso. Viene colpito anche Metzger: il 29 maggio 1935 è
vietata la pubblicazione del Christkönigsbote, la sua ultima rivista ancora attiva dopo il suo trasferimento, nel 1928, dall’Austria in Germania (a Meitingen, nei pressi di Augusta). Costretto a non poter far
sentire la sua voce sugli eventi generati dal nuovo corso politico in
Germania, egli non si rassegna. La via della resistenza di Metzger è
quella dell’intenso lavoro per l’Una Sancta. Questa sua attività, però,
attira sin dall’inizio l’attenzione della Gestapo. Come già ricordato,
nel 1939 venne arrestato per una seconda volta. Il modo con cui viene trattato nella prigione e altre circostanze fanno capire che egli, assieme ad alcuni altri amici della Societas Christi Regis e dell’Una Sancta, figurava già nella lista delle persone considerate nemiche del na-
61
Originale in A. M.
190
LUBOMIR ŽÁK
zionalsocialismo e perciò permanentemente spiate, in vista di una loro successiva eliminazione. Ed è, infatti, proprio questo aspetto che
emerge dalla lettura di una dettagliata relazione preparata da sconosciuti informatori per i Servizi segreti e la Gestapo del Reich sull’Una Sancta, recentemente pubblicata in un interessante e ben documentato saggio di Jörg Ernesti, Ökumene im Dritten Reich (Ecumenismo nel Terzo Reich)62. In essa vi sono numerosissimi riferimenti a
Metzger. Viene ricordato che egli, prima della svolta politica in Germania, fu un «malevolo oratore pubblico contro il nazionalsocialismo» e che, dopo il ’33, venne
«ammonito per la diffusione di scritti di contenuto antistatale, per il
reato contro la legge che proibisce le riunioni, per gli imbrogli, la
non osservanza delle disposizioni delle leggi sulla stampa e per l’abbonamento ai giornali ostili alla Germania». Viene notato, inoltre,
che Metzger era «il Segretario generale dei Congressi di Cristo Re,
ben conosciuti per la loro netta posizione ostile, sin dal 1933, nei
confronti del nazionalsocialismo»63.
Sempre a riguardo di Metzger si aggiunge nel documento citato
un’altra aggravante che diventa determinante per il suo successivo arresto: la sua posizione di leader nell’Una Sancta. Non solo perché alla Fraternità aderiscono alcune personalità del mondo cattolico ed
evangelico schieratesi apertamente contro Hitler e il nazionalsocialismo. Ma soprattutto perché la Gestapo e i Servizi segreti del Reich
considerano il progetto dell’Una Sancta un tentativo che intende contrastare la concezione nazionalsocialista del mondo64, ponendosi come alternativa al piano del Führer – a cui egli accenna già nel Mein
Kampf – di creare una Chiesa nazionale tedesca, al servizio dello Sta-
62
“Wiedervereinigungsbestrebungen zwischen Katholizismus und Protestantismus”, in J. ERNESTI, Ökumene im Dritten Reich, 240-300. Il testo della relazione fu scritto nel periodo dal 9 agosto al 6 novembre 1940.
63 Ibid., 262.
64 Cfr. ibid., 241.
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
191
to e della razza superiore. Un piano che prevede l’unificazione delle
Chiese cristiane per favorire l’unità del popolo tedesco e che inizia a
concretizzarsi con l’Unità nazionalecclesiale dei Cristiani tedeschi, fondata da Julius Leutheuser come movimento di rinnovamento e di
unità nello spirito del nazionalsocialismo65. Il regime sperava di poter operare attraverso questo movimento e i suoi attivisti il proselitismo tra gli ecumenisti ‘fuori controllo’. Tra le persone contattate vi
è anche Metzger, che riceve l’opuscolo An die Katholiken Deutschlands
(Ai cattolici della Germania)66 di Friedrich Kapferer, capo della Direzione della comunità del Reich. Il significato, da recepire, di tale gesto è chiaro: occorre ripensare le proprie posizioni. Metzger, però, lo
ignora, continuando per la sua strada.
L’ultimo arresto, nel 1943, del pacifista ed ecumenista tedesco è
possibile grazie al tradimento di Dagmar Imgart. La Imgart appartiene dall’inizio all’Una Sancta e Metzger la considera talmente affidabile da servirsene come corriere. In realtà si tratta di un’agente della Gestapo. Quando nel 1940 egli decide di ritirarsi a Berlino, per
sottrarre se stesso, ma anche i fratelli e le sorelle della comunità, all’attento sguardo della Gestapo, la Imgart continua ad aiutarlo, facendosi consegnare lettere e importanti documenti da portare alle
persone di sua fiducia e ai membri dell’Una Sancta.
È, dunque, solo una questione di tempo, quando la Imgart avrà
tra le mani un documento che potrà finalmente incriminare Metzger di tradimento e di attività sovversiva. Infatti, appena le consegna
il suo Memorandum67 – che doveva essere portato clandestinamente
in Svezia per essere consegnato alle potenze nemiche del Reich –, in
cui ammette la sconfitta dei tedeschi e prospetta l’idea di una Germania democratica appartenente alla Federazione degli Stati d’Europa, la ‘sorella’ dell’Una Sancta si lascerà sorprendere, in presenza
65
Un altro importante protagonista dell’ecumenismo nazionalsocialista fu il
vescovo Alois Hudal. Per uno sguardo di sintesi su questo progetto cfr. ibid.,
220-238 (Braune [völkisch-nationale] Ökumene).
66 F. KAPFERER, An die Katholiken Deutschlands. Die sieghaften Ideen der Deutschen Christen, Verlag deutsche Christen, Weimar 1939.
67 Pubblicato in M. J. METZGER, La mia vita per la pace, 260-262.
192
LUBOMIR ŽÁK
di Metzger e con il documento in mano, dalla Gestapo. Ciò è sufficiente per arrestare l’autore dello scritto e per giudicarlo punibile
con la morte.
Conclusione. Per un cristianesimo responsabile
In realtà la condanna di Metzger, delle sue visioni e della sua attività pacifista ed ecumenista viene pronunciata indirettamente già nel
1924, quando Hitler scrive il Mein Kampf. Egli, cioè, viene condannato anticipatamente nel libro, ovunque Hitler deride e condanna i
pacifisti come traditori della Germania, in quanto essi – a suo parere
– non capiscono che la vera pace è quella che si basa «sulla spada vincitrice di un popolo dominatore che s’impadronisce del mondo per
l’utilità di una civiltà superiore»68.
Viene condannato ovunque il Führer critica l’ethos evangelico,
come ad esempio la scelta di aiutare gli stranieri e di avvicinarsi ad
altri popoli, in particolare a quelli più poveri e culturalmente più arretrati69. Ma, soprattutto, viene condannato nelle pagine in cui Hitler presenta la sua perversa Weltanschauung nazionalsocialista, interpretando come ‘volere di Dio’ il dominio universale degli Ariani e
minacciando – già allora! – chi avesse intenzione di impedire tale
‘piano divino’ con la predicazione di un’altra visione del mondo.
Egli scrive:
«Distruggere il contenuto della civiltà umana con la distruzione di
quelli [Ariani] che la simboleggiano, appare il più disprezzabile dei
delitti agli occhi di un’idea nazionale del mondo. Chi ha il coraggio
di alzar mano sulla migliore delle creature fatta ad immagine di Dio,
pecca contro il magnifico Creatore e coopera alla espulsione dal
Paradiso»70.
68
A. HITLER, Mein Kampf, 23; cfr. anche 33, 37, 49.
Cfr. ibid., 28-29.
70 Ibid., 12.
69
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
193
La contrapposizione della Weltanschauung cristiana di Metzger a
quella di Hitler emerge in modo abissale durante il processo davanti al Tribunale di giustizia del popolo. Esso viene celebrato a Berlino il 14 ottobre 1943 sotto la presidenza di Roland Freisler71, il giudice più sanguinario di tutta la storia del Terzo Reich. Secondo le
testimonianze dei presenti72 sul tavolo del giudice si trovava l’opuscolo Friede auf Erden (Pace sulla terra), pubblicato appena finita la
Grande Guerra. Riferendosi ad esso Freisler si è rivolto all’imputato urlando: «Come si è potuto permettere di pubblicare già allora
un simile scritto?». Metzger ha risposto con calma, andando oltre
gli insulti: «Nella guerra avevo conosciuto la miseria, l’indigenza e
il terrore, cosicché non vi era per me un compito più prezioso da fare che impegnarmi per la comprensione dei popoli e la pace». Freisler, sempre più infuriato, ha urlato: «Ma il Suo è un mondo del tutto diverso! Il Suo mondo non è compatibile con il nostro mondo!
Una tal cosa non ha nessuno spazio da noi!». Subito dopo il presidente ha attaccato il sacerdote per la sua attività con l’Una Sancta,
esclamando: «Dunque Lei, dopo, ha fondato l’Una Sancta e più tardi, probabilmente, anche l’Una Sanctissima! Una Sancta cos’è?». Nel
silenzio della sala tutti trattenevano il respiro mentre Metzger cominciava a rispondere. Le sue parole sono risuonate nello spazio di
quel mondo come una solenne professione di fede: «Cristo ha fondato soltanto una Chiesa!». A questo punto si è scatenato un inferno nell’aula. Freisler ha iniziato a gridare come impazzito: «Una
Sancta, Una Sancta, Una! Una! Lo siamo noi! Fuori di noi non c’è
niente altro!».
71
Roland Freisler (1893-1945) aderì al partito di Hitler già nel 1925. Dall’agosto 1942 fu Presidente del Tribunale di giustizia del Popolo (Volksgerichtshof). Sotto la sua presidenza il Tribunale condannò a morte più di 5000 persone. Morì ai primi di febbraio del 1945 durante un bombardamento aereo. Su di
lui cfr. H. ORTNER, Der Hinricher. Roland Freisler-Mörder im Dienste Hitlers,
Zsolnay Verlag, Wien 1992.
72 La seguente ricostruzione poggia sulla testimonianza di Marta Reimann e
Judith M. Hauser (pubblicata in M. J. METZGER, Christuszeuge in einer zerrissenen Welt, 322-325).
194
LUBOMIR ŽÁK
Dopo il breve ritiro della corte in camera di consiglio è stata annunciata la sentenza: «Pena di morte e interdizione per sempre dell’onore di cittadino»73. Il sacerdote ha accettato tale ingiusta condanna con ammirevole serenità, come se avesse preventivato sin dall’inizio un simile esito della sua coraggiosa opposizione contro Hitler e il nazionalsocialismo. Non si è lamentato, perciò, della sua sorte, sapendo che un discepolo di Gesù Cristo deve essere pronto a percorrere la stessa via crucis del Maestro. Ciò che in quel momento gli
è stato difficile da accettare era un’altra cosa: la solitudine, il fatto,
cioè, di essere stato abbandonato e frainteso da quelli che per la comune appartenenza alla fede cristiana avrebbero dovuto comprendere e valorizzare positivamente le sue intenzioni e la sua azione. Ecco
perché pochi mesi prima della decapitazione ha indirizzato proprio a
loro – suoi critici e tutte le persone ‘prudenti’ di fronte ai fatti terribili della storia74 – una breve poesia, scrivendo:
73
Cfr. ibid., 307-312. Freisler ha aggiunto ancora: «L’agire dell’imputato è
così mostruoso e criminoso che egli deve essere eliminato. Nelle mie udienze
giudiziarie non ho fatto mai ricorso alla parola ‘eliminato’. In questo caso, però,
non ne posso fare a meno. Una simile erbaccia deve essere estirpata» (ibid., 325).
74 Parlando invece di sé confessò: «Lo devo proprio ammettere: io non ho
imparato mai / l’arte di lasciar storte le cose che son storte! / Per tutta la mia vita non ho mai potuto capire / che al momento di un’emergenza gentilmente ci
si deve allontanare» (M. J. METZGER, Christuszeuge in einer zerrissenen Welt,
189). Tra gli altri cristiani, di quell’epoca, ‘imprudenti’ e poco ‘diplomatici’ va
annoverato il già ricordato vescovo von Galen, il quale denunciò in diverse occasioni la tentazione dei credenti, gerarchia inclusa, di prendere una posizione
tattica o passiva davanti alla politica nazionalsocialista e antiecclesiale del governo di Hitler. A questo proposito va ricordata la sua lettera (del 26 maggio
1941) scritta al vescovo W. Berning di Osnabrück, in cui, riferendosi all’episcopato tedesco, afferma: «Mi sembra ormai giunto improrogabilmente il tempo di
pervenire a una discussione comune allo scopo di giungere a decisioni chiare e
concordi. Dobbiamo decidere se sia o no il caso di proseguire per la strada che
forzatamente abbiamo percorso finora, e che corrisponde a un modo di agire
quasi completamente passivo. Lo stato di guerra ci suggerisce ritegno. Ma se gli
altri evidentemente giudicano questo ritegno come debolezza o vigliaccheria, se
l’altra parte strumentalizza proprio lo stato di guerra per distruggere la libertà e
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
195
«Andate per le vostre strade – vi vedo e non v’invidio –
tutti voi furbi che pensate solo a voi stessi, voi sapienti!
Io vado per la mia – chiamatemi pure stolto:
la gioia grande della coscienza mi consola»75.
A più di sessanta anni dalla sconfitta di Hitler e dalla caduta della
superba ‘torre di Babele’ del Terzo Reich, le storie di ‘folli’ e ‘ingenui’
cristiani, come ad esempio quella di Metzger, ci pongono molti interrogativi: come sarebbero andate le cose in Germania e in Europa nel
primo ’900, se ci fossero state persone attente ai ‘segni dei tempi’, come lo era il sacerdote tedesco? Quali possibilità avrebbe avuto il tiranno, se tutti i cristiani si fossero dichiarati obiettori di coscienza – ed anche questo fu uno dei temi predicati da Metzger e attuati dai fratelli
i diritti della Chiesa in maniera brutale, in tal caso bisogna rimettere il problema
in questione. Bisogna cioè vedere se non convenga all’amore e allo sviluppo sano della vita del popolo decidersi a esigere pubblicamente, come leali tedeschi, la
tutela del diritto e della libertà. Come vescovi tedeschi noi non abbiamo solamente il dovere di annunciare e difendere le verità della Rivelazione; abbiamo
anche il dovere di difendere la Chiesa, la sua libertà, i suoi diritti. Per difendere
questi valori san Thomas Becket, san Stanislao di Cracovia sono morti martiri.
(...) Eccellenza, anch’io fino a questo momento ho lasciato correre tutto questo
senza pronunciare la protesta pubblica. Io ho tranquillizzato ogni volta la mia coscienza dicendo a me stesso: “Se il cardinale Bertram e tanti vescovi, che mi superano per esperienza e per virtù, di fronte a tutto ciò restano tranquilli, e se si
contentano di proteste cartacee ed inefficaci, completamente ignorate dall’opinione pubblica, o delle proteste anch’esse sconosciute della Conferenza di Fulda,
sarebbe arrogante, sarebbe disdicevole per la dignità degli altri illustri e reverendissimi signori, sarebbe forse anche pazzesco, se fossi io a lanciarmi in una “fuga
nella pubblicità”. Mi mostrerei antipatico, probabilmente provocherei misure
ancora più gravi nei confronti della Chiesa. Ma la mia coscienza non sopporta più
di essere messa in parte con questi argomenti “ex auctoritate”. Penso spesso a san
Tommaso Moro e al suo comportamento a proposito dell’argomento “ex auctoritate”. Mi torna sempre in mente la parola di Isaia a proposito dei “canes muti,
non valentes latrare”; egli stesso soggiunge poi: “Ipsi pastores ignoraverunt intelligentiam”. Queste cose accadevano dunque solo nell’Antico Testamento?»
(citato in S. FALASCA, Un vescovo contro Hitler, 186, 188-189).
75 M. J. METZGER, Christuszeuge in einer zerrissenen Welt, 189.
196
LUBOMIR ŽÁK
della sua comunità Societas Christi Regis –, pronti a offrire se stessi in sacrificio piuttosto che, per salvarsi la vita, uccidere gli altri? Quale diffusione avrebbe avuto l’ideologia razzista del nazionalsocialismo, se
tutti i cristiani fossero stati radicati in modo consapevole nella concezione evangelica del mondo, fondata sul principio della signoria di Dio
per mezzo di Gesù Cristo e della fratellanza universale sigillata dal ‘comandamento nuovo’?; se essi fossero stati più vigilanti di fronte al populismo di Hitler e alle sue promesse miracolistiche dello sviluppo economico in Germania? Come mai così tanta passività e insufficiente
chiaroveggenza di molti cristiani nel periodo della nascita e della propagazione del mito di un nuovo ‘messia’? E soprattutto: che cosa occorre fare affinché non si spenga mai la vigilanza evangelica dei cristiani di fronte ai fenomeni messianici come quello hitleriano?
Certo, vi sono stati dei tentativi, nel mondo cristiano, di denunciare pubblicamente la gravità della situazione socio-politica in Germania – ma anche quella presente in altri paesi come Giappone, Turchia, Russia, Polonia e Italia –, e ciò ancora prima dello scoppio del
secondo conflitto mondiale. Mi riferisco, ad esempio, alla seconda
Conferenza mondiale di Faith and Order svoltasi nel 1937 a Edimburgo. Infatti, subito all’apertura dei lavori della Conferenza l’americano Henry S. Leiper, del Consiglio generale delle Chiese congregazionaliste e cristiane, mise il dito nella piaga, parlando dei «potenti movimenti che, utilizzando i metodi messi a loro disposizione dal
potere politico e dalla tecnologia moderna, soprattutto l’istruzione,
cercano di costruire un nuovo ordine su base totalitaria»76. Consapevole della poca chiarezza del mondo cristiano nel prendere una posizione decisa e coerente davanti ai tali pericolosi movimenti, Leiper
disse apertamente:
«I cristiani non possono non vedere i successi che essi hanno ottenuto grazie a questi metodi e non possono non chiedersi fino a che
76
H. S. LEIPER, “Perplessità e speranze di fronte ai mutamenti sociali”, in
Enchiridion Œcumenicum, vol. 6, a cura di S. Rosso e E. Turco, EDB, Bologna
2005, 1001 (466).
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
197
punto il loro insuccesso nella testimonianza ha contribuito alla crescita di queste forme di leadership morale. Similmente, essi devono riconoscere che tutte queste forme di vita sono, in ultima analisi, incompatibili con la fede nella signoria di Dio o con una visione cristiana della dignità dell’uomo, per il quale il Signore Gesù Cristo ha
accettato di morire»77.
Leiper ha indicato, allo stesso tempo, con lungimiranza la via da
percorrere per affrontare con responsabilità la pesante situazione.
Secondo lui, cioè, i cristiani non dovevano scoraggiarsi se il loro annuncio del Vangelo era quasi completamente ignorato dal ‘mondo’,
ma dovevano crescere insieme nella consapevolezza che alla Chiesa
di Cristo «è stata affidata la Verità» e che al di fuori di essa «non c’è
altra verità di cui l’umanità possa vivere». Consapevolezza che, al di
là dei limiti e delle inadeguatezze di alcuni cristiani, il messaggio
evangelico della Chiesa «non solo è rilevante per le necessità del
mondo, ma è il solo a poterlo aiutare a guarire»78. E che fosse questa
la direzione da seguire divenne chiaro anche dopo la conclusione della seconda guerra mondiale. Questa via, ad esempio, è stata indicata,
in termini molto concreti e con un invito alla reale e radicale conversione dei cristiani al Vangelo, dalla prima assemblea del Consiglio
ecumenico delle Chiese (Amsterdam 1948), intitolata non a caso Il
disordine dell’uomo e il disegno di Dio. Nel suo toccante messaggio iniziale si legge:
77
Ibid., 1001 (446). Nell’intervento di Leiper non è mancato nemmeno un
riferimento concreto al nazionalsocialismo di Hitler. Egli disse: «Una chiara
prova della perversità della natura umana sono la crescita del razzismo e del nazionalsocialismo basati sulla razza, proprio in un’epoca in cui le relazioni fra le
diverse parti del mondo sono diventate possibili e più facili che mai. I cristiani
devono considerare non solo gli orrori che accompagnano la divisione in base al
colore della pelle in certi paesi, o la recrudescenza della persecuzione degli ebrei
nei paesi cosiddetti cristiani, ma anche il fatto ancor più grave che le barriere
razziali, sia contro le persone di colore sia contro i cristiani di discendenza
ebraica, esistono anche nella chiesa» (Ibid., 1003 [466]).
78 Ibid., 1008 (469).
198
LUBOMIR ŽÁK
«Bisognerà ricordare a noi stessi e ricordare ad ogni uomo che Dio
ha rovesciato i potenti dai loro troni e innalzato gli umili (Lc 1, 52).
Bisognerà imparare di nuovo a parlare insieme, con coraggio, nel nome di Cristo, a coloro che detengono il potere come a coloro che sono sottomessi, a combattere ogni terrore, ogni crudeltà e ogni discriminazione razziale; a portare assistenza ai disprezzati e ai paria; ai prigionieri e ai rifugiati. Dobbiamo far sì che la Chiesa, ovunque, sia la
voce di coloro che non hanno voce, la casa dove ogni uomo possa trovarsi a casa. (...) Bisognerà chiedere a Dio di ispirarci i ‘sì’ e i ‘no’ che
dobbiamo dire insieme, in tutta la verità: ‘no’ a tutto ciò che calpesta
l’amore di Cristo, ad ogni sistema, ogni programma, ogni persona
che trattino qualsiasi uomo come una cosa irresponsabile o come una
fonte di guadagno; ‘no’ a tutti coloro che difendono l’ingiustizia nel
nome dell’ordine; ‘no’ a coloro che spargono semi di guerra e a coloro che spingono alla guerra dichiarandola inevitabile; ‘sì’ a tutto ciò
che è conforme all’amore di Cristo; ‘sì’ a coloro che cercano la giustizia e procurano la pace; ‘sì’ a coloro che sperano, lottano e soffrono per la causa dell’uomo; ‘sì’ a chiunque aspira, anche senza saperlo, ai nuovi cieli e alla nuova terra in cui abiterà la giustizia»79.
Non c’è dubbio che le persone come Metzger, pronte a testimoniare il loro ‘sì’ al Vangelo di Cristo nell’oscurità infernale del Terzo
Reich anche a prezzo del sangue, siano cadute nel terreno della storia come semi di vita nuova. La loro coraggiosa morte da martiri, il
loro sangue innocente, infatti, resero possibile la nascita e la diffusione di una nuova speranza, permettendo all’umanità del dopo Auschwitz (ma anche del dopo Hiroshima e Nagasaki) di fare i primi passi
verso un futuro migliore, più responsabile. Le loro testimonianze,
però, non possono essere dimenticate nemmeno oggi, e ciò soprattutto da noi cristiani, in quanto ci ricordano in modo eccellente la necessità di accogliere il ‘talento’ della fede in modo radicale, secondo
la logica del «sì, sì, no, no», con la consapevolezza della responsabi-
79
Enchiridion Œcumenicum, vol. 5, a cura di S. Rosso e E. Turco, EDB, Bologna 2001, 3 (6-7).
MAX JOSEF METZGER E IL MESSIANISMO DEL TERZO REICH
199
lità di fronte a Dio e di fronte alla storia per il dono ricevuto della verità rivelatasi in Gesù Cristo. Verità che «Dio è Amore che salva, padre amorevole che desidera vedere i suoi figli riconoscersi tra loro
come fratelli, responsabilmente protesi a mettere i differenti talenti a
servizio del bene comune della famiglia umana»80.
80
959.
Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. 1 (2005), LEV, Città del Vaticano 2006,
200
LUBOMIR ŽÁK
SUMMARIES
It is noted that Adolf Hitler lived his rise to power, connected to the realization
and the military expansion of the Third Reich, with the conviction of being invested with a messianic task, a conviction wrapped in a halo of religious selfcelebration and characterized by an improper exploitation of religious symbols
and, above all, by the propagation of a ‘new’ vision of the world and of humanity
based on the principles of National Socialism. Max Josef Metzger, theologian
and Catholic priest, stands out among the persons against such a dangerous
manipulation of religion and determined to oppose the pseudo-messianism of
Hitler. His resistance was not of the violent type, but rested on the intent of proposing to German society an alternative world view to that of the Führer, based
on consummately evangelical values and animated by a renewed faith in the
Messiahship of Jesus. Such courageous action, that invited Christians to undertake a way of authentic conversion, sought to sow in the dark and vast terrain of the Third Reich ideals of brotherhood and tolerance, of peace and unity,
educating toward a true and authentic ethic of the Beatitudes. Executed by guillotine for his untiring activity of wanting to give witness to the Kingdom of Christ
as the one true Reich, Metzger represents also today a significant and actual
example of someone taking up the Gospel position against the repeated temptations of the ‘world’ to restart the construction of the Tower of Babel and to
force humanity to submit to the idols created by its own hands.
***
Se sabe que Adolf Hitler vivió su ascenso al poder, en concomitancia con la
realización y la expansión militar del Tercer Reich, con la convicción de estar
investido de una tarea mesiánica, convicción envuelta en un halo de autocelebración religiosa, caracterizada por una utilización impropia de símbolos religiosos y sobretodo, por la difusión de una ‘nueva’ visión del mundo y del
hombre, basada en los principios del nacional-socialismo. Entre los que se
oponían a esta peligrosa manipulación de la religión se destaca la figura de
Max Josef Metzger, sacerdote y teólogo católico, decidido opositor del pseudo-mesianismo de Hitler; la suya no fue una resistencia de tipo violento; su intención era proponer a la sociedad alemana una visión del mundo alternativa
a la del Führer, fundada sobre valores altamente evangélicos y animada por
una renovada fe en el mesianismo de Jesús. Esta actitud valiente, que estimuló a los cristianos a iniciar el camino de una auténtica conversión, se proponía sembrar en el oscuro y vasto territorio del Tercer Reich ideales de fraternidad y de tolerancia, de paz y de unidad, educando en el espíritu de una
verdadera y auténtica ética de las Bienaventuranzas. Ajusticiado con la guillo-
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
201
tina a causa de su incansable testimonio del Reino de Dios como único verdadero Reich, Metzger representa también hoy un elocuente ejemplo de actitud evangélica frente a los reiterados intentos del ‘mundo’ en orden a retomar la construcción de la torre de Babel y obligar a la humanidad a someterse a los ídolos creados con sus propias manos.
***
È noto che Adolf Hitler visse la sua salita al potere, connessa alla realizzazione
e all’espansione militare del Terzo Reich, con la convinzione di essere investito
di un compito messianico, convinzione avvolta in un alone di autocelebrazione
religiosa caratterizzata da uno sfruttamento improprio dei simboli religiosi e, soprattutto, dalla propagazione di una ‘nuova’ visione del mondo e dell’uomo,
basata sui principi del nazionalsocialismo. Tra le persone contrarie a una simile pericolosa manipolazione della religione e decise a contrastare la pseuo-domessianicità di Hitler spicca Max Josef Metzger, teologo e sacerdote cattolico.
La sua resistenza non era di tipo violento, ma poggiava sull’intenzione di proporre alla società tedesca una visione del mondo alternativa a quella del Führer, basata su valori squisitamente evangelici e animata da una rinnovata fede
nella messianicità di Gesù. Tale coraggiosa azione, che invitò i cristiani a intraprendere un cammino di autentica conversione, mirava a seminare nell’oscuro
e vasto terreno del Terzo Reich ideali di fratellanza e di tolleranza, di pace e di
unità, educando ad una vera e propria etica delle Beatitudini. Giustiziato con la
ghigliottina per la sua instancabile attività di voler testimoniare come unico vero Reich il Regno di Cristo, Metzger rappresenta anche oggi un significativo e
attuale esempio di una presa di posizione evangelica di fronte alle ripetute tentazioni del ‘mondo’ di riprendere la costruzione della torre di Babele e di costringere l’umanità a sottomettersi agli idoli creati dalle sue stesse mani.
POPPERS VORSTOSS ZUM
“NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
Dragan Jakovljević*
Einleitung
In der Fachliteratur wird allgemein angenommen, die verhältnismäßig spät eröffnete Diskussion über eine negative Spielart des Utilitarismus verdanke ihre Initialursache den Anregungen in Karl R.
Poppers sozialphilosophischem Hauptwerk Die offene Gesellschaft und
ihre Feinde.
Bei den Klassikern des Utilitarismus Cumberland, Hume, Helvétius, Paley, Hutcheson, Bentham, Mill und Sidgwick waren die
utilitaristischen Grundwerte stets an einer Gesamtbewertung von
positiven und negativen Handlungsfolgen ausgerichtet. Anscheinend führte erst Popper die Idee ein, die moralische Bewertung unserer Handlungen primär an der negativen Dimension zu orientieren, das heisst an der Zielsetzung, Leiden und Schmerzen, falls sie
schon nicht ganz vermieden werden können, zu minimieren. Die
Verweise auf Popper bestehen allerdings zumeist aus kurzen Hinweisen und beziehen sich auf nur wenige Stellen des erwähnten
Werks. Es fehlt bis heute an einer umfassenderen Darlegung und
einer entsprechenden Analyse. Nicht zuletzt deshalb ist Poppers
Ansatz in einer Weise gedeutet worden, die seiner Sozialphilosophie nur unzureichend gerecht wird.
Im Folgenden möchte ich eine umfassendere und an den Textquellen orientierte Auslegung von Poppers Idee unternehmen. Da-
* The author is a professor at the Faculty of Philosophy of the State University of
Montenegro.
El autor es profesor de la Facultad de Filosofía de la Universidad Estatal de Montenegro.
StMor 46/1 (2008) 203-232
204
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
bei gilt es zunächst, den eigentlichen Sinn von Poppers Vorschlag zu
explizieren. Anschließend wird die Berechtigung einiger der Annahmen geprüft, auf die er sich bei diesem Vorschlag stützt. Abschließend soll die von den angelsächsischen Autoren fast einstimmig behauptete These geprüft werden, dass es sich bei Poppers Vorschlag
um eine Neufassung des Utilitarismus handelt.
Kenner von Poppers Werk wissen, dass Poppers moralphilosophische Thesen eng mit der internen Systematik seiner Position zusammenhängen. Zu dieser Systematik gehört die Behauptung der
Asymmetrie von Verifikation und Falsifikation, die These, dass Kritik der eigentliche Generator des Wachstums wissenschaftlicher Erkenntnis sei, und das Bestreben, das Konzept einer Gesellschaftsordnung zu entwickeln, die den Rückfall in Tyrannei und autoritäre
Ordnungen unmöglich macht.
Die Demokratie soll dabei vornehmlich als Abwehr von Totalitarismus und Alleinherrschaft verstanden werden, die an die Stelle einer erträumten, utopischen Vorstellung der idealen Gesellschaft
tritt. Popper hat ausdrücklich auf “eine gewisse Analogie” hingewiesen, die zwischen der von ihm befürworteten “negativistischen” Betrachtungsweise ethischer Fragen und der zuvor in seiner Logik der
Forschung (1934) entwickelten wissenschaftlichen Methodologie
besteht. Mit einer Erörterung dieses Vergleichs beginnen wir unsere Auslegung.
1. Poppers epistemisches Argument zugunsten des Negativen
Die erwähnte Analogiebehauptung steht am Anfang von Poppers
epistemischem Argument für die von ihm beabsichtigte Umorientierung ethischer Fragestellungen: Es trägt zur Klarheit auf dem Gebiet
der Ethik bei, wenn wir unsere Forderungen negativ formulieren,
d.h., wenn wir die Beseitigung des Leidens, nicht aber die Förderung
des Glücks verlangen. In ähnlicher Weise ist es von Vorteil, die Aufgabe der wissenschaftlichen Methode so zu formulieren, daß ihr Ziel
die Elimination der falschen Theorien ist, nicht aber die Aufstellung
von begründeten Wahrheiten.
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
205
Popper sieht die Analoge zunächst in der größeren Klarheit, die
mittels negativer Formulierungen erreicht werden kann1. Damit
wird eher eine beschränkte Ähnlichkeit behauptet als eine strenge
Parallelität. Zwischen der methodologischen These, nach der wissenschaftliche Aussagen strengen Falsifizierungsversuchen ausgesetzt und dadurch unsere Irrtümer beseitigt werden sollen, und der
ethischen These, unser Verhalten sollte sich daran orientieren, negative Zustände wie Leiden und Schmerzen zu minimieren oder zu eliminieren, statt daran, positive Zustände wie das größtmögliche
Glück für möglichst viele Menschen herbeizuführen, scheint eine
Art “Familienähnlichkeit” behauptet, aber kaum mehr.
In derselben Schrift wird die Analogie aber weiter begründet, und
zwar so: Daß es soziale Übel gibt, das heißt soziale Zustände, unter
denen viele Menschen zu leiden haben, ist etwas, was sich verhältnismäßig leicht feststellen lässt: Die, die leiden, können aus eigener
Erfahrung urteilen, und die anderen werden kaum sagen, daß sie gerne mit jenen tauschen würden. Aber eine ideale Gesellschaft vernünftig zu diskutieren ist unendlich schwieriger2.
Es wird also vor allem eine leichte (-re) Feststellbarkeit sozialer
Übel konstatiert, und zwar sowohl auf Seiten der leidenden Subjekte selbst als auch auf Seiten Anderer. Darin besteht sicherlich ein Ansatzpunkt für die von Popper beabsichtigte Analogisierung mit der
falsifikationistischen Orientierung wissenschaftlicher Forschung.
Denn diese ist u. a. von der Annahme geleitet, dass das Scheitern von
1
Diese Begründung erinnert einigermaßen an aus der traditionellen Metaphysik und Theologie wohl vertraute Konzepte einer negativen Bestimmung
bestimmter Sachverhalte, wie etwa die die transzendente Gottesnatur (im Rahmen der sog. ‹negativen Theologie›) betreffen. Die Sachverhalte, um die es sich
in der Ethik handelt, sind aber von einer deutlich andersartigen, unserem Erkennen weitgehend besser zugänglicher Konstitution. Auch insofern ist das Argument aufgrund der wesentlich größerer Klarheit negativer Formulierungen
ethischer Forderungen und Regeln auch selbst einer Klärung bedürftig. Vgl.
dazu: KARL R. POPPER, Die Offene Gesellschaft und ihre Feinde, Bd. I, Mohr Siebeck Verlag, Tübingen 2003, 322.
2 Ebd. Bd. I, 189.
206
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
(insbesondere nomologischen) Hypothesen leichter feststellbar ist
als ihre Bestätigung. Im zweiten Schritt des angeführten Arguments
wird die vergleichsweise größere Schwierigkeit der Erörterung von
Vorstellungen einer “idealen Gesellschaft” behauptet. Ethischen
Forderungen, die sich auf soziale Übel beziehen, wird die negative
Form zugeordnet, indem verlangt wird, die Präsenz solcher Sachverhalte zu minimieren oder zu vermeiden. Da solche Forderungen
hierbei auf leicht (-er) feststellbare Sachverhalte Bezug nehmen, trage dies zur Klarheit dieser Forderungen bei.
Dazu ist Folgendes zu bemerken: Es kann zwar behauptet werden,
dass positive Begriffe wie etwa der Glücksbegriff zunächst einigermaßen unterbestimmt sein mögen und mit sehr unterschiedlichen
Vorstellung verbunden werden können. Wenn wir aber von der Verwendung dieser Begriffe in der Sozialpolitik absehen, in der gelegentlich bewusst auf die Bedeutungsunbestimmtheit solcher Begriffe gesetzt wird, können wir feststellen, dass innerhalb philosophischer Ethiktheorien diese Begriffe doch zumeist nicht gänzlich unbestimmt gelassen werden. Wie weit ihre Präzisierung im Rahmen
der einen oder anderen ethischen Konzeption gelingt, ist eine andere Frage. Aber so nebulös und unklar, wie es die Bemerkungen Poppers suggerieren, bleiben die Vorstellungen von Glück und anderen
positiven Werten in Moralphilosophien nicht.
Schauen wir uns die von Popper behauptete Asymmetrie hinsichtlich der Klarheit von Zielsetzungen sittlichen Handelns an einem einfachen Beispiel an: Wenn wir zum Beispil das anzustrebende
Wohlbefinden von Menschen als im wesentlichen in ihrer Gesundheit bestehend begreifen, so kann man bemerken, daß sie zumindest
im gleichen Maße konkret und eindeutig feststellbar ist wie das entsprechende negative Gut, nämlich Krankheit. Über Gesundheit lässt
sich intersubjektiv ebenso verlässlich kommunizieren wie über
Krankheit. Von einer grundsätzlichen Asymmetrie “konkreter Misstände” einerseits und “abstrakter positiver Zustände” (bzw. Ideale)
andererseits kann zumindest nicht durchweg die Rede sein.
Allerdings scheint es in der Tat einen Unterschied in der Klarheit
zu geben. Dieser besteht aber nicht zwischen der Klarheit des negativen und der Unklarheit des positiven Werts, sondern in der (in der
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
207
Regel) geringeren Klarheit des Verlangens nach der Verwirklichung
positiver Werte. Dieses Verlangen mag in der Tat weniger klar ausfallen als das Verlangen nach der Abwesenheit negativer Werte. Wie
es uns ein späterer Argumentationsgang Poppers zeigen wird, hängt
dieser Unterschied eng mit den vorhandenen technologischen Defiziten zusammen, wenn es um die Erreichung positiver gesellschaftlicher Ideale geht. Meiner Meinung nach sollten wir uns aber hier
gleichfalls vor einer pauschalen, verallgemeinernden Festsetzung hüten. Denn bei klar bestimmten positiven Größen, nach deren Verwirklichung ethische Gebote streben, mag die Klarheit der Zielsetzung in einer Reihe von Fällen genauso mit der Klarheit passender
technologischen Lösungen zu ihrer Realisierung einhergehen. Nur
bei zu hoch (und zu breit) angesetzten positiven Zielsetzungen wäre
das Gegenteil zu erwarten. Dies dürfte aber für zu hoch (und zu
breit) angesetzte negative Zielsetzungen genauso gelten – wie etwa
der vollständige Eliminierung des Leidens aus der Welt. Entgegen
der Popperschen Vermutung scheint zwischen ethischen Forderungen negativer und positiver Ausrichtung in der Regel kein grundsätzlicher, brisanter und beständiger Unterschied zu bestehen.
Popper geht bei seiner Auseinandersetzung mit der alternativen
Auffassung insofern nicht ganz korrekt vor, als er der anderen Seite
abstrakte, utopische Zielsetzungen als repräsentativ unterstellt, um
diesen dann den Vorschlag der Beseitigung einiger konkreter Übelstände entgegenzustellen. Damit suggeriert er eine Asymmetrie, die
uns dazu zwingt, das Streben nach positiven Gütern (wie Glücksvermehrung) aufzugeben, wenn wir durch unser Handeln etwas erreichen und die Menschheit nicht ins Unglück stürzen wollen. Diese Vorgehensweise besitzt eine nicht zu übersehende rhetorische
Kraft. Aber solange man an einer sachlichen vergleichenden Bewertung der beiden möglichen ethischen Positionen interessiert ist,
müsste man ihnen gleiche Chancen einräumen und die Frage nicht
so einseitig vorentscheiden.
Kehren wir nochmals zu Poppers Analogie zwischen Ethik und
Wissenschaftstheorie zurück. Auch wenn zwischen dem Vermeiden
von falschen Annahmen bzw. Theorien einerseits und dem Vermeiden von Schmerzen und Leiden andererseits auf den ersten Blick ei-
208
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
ne formale Parallelität besteht, gibt es zwischen beiden doch zugleich
wesentliche Unterschiede. Es stellt sich vor allem die Frage, ob das
erste Verfahren in demselben Sinn zu den Aufgaben der Wissenschaftsmethodik beiträgt wie das zweite Verfahren zu den Aufgaben
der Ethik. Die Asymmetrie von Verifikation und Falsifikation wissenschaftlicher Hypothesen kann nicht gleichgesetzt werden mit der
von Popper vermuteten grundsätzlichen Asymmetrie von positiven
und negativen Zielsetzungen moralischen Handelns. Von mehr als
einer Familienähnlichkeit lässt sich hier kaum reden – was vielleicht
Popper selbst mit seiner Rede von “einer gewissen Analogie” andeutet. Dennoch scheint Poppers Befürwortung der negativen Formulierung ethischer Zielsetzungen direkt an seine philosophische Systematik anzuschließen. Um das zu sehen, müssen wir uns seine
Konzeption der rationalen Sozialtechnologie und der daran anknüpfenden Sozialphilosophie vergegenwärtigen.
2. Die These der grundsätzlichen Asymmetrie negativer
2. und positiver Güter auf der Grundlage
2. der “moralischen Dringlichkeit”
Poppers Vorschlag zur Neuorientierung der ethischen Perspektive beruht in letzter Instanz auf einer allgemeinen axiologischen These. Aus dieser gehen alle seine weiteren Betrachtungen hervor. Dieser zufolge besteht (...) vom ethischen Standpunkt aus betrachtet
keine Symmetrie zwischen Freuden und Leiden oder zwischen Lust
und Schmerz3.
Hier figurieren die beiden Arten von Gütern als Ziele des moralischen Handelns. Mit dieser Behauptung wird noch keine Instanz bestimmt, im Bezug auf die sich dann die beanspruchte ethische Asymmetrie ergeben sollte. Eine gewisse Erklärung wird etwas später angeboten. Bevor wir zu ihrer Betrachtung kommen, möchte ich die weitreichende Konsequenz die Popper aus der soeben angeführten Ein-
3
Ebd. 391.
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
209
schätzung zieht, zitieren. Sie lautet, dass sowohl “das Prinzip der maximalen Glückseligkeit” der Utilitaristen als auch “Kants Prinzip “Fördere das Glück der anderen (...)” grundfalsch sind (am angegeben Ort).
Diese Bemerkung haben die Kommentatoren anscheinend stets mit
nur einem Auge gelesen: Ihr zweiter, sich gegen das Prinzip der deontologischen Ethik Kants richtende Teil wurde übersehen. Dies hat
dann dazu beigetragen, dass allein Poppers Auseinandersetzung mit
der tradierten utilitaristischen Ethik zur Kenntnis genommen wurde
und sein eigener Vorschlag als ein exzentrischer Utilitarismus eingestuft worden ist. Die folgenschwere These von der falschen Orientierung der tradierten Ethik (in ihren beiden seit der Neuzeit vorherrschenden Paradigmen: des utilitaristischen und des deontologischen)
wird von Poppers philosophischem Standpunkt aus folgerichtig in der
Weise methodisch abgeschwächt, dass er feststellt, dieser “Umstand”
brauche “kaum rational diskutiert zu werden”. Zugrunde liegt hier seine Auffassung, dass grundsätzlich moralische Entscheidungen und
Einstellungen durch Argumente nicht bestimmt werden können, was
ihren “irrationalen Aspekt” ausmache (am angegeben Ort) – eine Auffassung, die nicht von allen kritischen Rationalisten geteilt wird, allen
voran Hans Albert, der mehrfache rationale Aspekte bei unseren moralischen Entscheidungen identifiziert und erörtert hat.
Poppers Auffassung dürfte im gegebenen Diskussionskontext
nicht ganz überzeugen. Auch wenn sie auf der allgemeinen Ebene
unter gewissen Gesichtspunkten zum Teil plausibel sein mag, würde
uns doch die Erklärung, moralische Einstellungen und Entschlüsse
würden keiner rationalen Bestimmung unterliegen, hier, wo es darum geht, eine spezifische ethische Fragestellung in Auseinandersetzung mit den möglichen Alternativen zu diskutieren, im Stich lassen.
Vor allem wird hier eine etwas weiter gehende Erklärung des Asymmetrie-Grundsatzes fällig. Soll mit ihm gemeint sein, dass beiden Arten von Zielen sittlichen Handelns kein gleiches Wertgewicht zukommt? Oder dass es sich im Rahmen des jeweiligen gesellschaftlichen Lebens moralisch weniger vordringlich ist, das Glück der
Menschen zu vermehren als die Leiden der Menschen zu mindern?
Popper scheint beides vorgeschwebt zu haben. Aber ohne die erforderliche Explikation müsste es bei einem bloßen moral-axiologi-
210
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
schen Postulat bleiben. Um den Sinn zu verstehen, den Popper mit
seiner Kritik positiv ausgerichteter Ethikansätze verbindet, müsste
zunächst geklärt werden, worin genau die ethische Symmetrie oder
Asymmetrie bestimmter Handlungsziele besteht.
Bezieht sie sich etwa auf den intrinsischen moralischen Wert
und/oder die hierarchische Wichtigkeit bestimmter Ziele des moralischen Handelns? In diesem Zusammenhang greift Popper auf eine
weitere axiologische These zurück. Mit ihr führt er den in der ethischen Diskussion nicht ganz gewöhnlichen Begriff der “sittlichen
Dringlichkeit” ein.
Die Anerkennung der Tatsache, daß die sittliche Dringlichkeit ihre Grundlage in der Dringlichkeit von Leiden oder Schmerz hat4.
Trotz des von ihm selbst zugestandenen wesentlichen Irrationalitätsmoments ethischer Einstellungen und Entscheidungen sieht
Popper gerade diese zusätzliche allgemeine These als “den Grund”,
dem folgend er seinen berühmt gewordenen Vorschlag macht, “die
utilitaristische Formel “Vermehre die Glückseligkeit so sehr du
kannst” durch die Formel “Vermindere das Leiden, so sehr du nur
kannst” zu ersetzen”. Die beanspruchte fundamentale axiologische
Asymmetrie wird vermittels des Begriffs “moralische Dringlichkeit”
erklärt. Diese soll jene Schlüsselinstanz darstellen, aus der die Positiv-Negativ-Asymmetrie hervorgeht.
Wird damit nicht nur eine ungelöste Frage durch eine andere klärungsbedürftige Frage ersetzt? Poppers Ausführungen enthalten leider keine genauere Bestimmung des Begriffs <moral urgency>. Aber
die Andeutungen, die sich aus dem Kontext seiner Ausführungen sowie der von ihm behandelten Beispiele ergeben, können so verstanden werden, dass sie an unser intuitives Verständnis dieses Begriffs
appellieren. Allerdings dürfte dies für Poppers Argumentationszwecke nicht ganz ausreichen (Außerdem dürfte eine solche Berufung mit einer gewissen emotiv geladenen Suggestion und insofern
mit einem Überredungseffekt gekoppelt sein, den man an dieser entscheidenden Stelle lieber meiden sollte).
4
Ebd. Bd. I, Anmerkung 6.
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
211
Versuchen wir also der Frage nachzugehen, in welchem Sinn hier
ein Unterschied der “Dringlichkeit” vorliegt, und insbesondere, ob
es sich dabei um eine genuin moralische Kategorie handelt. Seinem
gewöhnlichen Gebrauch nach ist dieser Begriff zunächst an zeitliche
Bestimmungen gebunden. So bedeutet der Ausdruck “A ist dringlicher als B” soviel wie “A soll (erheblich) früher als B geschehen, zustandekommen, ausgeführt werden (...)”.
In einer weiteren Annäherung lässt sich festellen, dass dem Begriff der Dringlichkeit in der sozialen Welt eine (teleologisch) technologische Bedeutung insofern zukommt, als er mit den jeweiligen
Situationsgegebenheiten sowie den spezifischen Zielen zusammenhängt, deren zufriedenstellende Verwirklichung an bestimmte (üblicherweise klar beschränkte, kürzere) Zeiträume gebunden ist. Auch
in dieser Verwendung ist der Dringlichkeitsbegriff in Bezug auf moralische Werte neutral. Typische Verwendungen des so verstandenen
Dringlichkeitsbegriffes sind teleologisch-technologisch, wie in Ausdrücken der Form “Um das Ziel W zu verwirklichen, ist es (den Situationsbedingungen entsprechend) dringlich, Y zu unternehmen”
oder komparativ-technologisch, wie in Ausdrücken der Form “Die
Herbeiführung des Zustands F ist in der Situation S dringlicher als
die des Zustandes G”. In der Abstimmung mit solchen teleologischtechnologischen sowie komparativ-technologischen Beurteilungen
wird dann die Dringlichkeit der Ausführung entsprechender Handlungen (bzw. ihr Dringlichkeitsgrad) bestimmt. Eine Dringlichkeit
“an sich” und unabhängig von allen Situationsmerkmalen und spezifischen Zielen bzw. zu erzielenden Zuständen lässt sich so nicht verständlich machen.
Bessere Beispiele für die von Popper hervorgehobene Dringlichkeit sind Fälle, in denen Menschen so intensiven Leiden ausgesetzt
sind, dass diese für sie unerträglich werden. In solchen Situationen
scheint seine These einzuleuchten, dass die moralische Dringlichkeit
des Handelns in der Intensität der von den betreffenden Menschen
zu ertragenden Leiden wurzelt: Große, nicht mehr auszuhaltende
Intensität des Leidens oder der unmittelbar drohende Tod machen
ein möglichst früh ansetzendes rettendes Handel erforderlich. Damit
wird zugleich begründet, warum die Zielsetzung der unverzüglichen
212
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
Leidensminderung alternativen Zielsetzungen vorgeordnet wird.
Dahinter stünde die Forderung, nach der es unbedingt moralisch geboten ist, soweit möglich schweres Leiden zu mindern oder einen
unmittelbar bevorstehenden Tod zu verhindern. Dieses Gebot lieferte uns die Rechtfertigung für die (zumindest vorläufige) Zurückweisung potentiell alternativer Zielsetzungen, etwa der Zielsetzung der
Steigerung des Glücks anderer, nicht-leidender Menschen.
Jenem technologischen Begriff kann also in einem abgeleiteten
Sinn eine moralische Qualität zugeschrieben werden – und zwar in
den Fällen, in denen die Ausführung einer technologisch dringlichen
Handlung zugleich die Realisierung bestimmter moralischer Werte
nach sich ziehen würde. Technologische Dringlichkeit ginge hier mit
der Bevorzugung gewisser Werte, bzw. mit dem Herbeiführen werthaltiger Sachverhalte einher. Solche Fälle sind in der Lebenspraxis
nicht selten, und insofern ist eine derartige Zuschreibung moralischer Dringlichkeit im abgeleiteten Sinne unproblematisch.
Damit ist jedoch noch nicht gezeigt, dass (a) man von einer moralischen Dringlichkeit als solcher, losgelöst von der Relation zu möglichen Alternativen sprechen kann, und (b) diese dann – abgesehen
von extremen Fällen – jeweils an nur eine bestimmte Art von Handlungen und Entscheidungen gebunden werden kann, nämlich an jene,
die eine Eliminierung oder Minderung von Leiden bezwecken.
Hinsichtlich (a) kann zunächst bemerkt werden, dass moralische
Gebote Handeln einer bestimmten Art fordern. Diese Forderung
kann einer Gradierung unterliegen, mit Rücksicht darauf, wie hoch
der gegebene Wert in der Hierarchie moralischer Werte auf dem
Hintergrund der spezifischen Beschaffenheit der Situation angesiedelt wird. Insbesondere ist für die Beurteilung erforderlich, Leiden,
die mit dem Prädikat der moralischen Dringlichkeit verbunden werden, zu typologisieren.
Es gibt ja recht unterschiedliche, ihrem Inhalt wie ihrer Intensität
nach von einander abweichende Typen. So ist etwa das Liebesleid eines Jünglings, verursacht durch die Hindernisse, die dem Gleichklang der Gefühle mit dem von ihm begehrten Mädchen im Wege
stehen, auch eine Art Leiden. Kann aber die Aufhebung solcherart
Leiden unter allen Umständen als moralisch dringlicher gelten im
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
213
Vergleich zu der Notwendigkeit, einem nicht leidenden, aber verdienten, durch jahrelange Arbeit bewährten Angestellten zur Beförderung zu verhelfen und so sein Glück zu mehren? Vergleichbare
Bedenken könnten hinsichtlich anderer Leidenstypen und anderer
Arten von Situationen geäußert werden.
Aus dem Fall des Liebesleids wird ersichtlich, dass Glücklichmachen und Leidenvermeiden bei weitem nicht immer und überall direkt entgegengesetzte Handlungsalternativen darstellen. So wird ein
verliebter Jüngling glücklich gemacht bzw. sein Glück vermehrt, indem seine Leiden (etwa durch die verbesserte Kommunikation mit
der Geliebten) aufgehoben oder vermindert werden.
Andererseits mag mitunter die Vermehrung des Glücks bestimmter Personen das Verdrängen gewisser (aktueller oder potentieller)
Leiden (etwa im Sinne seelischer Schmerzen) zur unmittelbaren
Folge haben. In solchen Fällen würden die Leiden dadurch vermindert, dass man der leidenden Personen den Zugang zum Glück ermöglicht. Die beiden Zielsetzungen lassen sich insofern nicht stets
gegeneinander ausspielen. Vielmehr erweisen sie sich nicht selten als
miteinander kompatibel, sich gegenseitig ergänzend oder sogar aufeinander angewiesen.
3. Argumente aus der Nachrangigkeit des Glücksgebots
Popper zufolge sollten wir einsehen, (...) dass Leiden und Glück
vom moralischen Standpunkt aus nicht als symmetrisch behandelt
werden dürfen; die Forderung nach Glück ist auf jeden Fall viel weniger dringlich als die Hilfe für die Leidenden und der Versuch, das
Leiden zu verhindern5.
Diese ethische Einsicht soll uns zur Ablehnung der tradierten utilitaristischen Formel des guten Handelns und zu seiner Ersetzung
durch die Forderung der Leidensminimierung führen. Wie oben
schon angedeutet, ist der Ausdruck “dringlicher zu sein als...” in sei-
5
Ebd. Bd. I, Anmerkung 6.
214
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
nem üblichen Gebrauch meistens situationsbezogen. Deshalb ist es
eine gewagte These, ihn isoliert von den jeweiligen Situationsmerkmalen zu betrachten und nur für eine Art von menschlichen Erlebnissen – nämlich für Leiden – zu reservieren, während allen anderen
Erlebnissen und den mit ihnen verbundenen Bestrebungen entweder überhaupt keine oder eine geringere Dringlichkeit zugeschrieben wird.
Betrachten wir folgendes Beispiel: A leidet darunter, dass sie von
ihrem Chef nicht geschätzt wird, obwohl sie am Arbeitsplatz keine
besondere Leistungen erbracht hat. B ist ihrem Charakter sowie ihrem Verhalten nach eine Person, die man als halbwegs zufrieden ansehen kann; sie leidet zwar nicht, lebt aber seit längerem in der anhaltenden Apathie des Durchschnitts-Alltags. Poppers pauschaler
Asymmetrie –Vorstellung zufolge sollten wir uns vom ethischen
Standpunkt aus eher dazu berufen fühlen, A zu helfen, ihre Leiden zu
minimieren oder sogar zu beseitigen, als B, ihre Apathie zu überwinden und glücklich zu sein. Es wäre moralisch dringlicher, A zu helfen,
als B zu helfen. Diese Einschätzung scheint mir problematisch.
Das heißt: Entgegen Poppers abstraktem und einseitigem Asymmetrie-Grundsatz müssen wir die jeweils konkreten Zusammenhänge berücksichtigen. Welche Art von Leiden liegt vor? Von welcher
Intensität? Sind gewisse Leiden vielleicht gerade von dem Leidenden
selbst zu einem gutem Teil (mit-)verursacht, so dass er sich eher
selbst helfen sollte als von anderen Hilfe zu verlangen? Könnte das
Drängen, gegebene Leiden zu minimieren oder zu eliminieren, in
Fällen eines selbst verschuldeten und nicht drastischen Leidens pädagogisch kontraproduktiv sein und unverantwortliches Verhalten
fördern? Weshalb sollte man andererseits dem Bemühen, das Glück
einer Unterstützung verdienenden Person zu befördern, die moralische Dringlichkeit von vornherein absprechen, wenn:
• die Glücksvermehrung relativ leicht erzielbar ist und man nicht
zögert, bestimmte Schritte zu unternehmen, und
• die Verwirklichung dieser Zielsetzung zu gewissen breiteren
positiven Folgen für die Familie dieser Person, ihre soziale
Umgebung und ihre Leistung am Arbeitsplatz führt?
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
215
4. Exklusiver Zusammenhang zwischen moralischem
4. Appell und Leiden?
Bei Popper findet sich eine weitere Begründung seiner Asymmetrie-These, die wir berücksichtigen müssen: Seiner Ansicht nach,
enthält das menschliche Leiden einen direkten moralischen Appell,
nämlich den Appell zu helfen, während keine ähnliche Notwendigkeit besteht, das Glück oder die Freuden eines Menschen zu vermehren, dem es ohnehin gut geht. Ähnlich bemerkt Acton, dass der
Leidende die Hilfe braucht, während der Glückliche sie nicht
braucht, auch wenn er es begrüßen würde, sie zu bekommen6.
Diese Bemerkungen machen uns nochmals auf den fragwürdigen
Ausgangspunkt von Poppers und Actons These klar. Es wird von einer Situation ausgegangen, in der wir auf der einen Seite jemanden
haben, der leidet, auf der anderen jemanden der (bereits) glücklich
ist, “dem es ohnehin gut geht”, um daraus den Schluss zu ziehen,
dass der erste unsere Unterstützung und Hilfe braucht, während dies
für den zweiten nicht (oder in weit geringerem Maße) gilt.
Man denkt hier an Beispiele, in denen es darum geht, entweder
den Reichen noch reicher zu machen, oder dem Armen zu helfen,
nicht zu verhungern. Aber dieser Zug in der Auseinandersetzung mit
den alternativen ethischen Auffassungen ist unfair. Wenn wir auf der
einen Seite vor uns “den Glücklichen” haben bzw. jemanden, “dem
es (bereits) ohnehin gut geht”, auf der anderen den Leidenden, wird
kaum jemand die Poppersche These bestreiten.
Keiner würde die Vermehrung des Glücks der Hilfe zur Leidensminderung moralisch vorziehen. Aber die Situation ist weniger eindeutig, wenn wir vor uns eine Person haben, die zwar nicht leidet,
aber auch nicht glücklich ist und deren Glücksniveau sich sehr leicht
steigern ließe. (Es ist ein fragwürdiger Zug von Popper und Acton,
implizit den Begriff der nicht-leidenden Person mit dem Begriff der
glücklichen Person gleichzusetzen). Dem “Glücklichen” könnte nur
6
H. B. ACTON, “Negative utilitarianism”, in Proceedings of the Aristotelian Society, Suppl. Vol 37, London 1963, 86.
216
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
dann die Hilfsbedürftigkeit abgesprochen werden, wenn er vollständig glücklich wäre, so dass sein Wohlbefinden keiner weiteren Vermehrung fähig ist, oder er eine mögliche Steigerung seines Glücks
leicht selbst bewerkstelligen kann. Die von Popper und Acton herangezogenen Situationen stellen eher idealisierte (Grenz-)Fälle dar
als die Alltagsregel.
Im Unterschied dazu könnten wir den Begriff der Hilfsbedürftigkeit wie folgt bestimmen: A ist hilfsbedürftig bedeutet:
1. der Zustand von A ist verbesserungsfähig;
2. eine potentielle Verbesserung ist relevant und wichtig für das
Wohlergehen von A und würde die Verwirklichung von As
Dispositionen fördern;
3. A vermag die fragliche Verbesserung nicht aus eigener Kraft zustande zu bringen, oder unvollständiger oder mit erheblich höherem Aufwand als mit der Hilfe Anderer.
Daraus folgt, dass sich die Verbesserungsfähigkeit und der daran
anknüpfende Hilfsbedarf sowohl auf die Leidensminderung als auch
auf die Glücksvermehrung beziehen kann. Die oben zitierte These,
so wie sie von Popper und Acton verstanden wird, rückt damit in die
Nähe einer Tautologie bzw. eines analytischen Satzes. In ihr wird
“der Leidende” implizit von vornherein als “der, der Hilfe braucht”
verstanden, und “der Glückliche” als “der, der Hilfe nicht braucht”.
Insofern kann man die von Popper und Acton mit Nachdruck vertretene Behauptung.
Der Leidende braucht die Hilfe, während der Glückliche sie nicht
braucht, zerlegt in zwei Teilbehauptungen so umformulieren:
<Menschen sind hilfsbedürftig, die Hilfe brauchen. (Oder: Hilfe
wird von jenen Menschen gebraucht, von denen sie gebraucht wird.)>;
während die Behauptung
Der Glückliche (oder der nicht-Leidende) braucht nicht (oder
kaum) Hilfe. in Form des Satzes
<Menschen, die die Hilfe nicht (oder kaum) brauchen, sind der
Hilfe nicht (oder kaum) bedürftig. (Oder: Hilfe wird von jenen Menschen nicht gebraucht, von denen sie nicht gebraucht wird.)>
umformuliert werden kann.
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
217
Freilich ist Poppers Berufung auf “einen direkten moralischen
Appell” unklarer als Actons Erklärung. Es ist aber nicht klar, worin
sonst die Bedeutung dieser Forderung bestehen könnte. als eben in
dem, was bei Acton hervorgehoben wird. Die Rede von “moralischem Appell” bringt zwar eine gewisse normative Sinnkomponente
in die Diskussion.
Wenn man aber auf dem normativistischen Verständnis des Bestrebens, den Leidenden immer zu helfen (und diesen immer dem alternativen Bestreben vorzuziehen, das Wohlbefinden der Nicht-Leidenden zu vermehren) besteht, ist man mit der Schwierigkeit konfrontiert, dieses Verständnis ausgehend von der bloßen Tatsachenfeststellung, dass jemand sich in einem Leidenszustand befindet, zu
begründen.
Allerdings lässt sich Actons These, dass “das Leiden an uns einen
Anspruch stellt, welchen das Glück nicht stellt”, ebenso wie Poppers
Rede von einem besonderen “Appell” auch im Sinne einer psychologischen Erklärung verstehen. Sie verweist dann auf die Art und
Weise, wie die meisten Menschen auf die Begegnung mit dem (erheblichen) Leiden anderer in ihrer Umgebung quasi-instinktiv reagieren. Im Rahmen einer solchen Explikation wäre die Direktheit
des moralischen Appells, von der Popper spricht, gleichbedeutend
mit seiner psychischen Spontaneität. Es scheint jedoch fragwürdig,
von einer Feststellung des faktischen Vorliegens des Leidens bestimmter Menschen allein die verpflichtende moralische Forderung
abzuleiten, den Leidenden Hilfe zu leisten, bzw. ihr Leiden zu minimieren. Wenn man zusätzlich berücksichtigt, dass Popper gerade
im gegebenen Werk mit großem Nachdruck den Grundsatz des
“Dualismus von Tatsachen und Entscheidungen” (bzw. Normen)
vertritt, verwundert seine stille Außerkraftsetzung gerade dieses
Grundsatzes bei seinen Erörterungen zur Asymmetrie zwischen
dem Streben nach dem Glück und dem Sterben nach Leidensminderung. Die in ein solchen Ableitung fehlende normative Voraussetzung, könnte dann etwa lauten: “Leidenden Menschen soll man
immer helfen, ihr Leid zu beseitigen oder zu minimieren”. Die Ableitung des “moralischen Appells” sähe dann in standardisierter
Form so aus:
218
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
1. A leidet;
2. Es gilt die Pflicht, leidenden Menschen immer zu helfen, ihr
Leid zu beseitigen oder zu minimieren;
3. A soll geholfen werden, sein Leiden zu beseitigen oder zu minimieren.
Eine solche Ableitung vermag aber keinen formalen oder argumentationstheoretischen Vorsprung vor der Ableitung der alternativen Forderung nach Glücksvermehrung zu begründen.
5. Das Argument aus der Unmöglichkeit des Aufwiegens
5. von Leiden durch Glück und die Forderung
5. nach Gleichverteilung des Leidens
Ein weiteres Argument Poppers, das gegen den Grundsatz des
Utilitarismus gerichtet ist, das größtmögliche Glück zu schaffen, bestreitet die in diesem Grundsatz enthaltene Voraussetzung “einer Art
von kontinuierlicher Glückseligkeitsskala”, die es uns gestattet, den
Schmerz als negative Glückseligkeit aufzufassen, die durch positive
Glückseligkeit aufgewogen werden kann. Vom moralischen Standpunkt aus betrachtet, lässt sich aber Schmerz nicht durch Freude aufwiegen, insbesondere nicht der Schmerz des einen Menschen durch
die Freude des anderen.
Träfe dieses Argument zu, zeigte es die praktische Undurchführbarkeit des utilitaristischen Programms, insofern dieses vorsieht, durch
die Förderung positiver Glückseligkeit eine Proportion von Leiden
und Glück zu erreichen, bei der die Leiden durch Glück aufgewogen
werden, so dass die Nutzenbilanz dem Endergebnis nach stimmt.
Poppers Argument enthält zwei separate Kritikpunkte:
1. Die Leiden der einen Person können nicht durch das Glück anderer Personen aufgewogen werden. Diesem Argument kommt insofern Gewicht zu, als es in der Tat schwierig und mit kaum lösbaren
methodologischen Komplikationen verbunden wäre, das Glück einer
Person und das Leiden einer anderen auf einer einheitlichen Skala zu
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
219
verrechnen. Dazu müssten auch die Lebensgeschichten beider Personen auf eine intersubjektive Weise vergleichbar sein, was angesichts der qualitativ-subjektiven Seite des persönlichen Erlebens
schwierig zu bewerkstelligen wäre.
2. Das Leiden einer Person kann auch mit dem Glück derselben
Person nicht aufgewogen werden. In diesem Fall entfällt die methodologische Problematik der intersubjektiven Vergleichbarkeit.
Allerdings dürfte es auch im Rahmen einer einheitlichen Lebensgeschichte kompliziert sein, eine eindeutige und präzise Quantifizierung erlebten Leidens und erlebten Glücks zu bewerkstelligen und
zu einer exakten Berechnung des einen und des anderen zu kommen. Immerhin eröffnet sich die Möglichkeit approximativer Vergleichen nach bestimmten Indikatoren. Solche Vergleiche entsprechen dem üblichen intuitiven Verständnis unserer Lebensgeschichten, wonach einige Leiden, die wir erlebt haben, durch glückhafte
Erlebnisse in einer anderen Lebensphase annähernd kompensiert
werden können.
Aus dem soeben erörterten Argument zieht Popper nochmals den
Schluss, dass es notwendig sei, den utilitaristischen Grundsatz aufzugeben bzw. ihn durch den negativ ausgerichteten Grundsatz zu ersetzen: Statt der größten Glückseligkeit für die größte Zahl sollte
man – etwas bescheidener – das kleinste Maß an vermeidbarem Leid
für alle fordern; und man sollte weiterhin verlangen, daß unvermeidbares Leid – wie Hunger in Zeiten eines unvermeidlichen Mangels
an Nahrungsmitteln – möglichst gleichmäßig verteilt wird7.
Nachdem wir die Argumentation, die den Hintergrund dieses
Schlusses bildet (und hiermit indirekt auch der gegebenen These, insofern sie sich aus ihr herleitet) bereits problematisiert haben, wollen
wir diesen Schluss nun als eine selbstständige Behauptung (also losgelöst von seiner Bindung an jene) betrachten.
7
Ebd. 391f.
220
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
6. Das Argument des Missverständnisses unserer Pflichten
Popper ist der Meinung, das Bestreben, Menschen glücklich zu
machen, sei geprägt von einem “völligen Missverstehen unserer moralischen Pflichten”: Es ist unsere Pflicht, denen zu helfen, die unsere Hilfe brauchen; aber es kann nicht unsere Pflicht sein, andere
glücklich zu machen, denn dies hängt nicht von uns ab und bedeutet
außerdem nur zu oft einen Einbruch in die private Sphäre jener
Menschen, gegen die wir so freundliche Absichten hegen8.
Popper möchte das Glücklichmachen anderer Menschen lediglich
als stark eingeschränkte Verpflichtung behandeln. Das Recht, glükklich gemacht zu werden, müsse “als ein Privileg” betrachtet werden,
das “auf den engen Kreis ihrer Freunde beschränkt bleibt”, und dies
allein unter der Bedingung, dass “sie diese unsere Bemühungen zurückweisen können”9. Im Großem und Ganzen möchte es Popper
bei der altvertrauten liberalen Maxime belassen, nach der “die Suche
nach Glück sollte unserer privaten Initiative überlassen bleiben” sollte10. Popper argumentiert so:
1. Das Glück anderer Menschen hängt nicht von uns ab.
2. Der Versuch, andere glücklich zu machen führt häufig zur Einmischung in die Privatsphäre des Lebens von Menschen, die
wir glücklicher machen wollen.
3. Infolge von (1) und (2) kann es nicht unsere Pflicht sein, andere Menschen glücklich zu machen.
Die in (1) und (2) angeführten Gründe sind inhaltlich heterogen.
(1) legt nahe, dass das Glück des Einzelnen von anderen Menschen
grundsätzlich unabhängig sein. Popper scheint dabei, streng individualistisch, den Menschen als eine Art fensterlose Monade zu betrachten.
18
KARL R. POPPER, Die Offene Gesellschaft und ihre Feinde, Bd. II, 277.
Ebd. 278.
10 KARL R. POPPER, “Utopie und Gewalt”, in derselbe Vermutungen und
Widerlegungen, Teilband I, J.C. B. MOHAR, Tübingen 1994, 524.
19
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
221
Jegliches Bemühen um das Glück anderer würde in die Intimsphäre anderer eingreifen und einen unzulässigen Paternalismus darstellen. Diese Einschätzung dürfte jedoch überzogen restriktiv sein:
Die realen Lebensverhältnisse entsprechen eher die Auffassung, dass
das individuelle Glück zwar zuallererst Sache der individuellen Subjektivität, des privaten Lebens ist, sie aber doch nicht selten der Einwirkung anderer Menschen nicht nur fähig sondern auch bedürftig
ist. Je nachdem, in welche Richtung sich diese Einwirkung bewegt,
d. h. ob sie unseren Wünschen entspricht oder ihnen zuwiderläuft,
würde dann auch unser Glück variieren. Auch wenn die Einwirkungen anderer Menschen nicht die einzige Instanz sind, von der unseres Glück abhängt, sind sie aber zweifelsohne eine unter den hierzu
relevanten Instanzen. Insofern enthält (1) eigentlich keinen Grund
für (3). (1) könnte allenfalls nahelegen, dass wir es nicht immer und
in allen möglichen Fällen als unsere Pflicht ansehen sollten, einen
anderen Menschen glücklich zu machen. Dieser Befund unterscheidet sich aber deutlich von der von Popper vertretenen These.
Insgesamt scheint mir Poppers Beharren auf der Eingrenzung der
Glückssuche auf die Privatinitiative unnötig rigide – auch dann,
wenn man Poppers Bedenken gegen die Erhebung der allgemeiner
Glücksvermehrung zum “Programm der öffentlichen Politik” berücksichtigt und seine Warnungen vor einer utopischen Menschheitsbeglückung ernst nimmt. Zwischen der Privatinitiative einerseits und einem administrativen Programm öffentlicher, stattlich geplanter Sozialpolitik andererseits besteht ja ein beträchtlicher Spielraum für das auf die Glücksvermehrung anderer zielende Handeln
verschiedener Individuen und Gruppen. Ohne solches, unser Glück
förderndes Handeln würden sich die Möglichkeiten von Glück und
Wohlbefinden stark reduzieren.
Auch Poppers Forderung “Die Suche nach Glück sollte unserer
eigenen privaten Initiative überlassen bleiben” und “die Förderung
des Glücks” stelle “kein, insbesondere kein dringliches, Problem”
der “öffentlichen Politik” dar überzeugt nicht11. Mit den fürsorgen-
11
Ebd. 524.
222
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
den Maßnahmen des Sozial – und Wohlfahrtsstaates können sehr
wohl eine Reihe von Ergebnissen erzielt werden, die das Wohlergehen der Menschen steigern. Popper hat sogar selbst bestimmte von
diesen möglichen Maßnahmen der öffentlichen Politik beim Namen genannt, sie dabei aber nur für seine negativistische Zielsetzung reserviert – als ob sich alle Auswirkungen der “Sicherung eines
Mindesteinkommens für jedermann” oder der “Bau von Krankenhäusern und medizinischen Lehranstalten”, der Stärkung des Bildungssystems und seine Öffnung für breiteste Bevölkerungsschichten darin erschöpften, entsprechende Missstände zu beseitigen und
nicht im geringsten auch zur Beförderung des Wohlergehens von
Menschen beitrügen.
7. Sozialtechnologische Argumente
Vor dem Hintergrund seiner Konzeption der “Sozialtechnik der
kleinen Schritte” hat Popper weitere Argumente für seine Befürwortung des negativen Ansatzes in der Ethik vorgetragen. Dass jede Generation von Menschen weniger einen Anspruch auf Glück als vielmehr einen Anspruch darauf hat, “nicht unglücklich gemacht zu werden, soweit dies überhaupt vermeidbar ist”, vertritt er u. a. auf dem
Hintergrund der Meinung, dass es “keine institutionellen Mittel”
gibt, “einen Menschen glücklich zu machen”12. Weiter schreibt Popper: “Den Leidenden steht ein Recht auf alle nur erdenkliche Hilfe
zu. Dementsprechend wird sich der Anwalt der Sozialtechnik der
kleinen Schritte nach den größten und dringlichsten Übel in der Gesellschaft umsehen, und er wird versuchen, sie zu beseitigen; Er wird
nicht dem höchsten Gut nachspüren und sich für seine Verwirklichung einsetzen”.
Schmerz, Leiden, Ungerechtigkeit und ihre Verhütung – das sind
ewige Probleme der öffentlichen Moral, das Programm” der öffent-
12
KARL R. POPPER, Die offene Gesellschaft und ihre Feinde, Bd. II, 188.
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
223
lichen Politik13. Popper geht es hier darum, Methoden der Sozialtechnik auszugrenzen, die, wenn sie ausprobiert werden, “leicht zu
einer unerträglichen Zunahme menschlichen Leidens führen” können. Darüber hinaus stellt er die These auf, dass sich (...) eine Einigung über die bestehenden Übel und die Mittel zu ihrer Bekämpfung
leichter erreichen lässt als eine Einigung über ein ideales Gut und
über die Mittel zu seiner Verwirklichung14.
Und in einer weiteren Schrift behauptet er ähnlich: Es ist viel
leichter, eine solche Einigung zu erreichen, als eine Einigung über
irgend eine ideale Form des sozialen Lebens. Denn die Übel finden
wir hier und heute in unserer Mitte. Sie können erfahren werden,
und sie werden täglich von vielen Leuten erfahren, die durch Armut, Arbeitslosigkeit, nationale Unterdrückung, Krieg und Krankheit unglücklich gemacht wurden und immer noch werden. Wer
nicht selbst unter solcher Not leidet, trifft jeden Tag andere, die davon berichten können. Das ist es, was wir erreichen können, wenn
wir darüber diskutieren weshalb wir hier Nutzen aus der rationalen
Haltung ziehen können15.
Acton hat in seinem Kommentar eine vergleichbare These aufgestellt, es sei im Allgemeinen “leichter”, den Menschen zu helfen, ihr
Leid zu meiden, als ihnen ein “positives Glück” zuzusichern16. Die von
Popper hervorgehobenen Umstände sind sozialpolitisch außerordentlich wichtig, weil sie der Hoffnung Platz lassen, durch die Anwendung
der Sozialtechnik kleiner Schritte werde sich ein “vernünftiger Kompromiss” erzielen lassen. Bezüglich der erwünschten Überwindung
“aller größten Schwierigkeit jeder vernünftigen politischen Reform”,
werde hiermit zugleich dazu beigetragen, dass bei Reformen nicht Leidenschaft und Gewalt siegen, sondern die Vernunft17.
13
Ebd. Bd. II, 278.
Ebd. 189f.
15 KARL R. POPPER, “Utopie und Gewalt”, in derselbe Vermutungen und
Widerlegungen, Teilband I, 524.
16 H. B. ACTON, “Negative utilitarianism”, in Proceedings of the Aristotelian
Society, Suppl. Vol 37, 86.
17 Vgl. KARL R. POPPER, Die offene Gesellschaft und ihre Feinde, Bd. II, 190.
14
224
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
Poppers Kopplung der schrittweisen Sozialtechnologie an negative Zielsetzungen ist jedoch einseitig und problematisch. Im nächsten
Abschnitt wollen wir die Fragwürdigkeit solcher Festsetzungen weiter untersuchen.
8. Das Argument der Gefährlichkeit des Glücklichmachens
Im Rahmen seiner kritischen Argumentation problematisiert
Popper u. a. auch die mit dem positiven Utilitarismus einhergehenden politischen Ideale. Dabei stellt er die starke Behauptung auf, dass
(...) von allen politischen Idealen (...) der Wunsch, die Menschheit
glücklich zu machen, vielleicht der gefährlichste (ist). Ein solcher
Wunsch führt unvermeidlich zu dem Versuch, anderen Menschen
unsere Ordnung “höhere” Werte aufzuzwingen, um ihnen so die
Einsicht in Dinge zu verschaffen, die uns für ihr Glück am wichtigsten zu sein scheinen; also gleichsam zu dem Versuch, ihre Seelen zu
retten. Dieser Wunsch führt zu Utopismus und Romantizismus. Wir
alle haben das sichere Gefühl, dass jedermann in der schönen, der
vollkommenen Gemeinschaft unserer Träume glücklich sein würde
(...) Aber, (...) der Versuch, den Himmel auf Erden zu errichten, erzeugt stets die Hölle. Dieser Versuch führt zu Intoleranz, zu religiösen Kriegen und zur Rettung der Seele durch die Inquisition18.
Popper identifiziert die “politische Forderung nach schrittweise
vorgehenden Methoden (im Gegensatz zu utopischen)” mit der
“Entscheidung, dass der Kampf gegen das Leiden Pflicht ist”. Es ist
jedoch fragwürdig, ob diese Entsprechung so exklusiv ist, wie dies
Popper vertritt.
Die sozialtechnologische Forderung nach schrittweise vorgehenden gesellschaftlichen Reformen dürfte grundsätzlich auch mit der
Entscheidung vereinbar sein, einen demokratischen Wohlfahrtsstaat
auszubauen. Mit anderen Worten, die nicht-utopischen politischen
Programme müssen nicht nur negative Zielsetzungen enthalten. So
18
Ebd. Bd. II, 277.
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
225
ist etwa die Jahrzehnte andauernde sozialdemokratische Politik in
Schweden und Österreich keinem Utopismus und Romantizismus
verfallen, sondern ging mit einem rationalen sozialstaatlichen Reformismus einher, mit dem der Wohlstand der breiten Bevölkerungsschichten deutlich verbessert wurde.
Es ist außerdem unverständlich, dass Popper bei seiner Beurteilung der Zielsetzung der Glücksvermehrung praktisch keinen Unterschied macht zwischen den der empiristischen Tradition verpflichteten britischen Utilitaristen, die zumeist zugleich methodologische Individualisten (so insbesondere Bentham) und Anhänger von schrittweisen politischen Reformen waren, und den holistisch-utopischen
Projekten der Menschheitsbeglückung durch eine umfassende Umwandlung sozialer Verhältnisse, die in den Totalitarismus mündeten –
als ob in dem einen und im anderen Fall die gemeinsamen Zielsetzungen der Vermehrung des Glücks nicht sehr deutlich verschiedene
Verwirklichungsform gehabt hätten und sehr verschiedene vorgesehene Mitteln zu ihrer Verwirklichung eingesetzt wurden. Popper
scheint unbedenklich (positive) Handlungsziele mit utopischen Endzielen und Idealen und (positive) Güter mit einem höchsten bzw. absoluten Gut gleichzusetzen. Es kann jedoch nicht zulässig sein, die
beiden Positionen – einerseits den Utilitarismus, andererseits den holistischen Sozialutopismus – in einem Zuge darzustellen und zu kritisieren, so als ob es sich um ein und dieselbe Sache handelte.
9. Motivationspsychologisches Argument
Die Sozialtechnik der kleinen Schritte ist Popper zufolge “die einzige Methode, die sozialen Zustände zu verbessern”, und sie kann
eben damit verteidigt warden (...) dass die systematische Bekämpfung
des Leidens, der Ungerechtigkeit und des Krieges viel eher die
Unterstützung einer großen Zahl von Menschen finden wird als der
Kampf für die Verwirklichung irgendeines Ideals19.
19
Ebd. Bd. II, 277.
226
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
Ein systematischer Kampf gegen bestimmte Missstände, gegen konkrete Formen der Ungerechtigkeit oder der Ausbeutung, gegen Leiden, die sich vermeiden lassen, wie etwa Armut und Arbeitslosigkeit (...)
ein solcher Kampf gegen konkrete Missstände und konkrete Gefahren
[wird] vermutlich leichter die Unterstützung einer großen Mehrheit
finden als der Kampf um die Errichtung einer utopischen Gesellschaftsordnung, so ideal sie ihren Planern auch erscheinen mag20.
Mit “Ideal” scheint Popper hier die positiven Wertvorstellungen
(etwa im Sinne des “höchsten Gutes”) zu meinen. Offenbar handelt es
sich bei seiner These um eine recht starke Behauptung. Als eine empirische Annahme müsste sie wohl im Rahmen sozialpsychologischer
Forschung systematisch getestet werden. Mir sind keine umfangreicheren Forschungen zu einer solchen Hypothese bekannt. Ich würde
aber die Vermutung wagen, dass Poppers Einschätzung zu pauschal
ausfällt. Sie schöpft ihre Überzeugungskraft aus dem Umstand, dass
er sich u. a. auf Großübel, wie es der Krieg ist, beruft. Und bei einem
derartigen Übel kann man wohl vernünftigerweise vorhersagen, dass
große Mengen von Menschen der Bemühung, es zu vermeiden und
zu verhindern, positiv ausgerichteten Bestrebungen den Vorzug geben – insbesondere in geschichtlichen Situationen, in denen die
Kriegsgefahr eine reale Bedrohung darstellt. Ich bezweifle aber, ob
dies für jedes Leiden oder jede Ungerechtigkeit gilt.
Andererseits zeigen uns die Erfahrungen aus der Zivilisationsgeschichte, dass es positive Ideale bzw. Wertvorstellungen gegeben hat
und gibt, die auf große Teile der Bevölkerung eine starke Anziehungskraft ausüben. Und wenn sich die Frage stellt, ob die große
Menge der Menschen sich eher für die Unterstützung der Bemühung eine freie Gesellschaftsordnung mit materiellen Wohlstand,
Chancengleichheit für alle und gleichen Grundrechte entscheiden
wird oder demgegenüber für die bescheidene Bemühung, die Frustration eines bis dann privilegierten gesellschaftlichen Standes zu
vermindern bzw. zu beseitigen, würde sich unter normalen Umstän-
20
KARL R. POPPER, “Utopie und Gewalt”, in derselbe Vermutungen und
Widerlegungen, Teilband I, 73.
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
227
den die erste Alternative aller Wahrscheinlichkeit nach größerer
Unterstützung erfreuen.
Poppers These behält ihre Geltung allerdings für jene Fälle, in
denen wir so drastische Übel und Leiden vor uns haben, dass der gesunde Menschenverstand dazu neigt, ihre Beseitigung dem Streben
nach positiven Idealen vorzuziehen. Solche Fälle – obschon besonders wichtig – bilden aber nur eine verhältnismäßig kleine Untermenge aller möglichen Situationen, in denen moralische Entscheidungen gefragt sind. In ihrer allgemeinen Form scheint Poppers
These schwer aufrechtzuerhalten. Im Großen und Ganzen dürfte die
Einschätzung des Urvaters des Utilitarismus, Epikur, eher zuzutreffen, dass jedes Lebewesen nicht nur Schmerz so weit wie möglich
flieht, sondern auch nach Lust strebt.
10. Theologische Argumente: Die Ziele moralischen
10. Handelns aus christlicher Sicht
Die negativistische Ausrichtung, die Popper einer rationalen
Ethik geben will, lehnt sich auch an die christlich-theologische Tradition an, und zwar vornehmlich an den Protestantismus (zu dem
Poppers Familie in Wien konvertiert war). Dieser Bezug ist bisher
völlig übersehen worden. Popper beruft sich mehrfach auf den protestantischen Theologen Karl Barth und dessen Bemerkung, nach
der das ganze Leben Jesu Christi eigentlich Leiden sei21. Die “Anbetung des historischen Erfolgs” sei “eine antichristliche Einstellung”
und “götzenhaft”22. Eine Einstellung, derzufolge “der weltliche Erfolg der letzte Richter und die letzte Rechtfertigung unserer Handlungen” sei, sei unvereinbar “mit dem Geist des Christentums”, da
“das Christentum lehrt, dass der weltliche Erfolg nicht entscheidend
ist”23. Obwohl sich Poppers Verständnis des Christentums als einsei-
21
KARL BARTH, Credo, Zürich 1936.
KARL R. POPPER, Die offene Gesellschaft und ihre Feinde, Bd. II, 319f.
23 Ebd. Bd. II, 319f.
22
228
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
tig pessimistisch erweisen dürfte, ist kaum zu bestreiten, dass sich seine Kritik des Utilitarismus auch an gewisse Aspekte der christlichen
Weltanschauung anlehnt24.
Überraschenderweise findet sich aber gerade hier, also innerhalb
der theologischer Argumentationsführung, eine Stellungnahme, mit
der die restriktiv negativistische Zielsetzung ein Stück weit relativiert
wird. Und es ist sicher möglich, eine Haltung äußerster Reserve und
sogar Verachtung für weltliche Erfolge im Sinn von Macht, Ruhm
und Reichtum mit einem Versuch zu vereinen, in dieser Welt sein
Bestes zu tun, und die menschlichen Ziele, zu deren Annahme man
sich entschlossen hat, mit der klaren Absicht zu fördern, sie zum Erfolg zu führen; nicht um den Erfolges willen, nicht, weil uns die Geschichte rechtfertigen wird, sondern um dieser Ziele selbst willen.
Mit der impliziten Zulassung positiver ethischer Zielsetzungen rück
Popper einen Schritt näher an eine moderate Position heran.
Schluss. Popper – ein exzentrischer Utilitarist?
Popper hat seinen Vorschlag zur grundlegenden Umstellung des
ethischen Denkens nachdrücklich dem tradierten Utilitarismus entgegengesetzt25. Daraus darf man allerdings nicht schließen, Poppers
eigene Konzeption sei nichts anderes als nur ein modifizierter Utilitarismus oder die Fortsetzung dieser ethischen Position mit den anderen, “negativen” Mitteln. Erstaunlich viele Kommentatoren tendierten zu der Position. Dazu hat vermutlich der Umstand beigetragen, dass bereits in den ersten Erwiderungen die Bezeichnung “negativer Utilitarismus” eingeführt worden ist26. Auch Popper-Kenner
24
Wie etwa an der Ablehnung des innerweltlichen Hedonismus.
Vgl. dazu meine sich im Erscheinen befindende Arbeit “Worin unterscheidet sich der negative Utilitarismus vom positiven und läßt er sich mit ihm
kombinieren? Entwurf einer moderaten Spielart des negativen Utilitarismus”
(2006), in ETHICA, Innsbruck, No. 4/2007.
26 Popper zitiert das bekannte Bartsche Buch Credo aus dem Jahre 1936. An
diese Interpretation der christlichen Theologie anknüpfend, lehnt er mit erbit25
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
229
wie Acton und Watkins haben diese Bezeichnung mehr oder weniger
selbstverständlich übernommen. Hätten die Popper-Kommentatoren die relevanten Textstellen genauer gelesen, hätten sie allerdings
bemerkt, dass Popper zugleich “a negative formulation of the Kantian principle” (obwohl dies im Text seiner Äußerung nicht so explizit
mitgeteilt wird) vorgeschlagen hat. Seine Erwiderung auf Popper
hätte Smart also genauso gut mit der Überschrift “Negative Deontology” versehen können. Popper distanziert sich nämlich nicht nur
vom überlieferten “positiven” Utilitarismus, sondern zugleich auch
vom Kantianismus. Auch das Prinzip des letzteren bezeichnet er als
in seiner positiven Formulierung “grundfalsch”. Bei Poppers Vorschlägen für eine Umorientierung des ethischen Räsonierens handelt
es sich insofern um eine allgemeine Empfehlung, die grundsätzlich
für alle Ansätze der Ethik gilt. Dies ist deshalb wichtig, weil Popper
an zahlreichen Stellen seines Werks zu verstehen gibt, dass ihm die
deontologische Position näher liegt. Freilich, setzt er sich im Rahmen seiner Ausführungen meistens mit der utilitaristischen Version
auseinander – offenbar weil er in dieser Position den konzeptionellen Gegner sieht. Aber genau dies zeigt seine Nähe zu den alternativen Grundannahmen der ethischen Auffassungen Kants.
Diese Nähe zu Kant zeigt sich auch in Poppers eigener moralphilosophischen Position, die als eine Art auf dem Gleichheitsprinzip
aufbauender und konsequent individualistisch ausgerichteter Ge-
terten Entschloßenheit die Lehre von der Offenbarung Gottes in der Menschheitsgeschichte ab. Genauso die allgemeinere Ansicht auch, “daß die Geschichte sinnvoll”, und “ihr Sinn der Zweck Gottes” sei (ebd. 318). Vielmehr, qualifiziert er diese Ansicht als “eine Gotteslästerung”(!). Für die philosophische Fixierung und Ausbreitung dieser problematischen Deutung des Christentums,
die seiner Meinung nach eigentlich keine Grundlage im Neuen Testament hat,
macht Popper den G. F. W. Hegel verantwortlich. Die Weltgeschichte hat dagegen keinen inhärenten Sinn, sondern einzig und allein denjenigen, den ihr die
Menschen selbst druch ihr Handeln geben. Der andere, philosophische antihistorizistische Interpret des Christentums, an den er sich auch zu berufen pflegt
ist S. Kierkegaard. Den Popper als den Geschichtstheologen haben die Interpreten
aber bislang kaum wahrgenommen.
230
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
rechtigkeits – und Verantwortungsethik verstanden werden kann. Ihre ideengeschichtlichen Hauptquellen sind die Aufklärung (wie sie
insbesondere in Kants Denken zum Ausdruck kommen) sowie die
christliche Überlieferung.
Allerdings wirft das die Frage auf, wie weit sich die Grundsätze
dieser eher kantischen als utilitaristischen Ethik mit einer ausschließlich negativer Zielsetzung verwirklichen lassen. Die von Popper zustimmend zitierte positive Version der Goldenen Regel27
scheint die positive Verpflichtung zu implizieren, unser Verhalten
gegenüber anderen Menschen grundsätzlich nach deren eigenen
Wünschen zu richten. Diese betreffen aber in der Regel nicht nur die
Minimierung des Leidens, sondern auch die Beförderung des persönlichen Wohlergehens. Auch andere Forderungen von Poppers
Ethik, etwa die nach Gleichbehandlung aller Menschen sowie danach, sie alle als vernünftige Wesen zu behandeln, scheinen mit einer
rein negativen Orientierung nur schwer zu vereinbaren.
Man könnte angesichts dieser Unvereinbarkeiten daran denken,
Popper die Position zuzuschreiben, dass sich die Forderung nach einer rein negativen Orientierung auf diejenigen moralischen Grundsätze beschränken soll, die das Wohlbefinden von Personen betreffen. Dagegen spricht jedoch, dass einige von Poppers Argumenten
für anderweite moralische Grundsätze ebenso relevant sind – so etwa, wenn es um das epistemische Argument der größeren Klarheit
von negativ ausgedrückten Forderungen oder der leichteren Feststellbarkeit von Verstößen gegen negative Normen geht. Leider ist
Popper auf diese Frage an keiner Stelle näher eingegangen.
Poppers auf einem rationalistisch-humanistischen Hintergrund
entwickelter Ethikentwurf hat trotz seines fragmentarischen Charakters eine breite Spur innerhalb der modernen Diskussion hinterlassen. Die Breite dieser Spur steht in einem deutlichen Missverhältnis
zu dem geringen Raum, der Popper ethischen Fragen in seinen
Schriften zuweist. Die wichtigsten Aussagen, in denen er eine Alternative zum überliefertem Ethikverständnis konzipiert, finden sich
27
Vgl. KARL R. POPPER, Die Offene Gesellschaft und ihre Feinde, Bd. II, Anm. 20.
POPPERS VORSTOSS ZUM “NEGATIVEN UTILITARISMUS”?
231
nicht im Haupttext seiner Werke zur Sozialphilosophie, sondern in
den Endnoten. Auch nachdem seine Thesen zur Ethik von anderen
Philosophen aufgegriffen und diskutiert worden sind, hat sich Popper offenbar nicht dazu entschließen können, sie weiter auszuarbeiten oder gegen Kritiken zu verteidigen. Wir sind darauf angewiesen,
uns an den publizierten Schriften zu orientieren.
232
DRAGAN JAKOVLJEVIĆ
SUMMARIES
Jakovljević investigates the negative version of utilitarianism often attributed to
Karl R. Popper, which evaluates human action primarily according to the negative criteria of the reduction or the elimination of suffering and pain. The author
observes that Popper’s writings in this area are fragmentary at best, and the few
texts which speak directly to the issue have not been subjected to in-depth
analysis. This study wishes to contribute to a correct understanding of Popper’s
“negative-utilitarianism,” by taking into consideration how in fact Popper’s
thought was formulated in response to Kant, and incorporates specific aspects
characteristic of a Christian approach to reality.
***
El estudio de Jakovljević está dedicado a aclarar la interpretación negativa del
utilitarismo que frecuentemente atribuyen a Karl R. Popper; es decir, a poner de
relieve en primer lugar el valor del obrar humano según los critrerios negativos
que el mismo Popper coloca en la disminución, más aún, en la eliminación del
sufrimiento y del dolor. Se debe advertir que las referencias que se hacen a
Popper son fragmentarias. Hace falta un análisis profundo de los textos al respecto. Este artículo intenta ofrecer una comprensión correcta del pensamiento
de Popper acerca del “utilitarismo negativo”; esto exige tomar en consideración
su posición frente a Kant y también los elementos cristianos de aproximación a
la realidad.
***
Lo studio di Jakovljević è dedicato a quella interpretazione negativa dell’utilitarismo che tanti attribuiscono a Karl R. Popper, vale a dire: soppesare il valore
dell’agire umano primariamente secondo criteri negativi che lo stesso Popper
colloca nella diminuzione, anzi eliminazione, di sofferenza e dolore. Va osservato che i rimandi a Popper per lo più sono frammentari. Manca invece un’analisi approfondita dei suoi testi al riguardo. Il presente articolo si propone di
offrire un contributo per una comprensione corretta del pensiero di Popper
sull’ “utilitarismo negativo” prendendo in considerazione anche la sua posizione di fronte a Kant e alcuni elementi cristiani di approccio alla realtà presenti
nella sua riflessione.
QUALE “QUALITÀ” DELLA VITA UMANA?
Approccio antropologico-etico al concetto di vita
nella discussione bioetica
Edmund Kowalski, C.Ss.R.*
Introduzione
La determinazione del concetto di vita apre una grande ed ampia
questione: che cos’è la vita umana? Il problema del bene fondamentale della vita umana, del suo senso e della sua difesa sembra quello su
cui si esercita con più intensità l’influsso dell’ideologia libertaria, utilitarista e nichilista, che circola nelle liberaldemocrazie di oggi sotto
l’assunto che la gestione della vita sia cosa di rilevanza privata, soggetta, entro ampi limiti, alla discrezionale libertà dell’individuo (A.
Possenti). In questa posizione si fa avanti l’idea secondo cui non esistono beni personali e morali non negoziabili, sottratti alla contrattazione, alla regola della maggioranza e alla decisione discrezionale
della legge positiva. In realtà tali beni primari, che comprendono il
modello naturale di famiglia, lo statuto ontologico dell’embrione
umano, l’illiceità dell’aborto e dell’eutanasia, formano un complesso
di beni che devono essere tutelati dal diritto delle genti e costituiscono qualcosa di anteriore al diritto positivo stabilito dallo Stato o dalle istituzioni internazionali.
Il tema della nostra riflessione viene esposto da un’angolazione
specifica; si tratta innanzitutto di chiarire la nozione presa in considerazione: la vita umana. Perciò parleremo dell’uomo in quanto persona. A tale argomento si collocano l’antropologia filosofica (bios),
l’agire dell’uomo e le sue conseguenze (ethos). È più corretto partire
da questi dati fondamentali per proseguire a visioni teoretiche più
* The author is extraordinary professor of the Alphonsian Academy
* El autor es profesor extraordinario en la Academia Alfonsiana
StMor 46/1 (2008) 233-259
234
EDMUND KOWALSKI
generali, filosofiche, antropologiche ed etiche (qualità, sacralità e dignità della vita umana), cercando non tanto le divergenze, ma soprattutto i legami comuni originari, per avere una visione generale
della vita umana nella sua identità più profonda e più personale.
1. Ampiezza del concetto
La riflessione sulle tematiche della qualità della vita si consolida a
partire dalla seconda metà del XX secolo (M. Tooley, 1972; H. T. Engelhardt, 1973; R. A. Mc Cormick, 1974, J. Fletcher, 1975), quando
– paradossalmente – si vengono a creare condizioni generali di vita
più che soddisfacenti per la maggior parte delle persone nel mondo
sviluppato e ci si pone il problema di un miglioramento complessivo
dello stato di benessere da molti punti di vista. Prima di allora, infatti, esistevano alcuni fenomeni che non portavano a tale riflessione
poiché la “quantità” e la “qualità” erano ancora precarie. Si pensi alla II Guerra Mondiale, tragico evento che coinvolse gran parte della
popolazione mondiale, alla diffusione di malattie infettive di proporzioni epidemiche (come la terribile “spagnola” e “asiatica”), alla massiccia presenza endemica (malaria, tubercolosi), all’alta mortalità infantile, alla bassa durata della vita media, che agli inizi del secolo
scorso non superava i 50 anni, alla medicina ancora nell’era “pre-antibiotica”. Tutti questi eventi caratterizzano le condizioni di vita della prima metà del XX secolo e si modificano radicalmente nella seconda metà, in cui si avvia – peraltro – quel processo di risanamento
economico che porterà al “boom” degli anni ’601.
“Negli ultimi cinquant’anni, le organizzazioni internazionali hanno
raccomandato la realizzazione di ampi programmi sanitari nei paesi
in via di sviluppo per assicurare l’accesso della popolazione ad un livello minimo di cure. I vari approcci proposti hanno raggiunto il lo-
1
S. LEONE, “Qualità della vita”, in S. LEONE, S. PRIVITERA (a cura di), Nuovo Dizionario di Bioetica, Città Nuova, Roma 2004, 979.
QUALE “QUALITÀ” DELLA VITA UMANA?
235
ro obbiettivo – secondo Jean-Marie Le Méné – in maniera assolutamente iniqua. Le ideologie di fondo di questi approcci non sono
estranee a questo fallimento”2.
La Conferenza Internazionale sull’assistenza sanitaria primaria,
organizzata dall’OMS e dall’UNICEF e tenuta dal 6 al 12 settembre
1978 ad Alma Ata (URSS), ha rappresentato una vera svolta alla realizzazione di programmi sanitari nei paesi in via di sviluppo. La solenne dichiarazione, proclamata in quella occasione (cosiddetta Dichiarazione di Alma Ata), invitava tutti i paesi a fare della promozione
dell’assistenza sanitaria primaria il fulcro dello sviluppo dei sistemi
sanitari. La questione era quella di assicurare l’accesso a tutte le persone ad un livello di salute soddisfacente entro l’anno 2000. Lo slogan “Salute per tutti nell’anno 2000” divenne un motto per le politiche sanitarie, nei paesi in via di sviluppo in generale e in Africa in
particolare. I paesi sviluppati non presero parte a questo movimento
che fu di fatto voluto per i paesi poveri del pianeta. Tuttavia un gran
numero di programmi e progetti fallì. I fondi erano insufficienti, gli
operatori sanitari erano stati formati ed equipaggiati in maniera inadeguata per i problemi che erano stati chiamati a risolvere e la qualità delle cure era scarsa. In via generale, l’illusione di Alma Ata fu
quella di gestire la sanità dei paesi poveri sulla base di un modello di
assistenza sanitaria elaborato solo idealmente, ma inappropriato e insufficiente realisticamente. L’errore, da parte delle organizzazioni internazionali, fu quello di inventare “modelli” ideologici ed imporli
agli stati beneficiari, senza tenere sufficientemente in considerazione
il bene delle persone3.
Alla metà degli anni ‘80, dopo aver preso atto delle difficoltà in cui
si trovavano i servizi di assistenza sanitaria primaria, si raggiunse un
2
J. M. LE MÉNÉ, “Etica della salute e gestione della salute mondiale”, in E.
SGRECCIA, I. CARRASCO DE PAULA (a cura di), Qualità della vita ed etica della salute (Atti dell’XI Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita,
Città del Vaticano, 21-23 febbraio 2005), Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 2006, 39.
3 Ibid., 40-41.
236
EDMUND KOWALSKI
consenso, tra le istituzioni internazionali, sulla necessità che gli stessi utenti si facessero carico almeno di una parte delle spese sanitarie.
Fu J. Grant, direttore dell’UNICEF, a lanciare questa idea col nome
di “iniziativa di Bamako” (Mali). Tale iniziativa fu adottata nel 1978
dal 37° Comitato Regionale dell’OMS. Il principio di base era il seguente: la vendita diretta agli utenti di farmaci generici a prezzo ribassato e rivenduti con un margine di profitto potrebbe assicurato la
ripresa dell’approvvigionamento medico e la copertura dei costi d’esercizio delle strutture sanitarie. Per questo, l’iniziativa di Bamako
portò ad abbandonare la gratuità e il finanziamento della sanità con
risorse di bilancio, storicamente privilegiato. Di fatto, il sistema finanziario messo in piedi era destinato al collasso: poiché il tasso di
frequenza delle strutture sanitarie non aumentava mentre le spese
subivano un incremento e il tasso di recupero per le prestazioni diminuiva. Inoltre, non sempre si otteneva il miglioramento della qualità dei servizi sanitari assistenziali, quindi dell’offerta, che si pensava
sarebbe andata di pari passo con il principio del pagamento di questi
servizi. Nessun fattore indica un miglioramento, degno di nota, dello stato di salute delle persone dovuto all’iniziativa di Bamako. Gli
anni ’90 sono stati caratterizzati da approcci settoriali nei paesi in cui
l’aiuto esterno ha contribuito ampiamente a finanziare i sistemi sanitari. È stato durante questo periodo che la Banca Mondiale è diventata il primo finanziatore pubblico nell’area sanitaria. Di fatto, ci fu
un trasferimento di competenze e responsabilità dall’OMS alla Banca Mondiale per le questioni riguardanti la salute, a causa del quale
l’OMS ha dovuto fronteggiare una crisi di affidabilità e credibilità.
Tutto sommato, gli aspetti economici non sono l’unico fattore di
esclusione per l’accesso all’assistenza sanitaria. Né la Dichiarazione di
Alma Ata, né l’iniziativa di Bamako, e neppure gli approcci settoriali
sono stati in grado di strutturare e rafforzare la qualità dell’offerta sanitaria. L’ideologia sottostante ai singoli interventi delle organizzazioni internazionali a favore del Terzo Mondo non mai messo le persone sufficientemente al centro della gestione sanitaria4.
4
Ibid., 42.
QUALE “QUALITÀ” DELLA VITA UMANA?
237
Il contestuale sviluppo delle conoscenze dal punto di vista scientifico, specialmente in campo biomedico, oltre a porre interrogativi
che porteranno al sorgere della stessa bioetica come disciplina specifica, rende possibili cure e interventi un tempo impensabili. Le società si riorganizzano complessivamente con l’obiettivo di garantire
ai propri membri un maggiore “benessere”, tanto da parlare di “welfare state” e di “welfare society”5 e il criterio per individuare gli spazi di benessere (e quelli di miglioramento) è proprio quello di “qualità della vita”, che si precisa nei vari settori, ma purtroppo – come
abbiamo visto – non in tutti i paesi6.
Quando si parla di “qualità della vita”, senza ulteriori precisazioni, s’intende abbracciare la totalità dei fattori che contribuiscono a
determinarla; ma per agire direttamente sulla qualità della vita, anche
al fine di cercare di migliorarla è importante fare riferimento ad una
serie di “indicatori” riguardo ai diversi ambiti la cui “qualità” può migliorare o peggiorare; ne indichiamo alcuni a titolo esemplificativo:
cultura della pace e crescita della popolazione; salute e sanità (alla “vecchia”
medicina dei “bisogni” (terapie) si aggiunge totalmente la nuova “disciplina” chiamata adesso “biomedicina” o “medicina dei desideri”);
educazione ed istruzione (crolla il grado di analfabetismo e aumentano
il grado della scolarità e della spesa per l’educazione e l’istruzione,
una maggiore attenzione al bambino, alla famiglia e alla dimensione
culturale dell’uomo nei vari contesti etnici sociali); politica ed etica del
lavoro (le politiche sociali si prendono carico delle condizioni di vita
5 Cfr. I. COLOZZI, “Che cosa è il Welfare State, perché riformarlo?”, in Rivista di Teologia Morale 117 (1998)1, 11-15; M. TOSO, Welfare Society: significato e
contenuti, in Rivista di Teologia Morale 117 (1998)1, 17-24; G. M. MIGLIETTA,
“Welfare State: diversi modelli”, in RdTM 116 (1997) 4, 541-547; M. FERRERA,
M. RHODES (edd.), Recasting European Welfare States, Frank Cass, London 2000;
S. KUHNLE (ed.), Survival of the European Welfare State, Routledge, London 2000;
P. PIERSON, The New Politics of the Welfare State, Oxford University Press 2001.
6 S. ZAMAGNI, Equità, razionamento, diritto alle cure sanitarie, in E. SGRECCIA,
I. CARRASCO DE PAULA (a cura di), Qualità della vita ed etica della salute, 74-104;
J. M. LE MÉNÉ, Etica della salute e gestione della salute mondiale, in ibid., 31-46; W.
RICCIARDI, Le politiche sanitarie e la qualità della vita nelle democrazie occidentali, in
ibid., 117-125.
238
EDMUND KOWALSKI
dei lavoratori, della sicurezza infortunistica, della tutela sindacale,
dell’adeguatezza salariale, dell’assistenza sanitaria e del trattamento
pensionistico); radicale cambiamento al tenore di vita (aumento della
ricchezza, propensione ai consumi, al risparmio e all’abitazione; trovano uno specifico spazio le attività ricreative e culturali; si assiste a
una rinnovata attenzione per la corporeità che si incentra sulla mitizzazione della triade: “corpo bello” (attenzione alla cosmesi, business
della moda), “corpo sano” (sviluppo della medicina preventiva, successo della dietetica e dell’alimentazione programmata), “corpo forte” (sviluppo della forza fisica, apprezzamento del body building)); inizio e sviluppo dell’ecologia (l’uomo si scopre parte e artefice di un ambiente che egli stesso rischia di distruggere; l’ecologia acquista spazio
politico e valenza socio-culturale di primaria importanza. Nel tentativo di salvaguardare il futuro del Pianeta dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, dovuti all’effetto serra, e dalle varie forme di inquinamento, sono state organizzate diverse Conferenze mondiali sull’ambiente. In particolare, nella Conferenza di Kyoto (dicembre
1997) fu redatto un protocollo in base al quale gli Stati s’impegnavano a ridurre, entro il 2008-2012, l’anidride carbonica nella misura del
5% del contenuto del 1990 valutato in circa 353 ppm. Tale protocollo non è stato ratificato da Stati Uniti, Russia e Cina. Anche certi
paesi in via di sviluppo non intendono ratificarlo; tutto è vero che
nella Conferenza successiva, tenendosi a Nuova Delhi, nell’ottobre
2002, si è constato che in nessuna parte del mondo era cominciata tale riduzione7).
Tutto questo comporta un fondamentale spostamento di orizzonte: non basta “vivere”, ma bisogna “vivere bene”. La soddisfazione
dei bisogni primari che, per le ragioni sopra analizzate, era ancora
preponderante agli inizi del secolo scorso, si sposta verso la conquista di un sempre maggiore “benessere”, cioè verso una migliore “qualità della vita”. È evidente che un così complesso mutamento socioculturale – anche sul piano etico – deve essere affrontato secondo
7
SCO
L. POSTIGLIONE, “Qualità di vita ed ambiente”, in E. SGRECCIA, I. CARRADE PAULA (a cura di), Qualità della vita ed etica della salute, 227-236.
QUALE “QUALITÀ” DELLA VITA UMANA?
239
molteplici universi che coinvolgono (benessere fisico, psichico, economico, ambientale, sociale). L’attuale riflessione etica, soprattutto
nell’ambito cristiano, dedica un’attenzione prioritaria alle tensioni
dialettiche che la concezione di “qualità della vita” genera nei confronti del suo rispetto e della sua ambiguità8.
2. Ambiguità del concetto
Al di là dell’ampiezza degli ambiti di applicazione vi è anche
un’ambiguità del concetto di “qualità della vita”, che viene inteso attraverso le diverse prospettive teoriche (filosofiche, antropologiche
ed etiche). Limitandoci all’ambito strettamente bioetico, possiamo
individuare innanzitutto una prospettiva di matrice utilitarista (Engelhardt, Fletcher, Lecaldano, Mori, Singer), nella quale la preoccupazione principale è quella di opporre a questo concetto, variamente
inteso, l’idea di una “sacralità della vita” per prenderne con decisione le distanze: secondo tale prospettiva la vita ha valore solo se possiede un certo grado di “qualità”, anche se diventa problematico il
modo in cui tale grado può essere definito e fa porre anche la domanda circa il soggetto che abbia l’autorità di definirlo, soprattutto
in situazioni in cui questo comporta scelte irreversibili (come nel caso della richiesta di eutanasia per un malato più o meno “terminale”).
Tale orizzonte di pensiero fa nascere ciò che può essere identificato
come “etica” o “bioetica della qualità della vita”, le cui caratteristiche
fondamentali sono: la dipendenza da un’etica di tipo consequenzialista, l’assegnare un valore relativo alle vite umane, differenziandole tra
loro sulla base dei diversi livelli di “qualità” che queste sembrano avere alla luce di determinati parametri, l’assumere la norma per cui la
tutela della vita umana non comporta un obbligo superiore, indipendentemente dalla valutazione della sua “qualità”.
Il punto nodale di tale orizzonte di pensiero è quello dei criteri per
determinare un grado di qualità della vita che possa essere conside-
8
S. LEONE, “Qualità della vita”, 979-980.
240
EDMUND KOWALSKI
rato “accettabile” e quindi generare una sorta di diritto alla tutela
della persona. Ma quali possono essere tali criteri? J. Fletcher enumera i seguenti: minimo intellettivo (Q.I. superiore a 20-40), autocoscienza, autocontrollo, senso del tempo (presente, passato, futuro),
capacità di relazione, interesse per gli altri, capacità comunicativa,
controllo dell’esistenza, curiosità, capacità di cambiare, equilibrio tra
ragione e sentimento, funzioni neocorticali9. Naturalmente anche altri autori si sono misurati con il problema ed hanno compilato altre
“liste” di caratteristiche ed indicatori, ciascuna delle quali – a loro avviso – consentirebbe di individuare una sorta di “soglia” del grado di
accettabilità della vita umana.
Nella riflessione di matrice anglosassone, infatti, si erano già incanalati – afferma Salvino Leone – autori che privilegiavano questo
o quel criterio, relativo alle vite umane e dipendente dal loro diverso livello qualitativo: la “soggettività e l’autocoscienza” (M. Tooley),
la triade delle “funzioni cerebrali, dell’autocoscienza e della relazionalità” (H. T. Engelhardt), la “potenzialità relazionale” (R. A. Mc
Cormick)10.
Una valutazione critica rileva sia una certa arbitrarietà di tali criteri, sia l’inadeguatezza degli stessi presunti indicatori di una “nuova”
o “migliore umanità”. Non solo molti degli attuali portatori di handicap, ma pure altri non possiederebbero tali requisiti minimali per
essere considerati – secondo la distinzione di Engelhardt – “persone
in senso stretto” e non soltanto “vite biologiche umane”.
In questa prospettiva, laddove non solo si pensa, ma già si proietta una specie tipicamente umana e geneticamente sana (V. R. Potter,
A. E. Hellegres, B. Chiarelli, M. W. Fox), si capisce bene il sorgere
della linea di demarcazione tra gli aderenti alla cosiddetta “qualità
della vita umana” come requisito che ne legittima la tutela e quelli
alla “sacralità della vita umana” con l’assoluta intangibilità ad essa
connessa.
19
J. FLETCHER, “Four Indicators of Humanhood”, in Hastings Center Report,
4 (1975) 4-7.
10 S. LEONE, “Qualità della vita”, 981.
QUALE “QUALITÀ” DELLA VITA UMANA?
241
2.1. Aspetto pragmatico dell’etica della qualità della vita umana
L’etica della qualità della vita afferma la centralità della nozione di
questa per le scelte private e pubbliche sulle questioni relative all’inizio e alla fine della vita e alla cura riconosce la possibilità di dare diverso valore alla vita degli individui. A quest’assunzione che presiede
la nozione di qualità della vita è spesso opposta la concezione della sacralità della vita, la quale afferma che tutte le vite (in genere solamente vite umane) hanno un uguale valore, assoluto e sacro. In Olanda e
in Belgio, dove sono state introdotte pratiche come le “direttive anticipate”, cioè l’eutanasia o il suicidio assistito, sono fra le manifestazioni più evidenti del riconoscimento del diritto individuale a scegliere la
propria qualità della vita. Inoltre, i contesti di scelta interpersonale,
come le inevitabili decisioni di “razionamento” delle risorse sanitarie,
richiedono che, venga dato in qualche modo, alle vite dei diversi individui coinvolti, un valore11. È proprio tale necessità – secondo E. Lecaldano e S. Pollo – ad avere contribuito a mettere in pratica la nozione di qualità della vita, grazie all’elaborazione del sistema di valutazione delle priorità dell’Assistenza Sanitaria, incentrato sull’impatto
delle terapie e sulla qualità della vita dei pazienti, chiamato Qaly.
Quest’acronimo indica un criterio di misurazione della qualità
della vita largamente usato in sanità per affrontare le questioni di distribuzione delle risorse secondo criteri di equità il più possibile oggettivi. Questo lemma è costituito dalle iniziali delle parole presenti
nell’espressione inglese, usata per richiamare questo criterio: quality
adjusted life years (anni di vita proporzionati con la qualità)12. Secondo questo criterio, chi prende una decisione di politica sanitaria, deve stabilire come distribuire un certo numero di persone e l’ordine di
priorità di esse sulla base di un indice dal punto di vista sanitario. Il
11
E. LECALDANO, “L’etica teorica e la qualità della vita”, in Rivista di filosofia XCII (2001) 11-12 (cfr. 7-29).
12 J. BROOME, “Qalys”, in Journal of Public Economics, 50 (1993) 149-167; M.
JOHANNENSSON, “Qalys: a comment”, in Journal of Public Economics, 56 (1995)
327-328.
242
EDMUND KOWALSKI
valore poi attribuito ai vari tipi di qualità della vita è estrapolato con
una prospettiva che prende in considerazione le preferenze tipiche
delle persone (si attribuisce un valore al paziente). Il bene sanitario in
questione verrà distribuito preferibilmente a coloro che maggiormente se ne potranno avvantaggiare, nel senso di conseguire un maggiore numero di anni in buone condizioni di salute. Largamente usato nei Paesi anglosassoni, questo metodo è stato visto come una procedura oggettiva per superare le drammatiche alternative che possono nascere quando si tratta di stabilire priorità sul come spendere, in
che modo e a chi assegnare le risorse pubbliche per la salute. Vi sono stati anche tentativi di considerarlo criterio generale di determinazione di priorità della spesa pubblica per la sanità, come ad esempio nel progetto di “razionamento” sistematico dei fondi pubblici
promosso dallo Stato americano dell’Oregon dal 197913.
In generale però, il metodo dei Qaly è stato ampiamente criticato,
in quanto si è rilevato che al di là delle pretese di oggettività che
avanza, in realtà il suo uso comporta un largo numero di opzioni etiche implicite e ingiustificate. In particolare si è indicata la forte carica di pregiudizio etico contro le persone in età avanzata (ageismo), favorendo principalmente le persone più giovani. Per quanto riguarda
poi la pretesa di determinare tale qualità in termini oggettivi risulta
del tutto inaccettabile perché non tiene conto dei modi soggettivi di
considerare il vissuto. Dall’altra parte, tale pretesa di oggettività può
essere accolta in quanto la nozione di qualità della vita si restringe a
un esame del decorso delle malattie coinvolte, poiché, si tratterebbe
di qualità della salute e non di qualità della vita.
Proprio per questo il criterio dei Qaly è stato progressivamente
abbandonato e sostituito piuttosto da più circoscritte misurazioni
sulla base di una nozione di HRQOL (Health Related Quality of Life:
qualità della vita in relazione alla salute)14. Il limite maggiore del ri-
13
T. L. BEAUCHAMP, J. F. CHILDRESS, Principi di etica biomedica, Le Lettere,
Firenze 1999, 361-366.
14 P. M. FAYER, D. MACHIN, Quality of Life. Assessment, Analysis and Interpretation, Wiley and Sons, Chichester 2000.
QUALE “QUALITÀ” DELLA VITA UMANA?
243
corso a criteri come quello dei Qaly e di HRQOL sta nel ritenere che
tali decisioni possano essere prese da governanti e tecnici della salute senza tener conto delle preferenze personali delle persone su cui si
interviene15. In seguito, la qualità della salute di ogni uomo-cittadino
dipende ovviamente da una buona economia e dalla politica del Paese in cui vive, ma questo non significa che la qualità globale, universale e personale di ogni uomo può essere misurata soltanto secondo
criteri economici, sanitari o politici.
2.2. Aspetto metaetico dell’etica della qualità della vita umana
Dal punto di vista teorico, la questione centrale, relativamente alla nozione di qualità della vita, riguarda la natura del metro di valutazione della qualità della vita16. A questo proposito, si possono distinguere tre principali approcci teorici: le teorie edonistiche, le teorie della preferenza e le teorie perfezioniste (P. Sandøe17).
Le teorie edonistiche definiscono la qualità della vita in funzione
della presenza di stati mentali piacevoli e dell’assenza di stati mentali spiacevoli o dolorosi. In questi termini, la promozione della qualità della vita consiste nella produzione di stati mentali piacevoli e nella rimozione di quelli spiacevoli. Tale teoria, evidentemente di stampo consequenzialista (utilitarismo), ha sicuramente il pregio di fornire un semplice criterio di qualità della vita, ma presenta anche seri limiti. Essa non sembra in grado di dare un giusto peso al fatto che alcune scelte – spesso le più significative – che gli uomini fanno al fine
di promuovere una propria qualità della vita, possono anche essere
fonte di stati mentali spiacevoli (prendere, ad esempio, un farmaco o
una cura). Gli uomini, infatti, posseggono concezioni di vita buona
15
M. CHARLESWORTH, L’etica della vita. I dilemmi della bioetica in una società
liberale, Donzelli, Roma 1996, 118-127; S. ZAMAGNI, Equità, razionamento, diritto alle cure sanitarie, 90-104.
16 S. POLLO, “Qualità della vita”, in E. LECALDANO (a cura di), Dizionario di
Bioetica, Laterza, Roma-Bari 2002, 245.
17 P. SANDØE, “Quality of Life – Three Competing Views”, in Ethical Theory
and Moral Practice, II (1999) 13-14 (cfr. 11-23).
244
EDMUND KOWALSKI
(quantità e qualità) che non sono assimilabili al perseguimento di una
vita di mere gratificazioni edonistiche. Le università, le biblioteche, i
musei o le chiese sono i segni visibili delle grandi possibilità e alte facoltà dell’uomo – “animale razionale” e “homo sapiens”. Già J. S.
Mill (1806-1873), padre dell’utilitarismo, aveva rilevato, nella sua difesa dell’utilitarismo qualitativo, che la vita di un Socrate insoddisfatto sembra decisamente preferibile a quella di uno sciocco soddisfatto18. A tali limiti della teoria edonistica sembrano poter fare fronte le
teorie della preferenza.
La teoria della preferenza ha l’indubbio merito di mettere al centro
della nozione di qualità della vita il ruolo della scelta autonoma degli
individui nel guidare le proprie scelte. Anche tale teoria, tuttavia, non
è immune da problemi. Il ricorso diretto alle preferenze che un individuo esprime può non essere risolutivo. Spesso, infatti, le preferenze sono il risultato di un processo di adattamento alle circostanze (un
montanaro ama e preferisce le montagne, un marinaio, invece, ama e
preferisce il mare).
Il limite della teoria della preferenza sembrerebbe quello di non
riuscire a fornire parametri sufficientemente oggettivi per la valutazione della qualità della vita. Le possibilità di vita che sembrano sfuggire a chi esprime preferenze, frutto dell’adattamento, sono invece al
centro delle teorie perfezioniste.
Le teorie perfezioniste, infatti, identificano la promozione della qualità della vita con l’esercizio di alcune capacità propriamente umane.
Fra le teorie più note di questo tipo c’è quella di stampo aristotelico,
sviluppata da Martha Nussbaum e da A. Sen, anche se con alcune differenze19, che ha concentrato la sua attenzione sulla nozione di “capacità”. Ciò che è essenziale per la promozione della qualità della vita è – secondo Nussbaum – la presenza di un’effettiva capacità di sviluppo in ambiti che appartengono propriamente e universalmente
agli esseri umani, come le relazioni affettive, la riflessione, la creati-
18
Cfr. J. S. MILL, “L’utilitarismo”, in idem, L’utilitarismo. L’asservimento delle
donne, Rizzoli, Milano 1999, 239-268.
19 Cfr. A. SEN, La disuguaglianza. Un riesame critico, Il Mulino, Bologna 1994.
QUALE “QUALITÀ” DELLA VITA UMANA?
245
vità e così via20. Una teoria convincente della qualità della vita, quindi, dovrebbe essere in grado di combinare elementi della teoria della
preferenza e di quella perfezionista, salvaguardando l’idea che è la
pluralità degli stili di vita e delle scelte autonome a determinare la lista delle capacità umane da promuovere21.
Nell’Enciclica Evangelium Vitae, a proposito della ricerca sempre
più ansiosa della “qualità della vita”, che caratterizza specialmente le
società sviluppate, Giovanni Paolo II ha affermato:
«La cosiddetta qualità della vita è interpretata in modo prevalente o
esclusivo come efficienza economica, consumismo disordinato, bellezza e godibilità della vita fisica, trascurando le dimensioni più profonde: relazionali, spirituali e religiose dell’esistenza (n. 23)».
È su queste “dimensioni più profonde dell’esistenza umana” che
vogliamo e dobbiamo porre l’attenzione per la nostra ricerca di un’adeguata chiarificazione del concetto di “qualità della vita umana”»22.
3. Prospettiva bioetica: Quale “qualità” della vita umana?
In realtà la discussione contemporanea sulla qualità-sacralità della
vita umana appare più complessa. In entrambe le visioni del problema in questione si manifesta senza dubbio la volontà di “rispettare”
la vita umana23.
20
M. NUSSBAUM, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, Il Mulino,
Bologna 2001, 90-105 (vedi 55-206).
21 S. POLLO, “Qualità della vita”, 245-247.
22 GIOVANNI PAOLO II, “Discorso del Santo Padre Giovanni Paolo II”, in E.
SGRECCIA, I. CARRASCO DE PAULA (a cura di), Qualità della vita ed etica della salute, 7.
23 Cfr. S. SPINSANTI, “Qualità della vita o santità della vita? Oltre il dilemma”, in C. VIAFORA (a cura di), Centri di Bioetica in Italia. Orientamenti a confronto, Lanza, Roma 1993, 213-224; S. MAFFETTONE, Bioetica e valori comuni, in
ibid., 112 (cfr. 95-121).
246
EDMUND KOWALSKI
3.1. Fondazione ontologico-assiologica:
3.1. le qualità o la qualità della vita umana
Il punto cruciale e allo stesso tempo discriminante sta nell’elemento su cui questo rispetto della vita umana possa o debba essere
fondato. Se da un lato – afferma giustamente S. Leone – la vita umana pur nella sua intangibilità non può ritenersi un valore-bene del
tutto “assoluto” (si pensi alla legittima difesa, all’autosacrificio per il
bene spirituale cui è subordinata o per il bene-vita del prossimo), dall’altro la volontà di promuovere e tutelare la sua qualità non deve necessariamente escludere la tutela di quella apparentemente priva di
“qualità” e quindi di valore24.
La soluzione delle difficoltà sopra evidenziate, proposta da parte
di S. Leone, è molto illuminante. Partendo dalla concezione aristotelica della qualità, in cui una delle categorie accidentali della sostanza “appartiene a ciascuna cosa per sé, ma non rientra nella sua essenza” (Metafisica, V 30, 1025a 30-32), l’Autore constata che le categorie accidentali non soltanto non rientrano ad alcun titolo nell’essenza delle cose, ma neanche possono in alcun modo costituirla25. La dignità, il rispetto e la tutela della vita umana, pur prendendo in considerazione la sua dimensione qualitativa, non possono dunque fondarsi esaustivamente su di essa. Se la dignità della vita umana non si
fonda sulle sue qualità come categorie accidentali e secondarie, allora essa deve basarsi sull’essenza dell’essere uomo-persona cioè sulla
natura umana. La prima, propria ed originaria natura dell’uomo, in
quanto umana e personale, è la sorgente e il fondamento ontologico,
assiologico ed etico della vita umana in quanto tale. Anche R. Cartesio (1596-1650), pur identificando nella qualità qualsiasi attributo o
proprietà di una cosa, nega ad essa ogni valore oggettivo. Le qualità,
pur essendo determinate da realtà oggettive e variamente percepite
dagli uomini, appartengono essenzialmente alla sfera della soggettività. J. Locke (1632-1704), empirista e teorico del liberalismo moder-
24
25
S. LEONE, “Qualità della vita”, 981.
Ibid., 981.
QUALE “QUALITÀ” DELLA VITA UMANA?
247
no, approfondirà ulteriormente il concetto di “qualità” distinguendo
“qualità primarie” (oggettive) e “qualità secondarie” (soggettive).
Successivamente G. Berkeley (1685-1753), vescovo irlandese, empirista e nominalista, non soltanto rifiutò l’esistenza di idee astratte e
risolse la realtà delle sostanze materiali nella percezione, la cui causa
immediata è Dio (Trattato del principio della conoscenza umana, 1710;
Tre dialoghi fra Hylas e Philonous, 1713), ma soprattutto ricondurrà alla sfera della soggettività anche le qualità primarie-oggettive.
Nella dialettica hegeliana la categoria di “qualità” è la “tesi” cui si
oppone l’“antitesi” della “quantità” con la quale si compone nella
“sintesi” della “misura”. G. W. F. Hegel (1770-1831), massimo rappresentante dell’idealismo tedesco (Fichte, Schelling), delinea il valore della ragione come unico strumento capace di cogliere concettualmente la totalità e il divenire. In quest’ottica, il filosofo tedesco
non ha un’alta considerazione della categoria di “qualità”, che ritiene la meno importante tra quelle analizzate nel suo sistema a ragione della sua mutabilità.
Nella Fenomenologia dello Spirito (1807), come anche nel suo capolavoro Enciclopedia delle scienze filosofiche (1817-1827), egli parla del
processo di realizzazione dello Spirito – nelle manifestazioni storiche
– che, muovendo dalla coscienza naturale, giunge al sapere assoluto
(Idea Assoluta di Tutto).
Nella sua Logica, Hegel delinea lo studio della dialettica dei concetti e di una ontologia (onto-logica) dove ogni concetto (anche “qualità”) rappresenta un momento dello sviluppo necessario e razionale
dell’Essere (Scienza della logica, 1812-1816). Il criterio qualitativo,
dunque, non potrà in alcun modo essere determinante nell’attribuire
dignità esistenziale a una vita. La visione hegeliana – secondo S. Leone – offre un ulteriore motivo di interesse relativo al concetto di “misura”. Esso, in quanto superiore sintesi tra la tesi della qualità e l’antitesi della quantità, può costituire una felice parentesi per il superamento dei radicali estremismi che oppongono “santità” e “quantità”
della vita26.
26
Ibid., 981-982.
248
EDMUND KOWALSKI
3.2. Personalismo ontologicamente fondato
Accertato che il compito della metabioetica è fondare lo status
epistemologico della bio-etica per cercare la condizione metodologica indispensabile al suo esistere in quanto scienza distinta dalle altre
scienze, occorre servirsi correttamente non soltanto dei dati che la
stessa biomedicina offre alla sua ricerca dello statuto epistemico di
bios, ma anche evidenziare la struttura della riflessione etica, seguendo regole logiche proprie, per stabilire lo statuto epistemico di
ethos27. La ricerca degli statuti epistemologici di bios, in quanto vita
umana, e di ethos, in quanto etica normativa dell’agire umano, suppone già di avere uno statuto epistemico di anthropos, poiché ambedue gli statuti precedenti si formano e si riferiscono implicitamente
a una visione antropologica dell’uomo. Tale approccio metabioetico
è ritenuto rilevante per una bioetica finalizzata alla sua fondazione
stessa come sapere antropo-ontologico e antropo-assiologico, dove
l’uomo è il bene supremo in quanto essere uomo.
Dalla natura dell’essere uomo, di conseguenza, scaturiscono sia
lo specifico modo dell’essere uomo, in quanto vita umana e personale, sia il dover essere uomo-persona (il primum datum). È l’essere
dunque che porta il bene e fonda il dovere morale verso la natura e
il modo dell’essere uomo-persona. Da questo primo costitutivo ed
esistenziale dover essere nascono gli altri doveri morali verso tutti gli
esseri umani e non-umani, portatori della vita come bene-valore
fondamentale del loro essere. Riconoscere e rispettare gli altri, in
quanto esseri ragionevoli (il mondo umano) o soltanto viventi (il
mondo non-umano), significa scegliere incondizionatamente la vita
per proteggerla. Si tratta dunque di “prendere cura di tutta la vita e
della vita di tutti” (EV, 87). Scegliere e proteggere la vita in tutte le
27
Cfr. S. PRIVITERA, “Epistemologia bioetica”, in S. LEONE, S. PRIVITERA (a
cura di), Dizionario di bioetica, EDB-ISB, Acireale-Bologna 1994, 333-335; cfr.
E. KOWALSKI, “Quale globalizzazione per la bioetica e quale bioetica globale? Il
problema della globalizzazione a livello della metabioetica e della bioetica”, in
StMor 42/1 (2004) 179-204.
QUALE “QUALITÀ” DELLA VITA UMANA?
249
sue forme indica l’esistenza del secundum datum: “essere verso”, “essere con” ed “essere per”, cioè “un essere in relazione”, aperto al
dono di sé, capace di amare e, infine, “un co-Essere” che scopre di
sé dimensioni psico-spirituali e un carattere “trascendente”. La relazionalità dell’essere uomo si esprime in modo pieno nell’amore
interpersonale e fecondo, nella generazione della nuova vita umana
e personale. “Nella biologia della generazione è inscritta la genealogia della persona” (EV, 43). Dalla natura dell’essere come relazionale – conferma F. Bellino – scaturiscono anche i principi normativi dell’etica personalista: il riconoscimento dell’altro uomo come
mio pari, la reciprocità della relazione, l’apertura all’altro e la comunione oblativa con l’altro uomo-persona, il rispetto della vita in
tutte le sue forme28.
L’applicazione in bioetica della fondazione filosofica, antropologica ed etica comporta non soltanto l’epistemologia più adeguata a tale costruzione, ma soprattutto – secondo E. Sgreccia, L. Palazzani e
F. Bellino – la possibilità di giustificare gerarchicamente alcuni principi nell’orizzonte del personalismo ontologicamente fondato e del
rispetto del bene-valore fondamentale dell’uomo in quanto persona:
il principio della tutela e della difesa della vita fisica (o sacralità della
vita o inviolabilità della vita), il principio di libertà e di responsabilità, il principio della totalità o principio terapeutico (l’integrità personale), il principio di socialità e sussidiarità che mira al raggiungimento del bene comune attraverso il bene delle singole persone29. La
proposta della bioetica personalista, che pone il rispetto della persona
e della sua dignità al centro della riflessione etica, formula dunque i
principi (fondazione filosofico-antropologica dei principi etici) ed elabora le norme specifiche in vista delle circostanze dell’agire umano
responsabile (ragionevole e libero).
28
F. BELLINO, “Bioetica e principi del personalismo”, in G. RUSSO (a cura di),
Bioetica fondamentale e generale, Società Editrice Internazionale, Torino 1995, 96.
29 L. PALAZZANI, E. SGRECCIA, Bioetica e teorie etiche, in G. Russo (a cura di),
Bioetica fondamentale e generale, 75; F. BELLINO, “Bioetica e principi del personalismo”, 97-100.
250
EDMUND KOWALSKI
3.3. Dimensione areto-ontologica:
3.3. paradigma dei principi etici e delle virtù
Il paradigma bioetico tracciato nella rete dei principi epistemologico-metodologici, anche se sulla base del personalismo ontologicamente fondato, resterebbe una costruzione astratta come l’immagine
di una natura morta o il progetto dell’architetto rimasto sulla carta,
se non trova la sua via per esplicarsi e estendersi a tutti i livelli dell’attività umana, nel campo della bioetica applicata o globale. Dove
trovare e come stabilire un legame tra il rigido schematismo astratto
dei principi e la poliedricità della vita morale? Alla luce del personalismo ontologicamente fondato non ci sarà altro legame più originario, organico ed attivo che la persona stessa. Da segnalare, inoltre,
che soltanto l’uomo è capace di riconoscere il bene in quanto bene
per realizzarlo, sviluppando un atteggiamento attivo di impegno morale e di condivisione motivazionale all’azione. Da sottolineare, infine, che il riconoscimento e la realizzazione del bene passa attraverso
la coscienza morale retta (il risultato dell’adeguata formazione ed
educazione) e l’azione moralmente buona (la formazione di una qualità morale permanente “buona” – l’etica delle virtù).
L’integrazione del paradigma dei principi etici e di quello delle
virtù morali (Aristotele, Tommaso d’Aquino, A. MacIntyre, E. D.
Pellegrino), che può venire dalla proposta della bioetica personalista,
consente di proporre, in primo luogo, mediante i principi e le norme
specifiche – secondo Laura Palazzani – una direttiva morale generale, oggettivamente fondata, evitando il rischio dell’emotivismo soggettivistico, sulla mancanza di sistematicità e di specificità nell’indicazione del contenuto dell’atto umano.
In secondo luogo, mediante le virtù, la stessa integrazione principi-virtù consente di motivare l’attuazione di un impegno etico attivo e costante ponendo l’attenzione sulla persona-agente e sulla concreta e ricca esperienza morale, evitando l’intellettualismo etico (di
tipo socratico-platonico), il rigido schematismo dei principi (si pensi al principialismo di Beauchamp-Childress), l’atteggiamento passivo di obbedienza al dovere in quanto dovere (la deontologia kantiana e neokantiana) e il bilanciamento nella valutazione delle conse-
QUALE “QUALITÀ” DELLA VITA UMANA?
251
guenze (l’utilitarismo della norma, le teorie proporzionaliste e consequenzialiste)30.
3.4. Vangelo della vita
Un modello di riferimento più completo, per animare l’attuale dibattito filosofico-etico sul problema dei paradigmi in bioetica e proporre la risoluzione fondativo-formativa di un problema di bioetica
globale, viene proposto da Giovanni Paolo II nella prima enciclica
bioetica intitolata Evangelium vitae31. Il Vangelo della vita costituisce
appunto un preciso “paradigma” bioetico – secondo G. Russo32 e L.
Melina33 – che pone la persona stessa di Gesù Cristo e la persona
umana al centro della riflessione bioetica, sia a livello metabioetico
che bioetico, incorporando gradualmente la sua dimensione ontologica, etica e teologica nella visione unificata e integrante della vita
umana. La vita è tutta posta nell’ambito originale e naturale, in cui
l’uomo nasce, vive e si sviluppa, cioè nella storia universale e personale, portata avanti dall’uomo stesso e da Dio insieme (EV, 1-3, 27,
29-51, 55, 84, 92, 102). La vita umana, allo stesso tempo, non è una
realtà che ultimamente si risolve nell’uomo e nella storia, ma è “dono di Dio”, è “la chiamata da parte di Dio” (EV, 2, 22, 25, 34, 40, 51,
83, 93, 105). Nel paradigma Vangelo della vita la vita di ogni uomo è
“progetto” da compiere in prima persona che corrisponde a un disegno del Creatore, a una precisa vocazione e chiamata. “L’uomo è
chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della
30
L. PALAZZANI, “Paradigmi bioetici: principi, virtù, esperienza, personalismo”, in G. RUSSO (a cura di), Bioetica fondamentale e generale, 160-164; cfr. Il
suo testo intero in: Medicina e Morale 42 (1992), 59-86.
31 GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica Evangelium vitae sul valore e l’inviolabilità della vita umana (25. 03. 1995), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995 (nel testo dell’articolo citata con il sigla EV).
32 G. RUSSO, “L’enciclica Evangelium vitae i metodi della bioetica”, in G.
RUSSO (a cura di), Bioetica fondamentale e generale, 367-378.
33 L. MELINA, “Linee antropologiche della Evangelium vitae”, in Medicina e
Morale 45 (1995) 688-689.
252
EDMUND KOWALSKI
sua esistenza terrena, poiché consiste nella partecipazione alla vita
stessa di Dio” (EV, 2). In tale “vita” acquistano pieno significato tutti gli aspetti e i momenti della vita dell’uomo, del popolo e di tutta
l’umanità. Ogni uomo aperto alla verità e al bene, attraverso la sua
ragione e la sua coscienza morale, può arrivare a riconoscere il “valore sacro della vita umana dal primo inizio al suo termine e ad affermare il diritto di ogni essere umano a vedere sommamente rispettato questo suo bene primario. Sul riconoscimento di tale diritto si
fonda l’umana convivenza e la stessa comunità politica” (EV, 2).
3.5. Paradigmi biomedici
Accanto a questi modelli etici o paradigmi bioetici di matrice filosofico-ontologica (la dignità della vita umana, il personalismo ontologicamente fondato, l’integrazione del paradigma dei principi etici e di
quello delle virtù morali) e di matrice teologico-ontologica (il Vangelo della vita o la sacralità della vita) ne possiamo indicare inoltre altri
tre di provenienza tipicamente biomedica. Uno di questo indicato già
da S. Leone, consiste nel valutare non le qualità di una vita umana, in
quanto gli elementi qualitativi – soggettivi e relativi – sono espressi da
una corporeità vivente, ma il globale senso qualitativo dell’esistenza
umana come la sua qualità o meglio la qualità totale e la quantità unica della vita umana, cioè il valore-bene oggettivo, il criterio unico e la
“misura” fondamentale delle vite non-umane e mai umane (la qualità
essenziale di Giovanni Paolo II34, la qualità della vita come donazione
divino-umana di J. Lozano Barragàn35, la qualità etica di G. Russo36).
34
GIOVANNI PAOLO II, “Discorso del Santo Padre Giovanni Paolo II”, in E.
SGRECCIA, I. CARRRASCO DE PAULA (a cura di), Qualità della vita ed etica della salute, 8 (da l’Osservatore Romano, 21-22 febbraio 2005, 7).
35 J. LOZANO BARRAGÀN, A dieci anni dall’Evangelium Vitae. La qualità della
vita, in E. SGRECCIA, I. CARRASCO DE PAULA (a cura di), Qualità della vita ed etica della salute, 17-19.
36 G. RUSSO, Bioetica. Manuale per teologi, LAS, Roma 2005, 24; cfr. idem, “Una
bioetica per la qualità della vita”, in G. CRAVOTTA (a cura di), Educare alla responsabilità morale nel tempo della post-modernità, Coop. S. Tom., Messina 2004, 141-156.
QUALE “QUALITÀ” DELLA VITA UMANA?
253
Così considerata la qualità globale della vita umana deve coinvolgere
a pieno titolo non solo la medicina (come vuole S. Leone e la chiama
medicina della piena salute), ma tutte le scienze biologiche e mediche
considerate e chiamate adesso biomedicina. In tale prospettiva, una
biomedicina che si ponga a servizio della qualità e quantità dell’esistenza dell’uomo e di tutti gli uomini, viene a costituire quella biomedicina che si occupa di tutto l’uomo, nella sua formazione globale, che
punta al benessere psico-somatico (l’aspetto individuale e personale:
dall’alimentazione e dall’igiene fondamentali all’educazione fisica, intellettuale ed etico-spirituale) ed ecologico (l’uomo inserito nel suo
contesto ambientale, sociale e interpersonale) dal suo inizio fino alla
morte37. L’antropologia e la bioetica cristiana, molto attente a sottolineare l’unità e l’integrità della persona nella sua multidimensionalità,
privilegiano – come annota M. P. Faggioni – “una nozione olistica di salute e, quindi, di malattia, in cui concorrono e interagiscono elementi
corporei, psichici e spirituali senza dimenticare le imprescindibili risonanze relazionali e ambientali”38.
L’altro modello etico di provenienza biomedica lo propone Anna
Giuli nel suo libro: Inizio della vita umana individuale39. L’attuale dibattito bioetico sull’inizio della vita umana, soprattutto in ambito più
ideologico che scientifico, ha ostacolato la diffusione di una chiara ed
oggettiva informazione, frutto di una rigorosa ricerca scientifica,
creando una crescente ambiguità e confusione. In questo contesto –
afferma l’Autore – si avverte l’esigenza di fare chiarezza metodologico-espistemologica sugli aspetti scientifici, per poter affrontare le
nuove sfide etiche e sociali nel dinamico progresso biotecnologico. Il
37
S. LEONE, “Qualità della vita”, 981-982; cfr. idem, “La riflessione bioetica
sulla qualità della vita”, in Bioetica e Cultura 2 (1992) 137-148; idem, “La riflessione bioetica sulla qualità della vita”, in G. RUSSO (a cura di), Bioetica fondamentale e generale, 105-112.
38 M. FAGGIONI, “La qualità della vita e la salute alla luce dell’antropologia
cristiana”, in E. SGRECCIA, I. CARRASCO DE PAULA (a cura di), Qualità della vita
ed etica della salute, 29.
39 A. GIULI, Inizio della vita umana individuale. Basi biologiche e implicazioni
bioetiche, Aracne Editrice, Roma 2005.
254
EDMUND KOWALSKI
percorso, quasi puramente scientifico ed empirico, sull’inizio della
vita umana, fatto dalla biologa molecolare Anna Giuli, ci mostra
chiaramente che, quando stiamo dinanzi all’individualità biologica
umana, si può arrivare alle stesse considerazioni antropologiche, filosofiche ed assiologiche non affrontando direttamente – secondo l’intenzione dell’Autore – i complessi aspetti dello “status ontologico”
dell’embrione umano, ma utilizzando il rigore argomentativo della
disciplina biologica, nell’ottica epistemologica della disciplina stessa.
Necessariamente tale identificazione non è solo empirica, ma anche
ontologica, assiologica ed etica. In questa prospettiva tutti gli stadi di
sviluppo, che caratterizzano un essere umano (zigote, embrione, feto, bambino, ragazzo, adulto, anziano), sono parte integrante della
sua storia naturale e non solo nomi convenzionali attribuiti alla stessa identità ed individualità biologica chiamata: essere umano, uomo,
persona. Questo approccio non solo stabilisce la corretta gerarchia
dei valori-beni che un neoconcepito, un bambino malformato, un
ammalato allo stato vegetativo persistente o un moribondo individua
in sé, ma propone anche una solida piattaforma per l’autentico dibattito interdisciplinare in campo bioetico nella postmodernità, laddove
si esclude a priori o a posteriori la riflessione metafisica (Engelhardt,
Ford, Grobstein, Shannon, Singer, Tooley). Possiamo, altresì, chiederci: perché? Una risposta, infatti, si racchiude nel fondamento della
metafisica (percepita come “ontologia” o “filosofia dell’essere”), che
garantisce il principio di non contraddizione: niente simultaneamente
può essere e non essere e, conseguentemente, è impossibile che l’essere non
sia. È ovvio che tale principio è indimostrabile, ma può essere sostenuto ogni qual volta è affermato qualcosa di ben determinato e individuato dove si nega la possibilità di dichiararne l’inesistenza40.
Qualunque comportamento umano, rispettoso della vita nella sua
dimensione globale e totale (sacralità-dignità-qualità della vita umana in quanto tale), deve partire coerentemente e necessariamente dal-
40
Cfr. E. KOWALSKI, Recenzione del libro: Giuli, Anna, Inizio della vita umana
individuale. Basi biologiche e implicazioni bioetiche, Aracne Editrice, Roma 2005, in
StMor 44/2 (2006) 519-522.
QUALE “QUALITÀ” DELLA VITA UMANA?
255
la quotidianità della vita dei singoli e di intere comunità di persone.
Invero le due dimensioni bioetiche, sacralità e qualità, apparentemente distanti, sono spesso contigue fra loro in un rapporto osmotico che le integra e le arricchisce, a patto di una serena e severa disamina che, salvaguardando le istanze valoriali, le riconduce a comuni
radici diacroniche, finalizzate alla promozione di una vera cultura
della vita. La cultura della vita non può prescindere da una riflessione bioetica, che abbraccia il vissuto quotidiano e ci educa a rispettare e promuovere la nostra vita attuale e quella delle generazioni future, cominciando dai comportamenti di tutti i giorni. In questo contesto appare e si inquadra il terzo modello etico di provenienza biomedica, molto attuale, urgente e pragmatico, chiamato la “bioetica
del quotidiano” (P. N. Garofalo41) o “bioetica quotidiana” di G. Berlinguer42. La “bioetica del quotidiano”, dunque, non è la bioetica del
teoretico, ma quella della vita di tutti i giorni; essa si limita ad una riflessione sull’aspetto bioetico delle azioni abituali, delle scelte ordinarie individuali o collettive. In concreto la riflessione bioetica del
quotidiano si orienta verso i due obiettivi principali largamente interdipendenti: la promozione della salute e il miglioramento della
qualità della vita. La strategia fondamentale e importante della promozione della salute vive momenti diversi di “tutela” che abbracciano
tre grandi aree: l’educazione alla salute, la prevenzione e gli interventi sanitari diagnostico-terapeutici. Il miglioramento della qualità
della vita, intesa come obiettiva mutazione delle condizioni socio-culturali sanitarie ed economiche di intere popolazioni, è solo una sintesi verbale che designa una situazione di benessere misurabile empiricamente attraverso una griglia di sensori. Gli indicatori della qualità della vita mutano nel tempo e nello spazio. Quelli presi in considerazione riguardano: popolazione, sanità, educazione, lavoro, giustizia, tenore della vita e l’ambiente naturale43.
41
P. N. GAROFALO, Quotidiano (bioetica del), in S. LEONE, S. PRIVITERA (a cura di), Nuovo Dizionario di Bioetica, 983-987.
42 G. BERLINGUER, Bioetica quotidiana, Giunti, Firenze 2000.
43 P. N. GAROFALO, Quotidiano (bioetica del), 984-986.
256
EDMUND KOWALSKI
Sul piano etico la riflessione sul quotidiano intercetta i grandi temi
dell’etica personale e dell’etica sociale. Sono in discussione i diritti
fondamentali dell’individuo, ma anche i principi di giustizia ed equità
sociale. Si impone pertanto una grande riflessione che riconsideri la
centralità della vita e la fondamentalità del suo valore-bene. Si tratta
quindi della cultura della vita rinnovata che genera comportamenti
quotidiani anch’essi rinnovati ed orientati alla difesa ed al rispetto della sacralità-qualità-dignità di ogni essere vivente. È dunque un percorso cognitivo e conoscitivo nel quale sono coinvolte tutte le “agenzie” educative e formative: la famiglia, la scuola, la Chiesa, le associazioni, i mass-media. Promuovere la vita è quindi un progetto comune
di tutta la famiglia umana che impone scelte etiche univoche ed inderogabili, vissute e sperimentate anche a livello personale. Promozione
della vita umana significa schierarsi contro ogni violenza; del forte sul
debole, del ricco sull’indigente, contro ogni sfruttamento dell’uomo
sulla natura e sugli altri esseri viventi, ponendo fine ad un antropocentrismo arrogante e distruttivo (Evangelium vitae, 101)44.
Nell’ambito specifico della promozione della salute la riflessione
etica deve fornire gli strumenti atti a discernere priorità d’intervento individuando le reali necessità sanitarie della collettività e minimizzando le risorse destinate alla cosiddetta “medicina dei desideri”.
La medicina, infatti, secondo il suo statuto epistemologico, deve basarsi su esigenze oggettive di terapia, diagnosi, prevenzione e riabilitazione; è in questi ambiti specifici che essa deve operare, destare
attenzione e disponibilità di risorse sia umane che economiche, promuovere mutamenti del modo concreto di vivere, proporre scelte di
politica sanitaria coerentemente orientate. La riflessione etica deve
allargarsi alla riconsiderazione del corretto uso di tutti gli strumenti che regolano l’erogazione della salute e la tutela dell’ambiente.
Stati, nazioni ed organizzazioni internazionali devono essere in grado di recuperare: le ragioni della solidarietà fra popoli e culture diverse, il senso profondo dello sviluppo sostenibile, il ruolo di mediazione indilazionabile fra le esigenze di sviluppo economico e le esi-
44
Ibid., 986.
QUALE “QUALITÀ” DELLA VITA UMANA?
257
genze di giustizia, di pace e di promozione della vita di ogni uomo e
di tutti gli uomini45.
Conclusione
Se la questione del rispetto e della tutela della vita umana in quanto tale è posta soltanto in termini necessariamente antitetici – o una
qualità da assegnare a una vita umana, cioè un valore relativo e diseguale alle vite umane dipendente dal loro diverso livello qualitativo
(somatico, psichico, intellettuale) o la sacralità della vita con l’assoluta intangibilità ad essa connessa – non c’è una via alternativa per superare tale rigida dicotomia. Il punto di partenza per il superamento
di tale difficoltà si trova nel concetto stesso di qualità. Le qualità della vita umana, essendo variamente percepite dagli individui, appartengono essenzialmente alla sfera della soggettività e come tali sono
“secondarie” per rapporto alla qualità primaria, originaria e oggettiva
della vita umana come il globale senso qualitativo e quantitativo di
un’esistenza umana naturale, storica e personale. In questa prospettiva le due visioni – della qualità e della sacralità della vita – non soltanto non si escludono necessariamente, ma al contrario sono complementari e si arricchiscono a vicenda.
In secondo luogo tutto il discorso induce a cercare ristabilire una
o tante dimensioni sulle quali questa realtà umana e personale è fondata, e attraverso le quali rispettata e tutelata. Nel nostro intervento
abbiamo indicato due gruppi:
1. i livelli più rilevanti (a sfondo ontologico, assiologico ed etico)
per un generico consenso sulla necessità del continuo e globale
miglioramento delle condizioni di ogni vita umana: livello scientifico-biomedico: servirsi bene dei dati delle scienze empirichebiomediche per rispettare e tutelare ogni individualità biologica umana (A. Giuli) e di tutti gli uomini: livello biomedico: costruire la biomedicina che si porrà a servizio di ogni uomo e di
45
Ibid., 986-987.
258
EDMUND KOWALSKI
tutti gli uomini (S. Leone); la “bioetica del quotidiano” di P. N.
Garofalo o la “bioetica quotidiana” di G. Berlinguer;
2. le dimensioni che diventano assolutamente ineludibili nei casi
del confine (ad esempio: “l’aborto terapeutico” o “eugenico”,
l’eutanasia): teologico-ontologica (la vita umana come dono-progetto da parte di Dio e come dono-compito da parte dell’uomo), ontologica (l’essere uomo fonda la dignità unica ed irriducibile della vita umana nei confronti di tutte le altre sostanze che compongono l’universo fisico non-umano), ontologico-personalista (la
persona come volume totale dell’uomo è unica e irriducibile in
sé, fine a se stessa, cioè possiede la dignità intrinseca e come tale è soggetto di inalienabili diritti e doveri nei confronti della società e dello stato), areto-ontologica (riconoscere il valore-bene
della vita umana e realizzarlo attraverso una coscienza morale
retta e una azione moralmente buona), etica (lo specifico modo
dell’essere uomo – in quanto vita umana e personale – fonda il
dovere morale), assiologica (la vita umana come valore-bene fondamentale da rispettare e proteggere incondizionatamente).
QUALE “QUALITÀ” DELLA VITA UMANA?
259
SUMMARIES
The point of departure for overcoming the dilemma of the ‘sacredness’ or
‘quality’ of life is found in the concept of quality. The qualities of a human life
belong essentially to the realm of subjectivity and, as such, are ‘secondary’ in
relation to the primary, original and objective qualities of human life, taken in
the global qualitative and quantitative sense of a natural, historical and personal human existence. From this perspective the two visions not only do not
necessarily exclude each other but, on the contrary, are complementary and
mutually enriching both at the biomedical level (to cure, serve and protect
each person and all persons) and bioethical level (to respect all the dimensions
of human life: axiological, ethical, ontological, theological and personal).
***
Punto de partida para superar el dilema ‘sacralidad’-’cualidad’ de vida es el
concepto mismo de cualidad. Las cualidades de la vida humana pertenecen
esencialmente a la esfera de la subjetividad; por esta razón son secundarias en
virtud de la relación con la cualidad primaria, originaria y objetiva de la vida humana; entendida como sentido global, cualitativo y cuantitativo, de una existencia humana, natural, histórica y personal. Desde esta perspectiva, esta doble visión no da lugar necesariamente a la exclusión; al contrario, aparecen
complementándose y enriquecíéndose mutuamente, tanto médicamente (curar, servir, tutelar a cada hombre y a todos los hombres) como también bioéticamente (respetar todas las dimensiones de la vida humana: axiológica, ética,
ontológica, teológica y personal).
***
Il punto di partenza per il superamento del dilemma “sacralità” o “qualità” della
vita si trova nel concetto stesso di qualità. Le qualità di una vita umana appartengono essenzialmente alla sfera della soggettività e come tali sono “secondarie” per rapporto alla qualità primaria, originaria e oggettiva della vita umana
come il globale senso qualitativo e quantitativo di un’esistenza umana naturale,
storica e personale. In questa prospettiva le due visioni non soltanto non si
escludono necessariamente, ma al contrario sono complementari e arricchite a
vicenda sia a livello biomedico (curare, servire e tutelare ogni uomo e tutti gli uomini) che bioetico (rispettare tutte le dimensioni della vita umana: assiologica,
etica, ontologica, teologica e personale).
VICTOR PAUL FURNISH’S
THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
An Ethic of Transforming Grace
Michael P. Cullinan*
Introduction
Part of the renewal of Catholic moral theology that was sanctioned
by Vatican II has been a much greater study of scriptural ethics, so
that moral theology may be ‘more nourished by the teaching of sacred
scripture’1. Another fruit of the Council is a much greater ecumenical
openness, involving not only dialogue with representatives of other
Christian traditions but also a willingness to learn from them. This
volume is a study of the works of an American Methodist biblical
scholar, Victor Paul Furnish, dealing principally with ethics in the
epistles of Saint Paul. In principle, therefore, such a study should now
need little justification, but several questions do arise which have to be
anticipated, or at least acknowledged, at the start.
The first question is why ethicists should study Paul at all. Behind
this is the larger question of whether scripture has anything to contribute to Christian ethical discourse, and behind this again is the
fundamental question of in what sense Christianity has anything to
do with moral reflection. These larger questions will be considered
further, but this cannot be done until a detailed exposition has been
given of Furnish’s view of what in fact Christianity, and specifically
the Christian scriptures, can claim to contribute to the dialogue.
* The author recently completed his doctorate in Moral Theology at the Alphonsian
Academy.
El autor defendiò recientemente su tesis de doctorado en Teología Moral en la Academia Alfonsiana.
1
Optatam Totius, 16.
StMor 46/1 (2008) 261-291
262
MICHAEL P. CULLINAN
Some initial explanation is, however, required of why Paul was selected and why a non-Catholic expositor was chosen. Such a choice
has obvious ecumenical advantages, but there is another powerful
reason for examining ideas from other traditions. While such ideas
may have the disadvantage of not being immediately compatible with
Catholic theology, they have the significant advantage of being unprejudiced with regard to the existing debates and polarizations within the Catholic community of discourse.
In the case of a study of Paul, these potential advantages and disadvantages are both heightened. On the one hand, much of the theology of the Protestant Reformation was based on Paul, and subsequent Catholic tradition has often preferred a more legal approach to
ethics than that found in Paul2. A Catholic reader could, therefore,
be forgiven for wondering whether it might not be better, or at least
safer, to start with Matthew rather than Paul3. It might also be wondered whether a study of Paul alone could contribute anything reliable. Behind this question is, of course, the deeper one of the meaning of inspiration and canon in the light of the diversity of different
New Testament traditions that the historical-critical method has
highlighted.
On the other hand, there are some good reasons for concentrating on Paul. One is that there are very few modern books specifically on Pauline ethics written in English by Catholics4. English
2
The Anglican moral theologian Oliver O’DONOVAN (Resurrection and Moral
Order: An Outline of Evangelical Ethics, Apollos, Leicester 1994, 165) gives a fascinating illustration of this. He describes the two sets of seven side-panels on
the walls of the Sistine Chapel. One side depicts the life of Moses and the other the life of Christ, with titles contrasting the law on stone tablets with the
more splendid new evangelical law of Christ. But whereas in Paul it is a contrast
between the letter that kills and the Spirit that gives life, here, however, it is a
contrast between ‘two kinds of community legislation’.
3 In fact this is what Veritatis Splendor actually does, beginning with the account of Jesus and the rich young man in Matthew 19, before using texts from
Romans 12 and 1 Corinthians 1.
4 I am aware of only two: T. J. DEIDUN, New Covenant Morality in Paul,
Analecta Biblica 89, Biblicum, Rome 1981 (repr. 2006) and Robert F. O’TOOLE,
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
263
Catholics often seem somewhat afraid of Paul, perhaps partly because of his use by Protestants since the Reformation5. Those wanting fresh and original research towards the renewal of Catholic moral
theology will not, however, want to be trammelled by past prejudices,
particularly if these can be seen as legacies of legalism and defensive
reaction to the Reformation. Catholics should not be frightened of
St Paul, and any serious attempt to transcend past antitheses is also
likely to be beneficial ecumenically. From a different (but not contradictory) standpoint, those who wish to renew Catholic moral theology in faithfulness to tradition will be interested to note that texts
from St Paul once played an important part in theology, for example
in St Thomas Aquinas,6 and will accept that any attempt to re-appropriate or benefit from past ideas today must take account of the
way these texts are now understood in the light of the historical-critical method. In fact the present study also examines some other New
Testament ethical traditions, and it will return to the question of why
it is worth beginning ethics with Paul.
The next question is why Furnish in particular. Some general reasons have already been given for a study of the ideas of a nonCatholic. My own interest in him began when his book Theology and
Ethics in Paul 7 was recommended to me when writing an STB Paper
Who is a Christian? A Study in Pauline Ethics, Zacchaeus Studies, New Testament, The Liturgical Press, Collegeville, MN 1990. It is also important to acknowledge the work of Frank J. MATERA, New Testament Ethics: The Legacies of
Jesus and Paul, Westminster John Knox Press, Louisville, KY 1996. Matera devotes much space to Paul, examining each epistle separately.
5 This aversion is not even confined to Catholics, with N. T. Wright, the
biblical scholar and Anglican Bishop of Durham commenting that ‘The English
are often deeply suspicious of St Paul.’
6 Quite apart from Thomas’s commentaries on Paul’s epistles, even a glance
at an index of the scriptural citations in the Summa, itself a work that unites theology and ethics, shows how much use Thomas made of Paul. There are more
references to Romans than to any other NT book except Matthew and John,
and Paul is used almost as much as all the gospels put together. The Statutes of
the Alphonsianum itself still give Thomas a privileged mention.
7 P. FURNISH, Theology and Ethics in Paul, Abingdon Press, Nashville, TN 1968.
264
MICHAEL P. CULLINAN
in 1994. Part of the reason for my continuing interest is that his
ideas, for example on grace and the importance of the church, seem
relatively more readily assimilable for the Catholic tradition than
might be the case with those from some other Reformed traditions.
Finally, Victor Furnish is a much respected and prolific scholar who
has not previously been studied biographically.
Methodologically, this study is primarily descriptive, rather than
comparative or synthetic. The first aim is to present the reader with
what Furnish has actually said, before attempting to analyse and draw
conclusions. This presentation is done in the first five chapters.
Chapter 1 introduces Victor Furnish as a man and as a biblical scholar, examining some of his presuppositions about the nature of his discipline and specifically about the Pauline epistles. The next three
chapters then describe each of Furnish’s three main ethical works in
detail. These are his Doctoral Dissertation, Paul’s Exhortations in
the Context of his Letters and Thought8 and his two books, Theology and Ethics in Paul and The Love Command in the New Testament9. Chapter 5 summarizes material on both general and specific
moral questions from Furnish’s later works. Finally, Chapter 6 sums
up Furnish’s contribution and indicates how it may be relevant to
contemporary moral theology. It will be suggested that this study
shows that the letters of St Paul provide the best starting point for
scriptural ethics.
1. The Man and the Scholar
All our ideas and presuppositions are greatly influenced by our biography, so it is worth briefly describing Furnish’s. He was born in
Chicago in 1931, the son of a Methodist minister who insisted on the
8
Published in 1960 as Microcard Theological Studies, 36 and now very hard
to obtain.
9 P. FURNISH, The Love Command in the New Testament, Abingdon Press,
Nashville, TN 1972; British edn., 1973). Quotations will be from the 1972 edition.
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
265
importance of the truth of the gospel as well as the social gospel, two
approaches that then divided Protestant theology. Victor Furnish
studied for the Methodist ministry and did his doctorate at Yale University under Paul Schubert. He read Bultmann’s theology of the
New Testament and was, in his own words, ‘enraptured’ by it. Victor
Furnish chose to spend his entire academic career, from 1959 until
his retirement in 2000, at the Perkins School of Theology, Southern
Methodist University in Dallas, Texas. He deliberately chose to combine the advancement of knowledge with seminary teaching. He
spent time at Tübingen, hearing lectures by Ernst Käsemann (Spring
1964), then in Bonn (1965-66), working especially with Wolfgang
Schrage to whom he has acknowledged special indebtedness, and later in Munich (1972-73).
Furnish is an ordained minister of the United Methodist Church,
and has accepted church assignments and engagements to speak,
even when these have been on controversial topics. He has tended to
write in response to requests, and became involved in the contentious
debates about homosexuality ‘accidentally’ because he was asked to
offer his interpretation of certain biblical passages. He has remained
involved in that discussion, however, out of conviction. He explained
to me that most of his later works are not specifically on Pauline
ethics because his writing agenda was so determined by the kinds of
invitations he had accepted. Another important influence was the Society of Biblical Literature, of which he was President in 1993, and
particularly the SBL Pauline Theology Group (1986-95). He has also been editor of the Journal of Biblical Literature and General Editor
of the Abingdon New Testament Commentaries. He is now officially retired, but has just brought out a commentary on 1 and 2 Thessalonians,10 and he is also in the planning stage of a comprehensive
study of Pauline theology.
Furnish’s major presuppositions could, perhaps, be loosely described as those of a liberal Protestant scripture scholar. Theologi-
10
P. FURNISH, 1 Thessalonians. 2 Thessalonians, Abingdon New Testament
Commentaries, Abingdon Press, Nashville, TN 2007.
266
MICHAEL P. CULLINAN
cally, he has followed Bultmann’s distinction between the historical
Jesus and the earliest traditions about him, but less sharply. Furnish
also follows Bultmann’s existentialist approach, at least in his earlier
works. He follows Bultmann’s emphasis on faith as obedience to
God but avoids the error of making faith a purely human act, describing Paul’s view of faith as a response called forth by the experienced reality of God’s saving power and itself an act of God. In important ways, however, Furnish is closer to the Catholic position
than the classical Lutheran one. Thus justification is not purely
forensic: God not only declares the sinner right but also puts him
right. Also grace is not just God’s favour but also God’s power. Less
familiar to Catholics is Furnish’s view on what may be called the ambivalence of the law: in Paul’s view the law exists partly to define,
provoke, and condemn sin, but also to give it a power and a base for
operating.
Scripturally, Furnish refuses to separate exegesis and hermeneutics, and either of them from theology, or from preaching. He is very
wary of attempts to systematize and schematize scripture, emphasizing the diversity of the scriptural sources, and that Paul was in no way
a systematic theologian. He insists that inspiration applies properly
only to individuals and can only be used metaphorically about texts,
and is ‘unimpressed’ by Brevard Childs’s canon criticism. On the
question of the authorship of the Pauline epistles, Furnish regards
not only the Pastorals but also Colossians, Ephesians, and 2 Thessalonians as deutero-Pauline, although still important. He does not regard Acts as a very reliable source for Paul’s theology.
Ethically, Furnish follows Bultmann’s idea that the believer is
freed from living unto himself, no longer compelled to sin but still
having to decide not to. The Spirit is both a power and a norm, and
the Law becomes the demand to love, fulfilled by deeds done in freedom, not by meritorious works. Furnish does not, however, accept
the view of Bultmann and others that ethics can be summed up in the
formula ‘Become what you are!’ because this tends to subordinate the
imperative to the indicative in an idealist way, whereas for Furnish
‘the Pauline imperative is not just the result of the indicative but fully integral to it.’
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
267
2. The Doctoral Dissertation
Furnish’s refusal to subordinate the imperative to the indicative is
paralleled by his refusal to separate ethics from theology in Paul.
Furnish came to this position through his doctoral research, which
might be described as a refutation of the views of Dibelius.
Form criticism, as well as the study of the history of religions, had
shifted attention away from the content of Paul’s ethics to their origin. Dibelius applied form criticism to Paul, and concluded that Paul’s
letters contained separate hortatory sections (often at the end) that
had nothing to do with Paul’s own ethical theory but were looselyconnected paraenesis, imported from contemporary culture, whether
Hellenistic Judaism or popular philosophy, because Christianity
lacked its own ethic and recognized that it needed one when the end
failed to come. Paraenesis was essentially addressed universally rather
than to any specific situation. Dibelius preferred to speak of a Christian ethos rather than a Christian ethic, which he saw as faith, hope,
and love, understood as ‘radical obedience, superhuman love, and
treating everything that exists as relative and provisional’. The distinctive feature of this Pauline ethic was that specific ethical regulations need to be adapted anew in each succeeding generation, at least
in part by the use of human rationality. This theory of Paul’s letters as
divided into doctrine and paraenesis was followed by Weidinger and
Dodd, and it has been very influential. If it were correct, it would follow that Paul would not be a very important source for Christian
ethics, at least at the specific level. Thus in discussing it, Furnish is engaging with the question of why study Paul’s ethics at all.
In his dissertation, Furnish first studied the classical paraenetic tradition, as used by Greeks, Jews, Romans, and also Christians. He then
examined Paul’s letters to see if they do in fact contain paraenesis, beginning with two contrasting epistles, Galatians and Philippians, from
which he formulated hypotheses to be tested by study of the remaining core epistles. Lastly he discussed the function of Paul’s ethical exhortations and the relationship between indicative and imperative.
Furnish showed that the alleged paraenetic sections in Galatians,
1 Thessalonians, and Romans, and the paraenetic material in Philip-
268
MICHAEL P. CULLINAN
pians, cannot easily be regarded as imported material independent of
the rest of the epistle. He did this by identifying connections between this material and the theological ideas that occur earlier in the
same epistle. He also provided some evidence that the material was
deliberately structured as part of the overall plan of each epistle. Furnish’s study of the history and form of contemporary paraenesis also
led him to the conclusion that the so-called paraenetic material is different from paraenesis in both form and purpose, being specific,
apostolic, and evangelical, rather than general, advisory, and educative. Paul, Furnish argues, presupposes the new life, and can therefore be more personalist, less preceptive, more confident in his readers, and, consequently, more challenging than the paraeneticist. Furnish therefore prefers to use the term paraclesis for Paul’s exhortations. Furnish also denies that Paul felt the need to import an interim ethical code when the end failed to arrive: in fact, he argues, Paul
does not want to give any specific ethical code.
Furnish rejected almost every aspect of Dibelius’s view. His own
position goes even further: no separation between ethical and doctrinal is possible. Doctrine is practical and the ethical is also doctrinal.
For example, in Galatians faith and truth are closely related, and in
both 1 Corinthians and Romans the idea of faith is both ethical and
doctrinal, in Romans because of the reference to the ‘obedience of
faith’, and in 1 Corinthians because the Corinthians believe too
much in themselves. Paul’s theology and ethics are both parts of the
one gospel he preaches. The ethical imperative is neither separate
from nor secondary to the doctrinal indicative, but integral to it.
Furnish also characterized Paul’s ethic quite differently from Dibelius’s idea of rational decision-making, as an ethic of the Spirit,
theocentric and indefinite. It is not based on any code or set of precepts. Faith in Christ brings freedom from domination by sin, self,
and passions, a freedom given in order to be used in loving and obedient service to God and others. The law is summed up in love. Paul’s
exhortations are appeals intended to encourage moral interiorization
and discernment rather than external conformity, and to produce
self-criticism based on God’s act in Christ, rather than a more introverted Stoic or existentialist self-examination. Paul can command,
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
269
but Furnish argued that he is not trying to impart principles, precepts, or any kind of new law, and that he can be flexible and tolerant. Paul also makes his appeals in too subtle and varied a way for
ethical material to be easily separated from doctrinal. Furnish also
argued that Paul does not have an idea of moral progress but of daily renewal and self-offering to God. More specifically, Furnish identified important material on God’s will, freedom, knowledge, the priority of love over knowledge, not scandalizing others, and on an attitude to the world that is, in Catholic language, more the ‘detachment’ of the tradition of Ignatius Loyola than Stoic autonomy or
flight from the world.
Furnish’s earliest work already provides us with much valuable
material. His idea of knowledge of God as primarily personal, and his
emphasis on the importance of persuasion rather than command
both bear importantly on the question of the relationship between
person and nature in ethical thought. There is also much on the
question of the role of law. More problematic are the views that there
are no absolute, unchanging moral principles and that law is subsumed into love, with the will of God having to be discerned afresh
in each situation, and ethical regulations adapted anew in each generation, an idea Furnish shares with Dibelius.
It seems very easy to agree that there is much ethical material in
Paul outside the so-called paraenetic sections. Concepts such as faith,
love, freedom, and, at least in the Catholic perspective, grace are
clearly important for ethics, to say nothing of the material on law and
sin.11 Once the source of ethical material in Paul is broadened, however, further problems arise. On the one hand, the value of Paul’s
11
The attempt to fillet out specifically Christian ethical material, often with
an underlying legalist idea of ethical material as ethical precepts, has been rightly criticized by Servais Pinckaers as ‘clumsy and materialistic’ and ‘like attempting to compare one person’s face with another by eliminating all the features they
have in common; this process would disfigure them both’, Servais PINCKAERS,
The Sources of Christian Ethics, trans. M. Noble, T&T Clark, Edinburgh 1995;
orig. pub. as Les sources de la morale chrétienne, Fribourg University Press, Fribourg 1985, 19933, 107, 108.
270
MICHAEL P. CULLINAN
ethical reflection can now be judged from the whole of his preaching, but on the other hand, the question arises of whether the more
detailed ethical material is consistent with everything else, at least in
the same epistle. The question of the originality of the ethical material still remains, of course, as does that of exactly what we should
classify as ethical material – should we be looking for principles, precepts, or what else?
3. The First Book
Furnish did not fully examine the origin of the ethical material in
Paul in his dissertation. Also his exegesis concentrated on looking for
dogmatic references in ethical material rather than examining the
dogmatic material for ethical ideas. His first book, Theology and Ethics
in Paul, dealt with both these questions.12 It also contains a valuable
historical survey of the literature on Pauline ethics from the time of
Ernesti in 1868. Furnish deduced from this survey that the crucial
problem in Pauline ethics is the relationship between indicative and
imperative, that is between Paul’s ethical materials and his preaching
as a whole, and his main discussion of this question comes in this book.
Furnish begins with an examination of the sources of Paul’s ethical material and then asks how he used this material, which helps to
answer the question of Paul’s originality. In one sense, of course, Paul
does not want to be original – he does not want to be accused of suggesting novel kinds of conduct. In another sense, however, he
demonstrates originality by carefully selecting the material he chooses to use and the way in which he uses it.
Paul does use material from both Hellenistic and Jewish traditions, but in a distinctive way. There may be Stoic language and the
diatribe form, but Paul is not a typical Greek philosopher: he may
12
Although now over thirty years old, this book was still recently described
as a ‘landmark study’, and continues to be a good starting reference for research
on Pauline ethics.
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
271
use Hellenistic terms like ‘conscience’, ‘freedom’ and ‘contentment’
(avuta, rkeia), but he redefines them in his own, foreign way. Furnish
suggests that Paul seeks to remain open to the best in existing Greek
ethics. He commends virtue but without making himself into a virtue
ethicist. He avoids a rationalistic and educative character ethic but
encourages reasoned discussion, while at the same time warning
against putting knowledge before love and stressing the importance
of knowledge of God as well as of facts and ideas. The Old Testament
is not used as a manual, and still less in a rabbinic way: Paul uses it
for its witness and wisdom, but not as normative. More surprisingly,
perhaps, Furnish describes Paul’s use of the Jesus tradition as not that
of a disciple, but much less and much more freely than might be expected, with Paul using traditions about Jesus, but as the risen Christ
not an earthly teacher or lawgiver.
According to Furnish, Paul is neither a rabbi nor a philosopher
but an evangelist, becoming ‘as one outside the law’. He redefines the
role of the law in relation to Christ, and advocates life in accordance
with the Spirit rather than with nature. He is concrete rather than
theoretical, he is practical and specific but capable of great pastoral
delicacy and sensitivity, and he is persuasive and inclusive, never trying to specify completely everything that should be done – an indefinite but not indeterminate ethic. Since Paul’s purpose is evangelical
rather than simply educative or paraenetic, his ethical teaching cannot be divided into kerygma and didache, nor can it be understood
apart from the themes of his preaching.
The next part considers these themes. Furnish regards eschatology as the key, in the sense of the New Age being already partially
present. Anthropology is made dependent on eschatology, through
such ideas as the condition of man before and after grace. Before
grace, the flesh plays host to the power of sin, with the law functioning as sin’s agent. Grace transforms the believer, making obedience
possible. Furnish sees little idea of gradual moral progress in Paul,
and interprets the transformation produced by grace more existentially, as a relationship with God that is renewed day by day. He also
separates sinning from sin, with the believer freed from the dominion of the power of sin, but not from sinning. Furnish also identifies
272
MICHAEL P. CULLINAN
a theology of the cross as an important element in Paul, with baptism
more a committal than a resurrection. The believer’s union with
Christ is seen as relational, with justification a new relationship with
God, not a quality that one possesses. However, Furnish rejects any
idea of mystical union.
According to Furnish, Paul regards the law very ambivalently.
While praising it as good, he nevertheless also considers it to be a
lethal force when misused. God gave the law as a witness to His will,
as a custodian, and to bring matters to a head by multiplying transgressions, and, even when it is kept, increasing sin through disobedience and boasting. Thus the law becomes sin’s agent. Paul does not
reject the law itself, but only works of the law and the use of the law
as a means to salvation. Christ’s coming reveals its true purpose. The
believer is freed from the power of sin in so far as he is bound over
to serve God, but he is not freed from sinning. He is enabled by
God’s grace to keep the law, summed up in the commandment to
love without limits, never as a performer or achiever, not valuing
what is done or making any claim on God, but open to seeking God’s
unlimited will and to unlimited love of neighbour. Paul does not
question the importance of keeping the law’s commandments, but
these are all expressions of love of God and neighbour. Love is not a
quality or virtue but God’s power within. Doing good to the household of faith is only the beginning, indeed love’s demands never end.
The last part characterizes Paul’s ethic and discusses problems of
ethical action. Positively, Paul’s ethic is theological, with man completely depending on God’s power; eschatological, as dependent on the
power of the New Age already present; christological, with Christ’s
humble and selfless love paradigmatic; and an ethic of the Holy Spirit. It is internal rather than external, ecclesial rather than individualistic, inclusive and comprehensive rather than sectarian and limited, and
indefinite (but not indeterminate) rather than comprehensively prescriptive. Negatively, Paul’s ethic lacks theories, principles, norms,
and any systematic pattern. The moral imperative is integral to the
indicative, because obedience is itself constitutive of the Christian’s
new life in Christ, which Furnish describes using Paul’s analogy with
a marriage in Rom 7: 1-6. This identification of indicative and im-
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
273
perative is not without problems, as Romano Penna later pointed
out,13 but it seems a better approach than making the imperative separate from, subordinate to, or consequent on the indicative.
Furnish also discusses problems of ethical action, both positively
and negatively. Negatively, he rejects the voluntarist solution of identifying God’s will with any programme or code, even with the teachings or life of Jesus. He also rejects conscience and the Holy Spirit as
normal sources of practical guidance. Nor can moral consideration
be purely situational in a way that excludes existing traditions, and
customary ethical wisdom. Positively, Furnish sees the church as the
community of moral discourse, within which the believer’s selfless
commitment to others in love gives rise to moral insight (ai; sqhsij).
God’s will has to be discerned through such means as universal experience and discriminating judgement, made communally rather than
individualistically. Relationships not rules are of primary importance
in discernment. Paul has no idea of moral inability but assumes that
God’s power is sufficient for us to do what we must, and he does not
conceive of any progress or development in obedience. The Christian’s moral action has no discernibly specific content but it is distinctive in the power of love that makes it possible.
4. The Second Book
Furnish’s next major work, The Love Command in the New Testament, is now less used than Theology and Ethics in Paul, but it answers
some important questions that arise from the former work. Furnish
may have succeeded very well in showing Paul’s originality, but answering one question in theology usually causes several others to
13
Penna points to the case of a baptized baby dying after baptism. See Romano PENNA, ‘Problems of Pauline Morality: The Present State of the Question’, in ID., Paul the Apostle: A Theological and Exegetical Study, trans. T. Wahl,
The Liturgical Press, Collegeville, MN 1996; orig. pub. as L’apostolo Paolo: Studi di esegesi e teologia, Edizioni Paoline, Torino 1991.
274
MICHAEL P. CULLINAN
spring up in its place. An affirmative judgement on the originality of
Paul’s ethic is not the same as a judgement of its significance. Furthermore, the judgement that Paul’s ethic cannot be separated from
theological language prompts the question of whether there is any
such thing as specifically Christian ethics. Indeed, Furnish’s denial
that theories, principles and norms exist in Paul provokes a more
radical form of the same question: whether ethical reflection on specific practical issues can learn anything from Paul’s epistles or even
from the scriptures as a whole. Anyone with a deontological or legal bent might well ask whether it might be better to leave Paul
alone and concentrate on more accessible parts of the New Testament. Furnish also seems to have some aversion to any attempt to
systematize Paul, or to import scriptural language into systematic
theology. A moral theologian might well be forgiven for not wanting to examine yet more possibly conflicting traditions, while at the
same time being forbidden to make any attempt to systematize or
reconcile them.
There are really two issues here. One is the question of the consistency of different New Testament sources, presupposing questions of inspiration and canon, and leading to the question of
whether one source can be preferred to another and, in particular,
of Paul’s value relative to the rest of the New Testament. The other
issue is more fundamental and concerns the respective roles of systematic theological or ethical reflection and scriptural exegesis, but
before addressing it formally, it seems right to let the exegete finish
presenting his case, particularly as this book is Furnish’s farthest
penetration into the domain of ethics. Furnish’s study of the love
command in the New Testament helps to show how a place can be
found for some legal or deontological grounding for Paul’s ethics. It
also seems to show that there is no easy escape to another more legalist tradition within the New Testament. This is a significant further step towards proving the importance of Paul’s ethic as Furnish
has presented it.
The book falls into two main areas: the comparative study of the
place of love in early Christian writings, including the deuteroPauline corpus, and the love command as an ethical concept.
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
275
Furnish’s study of the synoptics makes him conclude that Jesus
was the first to make love, including love of enemies, central to his
teaching. Love is treated differently in each gospel, being least important in Mark, having a practical emphasis in Luke, and being
cardinal in Matthew, where the love command does not spawn or
contain the law but constitutes it. Love in Paul is the power of the
Holy Spirit, indeed Furnish is sometimes prepared to identify love
with the Holy Spirit, and also with the good. Love sums up the law,
with Christian freedom meaning deliverance from slavery to sin in
order to be ‘bound over’ into a new service of God and one’s brothers. Furnish finds similarities between the Johannine tradition and
Paul, and argues that this tradition does not positively exclude love
of outsiders. Furnish’s examination of the rest of the New Testament shows a retention of the law (rather than its replacement by
love) only in James, and this depends on his preferred interpretation
of what it means to ‘fulfil the royal law’. This examination also
shows that while the centrality of love does diminish in some later
writings, where it often becomes a community regulation or just
one virtue among several, its importance and relation to Christ do
not disappear completely, and that the idea of a new law is not found
before Barnabas.
Furnish then suggests some conclusions for ethics. He refuses to
let love be a basic principle or means of discernment, and he is therefore open to the accusation of emptying love of specific meaning. In
fact he describes love as involving one in constant and immediate active care of neighbours, including enemies, according to their needs,
and not because of who they are or their relation to oneself, but because they are. This description is surely seriously challenging rather
than vacuous. Regarding love as a divine command means that it does
not depend on affection, it is not a duty that is dependent on the other’s response and it is measured by love of God rather than love of
self which Furnish rejects as any basis for loving others. It is unrestricted in scope, and is even constitutive of the church.
It follows from Furnish’s discussion that there is no evident alternative basis, whether legalist or other, for New Testament ethics.
Paul’s ethic seems in harmony with the synoptics and even similar to
276
MICHAEL P. CULLINAN
the Johannine tradition, even though Matthew shows greater openness to a need for community regulations. Furnish also gives a good
reason for privileging the core Pauline epistles over the others. The
latter do show interesting development, for example on the ideas of
peace and conscience, and there is no major contradiction, although
their view of the role of women is more conventional. Yet if it is accepted that they are only nominally by Paul, their very appeal to his
authority allows greater weight to be given to his indisputable work.
Furnish then argues that Paul is the best witness to a way of decisionmaking particularly appropriate for today, a disciplined theological
reflection that is open to all possible sources of information, and not
an ethic of systematic rules or norms from which correct action is
simply directly deduced.
5. Furnish’s Later Works
The accusation that reducing law to love empties ethics of specific content indicates the need to present Furnish’s views on specific ethical questions. Before doing this, however, it is worth examining how his ideas on more general topics developed in his later
works after 1972.
5.1. General Topics
Love remains fundamental in Furnish’s thinking. Although he
does continue to use existential language, his preferred description of
love is God’s gift and claim. It is not just another virtue or gift but total surrender to God’s will and complete giving of oneself to others,
as revealed by God’s love on the cross. Love cannot be sometimes
given and sometimes withheld, and must sometimes challenge and
even confront. Furnish has a rather critical attitude to self-love. It is
not commanded by the love command and is not the measure of love,
but is simply presumed. Preoccupation with self is to be overcome.
When Furnish was asked to comment on an account of Freud’s criticism of the love command, however, he pointed out that love is dif-
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
277
ferent from emotional affection, self-giving does not mean self-abnegation, and love presupposes self-affirmation14.
Discussion of love and self leads naturally to Furnish’s views on
Paul and Stoicism. While granting that there are some important
Stoic influences on Paul, for example in his idea of the individuated
self, the importance of cognitive language, and also his use of Stoic
terms in Phil. 4: 8, Furnish insists that Paul is an apostle rather than
a Stoic sage. Paul rejects such Stoic ideas as self-sufficiency, making
light of suffering, courage, and the ‘stiff upper lip’. Instead, Paul sees
God’s power manifested in suffering and recommends faith rather
than courage as the correct reaction to it.
Furnish’s view of basic Pauline ethical ideas has not changed very
much. On nature and natural law, Furnish is prepared to grant that
according to Paul the gospel ethic clarifies man’s deepest moral instincts, but also points out that Paul’s main emphasis is not on creation but on the new creation of baptism. Furnish has recently said
that Paul sees significant correspondence between what society recognizes as good and what may be discerned as the will of God, and
thus ‘a certain universal sense of what is good and of what is evil’.
Furnish’s idea of sin remains a power that alienates human beings
from God by deceiving them into thinking that they are self-sufficient. We sin not by failing to be like God, but by trying to be like
God. Sinful humanity has a de-humanizing sense of self-importance
and invincibility. Thus the opposite of sin is faith. Furnish also says
that Paul himself never uses ‘sin’ to mean a concrete wrong, and
prefers the singular to the plural. Furnish’s view of the law as ambivalent also remains: it has power to enslave and kill, bringing sin to
life and holding down in sin. Also, to accept a set of beliefs as true beyond question is to live under law. Furnish continues to see freedom
as from sin, and for a new life and commitment. It ‘derives not from
the cultivation of an inner serenity but from belonging to Christ’. It
14
Ernest WALLWORK, “‘Thou Shalt Love Thy Neighbour as Thyself”: The
Freudian Critique”, JRE 10/2 (1982) 264-319. Furnish’s response is ‘Love of
Neighbour in the New Testament’, JRE 10/2 (1982) 327-334.
278
MICHAEL P. CULLINAN
is linked to love, the Spirit, and also to boldness. Less is said about
what ‘freedom to’ might mean in the sense of empowerment and development. Furnish continues to emphasize the role of the community in moral discernment – against individualism, and so retains
what might be described as a low view of conscience, which he regards
as a universal human faculty for reflecting on past or intended actions, not the mediator of any special Christian truth. Furnish also
continues to see moral transformation more in existentialist terms than
as gradual progress, although he does believe in strengthening faith
by ongoing formation and education.
Before turning to specific issues, it is worth presenting Furnish’s
ideas on the specificity of Christian ethics. Furnish agrees with Willi
Marxsen that the gospel can yield no ‘special arguments’ for those
who voice their views about specific moral issues, whether they are
speaking only within the Christian community or on its behalf. Christians have to make their case like everyone else, with arguments that
all reasonable people should be able to accept. There is a distinctively Christian ethic, but it must not be confused with any particular
deeds or practices. Rather, it is a constituent part of the gospel15.
5.2. Specific Moral Issues
Furnish’s view of the authority of scriptural moral teaching is to
reject both the ‘sacred cow’ view of scripture as simply the eternally
and universally binding deposit of God’s truth, and also the ‘white
elephant’ view (often a reaction to the sacred cow view) that Paul’s
moral teaching is now obsolete, just a burdensome anachronism. The
sacred cow view is wrong because Paul did not intend to write scripture equally valid for us today but wrote on specific matters to specific congregations, because inspiration applies properly only to persons and only metaphorically to documents, and because Paul himself allows different ethical judgements rather than laying down a
15
WILLI MARXSEN, New Testament Foundations for Christian Ethics, Fortress
Press, Minneapolis, MN 1993.
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
279
‘rigid, legalistic code’. The white elephant view is often based on the
erroneous idea that Paul’s imminentist eschatology made his ethics
irrelevant in today’s world. However Paul uses eschatology to reinforce practical appeals. Justification, eschatology, and ethics are all
interrelated in Paul: ‘faith is only faith as it is enacted in love’16. The
correct approach is first to determine the meaning of Paul’s teaching
in the context of his own world and mission. The topics may be the
same now but the issues may not be. We should not expect to find
‘clear and specific answers’ for our particular ethical concerns, but
the ‘underlying concerns and commitments’ revealed by Paul’s instructions will be important, because they reveal ‘faith being enacted
in love, and love seeking to effect its transforming power’.
On marriage and sexual ethics, Furnish strongly condemns
promiscuity. He stresses Paul’s new view of marriage that emphasizes
the quality of the relationship, mutuality, and equality. He also accepts that Paul describes celibacy as superior, albeit not for all and
not to be flaunted as an achievement. Furnish finds no clear condemnation in Paul of those who have divorced, and argues that today’s situation is more complicated: ‘better than he, we know the importance of stable and enduring marriages. We also know that the
marital concord for which he was specifically concerned is increasingly difficult to nourish and sustain in our modern world.’
On homosexual conduct, after careful study of the texts, Furnish
rejects the idea of timeless moral norms, and argues that there is no
convincing case that biblical condemnations of same-sex activity apply to committed unions of homosexual people today, given what we
now know of sexual orientation. I have not sought to analyse this topic in detail, but presented Furnish’s position briefly, with particular
reference to its implications for scriptural ethics in general. Furnish
points out that there is no word for ‘homosexuality’ in either Greek
or Hebrew and concludes that Paul inherited a very critical view of
homosexual conduct from both Jewish and Greek contemporary cul-
16
P. CULLINAN, The Moral Teaching of Paul: Selected Issues, Abingdon Press,
Nashville, TN 1979; citation from the 2nd revised edn., 1985, 25.
280
MICHAEL P. CULLINAN
ture, where it was seen as a typical Gentile vice, or associated with exploiting young male slaves, or with insatiable and uncontrollable lust,
or regarded (for example by the Stoics) as against nature. Nobody
had the modern idea of sexual orientation. Also, Paul is not preoccupied by the subject. Furnish then argues that Paul’s letters ‘certainly
cannot yield any specific answers to the questions being faced in the
modern church’, although Paul’s fundamental concerns (about lust
and exploitation) are as valid now as they were then. Furnish regards
the statement that homosexual practice is incompatible with Christian teaching as too broad in its condemnation and also too narrow in
its conception of God’s claim, which is boundless and not that one ‘to
Christian teaching’.
One can agree that the texts commonly cited against homosexual
activity do not easily bear the weight that is often placed on them,
but this does not necessarily imply that there is no scriptural warrant
for the universal Judaeo-Christian tradition on this question. One
can also easily agree that Christianity is not fundamentally a religion
of laws and moral teachings, and that sin is fundamentally not simply
bad actions. Yet this does not mean that actions do not matter, and
the Catholic tradition insisted at the Reformation that, at least potentially, grace can be lost even when faith remains. Elsewhere, Furnish states only that it is ‘plausible’ that if the ancient writers had
been ‘liberated from the ancient stereotype of same-sex relationships
as inherently lustful, unnatural, degrading, and destructive’, then
‘their expectations and support of such relationships would have
been little different from their expectations and support of Christian
heterosexual partnerships’. This seems a somewhat weak justification
for a major change in teaching. Neither does Furnish deal with the
argument from nature. More fundamentally, his emphasis on moral
discourse within the believing community begs serious ecclesiological questions, such as how different ecclesial communities make
moral decisions, and so the question of authority in the church.
Before presenting Furnish’s views on the role of women in the
church, it is worth describing his ideas on ministry, where he makes
some very valuable points: how the minister is primarily the servant
of God rather than of his congregation and not merely a manager or
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
281
facilitator, how even a church administrator can remain a minister of
the gospel, how a measure of church discipline is important, and how
a call to ministry may be discerned. In these days of serious problems
in attracting, selecting, forming, and appraising priests, these remarks surely have much to contribute, particularly such ideas as
weakness being part of being a minister, the link between eucharist
and ethics, the tyranny of pleasing the congregation, and the importance of persistence. On the role of women in the church, Furnish
makes a good case for a distinction between Paul’s practice and the
more patriarchal attitudes of later Pauline epistles. Paul has very unusual ideas for his time, seeing women as equal to men and capable
of being leaders in the church.
We have, however, to beware of passing from equality to simple
identity or equivalence. There remain problems here, both of exactly why Paul is more authoritative than other New Testament books,
even if these were written in emulation of him and seeking his authority, and also of determining what is by Paul and what is not.
Nevertheless, there does seem a good case for concluding that much
of the restriction on women is later, and that Paul’s own views, at
least at one point in his life, were remarkably advanced.
On political ethics, Furnish manages to derive a great deal of useful material from exegesis, particularly on the common good and the
duties of rulers17. He finds no justification for violence in the Jesus
traditions and characterizes the Christian attitude to the world as
critical engagement rather than subservience, resistance, or withdrawal. Furnish argues a good case for the possibility of building a
Christian political morality on Paul, using such concepts as the common good, the interdependence of man and the world, and the need
and possibility of critical moral reflection both in the church and in
the world. His exegesis of Rom. 13: 1-7 provides a view of the au-
17
See, for example, Furnish’s article ‘Uncommon Love and the Common
Good: Christians as Citizens in the Letters of Paul’, in Dennis P. MCCANN and
Patrick D. MILLER (eds.), In Search of the Common Good, Theology for the Twenty-first Century, T&T Clark, London 2005, 58-87.
282
MICHAEL P. CULLINAN
thority of government that differs significantly from absolutism,
whether of the monarchical or secular democratic variety. Furnish also manages to deduce from the New Testament an attitude of care
and development of the environment, and a view of ownership of
property that includes a duty to treat creation with respect.
Whatever criticisms and qualifications may be necessary in the appropriation of this material by Catholic theologians, Furnish has
shown very clearly that important theological and ethical insights can
arise out of exegesis.
6. Judging Furnish’s Contribution
Furnish argues that Paul is ‘the best witness to a way of decisionmaking particularly appropriate for today’. It seems easy to agree that
in Paul we see both more practical moral reflection and more engagement with problems of putting the gospel into action than anywhere else in the New Testament. Furnish demonstrates the great
value of Paul’s ethical contribution, in its openness and in its avoidance of legalism and voluntarism, yet he also shows how a place can
be found for ideas of command and duty to God, so leaving open the
possible founding of Christian ethics as a response to God’s saving
love. Furnish’s later works show two more distinctive features of
Paul’s ethic. Paul’s attitude to self-sufficiency and engagement with
the world is more extrovert and positive than that of Stoicism, and
the apostle’s attitude to suffering is also different, avoiding denial or
the stiff upper lip, and with suffering manifesting the power of God.
It now seems possible to assert that Furnish has shown that if the
New Testament can contribute anything to Christian ethical reflection, Paul is the best place to begin, and that Paul has much to teach
about how ethics can be based on love and freedom from bondage either to laws or to duties.
However, several problems now arise. One of the reasons Furnish
advocates Paul as a model for ethical discourse is his refusal to bind
his contemporaries and successors with unchanging precepts or principles. This leads Furnish to a position on some specific moral ques-
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
283
tions which is not that of other Christian traditions, such as the
Catholic or Orthodox.
Furnish’s view of specific moral discernment has therefore to be
examined further, but this is best done in the context of the other difficulties in his work. Some of these difficulties such as the places of
law and love, moral progress, and self-love, are clearly relevant to any
kind of ethical debate. Others are more theological, such as his particular ecclesiology and his denial that scripture can be a source of
binding principles and precepts. Still others are problems for the
Catholic tradition in particular, such as his presentation of Paul’s view
of sin and the law. There are also his positions on the specific issues
of divorce and homosexual conduct. The last chapter of the book considers these difficulties, moving from the more theoretical and specific problems to the more general and fundamental questions.
The first difficulty is how Furnish’s ideas on law and sin can be
squared with Catholic theology, whether in its traditional forms or as
defined dogma. In both cases it is argued that his ideas are at least not
so far from some traditional Catholic positions as to be outside the
scope of contemporary Catholic debate. Here a distinction must be
made between Furnish’s own views, which will be faithful to his tradition, and the use to which his ideas can be put by other traditions.
Paul clearly does say that the law multiplies transgressions by
bringing about a consciousness of sin, but it is much more debatable
whether he has the idea of it always adding the sin of pride when it is
kept. This looks much more like the Bultmann tradition. There has
now been a considerable revision of the traditionally negative attitude
to the law, partly through new understanding of first century Judaism
that was not current forty years ago. It would, therefore, be unwise to
accept previous interpretations of Paul’s view of the law uncritically,
but it remains important for Catholics to face this question squarely.
We are not required to accept Furnish’s picture of the law in full,
while admitting that Paul may have been the first to see the danger of
legalism and how law can, at least sometimes, produce guilt and pride.
Furnish’s presentation of Paul acknowledges that believers do
commit sins and face divine judgement, and in this he is not typical
of those Reformed traditions that accepted assurance or final perse-
284
MICHAEL P. CULLINAN
verance. Furnish wants to say, rightly, that believers are freed from
the compulsive power of sin, but he does this by making sin so much
of a relational rather than a moral concept that, untypically for him,
he runs the risk of an infelicitous separation of the ethical from the
theological. Nevertheless, his point that the opposite of sin is faith is
surely valuable. Catholic tradition on this question is not so far away
as it might seem. On the one hand, Trent insisted on the possibility
of losing grace but not faith, so that doing grave wrong can itself undo justification. However, Thomas does say that sin is ultimately a
turning away from God, and that venial wrongdoing is only sin in an
analogous sense18. We are currently a lot less certain about how a human act can separate us from God, and it seems possible to examine
this as a psychological and anthropological question.
No such easy solution is possible in the case of Furnish’s ecclesiology. He makes the church a central part of moral discourse, distrusting individualism, perhaps because of its prevalence in American
Protestant culture. This immediately provokes the question of what he
means by the church and the related question of how the individual
decides what the church is. These problems are sharply illustrated by
the contemporary debates on homosexuality. Clearly Protestants have
a different view of the church from Catholics and Orthodox. But even
Protestants have serious ecclesiological problems on this issue. On the
one hand the Anglican Communion governs itself as a communion of
locally autonomous provinces, so that American Episcopalianism can
have very different views and practices on the question than African
provinces. On the other hand, Furnish’s own United Methodist
Church (UMC) has an elected international governing body, so that
the United Methodists in America have to abide by decisions taken by
the majority, for example on homosexual practice by ordained ministers. Quite apart from the politics of this particular issue, it is obvious
that moral discourse will proceed quite differently in differently or-
18
Sin is a bad act, and goodness is defined as tending to one’s last end, which
is God. See ST, I-II q. 74 a. 9, for example. On the difference between mortal
and venial sin, see ST, I-II q. 88 a. 1 ad 1, q. 88 a. 2, q. 73 a. 5.
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
285
ganized ecclesial communities. While Furnish can rightly remind
Catholics of the importance of moral discourse going on in the
church, the question of the location of ultimate authority in religious
matters remains. In fact this particular issue shows the important role
necessarily played by the Magisterium, as well as the different but also
important role of those whose duty it is to advise the Magisterium.
This leads to another difficulty not unrelated to the question of
authority: Furnish’s apparent rejection of the possibility of finding
any binding principles or precepts in scripture. It might appear difficult to reconcile what Furnish says with the traditional authority of
the Ten Commandments, at least. What Furnish seems to be opposing is the idea that any written code can contain or completely specify God’s will or what ought to be done. He allows that Paul teaches
that the commandments of God are still to be kept in so far as they
are in accordance with ‘God’s ways with men’. Is this so very far from
Thomas’s view that even the Ten Commandments form part of the
New Law only because they are expressions of the natural law?19 In
his Foreword to the book, Furnish explains that the biblical texts ‘exercise authority as the community engages and is engaged by them’.
Their authority is not inert, nor an inherent property of the texts. It
is necessary to ‘distinguish between what is constitutive and definitive
of scripture (its kerygmatic core) and what is incidental to the various
traditions and texts (namely, the understandings and presuppositions
that the communities of origin shared with their respective cultures).
It is within the ‘kerygmatic core’ that ‘we will find what is definitively Christian and therefore normative for Christian belief and practice.’ He continues: The corollary is that all of the particular moral
principles and precepts of scripture are secondary, and that each is
subject to a twofold test. First, does it conform to the gospel norm – to
the call for God’s people to be agents of the love by which their lives
19
ST, I-II q. 100 a. 1, on the commandments belonging to the natural law.
Thomas does, however, allow that in some matters there is need of instruction
from the wise and from God (for example on idolatry). See also I-II q. 108 a. 2,
where Aquinas explains how natural law is an integral part of the law of grace.
286
MICHAEL P. CULLINAN
have been graced and claimed for God’s service in the world? Second, is it also credible, in that it takes account of what is presently understood about the realities of God’s creation and our human existence within it? Where these two criteria are met (a matter, to be
sure, of discernment, not certainty), I believe that the church may
and must speak of a ‘binding’ scriptural principle or precept.
This question is a difficult theological one, and its discussion really lies outside the scope of the present work. I am grateful that Furnish has clarified his position. His conclusion, however, does not
seem to be immediately based on anything in Paul, and so discussion
of the general problem can continue without fundamentally affecting
the role of Paul in Catholic moral theology.
Three more general ethical questions remain: the coherence of
the idea of a commandment to love, moral progress, and self-love.
Self-love seems to be the easiest of these to discuss. Furnish is very
opposed to basing love of others on love of self, and assumes that
people naturally do look after themselves. It is easy to agree with his
criticism of preoccupation with self, and with his interpretation that
makes divine love rather than self-love the measure of love of neighbour. There is also room here for a useful criticism of the idea that
all love of others should be seen in explicitly egoist terms. Yet Furnish does not seem to have answered Freud’s objection, confirmed by
much psychological practice, that radically denying one’s need for
self-love is often very damaging. Condemning self-love seems to be
part of a tradition that goes, at the earliest, from Augustine to Bultmann, and is not clearly found in Paul.20 There is need for further
study here, in order to integrate the insights of modern psychology
20
In fact, Oliver O’Donovan traces two completely different views of love: an
‘ontological tradition’ running from Augustine to Thomas, in which goods are
objective and love is extroversive, and where self-love is acceptable; and another
pietist tradition, including St Bernard, Fénelon, and Kant, in which love is assessed inwardly. O’Donovan comments that this latter tradition ‘never breaks out
of the circle of self-reference into a clear conception of the objective reality of
good’ and can only confront introversion with ‘a negative reflection of itself, the
empty phantasm of “self-forgetfulness”’. See O’DONOVAN, Resurrection, 250-252.
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
287
with the challenging attitude to self that certainly is part of Christian
tradition. As with the problem of whether there is a specific content
to Christian ethics, the question is to what extent revelation can affect anthropology.
Furnish’s reservations about moral progress are somewhat striking. They seem to rest partly on opposition to ideas of cumulative
achievement and partly on his existentialist inheritance. Furnish
seems to be saying that Paul’s ethics do not reduce to any kind of specific programme and that Paul does not approve of an introversive
sense of achievement, like a miser counting up his acquired capital.
Here also O’Donovan’s argument is very helpful: progress in goodness need not and often should not go with progress in self-image.
Inward assessment is not the same as objective attainment, although
the relation between them is not a simple one. For example a good
driver will be less complacent than a novice because he sees more
hazards, yet one drives better when one is confident, even a little
over-confident, of one’s ability. Furnish prefers to see progress in
terms of daily renewal, arguing, for example, that a marriage (which
Furnish uses as a metaphor for our relationship with God) does not
progress. It is important to accept that the more existentialist idea of
daily renewal is part of Catholic belief, and does not have to replace
ideas of gradual development. The problem is partly semantic. A
marriage as a state does not progress and the marriage vows do, in a
practical sense, have to be renewed every day. In another sense, however, couples clearly can and do grow ever closer together, and the
same must surely be true of a relationship with God. Furnish’s more
existentialist view of moral progress also fails to do enough justice to
the question of the seriousness of post-baptismal sin, whether venial
or mortal in Catholic terms, and in particular to the idea of vice.
This leads to the question of Furnish’s attitude to virtue, because
this is the concept by means of which moral progress has often been
understood. His argument that Paul deliberately avoided basing his
ethic on the term avreth, is persuasive. Furnish’s own aversion to seeing love, for example, as a virtue is that he regards virtues as qualities
one possesses, like a sort of moral capital that one has accumulated,
and this is far from the idea of a gracious gift of God. There is much
288
MICHAEL P. CULLINAN
current interest in virtue ethics, and they have an important history
in Catholic ethical thinking through the ideas of St Thomas, but this
should not blind us to the difference between Thomas’s definition of
virtue and the Greek one. It was part of Thomas’s genius that he
sought to baptize Aristotelian virtue ethics, but he did this by defining virtue differently, in a way that follows St Augustine and is compatible with the idea of grace. In particular, the idea of infused virtues
is not one with which Furnish is familiar, and so his opposition to
seeing virtue ethics in Paul should be seen as applying to a classical
idea of virtue, and not necessarily to other ideas in the Catholic tradition. Furnish does say that Paul is open to the Greek idea of virtue
as part of moral life, and Catholic theology can only digest ideas of
virtue after it has given grace its proper place.
Furnish also says that Paul never really considered the question of
moral progress because of his expectation of the end, and in his
Foreword he also makes the important statement that he now thinks
that some idea of moral progress is to be found in Paul’s letters and
that ‘it is a topic that deserves more attention than I have usually given it.’ He goes on:
What the apostle has to say about ‘building up’ (oivkodomei/n)
the body of Christ and each of its members is pertinent, as are his
statements and appeals about ‘growing’ and ‘abounding’ in (for example) faith, love, and hope, and his belief that believers can become
‘stronger’ and more ‘mature’ in their commitment to the gospel.
There is no doubt that Paul was intent on facilitating the Christian
‘formation’ of his congregations. He understood this to take place as
they were transformed by God’s grace, conformed to the crucified-resurrected Christ proclaimed in the gospel, and continually reformed
through the empowering presence and guidance of the Holy Spirit.
This is clearly an important contribution to the debate.
Two fundamental questions remain. They are really meta-ethical
questions. The first concerns Furnish’s opposition to systems and the
second is whether there can be such a thing as Christian ethics.
It seems easy to understand why Furnish is so wary of systematization in his own discipline of scriptural exegesis, where it clearly
runs the risk of forcing different traditions and cultural ideas into one
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
289
artificial mould. This difference of methodology can lead (and has
led!) to difficulties in communication between systematic theologians
and biblical scholars, but since Furnish is happy to accept that theology is not limited to exegesis and that systematic theologies have
something to contribute to living the gospel, this is now surely better regarded as a challenge for theologians to respect the methodology and conclusions of biblical study rather than the opposite. This
is, perhaps, the best place to address the question of whether there
actually is a theology of ethics in Furnish, or at least whether he
would accept the description. He certainly considers that he is doing
theology, and his fundamental argument is that theology and ethics
are inseparable parts of the one gospel. Therefore it does seem fair
to refer to ‘Furnish’s theology of ethics’, and by doing so to point out
these main characteristics of his work.
The last question is the problem of specificity. In the Introduction, the reader was persuaded that no negative answer to this question is possible a priori, and that Furnish’s contribution should be
evaluated for what it is before the matter was discussed again. There
are two different questions here: the Christian role in public debate
and what actually might be specific to Christian ethics. It does not
follow that because it may not be effective to use theological language in a particular public debate, such language cannot be used at
all or conveys no truth. If Christians can no longer simply demand
that they be heard in a secular society on their own terms, neither can
secular society demand that all debate, including that within the
church, be conducted on its own terms.
The discussion of specificity can easily seem somewhat arid, as
O’Donovan has pointed out. It feels more like a philosophical
quandary than a useful question. If ethics is reduced to a matter of
precepts and rules, with everything broader relegated to the category of ‘ethos’, it can seem hard to find anything in the Christian ethical tradition that could not be advocated in purely natural terms, or
found in non-Christian sources. But, of course, Furnish does not do
this. He insists on the unity of ethics and theology as parts of one indivisible gospel. He also acknowledges a point of Wayne Meeks on
the importance of the early Christian belief in divine judgement.
290
MICHAEL P. CULLINAN
This ‘eschatological simplicity’, as O’Donovan has called it, is surely
distinctive of Christian ethics, even if not unique to it.21 Also, the
love command plays a central role not found in the same way in other religions or ethical systems. It seems simplest to say that Christian
ethics are distinctive, and to resist, for example, re-labelling moral
theology as Christian or theological ethics, because to do so presumes a division between saving truth and patterns of action that has
not been made and that it may not be possible to make.
Conclusion
Furnish has shown Paul’s ethical originality and the link between
ethics and theology in the apostle’s preaching. He has shown us the
apostle wrestling with ideas of nature, law, grace, freedom, conscience, love, and virtue, subjects that are perennially part of moral
discussion in the church. Furnish has also shown how fruitful scriptural exegesis can be for specific moral reflection. The Greeks may
have been the first to ask most of the difficult moral questions, but
Paul was the earliest Christian writer to do moral theology, and Furnish has demonstrated this very well.
After I received Professor Furnish’s Foreword, I asked him
whether he would like to see how I had taken account of the points
he had made, so as to avoid misrepresenting him. With characteristic humility and delicacy he replied that he did not wish to be seen to
be stage-managing the debate. I am honoured that he thinks that my
work may contribute something to the debate. The most exciting and
immediately useful point Furnish has raised in the Foreword seems
to me to be the question of moral progress in Paul. I am delighted
that Furnish believes that it requires more attention, and that his
thinking on this subject has developed. I shall be very pleased if the
present work brings this question to the notice of those working in
the field. Moral transformation was obviously important to Paul, and
21
For this material, O’DONOVAN, Resurrection, 20, 257-58, 262.
VICTOR PAUL FURNISH’S THEOLOGY OF ETHICS IN SAINT PAUL
291
he remains the point of reference for both Catholics and Protestants
on this issue. Equally obviously, Paul’s own ideas on the exact nature
of such transformation are neither easy to determine, nor the same
as those of later theologians and philosophers. There is a great tradition of reflection on virtue, and existentialism has recently made its
own important contribution. Anything that clarifies just what Paul
may have thought here will be a valuable help to the assimilation of
his teaching in Christian ethical reflection.
An ethicist might still ask how Furnish’s ethic of St Paul could be
categorized, but in many ways it transcends categories. It is not a
simple ethic of law, duty, virtue, or utility. It is not clearly egoist or
consequentialist. Yet amid the competing claims of all these categories, it focuses the eyes of Christian ethics on the importance of
the grace of the Holy Spirit. Rather than categorizing, it seems better to sum up Furnish’s contribution by attempting a descriptive title
for his ethic. The best might be an ethic of transforming grace. Arriving at this subtitle seemed an appropriate way to end the work.
***
This summary has sought to make Professor Grech’s very kind
comments immediately understandable rather than to substitute for
the book. I have quoted freely from the book, trying to avoid repetitions and obscurities, and not verifying references in detail. I have also confined myself to summarizing what I wrote in the book rather
than trying to take the questions any further. I believe, however, that
continuing attention to Paul’s ethic of transforming grace is of vital
importance for Catholic moral reflection, not only for ecumenical
reasons but also to engage in a necessary and fruitful dialogue with
the natural law tradition, as part of the renewal of our ethical thinking so needed in today’s world.
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ALCAMO GIUSEPPE, La catechesi in Sicilia: tra il Concilio Vaticano II e il Giubileo del 2000, Editrice Coop. S. Tommaso – Editrice Elledici Leumann (TO), Messina 2006, 437 p.
Il volume esaminato intende individuare e descrivere le problematiche, gli eventi, i temi ed i contenuti che hanno costituito il processo di rinnovamento all’interno della catechesi siciliana. Lo stesso
autore, Giuseppe Alcamo sostiene che:
«Si intende attuare, a livello regionale, una rilettura del Concilio Vaticano II, dal punto di vista dei contenuti catechetici, dentro il contesto dei piani pastorali e degli orientamenti della Conferenza Episcopale Italiana, nel periodo storico che intercorre tra il postconcilio e il
Giubileo di fine millennio» (p. 15).
Si vuole accertare se tale rinnovamento pastorale e catechetico abbia inciso sul vissuto e sulle coscienze, all’interno della società siciliana. Non è preso in esame tutto il lavoro compiuto in tal senso dai
movimenti, dalle associazioni e dai gruppi ecclesiali.
La ricerca è divisa in due parti: nella prima, costituita da due capitoli, ci si pone la finalità di descrivere il contesto sociale, culturale
ed ecclesiale nei quali si sono realizzati gli eventi ecclesiali e sono stati elaborati i documenti dei vescovi siciliani.
Il primo capitolo è suddiviso in sei paragrafi attraverso i quali sono stati messi in luce: la peculiarità dell’autonomia politica della regione Sicilia, la vivacità dei movimenti politici, come la Rete di Leoluca Orlando, Una Città per l’uomo nati dopo la crisi dei partiti tradizionali, le difficoltà incontrate dallo sviluppo economico e sociale nel
Meridione, il fenomeno dell’immigrazione, la lotta alla mafia:
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«Non si possono conoscere adeguatamente lo sviluppo catechistico
delle Chiese siciliane se non si tengono presenti i percorsi sociali che
in positivo o in negativo hanno inciso nella cultura e nello sviluppo
del popolo» (p. 17).
Sono emerse, dunque, con forza, il desiderio di partecipazione e la
consapevolezza che è giusto essere corresponsabili della vita pubblica. Gli stessi convegni ecclesiali sono stati organizzati per sensibilizzare alla corresponsabilità.
Nel secondo capitolo, invece, sono stati descritti il mondo cattolico e il magistero episcopale siciliano come attuazione delle innovazioni proposte dal Concilio. È emerso che attuare una vera rivoluzione culturale e di prassi è un processo lento e contraddittorio, alternato da vicende contrastanti. È necessaria, inoltre, la presenza di
uomini coraggiosi e di tempi lunghi. La conoscenza dei contenuti del
Concilio, infatti, non ha condotto ad un cambiamento repentino ed,
inoltre, il cammino intrapreso dai pastori della Chiesa non è stato
sempre adeguato e conforme a quello del popolo di Dio.
La Chiesa, d’altro canto, è stata scossa da alcuni eventi come la
morte di don Giuseppe Puglisi e proprio questo atto ha acceso ancora di più la speranza del cambiamento della società civile siciliana.
La seconda parte della ricerca, strutturata in tre capitoli, ha elaborato del materiale in gran parte inedito, descrivendo gli eventi intraecclesiali che, a partire dal post concilio, sono stati realizzati in Sicilia. Sono
stati presentati i documenti magisteriali, sottoscritti da tutti i pastori
dell’isola e in grado di contribuire al rinnovamento catechistico nell’ottica di tener presente la centralità della persona del catechizzando:
«nel rispetto alle fasi evolutive della sua crescita, con una catechesi
differenziata; nel rapporto tra verità e persona, le esigenze della persona vengono considerate prioritarie rispetto alle esigenze dell’annuncio astratto della verità» (p. 172).
Si è cercato di far emergere una catechesi in grado di valorizzare
la religiosità del popolo siciliano, allontanandosi da tutto quello che
non è conforme al puro messaggio evangelico.
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A tale scopo sono stati organizzati dei convegni ecclesiali, dei corsi per animatori ma, spesso, si crea un divario tra le iniziative diocesane e la prassi ordinaria delle parrocchie. Emergono, perciò, disillusioni ed un certo stato di malessere che portano, finanche, a rievocare, con nostalgia, il periodo pre-concilare. I vescovi, però, attraverso tali iniziative, si sono proposti di rileggere la vita ecclesiale,
partendo dalla famiglia e: «di particolare valore teologico e pastorale risultano la lettura dell’identità della parrocchia e della sua azione
catechistica» (p. 319).
Nel capitolo conclusivo sono stati esaminati, in modo analitico, gli
eventi che hanno provocato il rinnovamento catechistico nazionale
durante gli ultimi trenta anni. Sono stati presi in esame particolarmente tre documenti fondamentali per il rinnovo della catechesi:
Evangelizzazione e Sacramenti, Comunione e Comunità, Evangelizzazione e Testimonianza della Carità.
Possiamo dire che un filo rosso guida i tre documenti:
«il bisogno d’evangelizzazione, espresso negli anni ‘70 con il programma esplicito sull’evangelizzazione e promozione umana, ripreso
negli anni ‘80 nella prospettiva di una nuova evangelizzazione che
promuova lo stile comunionale della fede, negli anni ‘90 viene ripresentato in termini preferenziali come “Progetto culturale orientato in
senso cristiano”» (p. 367).
Negli anni Novanta, dunque, si è avvertita, con forza, l’esigenza di
una evangelizzazione totale, a partire dal primo annuncio, capace di
condurre ad una maggiore formazione e maturazione della fede, intesa come capacità missionaria. Si è ridato valore all’iniziazione cristiana e al catecumenato. La Chiesa, perciò, deve progettare una pastorale dinamica, attenta alla realtà sociale soprattutto coraggiosa:
«Si chiede, inoltre, alla Chiesa di creare spazi d’accoglienza per tutti, al di là della risposta d’adesione che viene data, perché l’evangelizzazione non è una forma di proselitismo, ma una proposta liberante,
un’autentica testimonianza d’amore gratuito» (p. 387).
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La Chiesa siciliana non è rimasta estranea a tali cambiamenti auspicati tanto che, durante il trentennio post conciliare, si sono avute
grandi intuizioni, capaci di rendere la Sicilia un vero laboratorio di pastorale. Il rinnovamento ha riguardato i testi, le finalità, i contenuti, la
sensibilità antropologica, metodologica e pedagogica. Gli operatori
della catechesi si sono sempre più qualificati ed aggiornati. L’autore,
però, ha sottolineato che tutto questo non è sufficiente perché
«Sarebbe riduttivo analizzare il problema della formazione dei catechisti
e degli operatori pastorali laici e lasciare in ombra le lacune dei pastori;
se il problema va affrontato, il punto da cui iniziare è la formazione pastorale e catechistica dei presbiteri, da attuare nel corso di tutto l’iter teologico e non, come adesso avviene, in un anno conclusivo» (p. 392).
L’intera azione pastorale della Chiesa siciliana, in comunione con
la Chiesa italiana desidera elaborare un progetto innovativo e nuovo,
ancora da approfondire.
Il volume, scritto in una forma alquanto scorrevole, ha affrontato
delle problematiche ancora irrisolte non solo a “livello siciliano”. In
questi ultimi anni, pullulano testi riguardanti la catechesi, la quale ha
il suo punto focale e nodale nella visione antropologica. Interessante,
a nostro avviso, è il metodo utilizzato nel volume e cioè il parallelismo
tra la chiesa siciliana e quella nazionale e alla luce di questa metodologia forse l’ultimo capitolo andava inserito precedentemente.
L’approfondimento sul contesto politico sociale è stato utile per
inquadrare il problema ma, spesso, si sono riscontrate delle lungaggini che possono distrarre il lettore. Possiamo dire che l’autore, nonostante, il permanere di una situazione critica nell’ambito politico ed
economico della Sicilia, fa emergere con forza i segni di speranza e di
innovazione che si sono, gradualmente, affermati. In quest’ottica viene realizzato pienamente una caratteristica essenziale del cristiano:
essere uomo di speranza. La catechesi, in toto, deve mirare a diffondere l’abbondante redenzione che investe ogni uomo. In tal modo si
realizza il passaggio necessario Io-l’altro-Dio.
ALFONSO V. AMARANTE, C.SS.R.
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ASTI FRANCESCO, Dire Dio. Linguaggio sponsale e materno nella
mistica medioevale, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, 367 p.
L’uomo del nostro tempo, nonostante il diffuso secolarismo, non è
affatto indifferente dinanzi all’esperienza del soprannaturale e avverte
con forza la nostalgia dell’Invisibile e la sete dell’Assoluto. La mistica,
dunque, sembra presentarsi come momento che avvicina lo studio speculativo del fatto religioso e la domanda sul trascendente. Il volume,
curato da Francesco Asti, offre un’ampia panoramica sul linguaggio
sponsale e materno della mistica medievale. Si parte dalla visione di San
Bernardo di Chiaravalle la cui esperienza ruota attorno al significato
che i teologici medievali attribuiscono al rapporto amore-passione:
«Il tema dell’amore presenta, quindi, delle diversità convergenti fra
la passione divina (Agape-eros) e le espressioni dei poeti che idealizzano la donna oggetto dell’amore (eros-Agape)» (p. 25).
Bernardo offre l’immagine di un Dio misericordioso che rivela il
suo volto materno agli uomini. Egli stesso assume la fisionomia di un
padre premuroso che offre serenità nell’esperienza della sua comunità religiosa.
Il tono materno più che paterno lo dimostra nell’educazione dei
monaci cistercensi, nel correggere gli errori, nel condurre a ragione
i cuori lontani dal bene. Per Bernardo il governo di un monastero
non può reggersi, esclusivamente, con la sferza della correzione fraterna o con il polso fermo del padre ma ha bisogno della tenerezza,
della compassione, dell’incoraggiamento. Alla base del suo pensiero
vi è l’immagine desunta dal Cantico dei Cantici: il rapporto spososposa traslato in quello fra Dio e l’anima, fra Cristo e la Chiesa. La
descrizione della chiesa come madre implica una serie di riflessioni
che vanno dall’universalità del suo insegnamento fino all’interesse
nutrito nei confronti di ogni singolo credente. L’immagine della madre si esplicita in quella di corpo mistico in cui ogni sua parte è irrorata dalla grazia dello Spirito Santo. La cura delle membra è paragonabile a quella che la madre offre ad ogni figlio.
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Il pensiero di san Bernardo influenza anche quello dei suoi amici
cistercensi Guglielmo e Guerrico i quali avvertono, con forza, l’amore di Dio per l’uomo. Per loro Cristo è madre perché nutre con l’edificazione e la consolazione. La chiesa, da parte sua, è madre benigna ed amorevole. Guerrico, inoltre, da parte sua sostiene che la maternità della Vergine deve essere da esempio ai monaci che devono
tendere alla perfezione.
L’amore misericordioso di Dio si rivela anche in Gertrude di Helfta la quale incarna anche la figura del femminismo medievale. Il monastero diventa simbolo della libertà della donna in un mondo dominato dalla sopraffazione maschile. Nella sua visione teologica, inoltre,
Dio si presenta nella sua unicità e tripersonalità. Egli è sposo e padre
e dal Cantico dei Cantici Gertrude ricava le espressioni che descrivono il corpo dello Sposo. Il petto, le braccia, la bocca si trasformano in
simboli dell’amore sponsale. A questo si aggiunge la figura di Maria:
«La femminilità di Maria, la sua maternità sono le espressioni di quella chiesa che vuole sempre più piacere al suo Sposo» (p. 105).
Un’altra figura femminile importante è quella di Margherita
d’Oingt la cui esperienza mistica diventa denuncia, profezia, osservazione sincera di un mondo che deve essere scosso non dalla potenza
ma dalla debolezza: «Per Margherita solo nell’amor deficiens si può
cogliere come la debolezza umana desidera totalmente l’unione con
Cristo fonte e culmine di un’umanità nuova» (p. 163).
Umiltà, povertà hanno caratterizzato tutta l’esistenza di Francesco
d’Assisi la cui glorificazione avviene proprio perché la sua passione è
stata quella del Cristo (p. 189). Nei suoi scritti non utilizza, però, l’espressione Cristo-madre e non tenta neanche una descrizione della
sua esperienza mistica in quanto la considera troppo personale. È necessario, perciò, analizzare la maternità dello stesso Francesco per
avere un’idea della tenerezza divina. Tale qualità gli deriva anche dal
rapporto con la madre che gli trasmette tenerezza e dolcezza. Il santo avrà sempre sentimenti materni per suoi frati Elia e Pacifico e proprio l’aiuto reciproco nelle necessità vitali e nel cammino spirituale
diventa manifestazione sia della maternità che della figliolanza.
L’appartenenza alla medesima madre-comunità fa dei primi frati
esempi autentici di vita evangelica. La sua povertà, inoltre, diviene
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madre, sorella, regina e proprio l’allegoria della povertà come donna
richiama ad un altro amore di Francesco: la Vergine Maria:
«La centralità del Cristo povero si dissolve nei comportamenti della
Vergine e di Francesco che sono i continuatori dell’opera di conversione voluta dal Figlio di Dio. La Vergine assume nel gruppo degli
Apostoli il ruolo della memoria salvifica e Francesco diventa all’interno dell’ordine la memoria sempre viva della povertà di Cristo che
salva» (p. 205).
Anche per santa Chiara il Figlio di Dio si presenta con le sembianze dell’amabilità e dell’intimità. Cristo, per lei, è lo sposo fedele che i Vangeli hanno raccontato e la sua maternità si esprime nell’intera Trinità. Il chiostro diventa, poi, il luogo in cui si esprime la
maternità di Maria in quanto il silenzio, la povertà sono le strutture fondamentali con cui rileggere la sua vita. Angela da Foligno, dal
canto suo, riprende un tema caro a San Francesco e cioè la passione di Cristo. Il sentire materno di Cristo è percepito e vissuto dalla donna:
«L’immagine dello sposo e della Sposa, che presenta Angela risente
della lettura del Cantico dei Cantici, anche se non sono citati espressamente brani del testo sacro» (p. 290).
Ella utilizza espressioni proprie dell’amore sponsale come l’abbraccio, il bacio e percepisce così quest’unione mistica con Cristo. La
maternità di Angela, inoltre, si percepisce anche nel suo rapporto con
la Vergine Maria:
«Nell’Instructio XIX si può osservare come il sentimento materno
dell’una fluisce nell’altra. Maria porge Gesù Bambino ad Angela, in
quanto prova il suo stesso sentimento d’amore» (p. 298).
Giuliana di Norwich, da parte sua, rappresenta l’apice e quasi la
conclusione della riflessione sul sentimento materno. Ella non appartiene a nessun ordine religioso, eppure nella sua opera si intrec-
300
REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI
ciano temi benedettini, francescani, agostiniani. Nella sua visione
emerge con forza l’unione tra Dio e l’uomo:
«La totalità della realtà uomo è in comunione con Dio, in quanto è
sua immagine e somiglianza. Nella sua visione solistica Giuliana osserva acutamente come il corpo sia stato trasfigurato dall’azione redentiva del Cristo» (pp. 334-335).
Il sentimento materno di Dio, per lei, è strettamente legato alla
creazione, alla redenzione ed alla santificazione. La maternità, poi, caratterizza anche la Trinità. Il fondamento della partecipazione all’atto
creativo è paragonabile a quello del parto della donna. La natura dell’uomo è plasmata quasi nell’utero di Dio. L’incarnazione è il segno
evidente di come il Padre ha voluto che suo Figlio assumesse la condizione umana, per la salvezza dell’universo intero. Tale maternità è
quella per grazia. La maternità nella santificazione, infine, corrisponde all’azione dello Spirito che fa cogliere l’amore di Dio per l’uomo.
Nella riflessione di Giuliana, inoltre, la maternità si esprime compiutamente nella seconda Persona della Trinità:
«Il motivo di questa scelta sta proprio nella missione del Figlio di
Dio. La redenzione è propria della Persona del Cristo che fa sua la
volontà del Padre per il dono dello Spirito» (p. 343).
Per lei l’attribuzione della maternità è anche prerogativa di ogni
donna. Ritorna anche in Giuliana l’affermazione secondo la quale il
sentire materno è proprio della Vergine. Maria è intimamente unita
al mistero dell’incarnazione e maggiormente a quello della redenzione. La maggiore felicità dell’uomo consiste, dunque, nel possedere
Dio nel proprio cuore. Nutrire sentimenti di Cristo significa abitarlo come un figlio abita nel seno di sua madre.
Il volume, scritto in una forma alquanto scorrevole, ci offre un excursus chiaro e preciso della maternità di Dio nell’epoca medievale.
Esso è una testimonianza preziosa in quanto si oppone al luogo comune di una mentalità maschilista propria di quel periodo storico. In
un tempo nelle quale la donna, spesso, era vista come tempio del ma-
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le la visione di Dio come espressione della maternità è alquanto sorprendente. La vita è il dono più grande che ognuno di noi riceve e la
vita che sta per sbocciare, mistero insondabile, ci rivela tutta l’onnipotenza e la magnificenza di quel Dio creatore che tutto può. La madre di Dio da parte sua, senza tentennamenti, ha accettato di diventare la mamma del Salvatore, partecipando, attraverso il dono di sé,
al progetto di Dio per la redenzione dell’umanità. La Chiesa, da parte sua, diventa la concretizzazione di quell’abbraccio che ogni uomo,
nella sua piccolezza, vuole ricevere. Il libro, dunque, mette in luce alcuni aspetti quali la gratuità, l’amore salvifico, che sono alla base del
cammino cristiano.
ALFONSO V. AMARANTE, C.SS.R.
CANTELMI TONINO – BARCHIESI RACHELE, Amori difficili. La crisi della relazione interpersonale e il trionfo dell’ambiguità, San Paolo, Milano 2007, 265 p.
El libro contiene 9 capítulos, precedidos de la introducción y seguidos de la conclusión y una breve bibliografía. La obra se divide en
dos partes; la primera con cuatro capítulos se centra en la problemática de ‘la crisis de la relación interpersonal’, ‘emblema de la sociedad actual’ (pp. 13-95); la segunda parte, con los cinco capítulos siguientes, se dedica a exponer la parte positiva de la obra: la naturaleza de una genuina relación interpersonal (pp. 97-265). El objetivo
de la obra es claro: plantear una alternativa a la crisis actual, en vista
a la posibilidad de restablecer las relaciones afectivas sólidas, estimulantes y duraderas, en la persona que se halla en estado de confusión
e inseguridad (p. 6).
En la primera parte exponen cuatro problemas concretos que hacen su impacto en el momento presente: la ambigüedad sexual, la enfermedad del narcisismo, los ‘cazadores de sensaciones intensas’
(‘Sensation Seekers’) y los amores difíciles.
La problemática de estos primeros capítulos es preocupante y está expuesta en forma muy explícita, con datos concretos. El primer
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capítulo desarrolla una visión del mundo masculino y femenino: las
barreras de diferencia entre uno y otro sexo se están derrumbando,
generando así “el triunfo de la ambigüedad”. Entre los factores más
decisivos que desencadenan esta ambigüedad aparece el afán consumístico de la sociedad presente; y como una consecuencia entre otras,
“el eclipse de la figura paterna” dentro de la familia (p. 29).
Contribuye, en buena medida, a esta “crisis de la relación interpersonal” el narcisismo; “enfermos de narcisismo” es el título del II Capítulo. Esta epidemia tiene como punto de apoyo el individualismo
que prevalece en nuestro tiempo. A este fenómeno del narcisismo colabora la sociedad de consumo que ofrece multitud de recursos para
cultivar ‘una bella imagen’, que es lo que de verdad cuenta hoy (p. 50).
Una característica singular de muchas personas en el medio ambiente actual es ‘estar a la caza de emociones fuertes’ (‘Sensation seeking’). En esta búsqueda de sensaciones fuertes no se tiene en cuenta el riesgo, el peligro que conllevan, incluso para la misma vida. Es
un verdadero desafío a la muerte. A los aspectos anteriores se suma la
forma de vivir el amor: de manera anónima, individualista, dando énfasis al sexo (‘Sex Addiction’), y desembocando en un fenómeno singular, la ‘pluri-fidelidad’ (p. 93) que consideran como un ‘código ético diferente’. Después de leer estos cuatro primeros capítulos quedan
en el lector no pocos interrogantes y una seria preocupación de cara
al futuro inmediato de nuestra sociedad.
La segunda parte (Capitulos V-IX) ofrece una perspectiva diferente: se trata de una visión antropológica positiva, humanizadora,
centrada en la naturaleza de una genuina relación interpersonal. Es la
parte más extensa de la obra (pp. 97-265).
Los autores Cantelmi-Barchiesi parten de una afirmación fundamental: el ser humano se distingue de otros seres (de los primates,
por ejemplo) por la orientación que posee de buscar el sentido de la
existencia y dar significado a las cosas; esta orientación se realiza mediante la relación con los semejantes (p. 99). Ya desde el comienzo de
la vida expresa el niño esta relación a través del ‘atacamiento’ a la figura materna, en diferentes formas que tienen una expresión diversa,
sea en la infancia, sea en la vida adulta. En la relación interpersonal
ocupa puesto de relieve especial el amor. Los autores coinciden con
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otros estudiosos al señalar los que son “los caminos del amor”: intimidad, pasión, compromiso (pp. 143-163). Son caminos que convergen hacia una única meta, el amor de pareja humana.
A una auténtica relación interpersonal da fundamento el ser varón, el ser mujer, o sea la identidad sexual. En este intento de definir
la identificación sexual participa de modo fundamental el sexo, siguiendo un processo de desarrollo: “varón y mujer se nace y varón y
mujer se llega a ser” (p. 185). Llegar a ser varón o mujer en forma auténtica equivale a la madurez afectiva, fruto de un proceso que va más
allá del dato biológico.
Los autores recogen en este momento algunos elementos de la
primera parte que hacen difícil la madurez afectiva genuina, como es,
por ejemplo, la búsqueda de sensaciones fuertes a través del sexo.
Una característica de la madurez afectiva es la capacidad de tolerar
los conflictos y el poder transformarlos. En todas las relaciones interpersonales existe una buena dosis de conflictualidad (p. 230).
La obra de Cantelmi-Barchiesi se cierra con el Capítulo IX dedicado a los estilos de relación en equilibrio, lo que significa un proceso de crecimiento personal que varía de persona a persona. Al ser humano se le ha dado la posibilidad de mirarse a sí mismo en vista a relanzarse hacia una nueva perspectiva.
Concluyendo, los autores de Amori difficili atribuyen a los padres
de familia la crisis actual: incapaces de tomar parte activa en la vida
afectiva de los hijos, en lugar de ser padres y madres auténticos, disimulan su ausencia quedándose detrás del muro del deber. Los autores exhortan, a los jóvenes que leen esta obra, a analizar la crisis y a
tomar en serio la real posibilidad de vivir y de construir relaciones sólidas, entusiasmantes y duraderas (p. 258). De otra parte, se hace necesario, añaden, asumir una conciencia crítica de los mecanismos de
la cultura consumísta y del poder de los Mass-Media.
La obra tiene un innegable valor de actualidad a diversos niveles:
sea desde el análisis y crítica de la realidad que experimentamos; sea
desde una visión antropológica humanista que revela la vocación del
varón, de la mujer, a vivir una relación auténtica; sea desde la perspectiva psico-pedagógica para reorientar a las nuevas generaciones.
La lectura de esta obra se recomienda a los mismos jóvenes que viven
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en este medio ambiente de ‘ambigüedad’; a los padres de familia, a los
educadores y orientadores pastorales de la juventud; a los enamorados que inician el camino del amor en pareja.
J. SILVIO BOTERO GIRALDO, C.SS.R.
CIATTINI CARLO, Presbitero e dottrina sociale della Chiesa, Libreria
Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, 144 p.
Fin da una rapida scorsa del testo, l’ampia lista dei documenti magisteriali avuti come riferimento, la pregevole Prefazione del prof. G.
Campanini, la chiara Premessa dell’Autore – che unisce in sé competenza teologica ed esperienza pastorale – insieme alla finalità di promuovere la Dottrina sociale della Chiesa (DsC) all’interno della comunità dei fedeli, sviluppata in sintonia con la prospettiva auspicata
dal recente Compendio della Dottrina sociale della Chiesa (CDsC) (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2004), arricchiscono e
motivano l’interesse ad approfondire il contenuto dei sette capitoli
che compongono il presente studio (innovativo per diversi aspetti, a
cominciare dall’originale volontà di declinare insieme i due ambiti riflessi già nel titolo), inteso a delineare – attraverso la formazione, come si afferma nella Premessa, di un “nuovo ordine sociale, economico e politico, fondato sulla dignità e sulla libertà di ogni persona
umana, da attuare nella pace, nella giustizia e nella solidarietà” (p. 16)
– la figura del presbitero (“uomo del temporale” e “uomo dello spirituale”: p. 9) nella sua funzione di servizio alla comunità.
Infatti, se soggetto della DsC è tutta la comunità cristiana (“perché la Chiesa è il soggetto che la elabora, la diffonde e la insegna”:
CDsC, n. 79) cui si aderisce con tutto il proprio essere per aderire a
Cristo e al suo messaggio di salvezza, i primi responsabili (Ibid., nn.
538-540) nell’annuncio della DsC “in armonia e sotto la guida dei
suoi legittimi pastori, di cui anche i laici, con la loro esperienza cristiana, sono attivi collaboratori” (CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, “Orientamenti per lo studio e l’Insegnamento della
Dottrina sociale della Chiesa nella formazione sacerdotale”, n. 4), so-
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no i presbiteri (specialmente se parroci) in quanto necessari collaboratori e consiglieri del ministero episcopale nella sua funzione di
istruire, santificare e governare il popolo di Dio (CONCILIO VATICANO II, Christus Dominus, n. 7), dove l’opera dei primi si coniuga e definisce nell’impegno congiunto di convertire i cuori e sanare le strutture ingiuste per realizzare così quella comunione ecclesiale che è testimonianza autentica di fraternità, secondo le caratteristiche dell’amore di Gesù Cristo che possono essere definite nei termini di solidarietà, liberazione, servizio e promozione umana.
Nel caso specifico del testo in questione, l’obiettivo dell’Autore è
quello di delineare un contributo che ricerchi quelle linee direttive
che configurano la missione del presbitero nel suo servizio alla comunità cristiana “centro della sua azione pastorale e per la quale egli vive e lavora” (p. 16), alla luce della DsC – riconosciuta e promossa quale appropriato e opportuno “Vangelo sociale dei nostri tempi” (l’espressione è di Giovanni Paolo II nell’Omelia della messa di Pentecoste nel I
centenario della Rerum Novarum, p. 17) – caratterizzati da rapidi e complessi cambiamenti e profonde emergenze della convivenza umana,
innanzitutto a livello antropologico-culturale e, quindi, socio-politico.
In questo contesto, nuovo e rinnovato al tempo stesso, oggetto
dello studio è il rapporto tra presbitero e DsC: tema “delicato e difficile” (come evidenzia nella Prefazione a p. 11 il prof. Campanini).
In particolare, come afferma il professore di Storia delle Dottrine politiche all’Università di Parma, la ricerca del Ciattini va nella direzione di come “concretamente operare la mediazione fra teoria e prassi
senza tornare a quelle forme dirette d’impegno, e talora di compromissione, frequenti in passato” (Ibid.) proponendo una risposta che
sembra muoversi in un duplice verso racchiudibile innanzitutto in
un’esigenza formativa del presbitero (che trova il suo vero ruolo solo quando resta nel campo della teologia, e non in quello delle varie
ideologie) e, quindi, educativa del laico, il cui compito di svolgere
“un forte impegno di umanizzazione del mondo e dei rapporti umani” (p. 12) è confermato dal Magistero post-conciliare (al cui centro
giace l’assunzione e la promozione di quel ruolo che la DsC è chiamata a svolgere nella vita della comunità cristiana e non solo, anche
in quella che va oltre il riferimento al dato di fede) giungendo ad in-
306
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carnare in maniera concreta una prassi profetica che eviti il ricorrente pericolo di una separazione tra dottrina professata e vita vissuta.
Dopo la pregevole prefazione del prof. Campanini e la stringata
Premessa dell’Autore che non fa luce in maniera adeguata sul percorso che intende offrire nel testo, i primi due capitoli (DsC, suoi
princìpi e valori) delineano il contesto in cui situare la ricerca, il cui
oggetto è articolato in una parte fondativa racchiusa nel terzo capitolo, dove si aiuta a comprendere il ruolo del presbitero (specialmente, se parroco) in riferimento alla DsC, ed una parte applicativo-sociale del suo ministero racchiusa nei tre capitoli che seguono in cui si
offrono “solo alcune considerazioni preliminari” (p. 129) riguardo al
servizio che egli svolge rispetto alla famiglia, ai diritti umani e la politica, al mondo del lavoro, per lasciare poi spazio nella parte finale
ad un germinale progetto o proposta da instaurare per l’opera del
presbitero nell’ambito della DsC.
In maniera più specifica, nel primo capitolo viene offerta una presentazione esauriente dei principali capisaldi della DsC: si delinea la
natura della disciplina e la sua evoluzione storica secondo linee di
continuità e rinnovamento, grazie alla quale l’intera comunità cristiana (non solo il Magistero) può ricercare una risposta integrale al
mistero dell’uomo, nell’ambito personale e sociale in modo meno
dottrinale e più pastorale, meno propositivo e più profetico, meno sistematico e più problematico, meno statico e più dinamico (p. 31).
Nel secondo capitolo viene articolata una riflessione sui princìpi e valori della DsC, da cui emerge dapprima come elemento fondante della medesima l’uomo e la sua dignità, derivato dal suo essere creato a
immagine e somiglianza di Dio e la cui naturale estrinsecazione si
manifesta nel riconoscimento e promozione dei diritti umani fondamentali, sullo sfondo del Diritto che il Creatore stesso ha scritto nella natura umana. Il passo successivo, in conseguenza dell’essere personale ed insieme comunitario e sociale della persona umana, fa vedere come l’uomo è chiamato a vivere la virtù cristiana della solidarietà, fino a superare se stessa rivestendo le qualità specificamente
cristiane della gratuità totale, del perdono e della riconciliazione. Articolazione della solidarietà è il principio di sussidiarietà, nel cui rispetto – diretto a realizzare pienamente l’essere umano – si partecipa
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attivamente, innanzitutto col proprio lavoro al conseguimento del
bene comune, ossia al “bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo
veramente responsabili di tutti” (GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei
socialis, n. 38), e tra le cui implicazioni “immediato rilievo assume il
principio della destinazione universale dei beni” (CDsC, n. 171), con cui
Dio stesso dona la terra e tutto quanto è in essa contenuto all’uso dell’intera umanità, senza privilegiare o escludere qualcuno, e alla cui luce si riconosce una ‘ipoteca sociale’ al diritto di proprietà privata, certo valido e necessario ma non in modo assoluto (GIOVANNI PAOLO II,
Sollicitudo rei socialis, n. 42).
Il terzo capitolo è quello più corposo e denso: ben 36 pagine per
inquadrare e declinare il ministero del presbitero in rapporto alla
DsC. Si comincia con l’individuare, alla luce del Magistero pontificio
– in specie, conciliare – i primi responsabili dell’annuncio, vale a dire
i vescovi e in modo mediato (non secondario) i sacerdoti, prima di tutto come parroci, i quali sono chiamati a ricercare “insieme con tutti i
fedeli, azioni, gesti, stili di vita che soccorrano l’uomo e lo servano con
il tratto e il modo che è di Cristo” (p. 47), secondo il motto paolino
per cui “Al di sopra di tutto poi vi sia la carità” (Col 3, 14). Per realizzare al meglio l’identità del presbitero – che ha al suo centro la missione evangelizzatrice e salvifica, per se stessa comunitaria e missionaria – è necessario insistere sull’importanza fondamentale che occupa
in questo senso la formazione sacerdotale (in particolare, riferimenti
ai Documenti del Vaticano II, a quelli della Congregazione per l’Educazione Cattolica e a quelli del Sinodo mondiale dei Vescovi del
1990), sicuramente adeguata al luogo, ai tempi e nelle diverse realtà in
cui egli è chiamato a vivere il suo essere “a capo della comunità a servizio dei credenti” (p. 58). Viene, quindi, dato notevole spazio a quei testi (CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, In questi ultimi
decenni [30.12.1989]; CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Nota Evangelizzare il sociale. Orientamenti e direttive pastorali [22.11.1992]; ID.,
Enchiridion. Decreti, Dichiarazioni, Documenti pastorali per la Chiesa italiana, Ed. Dehoniane, Bologna, Voll. 1-6, (1954-2000); SINODO DEI
VESCOVI, X Assem. Gen. Ord., Il Vescovo servitore del Vangelo di Gesù
Cristo per la speranza del mondo, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 2001) da cui emergono i due canali scelti per realizzare una
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formazione adeguata dei presbiteri: quello della formazione di base e
quello della formazione permanente, da cui vengono dedotte indicazioni importanti in ordine alla DsC, di cui – si insiste – è necessario
dare un quadro teorico ed un apprendistato pratico sufficientemente
programmato ed organico, ed insieme approfondito ed aggiornato alla rapidità e alla complessità dei mutamenti del contesto sociale cui ci
si rapporta. Non solo, ma condividiamo con l’Autore l’osservazione
secondo cui il fondamentale luogo di formazione del sacerdote resta
la vita stessa, in particolare, laddove si alimenta e irrobustisce il fecondo legame con quei fedeli laici che sono impegnati in campo sociale, da cui la convinzione per cui la DsC
«non è un ricettario dal quale si possano trarre precise e ben definite
indicazioni per la soluzione dei mali della società, ma piuttosto una
grande e in parte inesplorata riserva di senso, un patrimonio d’idee e
di valori ai quali attingere per rinnovare in senso cristiano la società»
(pp. 76-77).
Dopo aver definito l’azione del presbitero in relazione alla DsC,
l’Autore si sofferma nei successivi tre capitoli ad esaminare il ruolo
del medesimo in tre specifici “«luoghi» del «ministero sociale» del
presbitero” (pp. 77, 80).
In primo luogo, nel quarto capitolo, viene considerata l’opera del
sacerdote a servizio della famiglia, “prima e fondamentale scuola di
socialità: in quanto comunità di amore, essa trova nel dono di sé la
legge che la guida e la fa crescere” (GIOVANNI PAOLO II, Familiaris
Consortio, n. 37). La prima testimonianza che il presbitero è chiamato a rendere alla famiglia scaturisce dal vivere lui stesso con la credibilità del proprio operato ciò che la famiglia è chiamata ad essere:
“luogo atto ad accogliere la vita e a custodirla, dove gli ultimi sono
soccorsi e l’uomo è riscattato dalle sue più doloranti povertà” (p. 85).
Che il futuro della Chiesa passa attraverso il futuro della famiglia,
“intima comunità di vita e d’amore” (CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, n. 48), è mostrato non solo dal ricco Magistero dei vescovi in materia, ma con altrettanta forza da un discreto e al tempo
stesso autorevole accompagnamento che i sacerdoti vivono in piena
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collaborazione con gli sposi e le famiglie, sia evangelizzando il matrimonio, sia educando l’impegno della famiglia cristiana nella Chiesa e nel mondo.
Poiché la missione del presbitero a servizio dell’uomo e della vita
non è limitata alla sola famiglia, ma si pone al servizio ed in collaborazione con ogni uomo per costruire insieme la ‘civiltà dell’amore’ alla luce e con la forza del Vangelo, ecco che seguono due ambiti strettamente collegati, quello della politica e dei diritti umani trattato nel
quinto capitolo, e nel successivo sesto capitolo quello del lavoro umano. In relazione al primo aspetto, poiché il ministero presbiterale è a
favore dell’unità nel servizio di tutti, il proprium del suo mandato (come è stato ribadito in maniera autorevole dal Papa Benedetto XVI
nell’indirizzo di saluto ai partecipanti alla XLV Settimana Sociale dei
Cattolici Italiani) non è l’impegno politico diretto (previsto solo in
circostanze concrete ed eccezionali), ma il servizio alla liberazione integrale dell’uomo, annunciando la Parola di Dio, proclamando la
DsC, sostenendo col dialogo l’impegno a vivere in maniera risoluta
la vita cristiana nella sua integralità. Applicato al secondo aspetto, il
ministero del sacerdote è sempre apostolico, così che anche nel mondo del lavoro perché la sua presenza sia attiva e qualificata – egli deve identificarsi come educatore di coscienze laicali idonee, nei diversi ambienti professionali, a divenire testimoni autentici del Vangelo,
soprattutto richiamando e vivendo quella dimensione personalistica,
solidaristica – in una parola – trascendente (GIOVANNI PAOLO II, Laborem exercens), che può aiutare per il vero bene dell’uomo a dare almeno graduale soluzione alla questione sociale (Ibid.), oggi sempre
più globale.
Nell’ultimo capitolo, esito naturale di tutto il percorso delineato
dall’Autore è una ripresa in chiave sostanziale di ciò che è stato
espresso nel corso dell’opera: fedele alla sua vocazione, assumendo la
caritas Christi che esige il dono quotidiano di sé ai fratelli, il presbitero può svolgere in pieno il suo ministero pastorale e realizzare in tal
modo quella missione al cui servizio viene indirizzata la sua opera.
Animando i diversi luoghi del suo vivere, il sacerdote diventa punto
di riferimento imprescindibile per (e con) la sua comunità nel delineare una nuova socialità umana da articolare – accogliendo e rive-
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lando la verità sull’uomo e sul suo destino – in una comunione ben
vissuta con Dio, con se stesso e con gli altri uomini e donne.
Su questa scia ci soffermiamo ora ad individuare almeno qualche
peculiarità che permette di segnalare e consigliare una lettura proficua del testo qui recensito.
Il contributo offerto ci sembra denso di interrogativi per chi vuole leggere i ‘segni dei tempi’ di oggi e interpretarli alla luce del Vangelo (CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, nn. 4, 11), che è buona notizia, in particolare per la venuta del Figlio di Dio nella forma
umana per riscattarla così da quella nativa fragilità, incline – se lasciata a sé stessa – a perpetuare disorientamento e perdita di significato, anziché pienezza di senso. Nel quadro culturale in cui il sacerdote deve inserirsi, e che oggi soprattutto nel contesto occidentale è
agitato dai dibattiti sulla vera e/o presunta laicità democratica, come
mediare teoria e prassi dell’azione socio-politica per non estremizzare né il disimpegno oggi da vari fronti paventato, né dall’altra parte
ridurre tale intervento ad assistenza sociale pura e semplice? La legittima autonomia nell’ambito temporale giustamente affermata
(Ibid., nn. 36, 76) e vissuta porta a evitare entrambi gli eccessi: né
presenzialismo, né distanza dalla sfera politico-sociale; così che né
presenza a tutti i costi, né orgogliosa separatezza, la comunità cristiana di cui il presbitero è ministro sappia operare nello spirito della comunione fraterna e alla luce della DsC venga sostenuta nel leggere e giudicare il suo agire politico-sociale. Del resto, proprio la comunità cristiana che si ritrova attorno alla guida responsabile del
presbitero costituisce il luogo di quella mediazione necessaria a incontrare, confrontare e congiungere la Parola di Dio e la storia quotidiana in cui si esplicita il proprio essere parte della stessa comunità
di fede – di cui il sacerdote è appropriato crocevia idoneo per sua natura a stimolare l’incontro del Vangelo con tutti gli uomini attraverso un incarnato annuncio di liberazione, rinnovamento e trasformazione del mondo fino al suo compimento (Ibid., n. 2). Il tutto è finalizzato a far vivere l’impegno sociale quale frutto appropriato del Mistero salvifico (CDsC, n. 539), esito naturale di un’azione teologicopastorale che si estrinseca nel costruire e sostenere dall’interno un
nuovo ordine socio-economico-politico, basato su quei parametri
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che trovano nelle vere esigenze della dignità dell’uomo la verità del
suo destino, da articolare e concretizzare in un disegno armonico di
solidarietà, giustizia e pace.
Il lettore del testo, specie se laico – attraverso una lettura sapiente e stimolante del testo – viene ricondotto al suo diritto-dovere di
educarsi, con l’aiuto particolare del presbitero e della comunità cristiana in cui si inserisce, ad essere sempre più soggetto attivo di Dottrina sociale. Apprezzato sforzo nell’educazione alla DsC, il testo
evangelizza nel senso maturo del termine, definendo alcuni di quei
pilastri di orientamento che sono necessari per proseguire in modo
permanente lungo quella vera umanizzazione del sociale, al cui servizio ciascuna comunità cristiana col libero e, perciò, responsabile impegno di ciascuno e di tutti si sentirà naturalmente e progettualmente orientata nella fedeltà creatrice alla missione ricevuta dal suo Fondatore e nella specificità della propria vocazione.
Innovativo e costruttivo tale studio effettuato, adatto a recuperare
uno sguardo coordinato su questioni che spesso non trovano ancora
nelle comunità cristiane idoneo spazio vitale. La ricerca svolta si inserisce in questa carenza (in certi ambienti, forse anche di vuoto) e ci
riesce bene, senza appesantire, ma anzi evidenziando quelle motivazioni che possono rendere opportuno più che mai nelle circostanze
odierne un attivo e maturo dialogo tra presbitero e DsC e insieme
con la comunità cristiana e in senso ancora più largo con l’intera comunità civile entro cui essa vive e sviluppa la sua presenza. Si scopre,
anche così, la necessaria vitalità del contributo dei laici alla missione
evangelizzatrice della Chiesa, in particolare attraverso quel dialogo
formativo con chi è posto a capo della comunità di fede nel servizio
di unità per coloro che in quel territorio vivono e operano.
Il saggio costituisce un utile e opportuno strumento per diffondere la conoscenza e lo studio della DsC, approfondendo quegli ambiti che nella ricerca in questione vengono declinati nei loro elementi
essenziali, ma che ben si prestano ad essere sviscerati da quanti vorranno dedicarsi a questi e agli altri aspetti qui solo anticipati (questo
carattere dell’esposizione è presente in specie nella trattazione sugli
ambiti qualificati dell’agire del sacerdote esposti nella seconda parte
del testo, di cui segnaliamo comunque la buona semina realizzata)
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con la passione che l’Autore mostra ampiamente di avere in suo possesso nel procedere del suo studio. Confermato così l’insostituibile
ruolo di crocevia del presbitero e il luogo di mediazione che la DsC
occupa nell’incontro tra Vangelo e storia degli uomini, e superata anche grazie a questo lavoro l’ignoranza che di questa disciplina teologico-morale molto spesso soprattutto i cristiani mostrano di avere, si
può ripartire con una marcia in più perché pastori e fedeli si formino
a quei valori fondativi sempre più necessari e urgenti per costruire
una polis post-globale degna dell’humanum.
In conclusione, se c’è davvero “grande ricchezza quasi nascosta nel
campo stupendo” (p. 132) della DsC, siamo persuasi che questo testo
può dispensarne anche (o almeno) in piccole dosi su chi con umiltà e
dedizione amorosa vorrà mettere a disposizione la propria vita per
annunciare e testimoniare la “totalità” d’essere della DsC.
DOMENICO SANTANGELO
CHIAVACCI ENRICO, Teologia morale fondamentale, Cittadella Editrice, Assisi 2007, 397 p.
La teologia morale è una disciplina scientifica che continuamente e nuovamente si rimette in discussione. Tale processo deriva dalla
sua fisionomia che la configura, da un lato, come una continuazione
della teologia dogmatica, e dall’altro, come la sua pienezza, in quanto la dogmatica si occupa del fenomeno della fede, in tanto la teologia morale nel centro dei suoi interessi pone i contenuti della Rivelazione riguardanti l’agire umano. La teologia morale sottolinea che
in tutte le verità della Rivelazione è presente l’aspetto morale. In altre parole, la teologia morale cerca nella Rivelazione i contenuti morali, cioè quelli normativo-pratici. Ciò che si chiamava prima “teologia morale generale” o “scienza dei principi morali-teologici” viene
ora chiamata “teologia morale fondamentale”, ma tale cambiamento
di terminologia segnala un cambiamento dell’approccio al problema
morale, determinato da una costellazione di elementi spirituali, culturali e storici.
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Enrico Chiavacci, dottore in teologia, professore emerito di Teologia morale nella Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, è l’autore di
una teologia morale fondamentale (Cittadella, Assisi 2007).
Il presentato libro è diviso in quattro sezioni e ognuna di esse contiene diversi capitoli. La prima è dedicata all’agire morale ed è una
considerazione di fondo quale appare opportuna all’inizio di un corso fondamentale di teologia morale, la quale presenta il fenomeno
morale come la decisione consapevole sulla propria esistenza da parte dell’essere umano, attraverso scelte concrete. Il presupposto dell’annuncio morale cristiano è che vi sia e vi sia sempre stata nell’uomo la capacità di vita morale (capitolo primo). Il secondo capitolo è
dedicato alla “morale” nella Scrittura: l’Autore propone di leggere
tutta la morale cristiana nella prospettiva della croce, in quanto per il
cristiano l’assunzione di un senso ultimo è identica con la fede in Gesù Cristo; la fede, poi, costituisce proprio l’accoglienza della Parola
che si è fatta carne e la sequela di essa, ossia la vita nella fede nel Figlio di Dio (capitolo terzo). Un’ampia sezione è dedicata al problema
delle limitazioni alla libertà (tra cui i condizionamenti genetici, culturali ed individuali) e della responsabilità morale estesa (ad esempio,
quella dei governi e dei loro meccanismi di controllo). Il tema del capitolo quarto è la coscienza che, secondo Chiavacci, è realtà molto
profonda e ricca che oltrepassa la capacità del tutto passiva di recensione o interiorizzazione della legge. In questo contesto è inoltre presentata l’idea di coscienza nella sacra Scrittura e la problematica relativa alla coscienza dubbia, con la seguente conclusione: la vera certezza è la certezza della serietà del proprio processo di discernimento. La chiamata di Dio è legge: questa legge può esser letta nella natura attraverso la ragione, e nei precetti contenuti nella Rivelazione.
La norma morale nasce solamente dalla coscienza del singolo agente. Questa nascita della norma attraverso un amoroso discernimento
è impossibile senza un dato oggettivo che consenta al singolo un discernimento in ogni situazione concreta. E tale oggettivo multiforme
– secondo l’Autore – potrebbe esser chiamato oggi “legge morale”
(capitolo quinto). L’ultimo capitolo della prima sezione (il sesto) si
occupa del peccato definito come l’atto interno dell’essere umano
che rifiuta la chiamata di Dio e, più precisamente, come una scelta
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consapevole contro la norma della coscienza. Esso è pure considerato nella riflessione sociologica, nella Bibbia (come rifiuto della verità, morte del peccatore – aversio a Deo, e pertanto causa di morte). Segue la
distinzione fra peccato mortale e peccato veniale (e questa distinzione è da ritenersi verità di fede: cfr. Concilio di Trento, Sess. VI, decr.
De iustificatione e can. 25; DS 1575) e, infine, la presentazione del
peccato del mondo, che non può essere spezzato che all’interno del
cuore degli uomini.
La sezione seconda, intitolata I costitutivi della legge morale, si apre
con il tema della legge naturale (capitolo settimo), che nella tradizione culturale e filosofica occidentale ha una doppia funzione: regolare i comportamenti individuali e costituire un fondamento e un
limite di legittimità per le leggi (il diritto naturale). Parlando di “legge naturale”, con l’aggettivo “naturale” si debbono intendere due
cose diverse: la legge eterna conoscibile con le forze della natura
umana (per s. Tommaso natura ut ratio), e la legge eterna quale appare nella lettura della natura (natura ut natura). Oltre il riconoscimento dell’importanza della legge naturale ai nostri giorni (che il
Vaticano II, al n. 44 di Gaudium et spes riconosce come serio dovere),
Chiavacci indica alla teologia morale il difficile compito di promuovere l’idea plurimillenaria di legge naturale. Le regole di comportamento vigenti in una società e necessarie o utili al conseguimento
del fine comune sono leggi umane. Un cenno particolare meritano
le leggi della Chiesa, il cui complesso può definirsi “diritto canonico”. Nel 1983 fu promulgato un nuovo codice. Tutto il diritto canonico, globalmente preso, impone alla coscienza del singolo un’attenzione maggiore di qualunque legge civile (capitolo ottavo). Il capitolo nono parla della vita della Chiesa e del Magistero. Ogni esperienza e riflessione cristiana in materia morale deve esser vissuta e
verificata nella Chiesa. E proprio in questo ampio quadro va collocata la funzione del magistero in materia morale. Si tratta di una
funzione complessa di stimolo, di freno, di mediazione. La Gaudium
et spes bene illustra la situazione particolare del Magistero in materia
di questioni morali concrete, dichiarando di voler affrontare i gravi
problemi morali del nostro tempo “sub luce Evangelii et humanae
experientiae” (n. 46).
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La sezione terza è uno studio del “sociale” (capitolo decimo) come parte integrante e irrinunciabile della teologia morale fondamentale: il “sociale”, ovvero tutto ciò che si riferisce a un sistema di relazioni stabili tra esseri umani, a metà fra sociologia ed etica; il rapporto tra il “morale” e il “sociale”; le nuove dimensioni del “sociale”.
Il “sociale” come realtà umana anteriore e fondante le varie forme di
“società” ha bisogno di essere studiato e misurato con l’annuncio del
Vangelo. Il capitolo undicesimo affronta il faticoso cammino della riflessione sul “sociale” compiuto all’interno della Chiesa, specialmente negli ultimi due secoli. Nel contesto della dottrina sociale cristiana vengono presentati la natura sociale dell’uomo, il principio di sussidiarietà, il concetto di società, il bene comune. Un pensiero sociale
cristiano organizzato sistematicamente nasce solo nella seconda metà del secolo XIX (Rerum novarum, 1891 e molto prima con le encicliche di Leone XIII: Diuturnum (1881) sul principato politico e Immortale Dei (1885) sul tema della costituzione degli Stati), ma oggi sta
rapidamente crescendo (il momento essenziale di questa crescita è
rappresentato dal Vaticano II, e precisamente dalla Gaudium et spes).
I tre limiti del pensiero sociale cristiano preconciliare, dal XVII al
XX secolo, sono: 1) la riduzione del fatto sociale a una dottrina rigida sulla società ufficialmente costituita (il limite fissista); 2) la concezione essenzialmente strumentale, funzionale al singolo individuo,
del rapporto sociale (il limite individualista); la riduzione della riflessione cristiana sul fatto sociale a riflessione filosofica, il limite filosofico (capitolo dodicesimo). Questi tre limiti sono stati superati di
slancio nella Gaudium et spes (capitolo tredicesimo, intitolato: La riflessione cristiana sul sociale nella Gaudium et spes). Dal Concilio a
oggi diversi sono stati gli interventi del magistero ordinario dei pontefici sui temi della morale sociale: tra questi, specialmente in campo
economico, si segnalano: la Populorum progressio, 1967 (Paolo VI) per
la visione planetaria del fatto sociale; la Laborem exercens, 1981, per la
dignità umana del lavoratore; la Sollicitudo rei socialis, 1987, con l’affermazione della morale sociale come parte propria della teologia (n.
41), la Centesimus annus, 1991, per la severa critica del primato del
profitto nel capitalismo (n. 35), e l’accettazione del concetto marxista
di “alienazione” (nn. 41-42) (Giovanni Paolo II).
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Infine, la sezione quarta tocca il tema della pluralità delle culture
e dell’unicità dell’annuncio morale cristiano (l’Autore giustamente
sottolinea che l’attuale problema della convivenza sulla terra di un’unica famiglia umana in una pluralità di culture è una realtà che si è
sempre presentata in varie forme). La cultura (ad esempio, nelle
scienze sociali), il problema della pluralità delle culture (dalla sua
preistoria all’etnocentrismo), il funzionalismo e lo strutturalismo, il
superamento del relativismo culturale (il contributo del pensiero
marxista; la scuola di Francoforte), la repressione addizionale (cfr. H.
Marcuse, Eros e civiltà, Torino 1968), il privato e il bisogno sono i temi del quattordicesimo capitolo. Oggi siamo di fronte a una svolta
epocale delle condizioni oggettive di convivenza della famiglia umana, svolta che ha preso il nome di globalizzazione. L’annuncio del
Vangelo deve oggi risplendere su un’umanità in cerca di senso e di futuro (capitolo quindicesimo). La Chiesa è sfidata oggi da un compito che non ha precedenti: essa deve presentarsi concretamente al
mondo intero come lievito e forza animatrice dell’intera famiglia
umana (GS n. 40) e deve annunciare una pace per tutti gli esseri umani e per tutto il cosmo, una pace che nasce dalla croce. Per una convivenza umana in un’epoca di globalizzazione (un’ottima visione globale si ha in G. Virt (cur.), Der Globalisierungprozess, Herder, Universität Freiburg i.B. 2002) occorre una qualche comune base etica
(l’Autore propone il principio della dignità della persona umana). La
Chiesa ha il compito di un annuncio per l’intera famiglia umana.
L’annuncio del Vangelo non è legato ad alcuna cultura, ma è capace
di esser compreso e vissuto in ogni umana cultura. Il fondamento di
un annuncio morale della Chiesa per la famiglia umana nel suo oggi
storico è quello biblico: Deus caritas est, molto opportunamente e fortemente ripreso da Benedetto XVI significativamente nella sua prima
enciclica che porta questo titolo (2005). Questo annuncio è l’annuncio di un Assoluto, l’annuncio di un Assoluto di amore che chiede
sempre attenzione all’altro; oggi, l’annuncio cristiano dovrebbe risplendere sul mondo di un’universale fraternità, che non umili e distrugga ma sappia apprezzare e mettere a frutto le diversità culturali.
Chiavacci indica il bisogno di una morale fondamentale che deve includere le essenziali dimensioni della dignità della persona umana (la
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Dichiarazione dell’ONU del 1948 e la Pacem in terris del 1963, parte I). Alla fine di questo ultimo capitolo, intitolato: Pluralità e relativismo: due problemi aperti per una morale per la famiglia umana, si
tratta del problema del relativismo che incombe in varie forme sull’annuncio morale cristiano. Il relativismo in senso proprio è l’asserto che non esiste alcuna “verità morale”, né alcuna “vera religione”.
A conclusione di questo capitolo l’Autore constata che l’annuncio e
la teologia morale cattolica non possano conoscere o accettare relativismi di nessun tipo. Devono accettare di sentirsi sempre “in cammino” verso la Verità, cioè la Persona di Gesù Cristo. Questo “cammino” è sempre più profonda comprensione della Verità: un cammino
della ragione e della sensibilità umana. Le esperienze particolari di tipo filosofico-spirituale e le esperienze di vita concreta fanno nascere
nuovi stimoli per la Chiesa universale. Da essi, esaminati alla luce del
Vangelo, la Chiesa e la teologia possono trarre nuove piste di riflessione per il cammino senza fine dell’annuncio morale cristiano.
L’opera di Enrico Chiavacci è pensata principalmente per gli studenti di teologia, ma può anche essere utile ad altri. Essa rispetta la
grande tradizione cattolica, le importanti novità conciliari e l’insegnamento dei papi (specialmente di Giovanni Paolo II, Benedetto
XVI). Il gran merito di essa sono i tanti richiami al cammino delle
scienze dell’uomo e della natura. La comprensione dell’essere umano su se stesso e le possibilità tecniche di espressione e di relazione
fra gli uomini ci offrono un quadro rinnovato ed aggiornato dell’annuncio morale. Un altro merito di essa è presentare la vita morale in
un contesto di relazioni sociali. La bibliografia è ben “ragionata”, limitata a poche opere importanti per l’approfondimento; invece è
mantenuta quella scientifica e filosofica degli anni ‘50-70 per mostrare quanto la teologia morale contemporanea sia debitrice agli studiosi di sociologia ed etica di quei decenni. Il nuovo libro di Enrico
Chiavacci – che studia da oltre 50 anni e insegna da oltre 45 anni –
vuole presentare la “vita morale” in seno alla riflessione teologica e
alla luce dell’esperienza cristiana oggi, in riferimento al consiglio
conciliare di cercare sub luce Evangelii et humanae experientiae.
HENRYK ĆMIEL
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D’AGOSTINO FRANCESCO – PALAZZANI LAURA, Bioetica. Nozioni fondamentali, La Scuola, Brescia 2007, 335 p.
I nomi dei due Coautori del libro, il professor Francesco D’Agostino e la professoressa Laura Palazzani sono più che sufficienti per
muovere l’interesse e suscitare l’attesa del lettore. Entrambi ordinari
di filosofia del diritto, entrambi studiosi fecondi e creativi, entrambi
impegnati in prima persona nel dibattito pubblico e membri del Comitato Nazionale per la Bioetica italiano. L’attesa non è certo delusa
da un volume che non è né una raccolta di saggi, né un manuale in
senso stretto, ma che risponde al titolo della collana in cui è inserito,
la sezione filosofica della collana degli Strumenti Universitari di Base,
edita da La Scuola di Brescia. Il termine “strumento” descrive bene
questo volume che si propone, appunto, come uno strumento di lavoro a livello universitario e, come ogni strumento, offre risorse, possibilità, mezzi. Il volume non è preoccupato di trasmettere, neppure
in modo sintetico, tutto quello che si studia in bioetica. Il suo scopo
è piuttosto quello di dare suggestioni e stimoli per condurre i lettori
a capire e pensare la bioetica, entrare nel significato profondo delle sue
problematiche, muoversi in modo critico e consapevole nella variegata efflorescenza delle sue prospettive e indirizzi, cogliere il nesso
tra le questioni della bioetica e le questioni culturali, scientifiche,
economiche, sociali e politiche del nostro tempo.
La stessa struttura tripartita del volume è indicativa delle intenzioni degli Autori e si differenzia rispetto alla usuale trattatistica
bioetica.
La prima parte (pp. 5-175) tratta dei Fondamenti: essa non offre
soltanto una riflessione sulle premesse metabioetiche (epistemologiche, antropologiche, etiche) della disciplina, ma approfondisce alcuni snodi essenziali della bioetica, nel senso alluso dal sottotitolo del
libro “Nozioni fondamentali”. Qui in sei densi, ma leggibilissimi capitoli, sono affrontati i grandi temi della bioetica, sempre con un taglio molto originale. I primi tre capitoli sono dedicati alle questioni
generali. Lo stile è piano, ma pensoso; la lettura chiede impegno, ma
trascina. Un modello di efficacia didattica sono le pagine in cui si introduce passo passo il lettore al ragionamento bioetico e lo si fa sen-
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za sussiego, con chiarezza e con quell’umiltà intellettuale che è dei
maestri. Sullo sfondo sta una persuasione che condividiamo a pieno
che, cioè,
«la verità della logica è una verità formale, tanto più stringente quanto più povera di contenuto; la verità dell’etica è una verità esistenziale, dato che il bene più che nell’intelletto vive nell’esperienza personale e relazionale» (p. 16).
Il secondo capitolo, dedicato all’esposizione delle teorie etiche più
usate in bioetica, è esemplare per l’imparzialità e la pacatezza anche
nell’affrontare la questione incandescente (specie in Italia) del rapporto fra bioetica cattolica e bioetica laica o secolare: se c’è una bioetica
cattolica in senso strettamente confessionale, esiste però anche un
pensare ragionevole in prospettiva di fede cristiana e c’è, soprattutto,
un ethos della dignità della vita umana che viene spesso identificato come “cattolico”, ma che, al di là dell’“ipotesi di Dio” (p. 55) dovrebbe
far parte dell’ethos di ogni uomo in quanto uomo. Nel capitolo su
bioetica, deontologia e biodiritto gli Autori, con assoluta padronanza
del campo e indiscussa autorità, mostrano come “la bioetica e la biogiuridica sono momenti di riflessione necessari, ma nessuno completamente autonomo e indipendente dall’altro” (pp. 73-74). Più discutibile ci sembra la qualificazione della deontologia come di un’etica simpliciter, sia pure “un’etica di carattere particolare” (p. 60), ma si riflette in questa impostazione il travaglio di una disciplina, la deontologia
delle professioni sanitarie, che sta ancora cercando una sua ridefinizione epistemologica rispetto al diritto e all’etica.
I tre capitoli seguenti, affrontano temi scelti di bioetica dando la
preferenza a quelli più dibattuti e più formativi in vista dell’affinamento del pensare bioetico. Non manca nessuno dei grandi problemi legati all’inizio e alla fine della vita, anche se devo dire che stupisce un po’ l’assenza di una riflessione adeguata sull’aborto e sulle sue
molteplici implicazioni. Alcune tematiche che potrebbero sembrare
più ricercate ed “esotiche”, come quella della maternità surrogata o,
addirittura, della ectogenesi, diventano invece occasione preziosa per
approfondire la riflessione intorno alla esperienza della maternità, il
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senso antropologico della gestazione e il rapporto della esperienza
con le tecnologie biomediche. Il sesto capitolo Altre dimensioni della
bioetica, apre per lo studioso orizzonti e piste di ricerca affascinanti e,
in alcuni casi, appena intraviste, come quelle della cosiddetta bioetica
post-umana, che, interrogandoci sul futuro dell’uomo, ci porta a interrogarci sul nostro presente. Non possiamo, ovviamente, dar conto dei singoli argomenti, ma non possiamo non sottolineare il rigore
metodologico, l’equilibrio con cui vengono impostate le questioni e
ricostruite le diverse posizioni, l’acutezza con cui vengono dipanati
gli intrecci problematici.
Gli Autori non si sono attribuiti questo o quel capitolo e, in effetti, il volume è molto omogeneo dal punto di vista stilistico, metodologico e dottrinale, frutto di intesa e di dialogo. Ci pare, però, di cogliere o, forse, ci piace cogliere l’apporto specifico di un pensare
bioetico al femminile: cogliamo “a different voice” – per evocare un
famoso saggio di Carol Gilligan – là dove si sottolinea come impegno
essenziale per la bioetica quello di dar voce a chi non ha voce, di assumersi la cura e la responsabilità per l’altro, di riconoscere il valore
della sua esistenza, soprattutto quando questa esistenza si presenta
marginale, fragile, debole. Uscendo dai confini angusti di un’etica
basata sulla cruda fisicità e sulle evidenze oggettivistiche, ma anche
capovolgendo il movimento deduttivo e discendente di un’etica intellettualistica e, alla fine, disumana, avvertiamo nelle pagine del presente volume il dilatarsi prospettico e il movimento ascendente di
una bioetica che prima di tutto vuole accogliere la vita, le relazioni,
le prossimità e farsene carico. Dialogare con le esistenze mute, ci
chiede uno “sforzo metafisico” (p. 13) che, in ultima analisi, è lo sforzo di abbandonare il monologo solipsista per mettersi in ascolto delle voci tenui dei senza voce, dai feti alle persone in stato vegetativo,
passando per i malati e gli handicappati. In questa tensione profondamente etica, profondamente umana sta uno dei pregi del volume e
proprio questa tensione etica lo rende “formativo”.
La seconda parte (pp. 179-305), fedele alla qualifica di “strumento” contiene una antologia di testi suddivisi in pareri del Comitato
Nazionale per la Bioetica, in leggi italiane (procreazione assistita, accertamento della morte, trapianti) e in normative comunitarie e in-
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321
ternazionali, quasi in contrappunto con la prima parte. È vero che
tutto questo si trova abbastanza facilmente su internet, ma chi fa didattica sa che gli studenti gradiscono molto avere a disposizione i materiali necessari, già stampati su carta, riuniti e ordinati: sarà un invito e una facilitazione ad accedere personalmente a documenti di indubbio valore. La terza parte, infine, offre un’utile e articolata bibliografia (pp. 309-328). La bibliografia ragionata segnala opere sia
generali sia monografiche scelte nel mare magnum della letteratura
bioetica e biogiuridica secondo criteri di rilevanza, aggiornamento e
lingua (testi italiani o tradotti in italiano): di ogni opera si dà una breve, ma precisa descrizione. L’ultima sezione della terza parte, strumenti per la ricerca, contiene un repertorio di enciclopedie e dizionari, bibliografie, riviste e siti internet.
Il volume è indirizzato agli studenti universitari delle facoltà di
area umanistica (filosofia, giurisprudenza, lettere ...), ma la sua lettura è raccomandata a tutti coloro, che medici inclusi, vorrebbero essere introdotti con intelligenza e consapevolezza nei problemi della
bioetica e, più in generale, nei problemi della vita che viviamo e nella quale siamo immersi.
MAURIZIO P. FAGGIONI, OFM
NEBEL MATTHIAS, La catégorie morale de péché structurel. Essai de
systématique, Les Éditions du Cerf, Paris 2006, 597 p.
Cet ouvrage de Mathias Nebel est structuré en trois parties: «Tortures et corruption institutionnelles. Deux structures de péché» (pp.
27-141); «Deux éléments d’histoire relatifs au concept de structure
de péché» (pp. 143-260); «Une systématique de péché structurel»
(pp. 261-562). L’objectif de l’auteur est de fonder la catégorie de péché structurel en théologie morale. Pour y parvenir, il cherche d’abord à comprendre la nature de structures de péché d’un point de vue
sociologique et psychologique, ecclésial et éthique.
Pour ce faire dans la première partie de son livre, il examine et
analyse deux situations sociales issues respectivement de l’institu-
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tionnalisation de la torture au Brésil (1964-1979) et de la structuration de la corruption à Milan dans les années 1990. Il arrive ainsi à
appréhender, par rapport au premier cas, la réalité d’injustice systémique et à clarifier les enjeux systématiques des structures du péché:
«Le gouvernement, dans un État moderne, est référé constitutionnellement aux droits de l’homme. La torture en brisant et violant ces
droits et devoirs fondamentaux ne peut être un acte légitime du pouvoir politique. Dès lors, une pratique institutionnalisée de la torture
relève d’une atteinte systématique et grave au bien commun et délégitime le gouvernement» (p. 32). C’était bien le cas du régime militaire brésilien qui, animé par l’idéologie de la sécurité nationale, mettait tout en œuvre pour anéantir physiquement et psychologiquement l’ennemi intérieur. Par rapport au deuxième cas, l’auteur en
vient à désigner la corruption comme une triple perversion «de
l’exercice du pouvoir-en-commun», «du rôle distributif de l’État» et
«du système des droits de l’homme» (pp. 127-133).
L’auteur jette ensuite, dans la deuxième partie de son livre, un regard historique sur la notion du péché dans le magistère ecclésial en
vue de cerner la dimension théologale de la catégorie de structure de
péché. Il quête cette dimension théologale qui lui paraît indispensable
pour comprendre et fonder la catégorie morale de péché structurel
dans les documents tels que: «Medellin (1968)» et «Puebla (1979)»
de la conférence épiscopale générale latino-américaine; «Libertatis
nuntius» et «Libertatis conscientia» de la Congrégation pour la doctrine de la foi; «Reconciliatio et pænitentia»; «Sollicitudo rei socialis» de Jean-Paul II.
Au terme de l’analyse de ces textes, notre auteur en indique deux
thèmes théologiques – théologie de l’histoire et christologie – pour
un discours fondamental sur le péché structurel, tout en déplorant
l’échec des tentatives d’intégration de cette catégorie dans la théologie systématique: «si l’aspect théologal de ce péché est désormais solidement fondé dans la révélation, l’aspect moral et particulièrement
l’anthropologie utilisée jusqu’à présent ne parviennent pas à le dire
de manière adéquate» (p. 189).
M. Nebel tente d’en relever le défi pour élaborer une systématique
du péché structurel par la clé de l’analogie. Il en analyse l’emploi par
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rapport au péché chez Abélard et Thomas d’Aquin. Mais c’est surtout
à partir de la définition formelle du péché, comme acte humain mauvais, chez Thomas d’Aquin que notre auteur essaie de comprendre la
«dimension analogique du péché» comme une expression qui «désigne
une définition formelle du péché et l’intelligence théologique qu’elle
permet d’avoir de la complexité de l’univers du mal commis» (p. 231).
Poursuivant sa quête chez Rahner, Schoonenberg et Balthasar, il
en arrive à deux formes d’analogie: l’analogie comme mode de
connaissance du réel en sa complexité; et celle du rapport entre l’homme et Dieu; et entre le péché définitif et les autres péchés. L’auteur ne dissimule pas sa préférence pour cette deuxième forme qui
renvoie au rapport de deux libertés selon l’amour et non à celui de
l’être à l’étant selon une possibilité de connaissance.
M. Nebel aborde enfin, dans la troisième partie, la systématique à
proprement parler du péché structurel. Il en pose d’abord les bases
en faisant appel à l’anthropologie politique et à la théologie biblique;
reprend ensuite les thèmes majeurs de la Bible sur le péché en une
systématique qu’il conclut, enfin, par une définition de la catégorie
morale de péché structurel. Ce péché est caractérisé par la destruction
du lien social, la transformation du pouvoir institué en la domination,
la contrainte et la violence. Il est encore caractérisé non seulement
par l’exclusion de certains citoyens des fruits de l’interaction, mais
aussi par leur privation de l’exercice effectif des droits fondamentaux.
Dans cette tentative de définition, l’auteur distingue entre la catégorie de péché structurel et celle de structures de péché. Cette dernière,
qui recèle un caractère objectif de rupture du péché, désigne la structuration d’un mal social, une situation sociale créée par une institution
dont la finalité formelle ou effective est mauvaise. Par contre, la catégorie de péché structurel, qui recèle un caractère subjectif de rupture du
péché, renvoie au péché commun, personnel et actuel. «Le péché
structurel, c’est l’actualisation des contre-valeurs du champ structuré
de l’action défini par cette institution, par la communauté de personnes rassemblées dans et par cette interaction» (p. 565). Il ne s’agit
donc pas d’une simple conséquence des péchés personnels, mais d’un
péché véritable, personnel et actuel qui appelle la grâce du Christ, exige une conversion, et pour lequel l’Église doit envisager le pardon.
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Avec ce livre, M. Nebel nous offre certainement une systématique
cohérente du péché structurel pour deux raisons: premièrement, parce qu’il a su exploiter de manière analytique et critique la force de l’analogie comme principe d’intelligibilité du péché ou du mal commis;
deuxièmement, grâce à une analyse critique des tentatives antérieures sur la théologie du péché qui avaient tendance à confondre mal
structurel et péché structurel.
Avec cette systématique de péché structurel, nous avons désormais,
me semble-t-il, une catégorie morale qui puisse aborder, d’un point de
vue théologico-moral, la réalité sociale où le péché s’entend comme
refus personnel et communautaire du don de Dieu; refus de dépendance et de collaboration au projet d’amour de Dieu; refus du Christ
qui libère l’homme de l’asservissement du péché. Le péché, entendu
dans ce sens, ne serait donc rien d’autre que le principe même d’un
projet d’autonomie absolue avec toutes ses conséquences possibles:
aliénation de la personne à soi-même dans une soumission totale à
l’emprise du péché; défiance, domination, injustice et violence destructrice toujours actuelle et actualisée dans le monde par l’homme.
Cette systématique du péché structurel, qui s’apparente à une sentence prophétique, nous permet de fixer le regard sur le présent de
l’interaction en fonction d’un futur, elle nous interpelle et suscite notre responsabilité qui ne peut être efficace que si elle est assumée
dans l’esprit du Christ, principe de toute libération, don d’amour,
d’espérance, de courage et de vérité.
ARISTIDE GNADA, C.SS.R.
RUIZ ALDAZ JUAN IGNACIO, El concepto de Dios en la teología del siglo II. Reflexiones de J. Ratzinger, W. Pannenberg y otros, EUNSA,
Pamplona 2006, 291 p.
La recente discussione sulle radici cristiane dell’Europa permette
di constatare l’attuale tentativo di eliminare Dio dalla vita quotidiana. Questo fenomeno pare più sorprendente se si tengono presente,
nella cultura ebrea e cristiana degli ultimi decenni, le domande sul-
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l’attitudine di Dio nel contesto della sofferenza, dell’olocausto e del
male sperimentato nel mondo.
Dio ritenuto come garante del retto dominio dell’uomo sopra la
materia, conferitogli nell’atto della creazione (Gen 1, 28), perde sempre di più il suo carattere trascendente per l’uomo. I protagonisti dell’ateismo del s. XIX (Comte, Feuerbach, Marx, Nietzsche) nonostante
le differenze nelle loro opinioni, erano d’accordo nello sradicare Dio
dalla cultura e dal cuore dell’uomo. Spesso il modo di pensare così non
era motivato dalle convinzioni puramente atee ma piuttosto dalla tendenza alla piena libertà. Diverse forme dell’ateismo dei pensatori menzionati sono sopravissute fino ai tempi nostri. Il cambio delle forme
atee nell’epoca nostra provoca una seria trasformazione spirituale nella cultura, sostituendo una opposizione decisamente atea: trascendenzaateismo con l’opposizione trascendenza-indifferentismo religioso. L’esperienza di Dio nella vita dell’uomo ha molti aspetti. Il problema vero
sorge quando è necessario dare informazioni su Dio. Questa difficoltà
è presente nel Catechismo della Chiesa Cattolica che la considera in due
livelli: la trascendenza di Dio e la necessità dell’uso della analogia:
«Essendo la nostra conoscenza di Dio limitata, lo è anche il nostro
linguaggio su Dio. Non possiamo parlare di Dio che a partire dalle
creature e secondo il nostro modo umano, limitato, di conoscere e di
pensare» (CCC, 40);
«Dio trascende ogni creatura. Occorre dunque purificare continuamente il nostro linguaggio da ciò che ha di limitato, di immaginoso,
di imperfetto per non confondere il Dio ineffabile, incomprensibile, invisibile, inafferabile con le nostre rappresentazioni umane» (CCC, 42).
Il problema del linguaggio si presenta più complicato nei tempi
nostri, quando si sperimenta molti cambiamenti di civilizzazione, un
fenomeno che sottolinea anche l’ultimo Concilio:
«L’Umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’intero universo» (GS, 4).
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Il linguaggio religioso occupa oggi un posto privilegiato nella teologia, perchè nel parlare di Dio non si può dimenticare la storia e l’esperienza umana. Esige una forma che sia adeguata all’epoca attuale
per trasmettere la verità rivelata. Questo tipo di linguaggio si inscrive nell’esigenza della dinamica della teologia pensata come fides quaerens intellectum.
Fedele a questa regola della teologia cristiana, che rilegge il senso
veterotestamentario del messagio su Dio alla luce del NT, Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona affrontava il tema cruciale per la
teologia di ogni epoca e particolarmente urgente nel tempo nostro:
la relazione tra fede e ragione, appoggiandolo sulla base comune della ricerca della verità.
Animato sicuramente da questo discorso, ma soprattutto cosciente dell’importanza di presentare chiaramente questa relazione all’uomo dell’epoca postmoderna, Juan I. Ruiz Aldaz interviene con sua
pubblicazione El concepto de Dios en la teologia del siglo II, che divide in
due parti. Nella prima parte vengono presentati i principi storici e lo
sviluppo della questione fino al XX secolo (Presupuestos históricos: el
desarrollo de la cuestión hasta el siglo XX). La parte seconda descrive la
discussione su Dio nel XX secolo (La revisión del debate en el siglo XX.
La crítica de Pannenberg al Dios de la teología primitiva).
Nella prima parte l’autore si appoggia sul dialogo che il cristianesimo primitivo (Aristides, Giustino, Taziano e Clemente d’Alessandria) ha stabilito con la filosofia greca. Quel dialogo del cristianesimo
con l’ellenismo era molto fruttuoso e provvidenziale. I Padri hanno
compreso che tra ordine naturale e ordine della grazia, tra fede e ragione, tra filosofia e teologia deve esistere una relazione intrinsecamente armonica. Sulla base delle testimonianze bibliche il cristianesimo del secondo secolo era cosciente che la fede era compatibile con i
risultati di un corretto esercizio della ragione umana. L’annuncio del
Dio vero rivelato in Cristo potrebbe e dovrebbe appoggiarsi sulla testimonianza biblica, quando il destinatario era il popolo dell’AT. Però
l’annuncio del cristianesimo ai gentili doveva cercare di introdurre la
fede all’uomo che non conosceva la Scrittura. Questa era la grande
questione che, nel contesto storico-culturale, interessava dei Padri:
dar ragione che quel Dio da loro annunciato è l’unico vero Dio.
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Nel momento in cui il cristianesimo sale dall’ambito geografico,
culturale e religioso del giudaismo e si apre al mondo greco-romano,
i primi intellettuali cristiani entrano in dialogo con i rappresentanti
delle diverse teologie e filosofie greco-romane, e di diverse sette del
nucleo gnostico. In questo contesto gli Apologisti elaborano una teologia generale e il concetto di Dio in particolare. Contro gli gnostici
sostengono l’unità di Dio, l’unità tra creazione e redenzione ed escludono una idea dualista della divinità. Di fronte alla religione popolare
elaborano una critica razionale del politeismo. Rispetto alla teologia
filosofica i Padri riprendono il dialogo sulla base della ragione. L’oggettivo primordiale del dialogo con la filosofia greca consisteva nel far
vedere mediante dei metodi propri della ragione che il Dio cristiano è
proprio quel Dio che i filosofi cercano tra i dubbi e indecisioni. Si sforzano di mostrare che la conoscenza filosofica era insicura, parziale e
mescolata ad errori. La filosofia greca andava in buona direzione in
molti aspetti che riprendono gli Apologisti. Gli Apologisti per convincere i loro interlocutori della verità sul Dio cristiano si appellano alla
ragione e ad accettare la Rivelazione, che per la venuta di Dio è degna
di tutta considerazione. In dialogo con il mondo filosofico e culturale
greco-romano i Padri erano convinti che il soppranaturale accoglie il
naturale in sua dignità e in suo valore, sanandolo, purificandolo e elevandolo. I Padri sono sicuri che nel cristianesimo hanno incontrato la
Verità suprema a cui aspira tutta l’umanità. Nello stesso tempo però
incorporano i migliori frutti della intelligenza umana nella sua evoluzione come dono del Creatore. Da questi principi si ispirava il concetto di Dio nella elaborazione teologica.
Questa comprensione della filosofia, come un alleato della teologia,
fu predominante nell’antichità e nel medioevo sino l’epoca della Riforma protestante. Con Lutero inizia a diffondersi l’idea che la filosofia ha contaminato la fede. Era necessario prescindere da Platone e Aristotele per fare teologia. Così nel secolo XVI ha inizio il problema del
platonismo dei Padri. Sul campo della fede i Riformatori hanno guidato nella storia un processo che successivamente si chiamerà l’ellenizzazione. Nell’intervallo dal secolo XVI al XIX la teologia mette in guardia affermando che la simbiosi tra fede cristiana e filosofia greca è tanto antica, e che nel proceso di critica seria si deve arrivare fino al Van-
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gelo stesso. Harnack evidenzia il punto culminante di questo processo.
Secondo il suo giudizio l’essenza del cristianesimo rimane perenne. Il
disegno di Harnack consiste nel riscoprire l’essenza più pura del cristianesimo mediante il metodo storico-critico. Egli affermava che il
Vangelo e il dogma non solo non coincidono, ma sono due realtà eterogenee e perciò nel cristianesimo è il Vangelo e no il dogma che deve occupare il primo posto. Così lui tendeva a ridare al Vangelo tale
aspetto che fu predicato da Gesú e in questa luce giudicare la storia dei
dogmi. Con l’uso del metodo storico-critico ha portato allo sviluppo i
presupposti di teologia liberale protestante. Come conclusione della
sua investigazione l’essenza del cristianesimo rimane nel messaggio del
Regno di Dio, nella paternità di Dio e nel valore infinito della persona, nonchè nel mandato dell’amore. Questo è il Vangelo predicato da
Gesù. Tutto il resto, e in particolare i dogmi che incontriamo nella storia, sono il risultato dell’influenza esterna della cultura greca e hanno
falsificato il vero cristianesimo.
L’idea di Dio che viene dal Vangelo, secondo Harnack, è che Dio è
Padre buono che perdona il peccato e promette il suo Regno. Quindi,
il Dio del Vangelo nella teologia dei Padri è un Dio paragonabile con
qualsiasi scuola filosofica, nonostante che Harnack riconosca che il Dio
dei Padri esprima una idea più viva di quella dei filosofi.
Nella seconda parte della pubblicazione J. Ruiz Aldaz presenta il
dibattito attorno al concetto di Dio tra i pensatori del XX secolo. I
più eminenti tra di loro sono: J. Ratzinger, W. Pannenberg, L.
Scheffczyk. Secondo Pannenberg le differenze attorno all’immagine
di Dio presente nel mondo greco erano manifestazioni accidentali di
una idea di fondo comune. É una conseguenza di un processo spirituale e intellettuale in cui l’idea della divinità tipicamente greca si è
sviluppata attraverso delle tappe distinte, trovando un’espressione
migliore nell’idea platonica dell’Uno, come origine immanente di
tutte le realtà. Pannenberg sostiene che il dialogo con la filosofia non
suppone necessariamente una falsificazione dell’idea biblica di Dio.
Una deformazione del Dio biblico, nel senso della ellenizzazione, è
avvenuta solo lì dove la fede cristiana ha perso la sua forza critica. Per
quanto riguarda il giudizio sulla idea di Dio presente nei Padri, Pannenberg distingue aspetti positivi e negativi. Secondo lui, l’effetto del
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dialogo dei Padri con la filosofia ha portato una mescolanza del materiale di provenienza biblica con altro di provenienza filosofica, che
in fondo non sono compatibili.
Con il punto di vista di Panneberg non sono d’accordo J. Ratzinger e L. Scheffczyk. J. Ratzinger in questo campo ha approfondito
l’idea dei Padri riguardo la relazione tra il Dio della fede e il Dio della ragione. Secondo lui, proprio la caratteristica del monoteismo cristiano è la riconciliazione tra il primo principio dell’essere e il carattere personale. Trovare questo vincolo tra ontologia greca e il Dio
della Bibbia fu il gran vantaggio dei Padri. J. Ratzinger ha difeso anche l’idea dell’eternità che non si limita solo a esprimere in forma puramente negativa la neo-temporaneità di Dio, ma essa vista nell’ottica cristiana contiene anche il senso positivo della sovranità su tutto il
tempo e il luogo. Questa sovranità di Dio trova suo posto nella Creazione, continua nella Salvezza e culmina nell’Incarnazione, in cui Figlio eterno assume una condizione temporale.
Anche L. Scheffczyk ha difeso la compatibilità tra il Dio biblico e
l’eternità ultraterrena. Secondo lui non solo non esiste incompatibilità tra eternità e onnipotenza, ma anche l’idea di sovranità rispetto al
tempo e la storia è la garanzia della sua capacità di agire in una forma libera e contingente.
Il problema del concetto di Dio presentato nelle discussioni dei Padri della Chiesa è valido in ogni epoca, anche oggi. Nell’ attuale epoca del nichilismo, o se preferiamo del postmoderno, si nota drasticamente lo spostamento del problema conoscitivo su Dio. Per quanto nel sistema teistico la naturale conoscenza di Dio é sempre possibile, benché difficile, tanto nell’ateismo ci troviamo di fronte a una tesi contrastante sulla impossibilità di conoscere Dio perché non esiste. Oggi sul
piano epistemologico l’agnosticismo e relativismo parte invece dall’ipotesi, che di Dio non si sa nulla e niente si saprà di Lui in futuro.
Sul campo delle ideologie ereditate dall’ateismo nasce l’idea, che
il fondamentale agire dell’uomo si concentra sul creare la nuova civiltà fondata sull’economia e politica, autonome da Dio. Anche senza attacare Dio, nell’ attuale cultura secolarizzata si ammette una evidente separazione tra Dio e la civiltà, con una tendenza a ridurre la
fede e la religione alla sfera privata.
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L’uomo però non puo sradicarsi dalla propria identità, anche
quando nello scontro con la quotidianità vive tensione, oppure la lotta interna. Egli cerca dei surrogati con i quali vorrebbe sostituire la
realtà a lui legata e cade di nuovo in uno stato di tensione, che lo porta ai surrogati dell’Assoluto, di cui vorrebbe liberarsi. Lo testimoniano oggi lo sviluppo delle così dette “nuove religioni” legate alle sette, specialmente la New Age, e altri modelli esoterici che tendono a
sostituire la persona di Cristo, o almeno di cambiare in Lui il vero
volto di Dio.
Andando all’incontro con l’uomo moderno in una affermazione
tanto esistenziale, la teologia è chiamata a dare la risposta ai dubbi
sollevati anche nella nostra epoca dai diversi sistemi filosofici e ideologici. Lo fa anche l’attuale Papa Benedetto XVI, quando nella sua
prima enciclica Deus caritas est sembra dire apertamente: poichè Dio
è amore, allora Dio non è morto, ma si esauriscono e si spengono le sue
concezioni antropomorfiche e caricaturali. Dio che è Amore e suprema Verità non é una delle tante immagini, ma è il fondamento e il criterio assoluto di tutte le immagini che vogliono avvicinarsi – senza
mai poterlo toccare – al volto del Dio vivente.
Si vede dunque che la pubblicazione di J. Ruiz Aldaz merita l’attenzione del lettore particolarmente per due motivi: 1) Essa ricorda
che per ricondurre l’uomo alla fede e alla salvezza si chiede aiuto anche alla ragione; 2) Riguardo alle diverse deformazioni della immagine di Dio, avvenute lungo la storia, bisogna assumersi l’incarico di
demitizzare il volto di Dio rivelato in Cristo.
CZESŁAW RYCHLICKI
ZAMBONI STEFANO, «Chiamati a seguire l’Agnello». Il martirio, compimento della vita morale (Etica teologica oggi, 43), EDB, Bologna
2007, 392 p.
Nell’opera qui recensita, l’autore (A.), un giovane sacerdote dehoniano, presenta al pubblico la sua tesi di dottorato, difesa all’Accademia Alfonsiana nel 2007 e diretta dal Prof. Réal Tremblay, al quale si
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deve la breve “presentazione” che apre il libro, il quale consta di
quattro capitoli (tre di approccio positivo e il quarto di ripresa sistematica) preceduti da un’introduzione e seguiti da una conclusione, il
tutto corredato da un’ampia bibliografia e da un indice dei nomi.
Dovendo essere molto sintetico, si potrebbe ricorrere, per dare
un’idea del libro, alla definizione del martirio nella quale sfocia il
quarto capitolo:
«testimonianza cristiana suprema, nella morte, della croce gloriosa,
mediante il dono di sé reso possibile da una radicale accoglienza del
mistero pasquale nell’intimo dell’essere (coscienza) dispiegata nel
tempo della sequela e che diventa epifania nella Chiesa della potenza
della croce per la vita del mondo» (p. 356).
Questa definizione del martirio, con il suo dispiegamento nell’insieme dell’opera, costituisce già un contributo apprezzabile alla comprensione teologica del martirio.
Ma, al mio parere, non qui si situa l’interesse maggiore dell’opera. In un momento ecclesiale in cui si parla di una nuova fase di rinnovamento della teologia morale, in particolare per adempiere più
completamente e adeguatamente alle richieste del Concilio Vaticano
II riguardo alla sua fondazione cristologica, il libro di Zamboni appare, sia per il tema scelto, sia per il modo in cui viene trattato, come
un notevole contributo a tale rinnovamento, e in stretta conformità
alle indicazioni del Concilio. Che tale sia la sua motivazione, l’autore lo dichiara espressamente dando alla sua definizione appena citata
la funzione di
«mostrare come il martirio emerga quale realtà di estrema importanza
per la riflessione teologica e in particolare per la teologia morale, chiamata a illustrare la celsitudo della vocazione dei fedeli in Cristo (cfr.
Optatam totius 16)» (p. 356).
Avendo registrato “la sostanziale estraneità del martirio alla riflessione etica contemporanea”, l’A. è convinto che qui sia in gioco “l’autocomprensione della morale cristiana”. Ma perché possa “illumina-
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re in profondità tutto l’agire del cristiano”, bisogna capire che il martirio non è “un caso estraneo o periferico rispetto all’agire morale del
credente” (p. 357) o non “tanto una situazione-limite, un atto eroico
da ammirare e da imitare” ma piuttosto “esito ed epifania di una fedeltà quotidiana, di una «normale» vicenda di sequela” (p. 13).
È al fine di mostrare ciò, e in stretta aderenza all’indicazione conciliare di rinnovare la teologia “per mezzo di un contatto più vivo col
mistero di Cristo” (OT 16), che l’autore si dedica a circoscrivere il significato del martirio cristiano che, in mezzo al mare delle morti ingiuste, presenta una specificità ineliminabile, che gli viene già dal fatto che il cristianesimo stesso “nasce, per così dire, da un martirio” e
un martirio che si presenta come “intrinseca necessità del piano divino di salvezza” (p. 12). Nel confronto con Nietzsche che vedeva nel
martirio “un «argomento» subdolo e violento per tutti gli idioti della storia”, il martirio cristiano mostra anche la sua specificità nel fatto che “il martire cristiano non muore per imporre un’idea, per quanto nobile ed elevata, ma per attestare il suo legame più prezioso, quello con colui che è «Signore» della sua stessa vita”. “È precisamente
questo legame che vorremmo mettere in evidenza” (p. 13), dichiara
l’autore prima di descrivere il percorso che intende seguire nei quattro capitoli che compongono il corpo dell’opera.
Nel primo capitolo, l’autore presenta “uno status quaestionis introduttivo” sul “tema del martirio nella teologia cattolica”. Pur nella sua
brevità, questo capitolo mi sembra raggiungere adeguatamente il suo
scopo. A ciò giova non poco la mirata scelta degli autori studiati: san
Tommaso d’Aquino (come rappresentante della “prospettiva classica
(...) su cui si è basata la successiva tradizione manualistica”), i contemporanei Karl Rahner e Hans Urs von Balthasar, opportunamente
completati dalla “proposta della teologia della liberazione”. La critica rivolta ad ognuna di queste proposte teologiche consente all’autore non solo di sottolineare i loro limiti, ma di cogliere gli elementi
positivi che saranno poi integrati nella sua ripresa sistematica. Così il
rinnovamento proposto alla teologia morale non appare come assoluta novità ma come “perfezionamento” (cfr. OT 16).
L’auspicio conciliare che la teologia morale sia “maggiormente nutrita della dottrina della Sacra Scrittura”, trova ampio riscontro nel se-
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condo capitolo, in cui l’autore svolge un’indagine sul martirio in tutto il
Nuovo Testamento, orientando la sua ricerca sui temi “croce”, “sofferenza”, “testimonianza”, “sequela” e le loro correlazioni. Inoltre, la
frequenza dei riferimenti biblici non soltanto in questo capitolo biblico ma in tutti gli altri capitoli, e specialmente nel capitolo finale di ripresa sistematica, mostra come l’indagine biblica sia non soltanto un
discorso previo ma sia effettivamente fondante e “anima” del discorso
teologico. È da notare che l’autore, conducendo un’indagine prettamente teologica sa peraltro rispettare e sfruttare bene i risultati dell’esegesi, ricorrendo costantemente ad esegeti famosi di ben quattro
aree linguistiche (italiana, tedesca, francese, inglese). Mi sembra anche ben riuscito il proposito dell’autore di “mantenere la peculiarità
di ciascun autore e di ciascuno scritto neotestamentario” (p. 47). Non
potendo riassumere qui il contenuto di questo capitolo, potremmo,
per dare un’idea dell’ampiezza e della ricchezza dell’indagine evocare
queste peculiarità, suggerite dai titoli delle sottodivisioni del capitolo:
1º “La croce e la sequela nei vangeli sinottici”; 2º “Il Figlio, testimone che dà la vita: il Vangelo di Giovanni”; 3º “Testimoni del Risorto:
gli Atti degli apostoli”; 4º “Paolo, apostolo della croce”; 5º “Sofferenza e gioia nella prova: la prima lettera di Pietro e la lettera agli Ebrei”;
6º “L’Apocalisse: vittoriosi nel sangue dell’Agnello”.
Nel terzo capitolo, l’A. passa “a considerare alcune figure rappresentative di testimoni”. Non si tratta soltanto di martiri. Sono state
scelte secondo il doppio criterio di aver offerto da una parte significative “riflessioni sul martirio” e insieme “l’attestazione di un pieno
coinvolgimento esistenziale nel mistero della croce” (p. 13). Le sei figure scelte appartengono a due periodi particolarmente significativi
per il tema studiato: l’età dei Padri e il XX secolo, chiamato da Giovanni Paolo II “secolo del martirio”. Proprio attraverso la diversità
delle “precomprensioni personali, ambientali, teologiche” dei vari
autori-testimoni emerge il punto comune del “nesso tra martirio e
croce del Signore” (p. 190). I tre testimoni scelti per l’età dei Padri
sono Ignazio di Antiochia, Origene e Agostino d’Ippona. Per il periodo contemporaneo, ricordando l’affermazione di Giovanni Paolo
II che “il martirio è una grazia che le diverse comunità ecclesiali hanno come patrimonio comune” (Ut unum sint, 83-84), l’autore ha scel-
334
REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI
to “tre figure appartenenti a diverse confessioni cristiane: “Pavel Florenskij, sacerdote ortodosso, fucilato nel 1937, sotto il regime comunista; suor Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, cattolica, uccisa ad Auschwitz nel 1942; Dietrich Bonhoeffer, pastore
protestante, coinvolto nel fallito attentato a Hitler e impiccato nel
1945” (p. 239). È da notare anche l’origine ebrea di Edith Stein.
Questa scelta multiconfessionale di testimoni/martiri in cui peraltro
non mancano aspetti problematici (mai occultati dall’autore), pur
aprendo la ricerca ad ulteriori approfondimenti, non indebolisce, anzi serve benissimo, l’illustrazione della tesi del rapporto del martirio
con una progressiva conformazione alla croce di Cristo nella sequela. Mette anche in rilievo un dato essenziale:
«l’unico martirio assolutamente «puro» è quello di Cristo e la partecipazione ad esso rimane sempre, quale accoglienza del dono divino
nella limitatezza della libertà umana, imperfetta e mette in rilievo ora
una ora l’altra delle sfaccettature di quel mistero a cui la testimonianza umana resta sempre radicalmente relativa» (p. 285).
Abbiamo già presentato sinteticamente il contenuto del quarto capitolo nella definizione del martirio proposta dall’autore, in cui ogni
elemento corrisponde ad una sezione del capitolo. Vorrei soltanto
sottolineare l’importanza della sezione sulla “coscienza «informata»
dalla croce” (p. 328-338), nella quale l’autore si dedica ad un audace
ripensamento della struttura ontologica della coscienza nella quale
essa appare “capax del mistero pasquale”. Così il dono totale non appare più come appartenente ad una spiritualità per i pochi, ma come
concernente fondamentalmente ogni uomo.
Nella conclusione, l’autore rivede l’autocomprensione della morale
cristiana, cercando di rispondere alla domanda: “quale volto assume
la riflessione morale se prende sul serio la testimonianza del martirio?” (p. 358). Dal punto di vista prospettico della croce gloriosa del
Signore, la morale non si pone “innanzi tutto dalla parte delle opere
dell’uomo, intendendole come prestazioni da poter realizzare autonomamente rispetto a Dio [...] ma piuttosto nella prospettiva del dono di Dio che nel Cristo elevato da terra attira ogni uomo a sé” (p.
REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI
335
358) non violentando la libertà dell’uomo bensì dinamizzandola. Si
tratta di una morale del maximum, ma che si distingue nettamente
dalla morale del superuomo, dal fatto che è radicata nel dono di Dio.
Descritta come filiale, pasquale, kenotica, epifanica, questa morale è
“radicata nella persona del Figlio unigenito, che chiama alla sequela
fiduciosa di lui e ad abbracciare con disponibilità massima il mistero
della croce, non per una effimera efficacia mondana, ma per mostrare nel tempo il volto glorioso dell’Eterno. Una tale morale non è per
fedeli «perfetti» o «puri»: è chiamata di tutti (...) perché l’appello del
Risorto (...) porta in evidenza precisamente «il senso più vero e più
profondo della vita: quello di essere un dono che si compie nel donarsi»
(cfr. Evangelium vitae 49)” (p. 364).
Ci sia consentito aggiungere un ultimo parere. Per la sua qualità
documentaria, scientifica e letteraria, per la sua originalità e il suo valore di stimolo per il rinnovamento della teologia morale, questo libro merita non solo di essere letto ma anche studiato. È da auspicare la sua traduzione in altre lingue.
JULES MIMEAULT, C.SS.R.
Book Presentation / Presentación del libro
Presentazione del libro
MICHAEL PATRICK CULLINAN
Victor Paul Furnish’s Theology of Ethics in Saint Paul.
An Ethic of Transforming Grace
EDACALF, Roma 2007, 406 p.
Relazione tenuta in occasione della presentazione
del terzo volume della collana Tesi Accademia Alfonsiana1
Prosper Grech, OSA
Comincio definendo il genere letterario di una presentazione del libro: non si tratta di fare una recensione (critica di un libro), non è neppure una difesa della tesi (dove il laureando espone il suo argomento,
cui seguono commenti e discussione). Questa presentazione è di altro
genere. Chi presenta un libro è come se avesse soltanto il compito del
“commesso viaggiatore”: deve convincere chi lo ascolta che vale la pena comprare questo libro, leggerlo bene e, magari, discuterlo.
L’importanza di questo libro
Comincio con una domanda: perché è importante questo libro?
Diciamo, per prima cosa, che il posto della Bibbia nella teologia mo-
1
La presentazione del libro ha avuto luogo nell’Aula Magna dell’Accademia
Alfonsiana a Roma, il 7 novembre 2007.
338
BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO
rale è molto discusso. La Pontificia Commissione Biblica, infatti, ha
appena completato la stesura di un documento – Bibbia e morale – che
speriamo verrà pubblicato verso Pasqua del 20082. Il Vaticano II aveva detto che la Sacra Scrittura è l’anima della teologia: anche della teologia morale, quindi, non soltanto della teologia dogmatica! Abbiamo quasi un parallelismo: nella dogmatica, dalla Sacra Scrittura si
passa alla filosofia e alla teologia; qui invece, parallelamente, abbiamo la Sacra Scrittura, l’etica e la teologia3.
Perché Michael P. Cullinan ha scelto Victor Paul Furnish come suo
autore? È un esercizio, in prima istanza, di interdisciplinarietà, ma anche di dialogo ecumenico, visto che si tratta di un cattolico che scrive
su un metodista4, stabilendo così un dialogo fra le due prospettive cristiane. Furnish, poi, non è un moralista. Egli è un biblista che, tuttavia, si è specializzato nella morale biblica. Il libro di Cullinan, dunque,
come primo rilievo, si presenta come un contributo alla teologia cattolica che studia la morale paolina in un autore protestante.
Lo studio è incentrato particolarmente su Paolo, dato che l’Apostolo delle genti è il primo a scrivere su questioni morali5. Qui sorge
2
La stessa Congregazione per la dottrina della fede elabora non pochi documenti che trattano di morale e anche lì le questioni non sono facili da affrontare, perché, particolarmente con il progresso della scienza, le cose cambiano quasi ogni giorno o, almeno, i problemi sorgono ogni giorno. Quali dunque sono i
principi morali stabili, sopra i quali noi possiamo appoggiarci? Questo era precisamente il tentativo della Commissione Biblica su questo argomento.
3 Conosciamo bene il cambiamento di metodo che è avvenuto nella teologia
morale dopo il Concilio Vaticano II. Io ho studiato con l’Aertnys, redentorista,
che mi ha insegnato che cosa devo pensare e cosa devo dire nel confessionale e
– se non altro – come comportarmi io stesso. Oggi escono molti manuali di teologia morale. Di solito però esce il primo volume, Teologia morale fondamentale,
ma non escono quasi mai il secondo e il terzo, cioè quelli della Morale speciale,
dato che tutti trovano una certa difficoltà nell’articolare le risposte ai problemi
più concreti della vita...
4 V. P. Furnish è un metodista statunitense, noto per i suoi preziosi contributi nel campo dell’esegesi e dell’etica paolina.
5 Paolo è il primo a scrivere su tutto, dato che non esistevano scritti neotestamentari prima di lui.
BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO
339
un problema: Paolo può dirsi un moralista? Certamente Paolo non
può essere definito “moralista sistematico”, come lo era sant’Alfonso.
Furnish, infatti, tratta la morale negli scritti paolini in termini della
risposta al kerygma proclamato da Paolo. Sulla stessa linea, già la predicazione di Gesù conteneva le parabole e gli insegnamenti che richiedevano una risposta al dono del Regno, così come il Decalogo
era stato formulato per qualificare la risposta di Israele al dono dell’Alleanza. Qui si vede come il kerygma e la morale si intrecciano e si
intersecano reciprocamente.
Il libro di cui stiamo parlando è un’ottima presentazione e un’analisi molto minuta delle opere di Furnish; entra proprio in ogni dettaglio. Contiene poi una nutrita discussione degli argomenti dalla visuale cattolica, potrei anche dire dalla visuale tomista (si vede che
Cullinan ha studiato anche all’Angelicum)6. In questo modo, egli media ai cattolici nuove piste di ricerca e a Furnish stesso, all’autore studiato, trasmette un punto di vista cattolico.
Alcuni punti salienti
Nel suo libro Cullinan presenta Furnish (una sufficiente biografia
fatta molto bene) e poi un elenco dei suoi scritti: Jesus according to
Paul, The Love Commandment in the New Testament, Moral Teaching of
Paul, Paul’s Exhortations, Theology and Ethics in Paul, The Pauline Letters. Queste sono le opere dal carattere morale. Furnish però ha fatto anche ottime opere di esegesi: come esempio si deve parlare del
6
Rev. Michael P. Cullinan, è nato nel 1957 a Torquay, nel sud-ovest dell’Inghilterra. Compiuti studi superiori in matematica a Oxford e a Cambridge,
è stato ricercatore e assistente presso l’università di Salford e quella di Dublino.
Nel 1988 ha iniziato la sua formazione al presbiterato ed è stato ordinato nel
1995 nella diocesi di Westminster. Dopo alcune esperienze pastorali ha intrapreso studi teologici a Roma, dapprima presso la Pontificia Università San Tommaso e quindi presso l’Accademia Alfonsiana, dove ha conseguito il dottorato
nel 2005, con una tesi diretta dal prof. Terence Kennedy CSsR. Il volume di cui
parliamo oggi rappresenta il frutto di questa ricerca dottorale.
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BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO
suo commentario alla II Corinzi nell’Anchor Bible e adesso ha finito
anche un lavoro sulla I Tessalonicesi. Non mi è possibile passare in
rassegna l’intero libro, prendo quindi soltanto quattro punti rilevanti della sua panoramica7: Paolo ha un’etica originale? Qual è la struttura dell’etica paolina? Quale è il rapporto tra Paolo i Sinottici? Come evolve il pensiero di Furnish nelle sue opere più recenti? A questi e altri quesiti Cullinan offre alcuni rilievi che vale la pena notare.
1. Paolo ha un’etica originale? A questa domanda era dedicata la
tesi stessa di Furnish. Alcuni studiosi affermano che Paolo non abbia
un’etica originale, sua propria. L’etica di Paolo sarebbe stata presa
dall’ellenismo, dall’Antico Testamento e dal giudaismo. In questa visione, egli non ha contribuito per niente o pochissimo alla morale.
Furnish non è d’accordo con questa ipotesi: anche se Paolo non ha
una morale sistematica, la dottrina che lo distingue è un’etica fondata su concetti escatologici e cristologici. Questi concetti producono
un’antropologia specifica, quella cristiana, su cui si fonda la morale
cristiana, diversa da quella ellenistica o giudaica.
C’è anche l’intreccio tra l’indicativo e l’imperativo. Abbiamo già
detto che la dottrina e la morale si intersecano nelle lettere paoline.
Questo riguarda anche gli elementi ellenistici, giudaici e cristiani.
Possiamo vedervi anche un riflesso dello stoicismo e una presenza
della teologia rabbinica. Paolo, tuttavia, è essenzialmente cristiano.
La sua è un’etica relazionale, non forense. Per Furnish, l’uomo prima
del peccato è sotto il dominio della carne e la legge è un agente del
peccato. Dopo la giustificazione, la grazia trasforma l’uomo e lo rende obbediente. Obbediente però a che cosa? Non alla legge, ai mandati o alla volontà di Dio, ma a Cristo nella fede. Naturalmente, qui
Furnish riecheggia le questioni delle opere buone in riferimento alla
fede, tipiche del protestantesimo.
7
Sono proprio quei quattro punti su cui poi Furnish stesso interviene nella
prefazione che, gentilmente, ha voluto fare al libro di Cullinan. Nel far questo,
egli si è forse trovato in qualche imbarazzo, cercando di anticipare alcune risposte, corrispondenti alla sua logica.
BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO
341
Cullinan critica alcuni punti della questione. Furnish, per esempio, sembra non includere nella sua visione alcun progresso morale.
In che senso, pertanto, si può affermare che la grazia “trasforma”?
Le opere buone, anche se non le consideriamo opere meritorie, in
realtà costituiscono l’evidenza di un progresso nella vita morale.
Furnish, però, parla poco di questo aspetto. Il nostro Autore, Cullinan, distingue anche il peccato dal peccare. In Furnish, il battesimo
è un affidarsi a Dio in Cristo, piuttosto che una resurrezione. Per
noi, cattolici, il battesimo è una vera resurrezione, nel senso sia ontologico sia morale, una relazione con Cristo o, meglio una relazione a Cristo. Per Furnish, invece, il battesimo non è questo tipo di
unione con Cristo.
2. La struttura dell’etica paolina. Positivamente parlando, questa
struttura si basa sulla teologia e sull’escatologia. L’uomo dell’era nuova dipende dalla potenza dello Spirito santo. Cristo e il suo amore sono paradigmatici per la vita dell’uomo nuovo. Si tratta così di un’etica interna piuttosto che esterna, ecclesiale piuttosto che individuale,
indefinita piuttosto che persuasiva8. Nel senso negativo invece –
sempre secondo Furnish –, nello strutturare l’etica, Paolo non è un
sistematico, non ha teorie, principi o norme, non è un volontarista.
Per lui, il ruolo della coscienza è quello che in certo modo sottolinea
l’opera dello Spirito santo. Bisognerebbe, naturalmente, definire meglio questa opera dello Spirito santo.
In questa dimensione pneumatologica, quindi, consisterebbe l’originalità dell’etica paolina, anche se si può trovare posto per qualche
considerazione di tipo legalista. La precettistica in Paolo – per Furnish – prende l’ultimo posto. Cullinan commenta che ciò pone il problema più generico della relazione tra esegesi, teologia e sistematizzazione in genere.
8
Riguardo a questo aspetto ecclesiale piuttosto che individuale, sembra che
Furnish l’abbia impostato così per i metodisti che rischiano di cadere nel soggettivismo: l’etica deve essere discussa e anche conformata e confermata in una
comunità. In un certo modo questo è un passo verso la prospettiva cattolica.
342
BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO
3. Paolo e i Sinottici. Gesù è il primo a mettere l’amore al centro
del suo insegnamento. Ciò si inserisce bene nella tradizione che Paolo ha ricevuto dalla Chiesa, in quanto i Vangeli ancora non erano stati scritti. In Paolo, però, come in Giovanni, la legge viene riassunta
nell’amore. Nei Sinottici, invece, abbiamo una diversa interpretazione di quest’amore: ciascun Sinottico lo presenta secondo il suo punto di vista. Paolo, dal canto suo, identifica l’amore con lo Spirito santo. Giacomo (che noi generalmente tendiamo a opporre alla linea
paolina) parla di una “legge regale” (Gc 2, 8). Si tratterebbe della stessa cosa in Paolo, quando l’Apostolo parla della legge interna: l’amore non è un principio base o di discernimento, ma una cura attiva del
prossimo. Questo non per affetto, ma semplicemente perché il prossimo esiste. Quindi, per oggi, troviamo qui un’apertura a tutte le fonti per la riflessione teologica, ma non un’etica fatta di regole9.
4. Altre opere tardive di V. P. Furnish. Qui offro soltanto un accenno: nelle sue opere tardive, Furnish tratta la differenza tra Paolo
e lo stoicismo (il che è molto interessante). In particolare, confronta
l’atteggiamento, anche del cristiano, verso l’autosufficienza, l’atteggiamento verso il mondo e l’atteggiamento verso la sofferenza.
Commenti di Cullinan
Come M. P. Cullinan commenta i contributi di Furnish? Quali
punti positivi e quali punti deboli trova nel suo Autore? Ho elencato
una serie di punti che passerò ora rapidamente in rassegna.
• La Legge. Prima di esprimere un giudizio prettamente negativo
sulla Legge – come fa in un certo modo Furnish – bisogna distinguere tra la legge morale e quella cerimoniale, come facevano
i Padri della Chiesa. Questo, in Furnish, sembra che non appaia
tanto bene. I Padri hanno sempre fatto la distinzione tra il Decalogo e le leggi cerimoniali. In realtà, in Paolo non è facile trova-
9
In questo modo di interpretare Paolo c’è un pericolo di soggettivismo.
BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO
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10
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re queste distinzioni: anch’egli osservava la legge cerimoniale fino all’ultimo punto e affermava che, in quanto alle leggi mosaiche, egli era stato irreprensibile. Cullinan commenta: perché non
parlare piuttosto della legge interna, come fa san Tommaso?
Il peccato. In Furnish il peccato è di natura relazionale piuttosto
che quella morale: il credente viene liberato dalla compulsione
al peccato. Così però si separa il teologico dall’etico. Nel cattolicesimo un peccatore può anche perdere la giustificazione, cioè
la grazia santificante, ma non la fede.
L’ecclesiologia. Per Furnish, la Chiesa è una comunione d’amore
e di discernimento nel dialogo (anche la Chiesa cattolica si autocomprende come un luogo di dialogo e di discernimento). Ad
un certo momento, però, credo che il Magistero debba poter dire “fin qua”, perché “questa è la dottrina della Chiesa...”.
La Scrittura e i precetti. I dieci comandamenti non sono “comandi”, perché per Furnish nessun codice scritto può definire o contenere la volontà di Dio per gli uomini, ma può solamente indicare le vie di Dio con gli uomini. Che cosa allora sono i “dieci
comandamenti”? Come si comprende l’obbedienza ad essi?
Alcuni punti particolari, come il divorzio e l’omosessualità. Per
Furnish, Paolo diminuisce i principi di Gesù, come fa per esempio sull’indissolubilità del matrimonio, anche se non è sempre
chiaro al riguardo. Parlando dell’omosessualità, Furnish afferma che Paolo segue qui i criteri dei suoi tempi (del mondo
ebraico). Sappiamo, infatti, che l’omosessualità nel mondo greco-romano era una cosa molto usuale, anche se ci sono autori
pagani che la condannano. Cullinan si chiede: perché non c’è
mai un appello alla natura in Furnish10?
L’amore di sé. Furnish ritiene che non si debba fondare l’amore
sull’amore di se stesso (quantitativamente), ma si deve distinguere tra un amore di se stesso corretto, se dobbiamo amare
Riguardo a questo la Commissione Teologica Internazionale sta esaminando la questione della legge naturale e spero che, in questa confusione che oggi c’è fra filosofia e antropologia, ci dia qualche linea di risposta.
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l’altro, come noi stessi, e quello sbagliato-egoistico. Se Gesù ci
dice di amare il prossimo «come se stessi», allora prima dobbiamo vedere come amiamo noi stessi, per avere almeno un criterio, e poi segue l’amore del prossimo.
Il problema, già menzionato, del progresso morale. Per Furnish,
a causa dell’attesa imminente della parousía, Paolo non lo prende in considerazione affatto. Ma allora – domanda Cullinan –
come si può valutare il peccato post-battesimale o i vizi?
La virtù. Furnish evita deliberatamente di fondare la sua etica
sulla virtù (aretè) come hanno fatto i contemporanei grecoromani di Paolo: neanche l’amore è una virtù. Ma il comandamento di amare – sorge la domanda – non configura così un’etica con base legalistica? Non dobbiamo identificare qui il comandamento di amare soltanto come una legge.
La sistematizzazione. Secondo Furnish non c’è alcuna sistematizzazione paolina della morale (e questo è tipicamente protestante). Furnish ammette, tuttavia, di fare teologia. Siccome però, la teologia e l’etica s’interpenetrano, qualche sistematizzazione, effettivamente, si potrebbe trovare anche in Paolo.
Il dialogo. Usando una terminologia odierna, la domanda è questa: un cristiano può dialogare con un mondo “laico”? Che cosa ha da offrire? Secondo Furnish – l’amore.
Un ultimo commento, sintetico, di valutazione positiva da parte di
Cullinan, lo si legge nel suo stesso libro, a pagina 341:
The importance of Furnish’s contribution appears as the issues raised
in this study are concentrated upon. He has shown Paul’s ethical originality and the link between ethics and theology in the apostle’s
preaching. He has shown us the apostle wrestling with ideas of nature, law, grace, freedom, conscience, love, and virtue, subjects that are
perennially part of moral discussion in the Church. Furnish has also
shown how fruitful scriptural exegesis can be for specific moral reflection. The Greeks may have been the first to ask most of the difficult moral questions, but Paul was the earliest Christian writer to do
moral theology, and Furnish has shown this very well.
BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO
345
Risposte di Furnish
V. P. Furnish aveva letto il manoscritto di Cullinan e, gentilmente, ha scritto la prefazione. In questo ha potuto rispondere ai commenti di Cullinan.
Quanto alla sistematizzazione – egli risponde nella prefazione –, dire che Paolo non ha un sistema, non significa che non si possa costruire una teologia morale. Di fatto, Furnish con la sua esegesi crede di contribuire alla teologia morale, quella che noi chiamiamo “sistematica”.
Quanto all’ecclesiologia, i testi paolini sono stati scritti per suscitare
una risposta da parte dei credenti. Essi non hanno un’autorità intrinseca, ma l’autorità viene dal testo in dialogo con l’accoglienza che riceve (questo gli fa evitare la questione del ruolo del Magistero). Quindi
bisogna distinguere in Paolo ciò che è kerygmatico da ciò che è legato
ai tempi suoi (in questa categoria Furnish annovera il giudizio di Paolo sull’omosessualità). Due criteri diventano operativi qui. Primo criterio: è valido ciò che proviene dall’amore e dalla grazia. Secondo criterio:
è valido ciò che è accettabile alla mentalità moderna. Vedo qui, però,
un riflesso della demitizzazione di Bultmann, secondo la quale il Nuovo Testamento fu scritto duemila anni fa in un altro mondo, in un’altra sfera di pensiero. La sfera di pensiero oggi è molto diversa e, quindi, per tradurre ermeneuticamente i concetti del Nuovo Testamento in
una teologia moderna, bisogna inglobarla, in un certo modo, nel pensiero moderno. Ma se dobbiamo inglobare una nostra teologia del
Nuovo Testamento nei problemi morali come vengono trattati oggi
nelle mani degli scienziati, finiremmo con poca teologia morale.
Furnish afferma, inoltre, che la legge non è solo negativa. La legge serve – secondo Paolo – per svelare il peccato: è uno strumento
nelle mani di Dio. Paolo in Romani 7 dice che essa è «santa, giusta e
buona», ma solo quando è interpretata bene e cioè quando la legge
viene rivelata in Cristo. Quanto al progresso morale, Furnish ammette che ci deve ancora pensare. Si vede che questo “dialogo interconfessionale” ha toccato, quindi, qualche problema da sviluppare
ancora. Quando Paolo parla del “costruire” (oikodomein) il corpo di
Cristo, egli parla – secondo Furnish – della crescita nella fede! Ci sa-
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BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO
rebbe quindi una crescita nella fede, nella speranza e nell’amore che
rendono più forte l’uomo, ma sempre nella grazia che conforma l’uomo a Cristo, morto e risorto, e con l’aiuto dello Spirito (non come
uno sforzo puramente umano – achievement).
Concludendo, mi auguro che questa mia presentazione schematica
abbia sintetizzato correttamente il contenuto del libro e stimolato il
vostro interesse, nonché la volontà di rivisitare le questioni della morale paolina sia quelle generali, sia quelle contenute in questo volume.
“Accanto al malato inguaribile e al morente:
orientamenti etici ed operativi”
Cronaca del congresso internazionale
della Pontificia Academia pro Vita
(Città del Vaticano, 25-26 febbraio 2008)
Giovanni Del Missier
In occasione della XIV assemblea generale della Pontificia Academia pro Vita, presso l’Aula Nuova del Sinodo nella Città del Vaticano, il 25 e 26 febbraio 2008 si è svolto l’annuale congresso internazionale dedicato al tema “Accanto al malato inguaribile e al morente:
orientamenti etici ed operativi”, tema di scottante attualità e di grande interesse per l’approccio interdisciplinare caratteristico della complessa riflessione bioetica di fine vita, svolto secondo un programma
organico e ampiamente articolato, con interventi di alto livello accademico. Nella sessione di apertura, dopo il saluto del Presidente
mons. Elio Sgreccia, il card. Javier Lozano Barragán, Presidente del
Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, ha tenuto la prolusione La vita, dono d’amore.
Nella stessa mattinata inaugurale, i congressisti sono stati ricevuti
in udienza dal Santo Padre nella Sala Clementina. Nel suo discorso,
oltre a ricordare che l’esperienza cristiana illumina della speranza
nella risurrezione il dramma della malattia e della morte, poiché «il
Signore della vita è presente accanto al malato come Colui che vive
e dona la vita» (cfr. Spe salvi, 27) e a «ribadire, ancora una volta, la
ferma e costante condanna etica di ogni forma di eutanasia diretta,
secondo il plurisecolare insegnamento della Chiesa», Benedetto XVI
ha sottolineato con forza la necessità di non abbandonare mai la persona sofferente. Infatti, pur nella distinzione dei propri ambiti, ma attraverso azioni coordinate e complementari, la comunità cristiana accanto ai parenti del malato, e la società con le sue istituzioni sanitarie e civili «sono tenute ad esprimere la solidarietà dell’amore, la salvaguardia e il rispetto della vita umana in ogni momento del suo svi-
348
GIOVANNI DEL MISSIER
luppo terreno, soprattutto quando essa patisce una condizione di malattia o è nella sua fase terminale». A tal fine non solo la scienza medica deve assicurare terapie e interventi adeguati, ispirati a oggettivi
criteri di proporzionalità, ma anche la società – autenticamente solidale e umanitaria – deve impegnarsi a sostenere le famiglie nell’impegnativa e logorante attività di assistenza. A tal proposito, Sua Santità ha avanzato la proposta che, come accade all’inizio della vita con
il congedo per maternità, analogamente possano esser accordati dei
periodi di sospensione dal lavoro a coloro che devono assistere malati gravi, insieme a iniziative di sostegno economico e assistenziale nel
caso di coloro che accudiscano in casa malati afflitti da patologie degenerative o bisognosi di assistenza speciale. Il rapporto con la sofferenza e con la persona segnata dalla malattia diviene così un “banco
di prova” dell’effettiva capacità dei singoli e della società nel suo insieme di esprimere concretamente compassione, giustizia, solidarietà, nobiltà d’animo e responsabilità nei confronti degli altri esseri
umani e della loro incommensurabile dignità (cfr. Spe salvi, 38).1
Nella successiva sessione di studio, J. B. Edart (Francia) professore di teologia biblica ha offerto un’ampia trattazione sul modo di
comprendere la malattia e la sofferenza nella Sacra Scrittura: l’Antico Testamento con l’irriducibile tensione tra il dono divino della vita, sovrabbondante benedizione, e il dramma umano del peccato e
della morte; il Nuovo Testamento con la radicale trasformazione
operata dalla passione, morte e risurrezione di Cristo che apre l’evento della morte personale – ineliminabile violenza portata alla natura umana – alla prospettiva dell’amore e all’abbandono fiducioso
nelle mani del Padre.
Il prof. J. Capizzi (USA) ha quindi approfondito il tema La secolarizzazione di fronte al dolore, alla sofferenza e alla morte, alla luce delle
riflessioni di C. Taylor,2 facendo intravedere come la Chiesa nel
1
BENEDETTO XVI, discorso Ai partecipanti all’assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita e al congresso internazionale “Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici ed operativi” (25 febbraio 2008).
2 C. TAYLOR, “Two theories of Modernity”, in Hastings Center Report 25
(1995) 24-33.
CONGRESSO INTERNAZIONALE DELLA PONTIFICIA ACADEMIA PRO VITA
349
mondo contemporaneo, persuaso dell’in-significanza della fede, possa invece svolgere un compito rilevante, seppur arduo, di ri-significazione della sofferenza alla luce della rivelazione cristiana, per permettere all’uomo di oggi di superare lo scandalo del dolore e il terrore della morte che di fatto alimentano la cultura contraria al rispetto della vita nel difficile processo del morire.
Il dr. Centeno Cortés ha presentato la relazione Gli sviluppi della
moderna medicina di sostegno vitale: conquiste e rischi del prof. G. Herranz (Spagna) impossibilitato ad intervenire. In essa venivano esaminate estesamente e con puntualità le reciproche relazioni, le differenze e le possibili problematiche sollevate dalla medicina palliativa
e dall’impiego delle terapie intensive, giungendo però alla conclusione che entrambe devono basarsi su una valutazione realistica della loro efficacia nel caso concreto e inserirsi in un approccio olistico, interdisciplinare, attento alla persona malata e ai suoi familiari, nel pieno rispetto della vita, senza dimenticare che al di là delle risorse mediche esistono dimensioni umane, esistenziali e spirituali che non
vanno mai disconosciute.
Su tali dimensioni si è soffermata la relazione Il bene della vita e della salute e il dovere di preservarli, nella quale il prof. J. Perez-Soba
(Spagna) ha presentato la malattia come occasione che sollecita a scoprire il significato della vita e il suo valore morale, a partire dallo
sconcerto, dalla paura e dalla coscienza della vulnerabilità radicale
che la perdita della salute suscita nella persona. Oltre il fatto biologico, la vita si manifesta come dono che interpella la libertà personale
a riconoscere in essa un senso cui acconsentire in modo incondizionato in termini di responsabilità e di relazioni interpersonali di prossimità e cura.
Inserita in tale quadro, la salute appare come un bene fondamentale, ma non assoluto; una «condizione dispositiva» in funzione del
bene integrale della persona, impostazione questa che contrasta e introduce ad una valutazione critica sia della definizione di salute come
“totale benessere” (OMS 1948), sia della razionalità sottesa al teleologismo, che si rivelano ultimamente insoddisfacenti nella riflessione
morale riguardante una medicina che voglia farsi carico del paziente
come un “tutto personale”.
350
GIOVANNI DEL MISSIER
Nella tradizione teologica cattolica l’attenzione alla soggettività
della persona malata si è espressa anche attraverso la distinzione tra
Mezzi ordinari e straordinari di conservazione della vita: l’insegnamento
della Tradizione morale. Sul tema la dr.ssa P. Taboada (Cile) ha offerto
una puntuale ed esauriente ricognizione storica del contenuto di questo locus morale classico, facendone risalire le origini ai grandi commentatori di San Tommaso d’Aquino, del XVI sec., provocati dai
progressi medico-chirurgici del Rinascimento a dare risposta alla
questione etica riguardante i limiti del dovere morale di conservare
la salute e la vita. Dopo aver individuato nella ragionevole speranza
di beneficio (spes salutis) e nell’incomodo fisico o morale per un individuo (quaedam impossibilitas) gli elementi portanti per discernere l’eventuale obbligo morale di usufruire di una risorsa medica, ha illustrato alcune modalità distorte di interpretare la dottrina tradizionale nell’ambito medico e bioetico contemporaneo. Al contrario, essa
trova la sua corretta comprensione e applicazione nel contesto di
un’antropologia personalista di impronta ontologico-sostanzialista.
Nella mattinata successiva, la seconda sessione del convegno si è
aperta con l’intervento del prof. J. Haas (USA) su Proporzionalità terapeutica e accanimento terapeutico nei documenti del Magistero che ha permesso di passare in rassegna gli interventi recenti del Magistero cattolico in tema di proporzionalità terapeutica, mettendo opportunamente in evidenza la relazione ancora non perfettamente chiarita tra le
coppie ordinario/straordinario e proporzionato/sproporzionato, unitamente alla compresenza di elementi oggettivi e soggettivi nella valutazione circostanziale dell’uso dei mezzi terapeutici. Soffermandosi,
poi, ad analizzare i pronunciamenti in tema di accanimento terapeutico è stata sottolineata la tensione oppositiva e paradossale tra i due termini dell’espressione, fatto che la rende difficilmente traducibile in altre lingue e che complica la sua comprensione in modo univoco.
Asse portante della riflessione sul tema introdotto dalle relazioni
precedenti è stato l’intervento del prof. M. Calipari (Italia), Il principio di adeguatezza etica nell’uso dei mezzi di conservazione della vita: tra
eccesso terapeutico e abbandono del paziente, che va senza dubbio evidenziato come il contributo di maggior spessore bioetico di tutto il congresso. Offrendo un’originale rivisitazione dei termini tradizionali
CONGRESSO INTERNAZIONALE DELLA PONTIFICIA ACADEMIA PRO VITA
351
della questione, si è proposto di valutare l’adeguatezza etica nell’uso
dei mezzi di conservazione della vita, considerando la proporzionalità
in termini di efficacia medica secondo parametri prevalentemente
oggettivi, e l’ordinarietà in termini di efficacia globale per la persona,
soppesando maggiormente i fattori soggettivi la cui elaborazione
compete necessariamente al paziente. In tal modo, vengono messi a
confronto i soggetti coinvolti nella relazione terapeutica, opportunamente valorizzata come alleanza interpersonale, in quanto l’apprezzamento del grado di obbligatorietà morale di una data risorsa medica (obbligatoria, facoltativa, illecita) scaturisce dal confronto dialogico tra le persone coinvolte: la scienza e la coscienza del medico poste
a servizio e a confronto con la sofferenza e il mondo valoriale del malato. Viene così chiarito il rapporto tra le categorie di ordinarietà e
proporzionalità, correlandole in uno schema coerente che si offre come una mappa concettuale per la valutazione etica nei casi clinici
concreti; valorizzando la giusta autonomia del paziente, insieme alla
competenza umana e professionale del medico.3
Un ulteriore contributo per la distinzione tra scelte morali giuste
e comportamenti eticamente riprovevoli nelle decisioni di fine vita, è
venuto dal prof. W. Sullivan (Canada) che nella sua relazione Differenza tra limitazione dell’impegno terapeutico ed eutanasia omissiva: il
ruolo dell’indicazione medica ha chiarito efficacemente l’utilità e i limiti di una corretta informazione medica volta a promuovere l’assunzione di decisioni responsabili. Essa costituisce una pre-condizione
indispensabile per elaborare un giudizio etico ragionevolmente fondato in merito ai mezzi di sostegno vitale, necessariamente contestualizzata nel rapporto terapeutico che per la sua natura dialogica richiede una opportuna distinzione e correlazione dei ruoli tra i diversi soggetti coinvolti.
Molto apprezzato sul piano dell’etica applicata è stato il successivo intervento del dr. T. H. R. de Jong (Olanda) su Interruzione volon-
3
Cfr. M. CALIPARI, Curarsi e farsi curare: tra abbandono del paziente e accanimento terapeutico. Etica dell’uso dei mezzi terapeutici e di sostegno vitale, San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI) 2006. Recensione in StMor 45 (2007) 421-425.
352
GIOVANNI DEL MISSIER
taria della vita dei neonati: il protocollo di Groningen in prospettiva nel
quale si è argomentata l’inutilità e l’insensatezza della soppressione
dei neonati affetti da gravi malformazioni congenite (p.es. spina bifida) come accaduto in Olanda, argomentando la scelta eutanasica sulla base di una manipolazione ideologica dell’informazione che tende
a presentare queste situazioni come completamente dominate da sofferenze intrattabili e perciò incompatibili con una qualità di vita autenticamente umana. Sulla base di una lunga esperienza personale,
della letteratura scientifica esistente e di studi appositi realizzati sul
campo, è stato messo in luce come il livello di sofferenza sia legato
alla situazione contingente della patologia e possa essere opportunamente trattato non solo a livello sintomatico, ma intervenendo chirurgicamente per ridurre la malformazione ed eliminare le cause del
dolore. Pertanto l’eutanasia neonatale appare priva di qualsivoglia
“indicazione” e mai giustificabile; al contrario, il personale sanitario
deve offrire la migliore assistenza per assicurare a questi piccoli pazienti aspettative di vita dignitosa, decisamente possibile grazie alle
risorse mediche oggi disponibili.
La successiva relazione del prof. R. Shaerer (Francia), Accompagnare la persona morente: una responsabilità da condividere ha approfondito il ruolo dei volontari nell’assistenza al malato terminale, collocandolo opportunamente all’interno di una rete articolata di rapporti con l’istituzione sanitaria, il paziente e i suoi familiari, gli altri volontari, l’équipe di cure palliative e la società intera. Il fulcro dell’accompagnamento è stato identificato nell’ascolto attivo offerto al morente nel processo di accompagnamento, finalizzato a spezzare il senso di solitudine e a ridurre l’angoscia legati alla malattia mortale, per
offrire la possibilità di intraprendere un proprio percorso personale
di ricerca di senso, reso più urgente dalla prospettiva della morte, e
per permettere di esprimere il proprio messaggio unico e irripetibile
in un contesto confidenziale di massima disponibilità.
Più descrittivo e complementare del precedente, l’intervento del
prof. Z. Zylicz (Polonia) che ha presentato l’evoluzione e le problematiche connesse a Cure palliative, hospices e assistenza, indispensabili
a tutelare la dignità del paziente inguaribile non solo come istituzioni organizzate, ma come realtà promotrici di una cultura di presa in
CONGRESSO INTERNAZIONALE DELLA PONTIFICIA ACADEMIA PRO VITA
353
carico totale e integrata delle persone che devono affrontare la morte propria o di una persona cara.
Il prof. R. Spaemann (Germania) ha inaugurato la III sessione del
congresso con una comunicazione su La “doppia normalità” della vita
umana, dichiaratamente orientata a chiarire la differenza tra l’omissione di cure straordinarie e l’eutanasia passiva, attraverso una complessa presentazione della categoria di “normalità”, intesa in senso
naturale e socio-culturale. Nonostante il tentativo di precisarne i
contenuti di fronte a possibili interpretazioni equivoche; di difenderla a fronte della critica di Habermas e di Apel; di metterla in relazione con «la struttura teleologica e normativa» della natura e la «metanorma della dignità umana», l’esito della proposta appare tutt’altro
che soddisfacente. Infatti, lo stesso autore è costretto ad ammettere
che «occorre definire nuovamente che cosa è normale» laddove la civiltà tecnico-scientifica abbia prodotto mutamenti così profondi da
stravolgere la concezione tradizionale di “normalità”! Ulteriore perplessità – che invita ad una decisa presa di distanza – nasce dalla constatazione che, attraverso la sua riflessione, Spaemann giunge a conclusioni in aperto contrasto con il recente Magistero cattolico in tema di alimentazione e idratazione artificiali, da lui presentate come
non rientranti nella normalità, mentre autorevoli interventi affermano che esse rappresentano «sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico» e, pertanto, sono da considerare «in linea di principio, (mezzo) ordinario e proporzionato, e come
tale moralmente obbligatorio».4
Almeno altrettanto problematico ci è parso il contributo di carattere giuridico del prof. W. Höfling (Germania) che recava come titolo la domanda Diritto a morire?, cui l’autore rispondeva affermativamente. Avendo eliminato troppo sbrigativamente ogni interrogati-
4
GIOVANNI PAOLO II, discorso Ai partecipanti al congresso internazionale su “I
trattamenti di sostegno vitale e lo stato vegetativo. Progressi scientifici e dilemmi etici”
(20 marzo 2004), n. 4. Cfr. anche CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA
FEDE, Risposte a quesiti della Conferenza Episcopale Statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali (1 agosto 2007), con la relativa Nota di commento.
354
GIOVANNI DEL MISSIER
vo, di fronte alla pretesa esistenza di un tale diritto non si sono estinte molte perplessità intellettuali e pratiche che sorgono di fronte ai
prevedibili rischi sociali che inevitabilmente ne conseguono. Troppo
debole ci è parsa la rassicurazione che «riconoscere questo diritto
non vuol dire svalorizzare o deregolamentare la protezione della vita», dal momento che lo stesso autore prospetta possibili pressioni
sociali favorevoli all’eutanasia sugli anziani e sugli ammalati. Inoltre,
quando malauguratamente si giungesse ad affermare un così conturbante (pseudo-)diritto, non è difficile immaginare l’insorgenza di
simmetrici doveri, questione inopportunamente non sviluppata nella
relazione.
L’ultimo intervento è stata un’ampia riflessione di alto spessore
filosofico e teologico ad opera di mons. E. Sgreccia (Italia) riguardante l’ardua questione de L’informazione al malato inguaribile. La
problematicità della comunicazione è stata contestualizzata nel più
ampio quadro culturale odierno, segnato dal rifiuto e dell’occultamento della morte. Tali caratteristiche della tarda modernità, rischiano di rendere difficile, se non impossibile, al malato inguaribile la ricerca del senso della propria esistenza esposta alla radicale fragilità e la condivisione delle paure e delle angosce che la prospettiva
della propria morte imminente comporta. Al fine di prevenire quella “congiura del silenzio” che spesso circonda il malato, anticipandone la morte nella paralisi delle relazioni (eutanasia sociale), il presidente della Pontificia Academia pro Vita ha ampiamente argomentato la necessità di soffermarsi sul «pensiero della morte vissuto in anticipo, [per] fare pace con la morte attraverso una coscienza matura
della sua connessione con la vita anteriore e, come sua sintesi, con la
vita eterna». A tal fine, «la grande “informazione” che deve illuminare e rafforzare le coscienze degli uomini è l’annunzio della Morte
e Resurrezione di Gesù che apre l’accesso alla vita piena dell’eternità». Solo in questa luce di speranza, la comunicazione della verità
(intesa come apertura individualizzata) non si riduce a impersonale
informazione medica, ma assume i tratti di un dialogo di accompagnamento professionale. In esso la consapevolezza graduale del proprio destino e la prossimità caritatevole di chi rimane accanto al morente fino alla fine permettono di affacciarsi in modo autenticamen-
CONGRESSO INTERNAZIONALE DELLA PONTIFICIA ACADEMIA PRO VITA
355
te umano sull’istante in cui il tempo e l’eternità misteriosamente si
incontrano.
A margine dell’evento qui presentato, va infine ricordata la presentazione del volume contenente gli atti del congresso dello scorso
anno dedicato a La coscienza cristiana a sostegno del diritto alla vita,5 cui
intendiamo dedicare un’ampia recensione nel prossimo numero di
questa rivista.
5
PONTIFICIA ACADEMIA PRO VITA, La coscienza cristiana a sostegno del diritto
alla vita, Atti della XIII Assemblea Generale, LEV, Città del Vaticano 2008.
“Quale contributo al bene comune?”
XLV Settimana Sociale dei cattolici italiani
(Pistoia-Pisa, 18-21 ottobre 2007)
Domenico Santangelo
1. Contestualizzazione e problematizzazione
La questione del bene comune è stata posta a tema dalla XLV Settimana Sociale dei cattolici italiani, tenutasi a Pistoia e Pisa negli
scorsi 18-21 ottobre 20071. Chi ha potuto parteciparvi forse già sapeva dal Documento preparatorio2 o dai Seminari preparatori3 / posteriori4 o da sue conoscenze in materia5 – ma ne ha avuto maggior-
1
È ormai prossima la divulgazione in libreria degli Atti, di cui esiste già la
disponibilità da parte dell’Editore, a cui rimandiamo: cfr. M. SIMONE (ed.), Bene comune oggi: un impegno che viene da lontano (Il), Atti della 45ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, EDB, Bologna 2008.
2 Cfr. COMITATO SCIENTIFICO E ORGANIZZATORE DELLE SETTIMANE SOCIALI DEI CATTOLICI ITALIANI, Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano.
Documento preparatorio, EDB, Bologna 2007.
3 Cfr. ID., Bene comune e Dottrina sociale della Chiesa in Italia. Dal Vaticano II a
Benedetto XVI, Atti del primo seminario preparatorio del Centenario delle Settimane Sociali, EDB, Bologna 2007.
4 Nella primavera del 2008 l’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro (che svolge il ruolo di supporto al Comitato Scientifico e Organizzatore
delle Settimane Sociali) si è fatto promotore di un’iniziativa che costituisce uno
strumento per rendere la Settimana Sociale un effettivo laboratorio di idee e di
prassi sul territorio delle diocesi italiane. A tale scopo ha proposto degli incontri suddivisi secondo tre grandi aree, Nord, Centro e Sud Italia, rivolti ai delegati diocesani e ai rappresentanti delle associazioni presenti alla Settimana di Pistoia-Pisa, nel corso dei quali è stato consegnato il Documento conclusivo della 45ª Settimana Sociale, che sintetizza e rilancia alle comunità locali il valore
della riflessione fatta in Toscana.
5 Meritano, tra gli altri, un apprezzato riconoscimento per l’attenzione data
ai temi della Settimana Sociale, sia in precedenza che a posteriori, le Riviste
358
DOMENICO SANTANGELO
mente coscienza – della complessità e profondità di aspetti che possono e devono essere inclusi in una riflessione attenta e onesta sul tema, se è vero che il bene comune già quaranta anni fa è stato inteso
dal Concilio Vaticano II come «l’insieme di quelle condizioni della
vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di
raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» (CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, n. 26; cfr. CDsC6, n.
164).
Basta rileggere i titoli, le relazioni presentate e gli interventi effettuati da parte dei partecipanti all’importante assise del centenario
per rendersi conto di ciò7 ed ovviamente ad esse rimandiamo, riprendendone alcuni passaggi nel corso di questa nota per poter consentire al lettore di farsi un’idea di quanto nelle due città toscane è
stato messo in cantiere8. Certo non sarebbero bastati due giorni intensi (venerdì e sabato, dal momento che il pomeriggio di giovedì è
stata una giornata celebrativa per l’importante anniversario e la do-
La Società, Dialoghi, Settimana, Aggiornamenti Sociali (di cui riportiamo in nota
qualche riferimento) e alcuni importanti contributi raccolti nel Dossier “Il nostro
Osservatorio e la Settimana sociale dei Cattolici” (del 17-10-2007) dall’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa e
disponibili sul sito internet www.vanthuanobservatory.org. Con un articolo su
Rivista di teologia morale (cfr. nota n. 8 di questo scritto) e ora qui su Studia Moralia crediamo di inserirci (speriamo) proficuamente in questa letteratura.
6 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della
Dottrina sociale della Chiesa (CDsC), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004.
7 Il testo completo di tutti gli interventi e le relazioni è disponibile sul sito
internet www.settimanesociali.it a cui rimandiamo per completezza. Riportiamo
qui il riferimento, senza riprenderlo ogni volta che ci riferiamo ad un passaggio
dei lavori.
8 In questa nota ci limitiamo a ripercorrere (secondo la nostra personale prospettiva) alcuni passaggi salienti degli interventi registrati alla Settimana Sociale, mentre ci permettiamo di rimandare al numero successivo di questa Rivista
per soffermarci in maniera più sistematica su almeno un aspetto di quanto lì
emerso. Intanto, per una riflessione approfondita su alcuni profili del dibattito,
cfr. D. SANTANGELO, “100 Anni delle Settimane sociali. Il bene comune oggi:
un impegno che viene da lontano”, in RTM 157 (2008) 105-112.
XLV SETTIMANA SOCIALE DEI CATTOLICI ITALIANI
359
menica mattina è stata dedicata alle conclusioni) a problematizzare le
questioni più emergenti e quelle anche ordinarie che potrebbero rientrare nell’ambito delle problematiche di cui si poteva e doveva
trattare. Ciascuno – secondo la sua personale consapevolezza di
identità e di ruolo occupato nella comunità civile e di fede – deve necessariamente riprendere, approfondire ed amplificare la questione
del bene comune nelle diverse realtà di vita in cui offre la sua quotidiana adesione e testimonianza al Vangelo del Signore Gesù, vero
bene comune e, al tempo stesso, fonte, criterio di discernimento e
meta di ogni bene che voglia dirsi ed essere autenticamente e adeguatamente ‘comune’. Questa necessità è resa più urgente dal fatto
che una ovvia accentuazione e problematizzazione nei giorni dell’assise è stata dedicata alla questione antropologica su cui in un certo
senso è già nota la posizione dei cattolici, mentre altri e importanti
aspetti più prettamente sociali (il tema del lavoro, della casa, della
convivenza con immigrati, delle povertà familiari e sociali, etc. – cf.
l’intervento del prof. Campanini e del dott. Rosati) avrebbero richiesto un’attenzione a cui per il limitato tempo a disposizione non
è stato possibile dedicare quello sforzo di attenzione cui la Dottrina
sociale della Chiesa (DsC) ha il diritto ed il dovere di concentrare le
sue forze ed energie9. Infatti, il rischio è che forse a non pochi partecipanti sarà potuto sembrare che l’importante occasione ha finito
per ribadire la posizione della Chiesa cattolica su temi già ampiamente dibattuti, mentre forse oltre ad un accenno o un rimando è
meritevole rivolgere alle ordinarie problematiche o a quelle nuove e
sempre vitali ed emergenti questioni sociali (di cui è intessuta la realtà quotidiana del nostro Paese) qualche elemento più concreto per la
valutazione etica degli ormai sempre più vasti ambiti e questioni del
vivere sociale, così da incentivarne poi una idonea spinta etica all’azione nel quotidiano.
9
Ci riferiamo a qualche voce critica (ad esempio, cfr. A. VALLE, “Fine di una
storia?” in Jesus 29 (2007) 12, 42-45) che, analizzando alcuni punti di vista, ha
rimarcato la carenza di confronto e la limitata significatività propositiva dell’evento che ha visto radunati insieme tanti cattolici italiani.
360
DOMENICO SANTANGELO
Chissà che forse non sarebbe l’occasione per riorganizzare (o almeno da rivedere parzialmente, aggiornandone la formula) la struttura delle future Settimane Sociali, partendo semmai (nel primo
giorno) da una presentazione (non ristretta solo a contributi di eminenti accademici anche in chiave risolutiva, e tra i quali sarebbe necessaria la presenza almeno di un teologo morale10 – purtroppo assente a Pistoia-Pisa) generale delle principali questioni sociali (come
ha cercato di fare il dott. Pezzotta nella giornata conclusiva) sul tappeto, per concentrarsi poi sul tema in dibattito nei suoi molteplici risvolti nel tentativo di offrirne una vera progettualità da laboratorio11.
Una preferenza in questo senso andrebbe a favore del metodo già noto ai cattolici del ‘vedere-giudicare-agire’, la cui positività è già ormai
sperimentata da tempo e forse più pragmatico e facile da comprendere e attualizzare, in particolare per i laici, a cui compete in prima
persona una problematizzazione del proprio vissuto di vita sociale12.
2. Il programma dei lavori
Oltre mille delegati affluiti da ogni angolo della penisola in rappresentanza di 160 diocesi, più tutte le associazioni e i movimenti ec10
Sul tema del bene comune, tra i più qualificati contributi, cfr. E. CHIA“Il bene comune”, in Il Regno 15 (2007) 497-504.
11 Lo stesso Presidente del Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali, mons. A. Miglio (vescovo di Ivrea), ha ribadito che gli sviluppi
futuri potrebbero essere quelli di un collegamento più organico con la pastorale decennale della Chiesa italiana, con i convegni nazionali – che in origine non
c’erano – e con il Progetto culturale della Chiesa italiana. C’è poi il raccordo
con il territorio, già realizzato con i Seminari preparatori e che andrebbe allargato sia prima che dopo lo svolgimento della Settimana, per renderlo più continuativo e fare delle Settimane Sociali un elemento qualificante di progettualità. Tutto ciò, tenendo conto delle nuove aggregazioni ecclesiali sorte negli ultimi decenni e negli ultimi anni, con le varie reti che si stanno consolidando (cfr.
http://www.agensir.it/pls/sir/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=2241 – consultato il 23 febbraio 2008).
12 In questo senso, cfr. S. ZANINELLI, “Le ‘Settimane sociali’: storia, significato, attualità”, in Dialoghi 7 (2007) 3, 6-11.
VACCI,
XLV SETTIMANA SOCIALE DEI CATTOLICI ITALIANI
361
clesiali, 65 tra arcivescovi e vescovi e ben 32 relatori, 30 parlamentari e 3 ministri, sono alcuni dei numeri significativi che danno la misura della linfa vitale che percorre il grande tronco del cattolicesimo
italiano presente all’evento (senza tener conto della presenza di alcune delegazioni straniere). Ecco in sintesi il programma, predisposto
ed articolato su due idee fondamentali costituite dalla memoria del
contributo dei cattolici e le nuove responsabilità che il futuro comporta, nella convinzione che il tema del bene comune ha una duplice
utilizzazione: è l’orizzonte verso cui indirizzare, in tutti gli ambiti
della vita sociale, ogni scelta ed ogni intervento, illuminato dall’agire
di Dio nella storia; ed è il valore universale capace di aprirci al dialogo con tutte le istanze culturali e vitali della nostra società13.
Il primo giorno, il 18 ottobre, a Pistoia i convegnisti sono giunti
nella giornata di giovedì per la prima sessione in cattedrale dove hanno assistito alla rilettura di un secolo di storia sociale, politica, spirituale, di carità affidata al prof. Andrea Riccardi, docente all’Università di Roma Tre, che ha saputo evidenziare gli snodi importanti che
hanno caratterizzato l’impegno dei cattolici nei cento anni trascorsi.
Venerdì 19 a Pisa, in mattinata al Centro congressi dell’Università degli studi si è tenuta la seconda sessione dei lavori, dedicata al tema “Il
bene comune nell’era della globalizzazione”: e, in particolare, la
proiezione di un video dedicato a Giuseppe Toniolo (ideatore e promotore insieme al card. Maffi, arcivescovo di Pisa, della I Settimana
Sociale14) e la relazione di Stefano Zamagni, ordinario di Economia
13
Su questi aspetti (per nulla scontati, anzi, sui quali si fa fatica a creare convergenza) nello specifico, cfr. COMITATO SCIENTIFICO E ORGANIZZATORE DELLE SETTIMANE SOCIALI DEI CATTOLICI ITALIANI, Il bene comune oggi.
14 Per comprendere quella I Settimana Sociale, cfr. P. BELLANDI, Alle origini
del Movimento Cattolico. Pistoia 1892-1904, Edizioni La Vita, Pistoia 20072. Le
Settimane Sociali dei cattolici italiani nascono nel 1907 per iniziativa di Giuseppe Toniolo. A lui dobbiamo una visione molto aperta, condivisa da papa Leone XIII, del laicato cattolico, che secondo lo studioso doveva superare il proprio
provincialismo, e dell’organizzazione economico-sociale. La prima Settimana
Sociale si tenne a Pistoia. In seguito, le Settimane si svolsero ogni anno fino alla
Prima guerra mondiale. I temi affrontati furono soprattutto il lavoro, la scuola,
362
DOMENICO SANTANGELO
politica all’Università di Bologna; nel primo pomeriggio, riflettori
puntati su “Stato, mercato e terzo settore”, con la relazione principale di Pierpaolo Donati, ordinario di Sociologia all’ateneo di Bologna.
Sabato 20, al Palazzo dei congressi i lavori sono iniziati con il ricordo
di Armida Barelli, protagonista del Movimento cattolico in Italia e
una relazione di Francesco D’Agostino, ordinario di Filosofia del diritto all’Università Tor Vergata di Roma su “Le prospettive della biopolitica”; e, nel pomeriggio, una relazione del Presidente dell’Azione
cattolica Luigi Alici sulla sfida educativa. Per ciascuna delle quattro
sessioni, oltre alla relazione centrale, si sono susseguiti quattro interventi programmati, a cui ha fatto seguito uno spazio per il dibattito.
Domenica 21, giorno di chiusura con la raccolta di elementi importanti per la conclusione dei lavori.
3. Elementi principali della discussione
3.1. Passato, presente e futuro:
3.1. qual’è il significato del bene comune?
Già da questa rapida presentazione introduttiva emerge la rilevanza delle questioni poste sul tappeto.
la condizione della donna, la famiglia. Dal 1927, un ruolo importante nell’organizzazione fu assunto dall’Università Cattolica. Poi nel 1935 arrivò la prima sospensione a causa degli attriti con il regime fascista. Ripresero nel 1945 con la
storica edizione in cui intervenne Giuseppe Dossetti per porre le basi al dibattito sulla Costituzione e sulle istituzioni democratiche. Le Settimane sociali continuarono fino al 1970, poi fu la volta di una seconda e lunga sospensione. A seguito delle sollecitazioni provenienti dal Convegno di Loreto del 1985 la ripresa
avvenne tre anni dopo, nel 1988, con una Nota pastorale della CEI. Così nel
1991 si tenne la Settimana sociale su “I cattolici italiani e la nuova giovinezza dell’Europa”; nel 1993 su “Identità nazionale, democrazia e bene comune”; nel 1999
su “Quale società civile per l’Italia di domani?”; e nel 2004 su “Democrazia: nuovi scenari, nuovi poteri”. Sul significato che hanno avuto e hanno le Settimane
Sociali, cfr. S. ZANINELLI, “Le ‘Settimane sociali”. In aggiunta, cfr. CEI, Nota pastorale Ripristino e rinnovamento delle settimane sociali dei cattolici italiani.
XLV SETTIMANA SOCIALE DEI CATTOLICI ITALIANI
363
Una per cominciare. L’occasione del centenario ci consente un rimando necessario alla storia.
Infatti, se la storia delle Settimane Sociali è stata tracciata attraverso le scelte di uomini e donne che hanno saputo dare risposte sociali e politiche alle esigenze del territorio senza mai chiudersi in esso, senza mai perdere la dimensione nazionale e internazionale dei
problemi e delle attese, una delle questioni centrali che ha attraversato i lavori delle giornate toscane è stata quella di sforzarsi (ai vari
livelli e secondo le proprie competenze) di rilanciare un profilo alto
della cultura politica da cui far discendere orientamenti credibili nella ricerca di modelli nuovi per la prassi politica. Si è ribadito così che
non è la politica ad avere bisogno dei cattolici ma i cattolici hanno bisogno della politica per rispondere alla loro vocazione: rispondere all’appello evangelico di stare con amore nella polis.
Infatti, c’è qualcosa che lega, attraverso un secolo di vita, le Settimane Sociali ed è l’impegno paziente di tessere una trama di amore
e responsabilità verso la società. «Il nostro incontro – ha detto mons.
Angelo Bagnasco – si rivela essere l’occasione per stare con fedeltà e
creatività dinanzi alle nuove sfide che si presentano». La 45ª edizione delle Settimane Sociali non si è limitata (a poco sarebbe servita) ad
un’autocelebrazione (per di più solo commemorativa), ma ha con una
certa significatività corrisposto al desiderio della Chiesa italiana di
continuare ad essere presenza qualificata ed attiva in sinergia con tutti quelli che lavorano per il bene della società.
E il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana ha indicato le
coordinate essenziali per costruire il bene comune. Se per tutti è
chiaro che «il bene comune non consiste nella semplice somma dei
beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro» (CDsC, n. 164) – e aggiungeremmo noi anche distribuirlo – si deve altresì ricordare che la Chiesa lo intende in
forma dinamica, come impegno da perseguire nelle mutate situazioni, oggi sempre più delicate e complesse.
Da dove partire? Mons. Bagnasco ha fatto riferimento, innanzitutto, alla persona: è la scelta forte della Chiesa italiana, che ha mes-
364
DOMENICO SANTANGELO
so al centro la ‘questione antropologica’, vale a dire l’uomo nella sua
integralità, primo tra i valori non negoziabili e tale non perché valore ‘cattolico’, ma perché dalla parte del bene comune. Si parte dalla
persona e si arriva alla società; non l’inverso. Se al primo posto ci fosse la società, taluni potrebbero essere ad essa sacrificati. Il pericolo
non è solo del passato, basti pensare al forte peso che oggi taluni
mezzi di informazione e comunicazione hanno nel creare una visione della realtà non sempre corretta, al punto da minare la stessa stabilità della convivenza umana. I problemi sociali si risolvono partendo dalla persona e dal suo autentico bene. Dire la persona non è una
questione per addetti ai lavori: è la lettura che ciascuno fa su se stesso per scoprirsi la creatura più alta tra tutte, unione singolare di spiritualità e corporeità, capace di conoscere e di compiere il bene, aperto alla Trascendenza.
Da qui scaturisce l’impegno per la promozione della persona, a
partire dalla salvaguardia dei diritti fondamentali. Benedetto XVI,
nel messaggio inviato per l’inizio dei lavori della 45ª Settimana Sociale, ha ricordato «particolarmente attuale è la questione antropologica, che abbraccia il rispetto della vita umana e l’attenzione da prestare alle esigenze della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo
e una donna (...) valori umani comuni da difendere e tutelare, come
la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato». Il significato della
persona e i valori umani costituiscono oggi un terreno di importante
confronto. I cattolici vi entrano con fiducia sapendo di avere una parola che, in fondo, risuona familiare per tutti, perché è espressione di
quello che è realmente dentro ciascuno; una parola che si fonda sull’esercizio della ragione, amica della fede, da quella tecnico-pratica a
quella che affronta il problema della verità, del vero e del bene. Questa proposta aiuta a comprendere che il bisogno di trovare un senso
alla propria vita non è soltanto qualcosa di soggettivo, ma può trovare risposta aprendosi alla realtà e acquistando la certezza che la realtà stessa ha oggettivamente un senso e un valore; in ultima analisi,
quel senso che si trova nel Dio che Gesù Cristo ci ha rivelato. Oggi
la Chiesa difende con forza il ruolo della ragione autentica, capace di
allargare gli spazi in cui taluni l’hanno troppo limitatamente ristretta, per mostrare che la dimensione spirituale non può essere estra-
XLV SETTIMANA SOCIALE DEI CATTOLICI ITALIANI
365
niata, pena amputare l’uomo e piegare la società alle ideologie del
momento15. La persona aperta al Trascendente è il fondamento del
vero bene comune.
3.2. Alcuni contenuti dalle relazioni centrali
Le sessioni centrali in cui si è articolata la Settimana Sociale, inoltre, hanno riproposto e declinato su problemi concreti i cinque ambiti attorno a cui si è articolato il Convegno di Verona16, con una particolare attenzione a temi come la cittadinanza, il lavoro, la famiglia
e l’educazione.
La questione antropologica è certamente il filo rosso che accomuna i cinque ambiti di Verona, e che anche a Pisa si è tradotto in
una convergenza di fondo sulla persona umana. L’enciclica Evangelium Vitae, ad esempio, fino a poco fa non era mai stata elencata tra
le encicliche sociali, e oggi è oggetto di una presa di coscienza emersa da tante voci. Questione antropologica e questione educativa
(prof. Alici), quindi, sono entrate a pieno titolo nelle problematiche
15
Cfr. BENEDETTO XVI, Discorso in occasione del IV Convegno Nazionale della
Chiesa Italiana, 19 ottobre 2006. È opportuno evidenziare che la 45a Settimana
Sociale rappresenta un passo in avanti del cammino postconciliare della Chiesa
italiana, nella nuova fase aperta dal Convegno ecclesiale di Verona. Lo “spirito
di Verona”, incoraggiato da Benedetto XVI, ne esce rafforzato e aiuta a superare le difficoltà tuttora esistenti sia nei rapporti interni della comunità cristiana,
sia in quelli con la società italiana. In questo senso, cfr. B. SORGE, “La Settimana Sociale e lo «spirito di Verona»”, in Aggiornamenti sociali 12 (2007) 737-742;
ID., “Per una nuova cultura politica. Una prospettiva alla luce del Magistero”,
in Ibid. 1 (2008) 10-21. A sua volta la Conferenza Episcopale Italiana, con la Nota pastorale del 29 giugno 2007, ha indicato le tre conclusioni principali del IV
Convegno ecclesiale, che traducono in pratica fedelmente lo “spirito di Verona”
e che si prestano ed evidenziare una proficua e densa sintonia con quanto emerso alla Settimana Sociale: il “grande ‘sì’ della fede”, la “carità culturale”, la “carità sociale e politica” (cfr. ID., “Chiesa italiana: una «nuova tappa»?”, in Ibid. 910 (2007) 569-574).
16 Cfr. www.convegnoverona.it; F. MAZZOCCHIO (ed.), Ripartire dalla città. La
politica luogo di profezia e speranza, Ave, Roma 2006.
366
DOMENICO SANTANGELO
sociali, con un forte appello sia al ruolo delle agenzie educative, prima di tutto la scuola, sia a quello delle associazioni educative, chiamate entrambe a dare sostegno e sostanza ai progetti dei giovani. Sul
piano dei contenuti, è emerso inoltre il ruolo della società civile
(prof. Donati), a cominciare dalla famiglia – come soggetto primario dell’educazione – chiamata ad educare le nuove generazioni ai
fondamenti del bene comune, come antidoto all’individualismo: in
questa prospettiva, una delle parole-chiave scaturite dalla Settimana
è la relazionalità, bene fondamentale della persona che non è di tipo
economico – ma ha un peso enorme anche nell’economia (prof. Zamagni) –, di cui soprattutto nell’attuale contesto globalizzato è necessario riscoprirne le categorie umane. Compreso ciò, emerge distintamente che proprio l’economia diventa disumana quando viene
meno al suo obiettivo primario – il ben-essere dell’uomo – e mira
esclusivamente al profitto. Da qui, molto opportunamente, il richiamo ad una dimensione etica che tenga conto della dignità e dei diritti della persona, di valori come la solidarietà, la fraternità, il rispetto dei lavoratori.
Altro ‘nuovo ingresso’ alle Settimane Sociali è stato quello della
biopolitica (prof. D. Agostino): un ambito molto applaudito dai presenti e carico di molti significati, che dice in primo luogo di un consenso alla difesa della vita in tutte le sue manifestazioni. I relatori della sessione in questione, in particolare, sono stati di pregevole aiuto
nel riflettere sull’invasività della biopolitica (“politica della vita”): un
ambito, questo, che va ridimensionato, soprattutto per scongiurare il
rischio dell’invasività dello Stato e delle leggi sullo spazio della vita
privata delle persone. In questo senso, il contributo dei cattolici può
andare nella direzione di promuovere e tutelare la rivendicazione
della libertà della coscienza, che non nega lo spazio pubblico che ormai hanno acquisito le questioni legate alla bioetica, ma ne chiede
una regolamentazione giuridica non invasiva.
3.3. Alcuni contenuti dalle altre relazioni
Nell’atmosfera culturale attualmente dominante, la crescita e
l’ampliamento dei diritti soggettivi può comportare una degenera-
XLV SETTIMANA SOCIALE DEI CATTOLICI ITALIANI
367
zione del concetto di biopolitica, col rischio di svuotare dall’interno
l’idea ed il ruolo stesso del diritto, ed il suo legame col bene comune. A sostenere ciò è Laura Palazzani, ordinario di Filosofia del diritto alla Lumsa di Roma, che a Pisa si è soffermata sulle “gender theories” (“teorie di genere”), molto diffuse soprattutto in America, alla
cui base si trova l’idea che l’identità sessuale, maschile o femminile,
sia una scelta di autodeterminazione dell’individuo. Uno degli obiettivi concreti che si realizza procedendo in tal modo è quello di giungere alla legittimazione delle coppie omosessuali: tutto è deciso dalla limitata e troppo narcisistica scelta che ciascuno può fare sul tipo
di rapporto che può avere e volere con l’altro, indipendentemente dal
sesso di appartenenza; a ciò si aggiunge – come già avviene in vari
contesti nazionali – la possibilità loro riconosciuta di avere figli, da
adottare o da ottenere con l’ausilio di tecniche riproduttive.
«Oggi la questione educativa è diventata pressante, anche se nei
fatti resta marginale». Così avverte Luisa Ribalzi, docente di Sociologia dell’educazione all’Università di Genova, secondo la quale parlare
di crisi della scuola è un modo per tratteggiare una cartina al tornasole delle difficoltà presenti nella società, sintetizzabili nell’amara illusione che la scuola possa essere neutrale e nella diffusa tendenza a
mettere da parte un sistema educativo basato su valori coerenti e condivisi a favore di una “filosofia della neutralità”. Da qui nasce un ‘gioco al ribasso’ in termini educativi, al punto da soffermarsi solo su un’educazione di basso profilo perché la sola a non generare conflitti.
Al contrario, invece, la parola chiave della tradizione cattolica in
campo educativo è ‘servizio’, inteso come progetto formativo forte al
servizio del bene comune.
La stabilità di una società non dipende solamente dall’onestà della classe dirigente, dalla capacità di emanare giuste leggi e, quindi, dal
buon funzionamento delle istituzioni, ma molto dipende dalle virtù
civiche dei cittadini: è il pensiero di fondo dell’intervento di Giorgio
Chiosso, ordinario di Storia della pedagogia all’Università di Torino,
a parere del quale non è sufficiente individuare un nucleo di valori
condivisi a livello di cittadinanza o di comportamenti virtuosi in campo etico se poi non si riesce a praticarli. Ciò che occorre, secondo il
relatore, sono i cosiddetti cittadini “di carattere” in grado di sostene-
368
DOMENICO SANTANGELO
re i giovani a farsi una ragione del loro vivere nel mondo e del correlativo senso della vita sociale da perseguire con determinazione.
Oggi il mercato e i connessi obiettivi ed interessi dell’economia e
della finanza sembrano essere divenuti strumenti “fuori controllo”;
non solo, ma addirittura essi stessi sono diventati strumenti, finalità
ed obiettivi della politica, anziché essere la politica ad usare questi
strumenti per conseguire il bene comune: lo sostiene Sergio Marelli,
Direttore generale della Focsiv, per il quale è da favorire l’attuazione
del principio di sussidiarietà, mentre a livello internazionale l’economia è ancora fortemente non equilibrata, giacché produce gravi disuguaglianze a livello planetario.
L’economia moderna e contemporanea ha sviluppato un’idea di
bene comune che nasce dalla “mutua indifferenza”: è il concetto che
Luigino Bruni, docente di Economia politica all’Università MilanoBicocca, pone come presupposto del suo intervento, nel corso del
quale afferma che se la moderna teoria economia tende ad affermare
che ognuno fa il suo interesse – cercando di interagire il meno possibile con l’altro – così che questi interessi individuali diventano il bene
comune, questa visione non può essere sostenuta dai cattolici perché
nasce da una antropologia che non è cristiana, ed indica tre esempi di
«economia diversa, orientata al prendersi cura»: la micro-finanza e finanza etica, l’economia di comunione, il commercio equo e solidale.
Per Giovanna Rossi, docente di Sociologia della famiglia all’Università Cattolica di Milano, il “capitale sociale” costituisce il criterio
con cui analizzare tre ambiti: il volontariato, l’associazionismo familiare e le cosiddette “federazioni multilevel”, cioè quelle realtà complesse al cui interno ci sono varie tipologie a più livelli di organizzazioni connesse al volontariato organizzato. Proprio questo criterio
rappresenta il fattore unificante di tutti quei soggetti rientranti nel
‘terzo settore’ – una forma privilegiata di privato sociale nella produzione del bene comune – e le cui caratteristiche sono identificate attraverso: la fiducia, un approccio relazionale di rete, la cooperatività
e la reciprocità.
Infine, a tracciare un primo bilancio della 45ª edizione della Settimana Sociale è Giuseppe Dalla Torre, Rettore della Lumsa – a cui è
affidato l’incarico di delineare le Conclusioni dei lavori – secondo il
XLV SETTIMANA SOCIALE DEI CATTOLICI ITALIANI
369
quale dalla Settimana è emersa soprattutto la complessità della realtà
contemporanea, che va riconcettualizzata e ritradotta in prospettive
concrete di bene comune. In primo luogo, per il Vicepresidente del
Comitato Scientifico e Organizzatore, il principio del bene comune
abbisogna di un nuovo approfondimento e soprattutto di una attualizzazione che lo calino in una progettualità fatta di proposte concrete nei singoli ambiti più fortemente marcati dalla modernità che
avanza. In secondo luogo, tra le prospettive di impegno, Dalla Torre
ha citato la necessità: di creare reti tra la molteplicità ricca di esperienze di vario tipo che caratterizzano il cattolicesimo italiano, di favorire la nascita e la crescita di luoghi di incontro e di riflessione che
possono giovare all’impegno nel sociale e nel politico e di sviluppare
tutte le potenzialità della nostra Carta costituzionale, in particolare
quelle contenute nella riforma del titolo V, rimaste per lo più una
bella promessa.
Conclusione
Uniamo risonanze personali dello scrivente a osservazioni già e
più ampiamente condivise.
È importante ribadire cosa è, e cosa è chiamata ad essere una Settimana Sociale: un osservatorio privilegiato del cattolicesimo presente e vivo in ogni popolo in modo da dare l’opportunità ai cattolici di
confrontarsi tra di loro per comprendere e valutare insieme dove passi, nell’ambito della nostra società contemporanea, il bene comune e
per delineare prospettive concrete nei singoli e specifici ambiti in cui
si sviluppa la vita della medesima. Le Settimane Sociali sono uno strumento sorto all’inizio del secolo scorso per promuovere e partecipare
l’elaborazione culturale dei cattolici su temi di rilevanza pubblica. Loro ispirazione costante è stata la DsC, con i suoi princìpi di fondo da
incarnare nella diversità dei contesti. Ne è nata così una lunga e feconda tradizione che ha visto i cattolici porre attenzione e farsi carico: della trasformazione della società; dei processi e dei meccanismi in
atto; del significato e dei fattori dello sviluppo; di un’etica sollecita del
bene comune; di un’autentica partecipazione democratica.
370
DOMENICO SANTANGELO
All’inizio del ventunesimo secolo, nuovi problemi e nuove sfide ci
interpellano.
Non mancano attese e speranze, ma lo scenario è carico di tensioni e contraddizioni sul piano economico, culturale, politico, tecnologico, più ampiamente sociale, ma di quella socialità che è già intrinseca alla più profonda vocazione antropologica iscritta nella vita di
ogni uomo; senza dimenticare – almeno riferendoci al contesto italiano – al tempo stesso la diaspora dei cattolici impegnati nei diversi
partiti di ispirazione cristiana, o vicini ad essa. Nell’attuale crisi culturale delle ideologie di qualsiasi ispirazione, il bisogno di una seria
formazione etico-politica ripropone nelle odierne trasformazioni socio-culturali la priorità di un’intelligente formazione della coscienza
morale personale e sociale in costante confronto con la Parola di Dio,
la Tradizione ed il Magistero della Chiesa. In questo modo si può, allora, sempre più e meglio aiutare a riconoscere gli apporti sostanziali, diretti e indiretti, che il cattolicesimo italiano ha dato, dà e può dare, sia a livello di valori e norme, sia a livello di rinnovamento delle
istituzioni culturali, sociali, economiche, politiche, sia ancora a livello di creazione di nuove istituzioni, organizzazioni, iniziative, per rafforzare una democrazia basata sulla dignità (non qualsiasi, ma quella
vera, ‘trascendente’) della persona umana e sul perseguimento dell’autentico bene comune17.
È l’impegno forse più complesso e delicato, ma sicuramente anche
costruttivo e appassionante, a cui questa 45ª Settimana Sociale (e le
successive che ne raccoglieranno l’eredità) si è dedicata svolgendo il
ruolo sicuramente appropriato di configurarsi come un’importante
occasione di dibattito e di elaborazione di pertinenti linee di azione
17
È quanto mai opportuno ricordare che «il compito immediato di operare
per un giusto ordine nella società è invece proprio dei fedeli laici. Come cittadini dello Stato, essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica. Non possono pertanto abdicare “alla molteplice e svariata azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune”» (BENEDETTO XVI, Deus caritas est, n. 29, dove si riprende un passaggio di GIOVANNI PAOLO II, Christifideles
laici, n. 42).
XLV SETTIMANA SOCIALE DEI CATTOLICI ITALIANI
371
che incoraggino e promuovano uno sviluppo giusto, armonico e solidale della società, nella matura convinzione che il bene comune –
come valore non del tempo passato, né superato o adatto ad altri contesti – «non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale», ma può ben «essere inteso come la
dimensione sociale e comunitaria del bene morale» (CDsC, n. 164).
Così inteso, il bene comune – al cui servizio i cattolici hanno sempre
prestato la loro opera ben al di là degli ultimi cento anni, anzi, viene
da molto più lontano di quanto il Documento preparatorio fa emergere – ha ancora tutto un potenziale da sviscerare e far fruttificare
nella nostra storia, affidato alla testimonianza generosa ed operosa di
ciascuno e di tutti gli uomini che possono rintracciare nella DsC
«un’indicazione fondamentale, che propone orientamenti validi ben
al di là dei confini di essa: questi orientamenti – di fronte al progredire dello sviluppo – devono essere affrontati nel dialogo con tutti coloro che si preoccupano seriamente dell’uomo e del suo mondo»
(BENEDETTO XVI, Deus caritas est, n. 27).
Books Received / Libros recibidos
Libri ricevuti
AUTPERTO AMBROGIO, La purificazione di Maria. Traduzione e commento a cura di Massimo Bini, Aleph Edizioni, San Donato a Livizzano 2008, 142 p.
BARRERA RODRÍGUEZ, IGNACIO, Relación vida teologal-realidades terrenas en el Concilio Vaticano II (Thesis ad Doctoratum in Sacra Theologia partim edita, Pontificia Universitas Sanctae Crucis, Facultas
Theologiae), Romae 2007, 198 p.
BAUMANN DIETER, Militärethik. Theologische, menschenrechtliche und
militärwissenschaftliche Perspektiven, Verlag W. Kohlhammer 2007,
620 p.
BUCCI ROBERTO (a cura di), Manuale di medical humanities, Zadigroma editore, Roma 2006, 320 p.
BUSTAMANTE ORLANDO A., La prática de la dirección espiritual en la vida y enseñanzas de San Francisco de Sales, Fundación Jesús de la Misericordia, Quito-Ecuador 2007, 398 p.
CATALDO ZUCCARO, Roccia o farfalla? La coscienza morale cristiana,
Editrice AVE, Roma 2007, 126 p.
CRAIG STEVEN TITUS, Resilience and the virtue of fortitude. Aquinas in
dialogue with the psychosocial Sciences, The Catholic University of America Press, Washington, D.C. 2006, 411 p.
ĎAČOK JÁN, La postmodernità nel dibattito bioetico. Il caso delle questioni
di fine vita, Dobrá kniha, Trnava 2007, 284 p.
DE CONDREN CHARLES, L’idea del sacerdozio e del sacrificio di Gesù Cristo (a cura di Carlo Nardi), Aleph Edizioni, San Donato a Livizzano
2006, 157 p.
374
BOOKS RECEIVED / LIBROS RECIBIDOS / LIBRI RICEVUTI
DOS SANTOS PERI MESQUIDA MARIA DO SOCORRO, As Matilhas de
Hobbes. O modelo da pedagogia por competência, Universidade Metodista
de São Paulo, São Bernardo do Campo 2007, 134 p.
FORTUNA AGNESE MARIA, Il contagio del male. Un commentario a
The Addiction di Abel Ferrara, Aleph Edizioni, San Donato a Livizzano 2006, 157 p.
FRATI ALESSANDRO, Pubblicità e valori etici, Pubblicazioni dell’Istituto
di Studi Bioetici “Salvatore Privitera”, Bagheria (PA) 2008, p. 248.
GARRAPUCHO FERNANDO RODRÍGUEZ (ed.), La Iglesia local: hogar de
comunión y misión, Publicaciones Universidad Pontificia de Salamanca, Biblioteca Salmanticensis. Estudios 293, Salamanca 2006, 272 p.
GILBERT PAUL (a cura), Passione, indagini filosofiche tra ontologia e violenza, Cittadella Editrice, Assisi 2007, 288 p.
QUINTIN CALVO CUBILLO, Para comprender el placer en la ética cristiana, Editorial Verbo Divino, Estella (Navarra) 2008, 280 p.
PLACIDO SGROI (a cura), Fondamenti biblici dell’etica cristiana. Prospettive ecumeniche, Quaderni di Studi Ecumenici, n. 16, I.S.E. “San Bernardino”, Venezia 2007, 223 p.
PLACIDO SGROI E ROBERTO GIRALDO (a cura), Ecumenismo come conversione. Omaggio a Tecle Vetrali, Quaderni di Studi Ecumenici, n. 15
(numero speciale), I.S.E. “San Bernardino”, Venezia 2007, 493 p.
Religion und Gesellschaft, Theologische Berichte 30. Herausgegeben
im Auftrag der Theologischen Hochschule Chur von Michael Durst
und Theologischen Fakultät der Universität Luzern von Hans J.
Münk, Paulusverlag, Freiburg Schweiz 2007, 320 p.
SILVESTRINI EMILIO, L’embrione umano in gravidanza ectopica con particolare attenzione a quella tubarica: aspetti antropologico-teologici e biologico-etici, Ancora, Milano 2007, 766 p.
Sintesi della morale cattolica. Domande e risposte (a cura della Redazione
delle ESD), Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2006, 119 p.
BOOKS RECEIVED / LIBROS RECIBIDOS / LIBRI RICEVUTI
375
SUÁREZ RICONDO, IGNACIO MARÍA, Discusión teológica sobre los ángeles
y los demonios en el siglo XX, (Thesis ad Doctoratum in Sacra Theologia partim edita, Pontificia Universitas Sanctae Crucis, Facultas
Theologiae), Romae 2007, 448 p.
YUNG PARK, IRENE, Secularización, autonomía y secularidad en el pensamento de Romano Guardini y de Henri de Lubac, (Thesis ad Doctoratum
in Sacra Theologia partim edita, Pontificia Universitas Sanctae Crucis, Facultas Theologiae), Romae 2007, 440 p.
The Person and the Polis. Faith and Values within the Secular State (Edited by Craig Steven Titus), Arlington, Virginia 2006, 187 p.
TUROLDO FABRIZIO (a cura), La globalizzazione della bioetica. Un commento alla Dichiarazione Universale sulla Bioetica e i Diritti Umani dell’UNESCO, Gregoriana Libreria Editrice, Padova 2007, 302 p.
VEZZOSI GIOVANNI, Edificare il corpo di Cristo. Per una visione teologico-spirituale in Giorgio La Pira, Aleph Edizioni, San Donato a Livizzano 2007, 118 p.
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