l`uomo senza qualità

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PaRte i
una specie di introduzione
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Un capitolo dal quale
significativamente non si ricava nulla
sull’atlantico gravava un’area di bassa pressione che, muovendosi
verso oriente incontro a quella di alta pressione dislocata sulla Russia, non manifestava ancora alcuna tendenza a spostarsi verso nord
per scansarla. Le isotere e le isoterme facevano il loro dovere. La temperatura dell’aria era nella norma rispetto alla temperatura media annua, rispetto a quella del mese più freddo come a quella del mese più
caldo e all’oscillazione mensile aperiodica della temperatura. il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi lunari, quelle di Venere, dell’anello di saturno e molti altri importanti fenomeni rispettavano le previsioni degli annuari di astronomia. nell’aria il vapor
acqueo possedeva la massima elasticità e l’umidità era scarsa. ovvero, con un’espressione che, quantunque un po’ fuori moda, caratterizza benissimo questo insieme di fatti: era una bella giornata d’agosto dell’anno 1913.
Le automobili sfrecciavano da viuzze strette e incassate nelle distese
di piazze piene di luce. Le macchie scure dei pedoni formavano cordoni sfrangiati. Dove linee di velocità più intensa ne intersecavano la
corsa disordinata, quei cordoni si ispessivano, scorrevano più rapidamente e infine, dopo poche oscillazioni, riacquistavano il loro ritmo
regolare. Centinaia di suoni si intrecciavano in un assordante groviglio di fili metallici, dal quale sporgevano ora qua ora là delle punte,
si delineavano, per smussarsi subito dopo, degli spigoli taglienti e limpide note si staccavano come schegge volandosene via. Da quel frastuono, la cui particolarità è tuttavia indescrivibile, una persona che
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pur fosse stata assente per anni, avrebbe capito a occhi chiusi di trovarsi nella capitale dell’impero e residenza della Corte, a Vienna. Le
città sono riconoscibili al passo, come gli uomini. se avesse aperto gli
occhi, quella persona sarebbe giunta alla stessa conclusione, ricavandola molto prima dal ritmo del traffico stradale che non da qualche
dettaglio caratteristico. e quand’anche si fosse ingannata, poco male.
sopravvalutare la questione del dove ci si trova, è retaggio dell’epoca in cui l’individuo era membro di un’orda e doveva tenere a mente
dov’erano i pascoli. sarebbe interessante scoprire perché, nel caso di
un naso rosso, ci si accontenta di sostenere molto approssimativamente che è rosso e non si indaga mai di quale particolare rosso sia, benché lo si possa esprimere esattamente, al micromillimetro, mediante
la lunghezza d’onda; mentre per una questione molto più complessa,
come quella della città in cui si soggiorna, si vorrebbe sapere sempre
con la massima esattezza di quale particolare città si tratta. È una consuetudine che distrae dall’essenziale.
non attribuiremo dunque una particolare importanza al nome della
città.1 Come tutte le grandi città, era un insieme di cose e di circostanze
irregolari, mutevoli, che scorrevano, non tenevano il passo, si scontravano, inframmezzate da abissali momenti di calma; era fatta di corsie e
di spazi liberi, percorsa da un pulsare ritmico, intenso, e dall’eterno disaccordo e sfasamento di tutti i ritmi: nel complesso assomigliava a una
vescica, messa a bollire in un recipiente fatto del materiale duraturo delle
case, delle leggi, dei regolamenti e delle tradizioni storiche. Le due persone che in questa città stavano percorrendo una strada larga e animata2
non avevano naturalmente tale impressione. si vedeva che appartenevano a una classe sociale privilegiata, erano raffinate nell’abbigliamento, nel contegno e nel modo di conversare; portavano le iniziali del loro
nome significativamente ricamate sulla biancheria, e in modo analogo,
ossia senza lasciarlo trapelare all’esterno, nell’elegante biancheria della
coscienza; sapevano chi erano e che in una capitale e residenza di Corte si trovavano nel posto adatto a loro. supponendo che si chiamassero
arnheim ed ermelinda tuzzi, supposizione errata d’altronde, giacché
ad agosto la signora tuzzi soggiornava a Bad aussee3 in compagnia del
marito e il dottor arnheim ancora a Costantinopoli, resta dunque da in-
1
non a caso il nome Vienna compare molto di rado nel romanzo; musil preferisce impiegare
perifrasi quali: «la città imperiale», «la residenza della Corte», oppure riferimenti ancora più
vaghi: «laggiù», «a casa», «dove abitava», e così via.
2 si tratta con molta verosimiglianza della Kärntnerstraße, una delle strade più eleganti di Vienna.
3 Bad aussee nel salzkammergut era ed è tuttora una rinomata località termale austriaca.
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dovinare chi fossero veramente. Le persone ricche di immaginazione,
quando sono per strada, si pongono molto spesso simili quesiti e curiosamente li risolvono dimenticandoli, a meno che, nel corso dei successivi cinquanta passi, non ci si ricordi chi siano i passanti oggetto del
quesito. ma ecco quella coppia fermarsi all’improvviso, avendo scorto
davanti a sé un assembramento. appena un attimo prima qualcosa era
balzato fuori dalla propria corsia con una brusca sterzata e aveva girato
su se stesso, finendo per mettersi di traverso: era un pesante autocarro
che, dopo aver frenato di colpo – ora si riusciva a vederlo –, se ne stava lì bloccato con una ruota sul marciapiede. Come api intorno al buco
dell’alveare, la gente s’era raccolta in un battibaleno, a capannello, intorno a un piccolo spazio che aveva lasciato vuoto nel mezzo. il guidatore,
sceso dal veicolo, stava lì grigio come carta da pacchi e, con gesti rozzi, descriveva l’incidente. Gli sguardi di chi sopraggiungeva si posavano su di lui e poi si abbassavano cauti verso il fondo del buco, dove un
uomo che pareva morto era stato adagiato contro il bordo del marciapiede. aveva subito quell’incidente per la propria sbadataggine, come
fu riconosciuto da tutti. a turno la gente gli si inginocchiava accanto,
per prestargli aiuto: gli sbottonarono la giacca e poi gliela riabbottonarono, tentarono di farlo alzare e poi lo distesero di nuovo. in realtà nessuno voleva far altro se non occupare il tempo in attesa che, con il pronto soccorso, arrivasse un’assistenza efficace e autorizzata.
anche la signora e il suo accompagnatore si erano avvicinati e, al
di sopra delle teste e delle schiene piegate, avevano osservato l’uomo
steso a terra. Poi si tirarono indietro, esitanti. La signora provava una
spiacevole sensazione nella zona cardio-epigastrica, e a buon diritto la
ritenne compassione; era un sentimento indeciso, paralizzante. Dopo
qualche attimo di silenzio, il signore le disse: «in tutti gli autocarri pesanti che circolano qui il freno ha una corsa troppo lunga». La signora ne provò una sensazione di sollievo e ringraziò con uno sguardo
gentile. aveva già sentito parecchie volte quel termine, ma non sapeva che cosa fosse la corsa del freno e nemmeno voleva saperlo; le bastava che in tal modo quell’orribile incidente fosse riconducibile a un
ordine qualsiasi e diventasse un problema tecnico che non la riguardava più direttamente. nel frattempo si udì il fischio acuto di un’ambulanza, e la tempestività del suo arrivo riempì di soddisfazione gli
astanti. Che meraviglia queste istituzioni sociali! il ferito fu adagiato
su una barella e caricato nell’ambulanza. Degli uomini con una specie
di uniforme si presero cura di lui, e l’interno del veicolo, per quel tanto che si riuscì a vedere, aveva l’aspetto pulito e ordinato di una corsia d’ospedale. se ne traeva la legittima impressione di aver assistito
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a un evento legale e regolare. «secondo le statistiche americane,» osservò il signore «laggiù muoiono ogni anno in incidenti stradali centonovantamila persone e quattrocentocinquantamila rimangono ferite.»
«Lei pensa che sia morto?» domandò la sua accompagnatrice, che
continuava a provare l’ingiustificata sensazione di aver vissuto qualcosa di eccezionale.
«spero di no» rispose il signore. «quando l’hanno caricato sull’ambulanza aveva tutta l’aria di essere vivo.»
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Casa e abitazione dell’uomo senza qualità
La strada nella quale aveva avuto luogo questo lieve incidente era una
di quelle lunghe e serpeggianti correnti di traffico che partono a raggiera dal centro della città, attraversano i quartieri periferici e sfociano nei sobborghi. se quella coppia elegante l’avesse percorsa ancora
per un tratto, avrebbe visto una cosa che le sarebbe senz’altro piaciuta. era un giardino, parzialmente conservato, del diciottesimo o addirittura del diciassettesimo secolo: passando davanti alla cancellata
di ferro battuto, si scorgeva tra gli alberi, in mezzo al prato rasato con
cura, una sorta di palazzina con due ali piuttosto corte, che un tempo
doveva esser stato un padiglione di caccia o d’incontri amorosi. Per
l’esattezza le strutture portanti erano del diciassettesimo secolo, il parco e il piano superiore recavano l’impronta del diciottesimo, mentre
la facciata era stata restaurata e un po’ guastata nel diciannovesimo,
sicché il tutto aveva l’aspetto sconclusionato delle fotografie scattate
l’una sull’altra. era talmente strano che si era costretti a fermarsi con
un’esclamazione di stupore. e quando quel bell’edificio bianco e leggiadro aveva le finestre aperte, nella quiete raffinata delle pareti tappezzate di libri si riconosceva l’abitazione di uno studioso.1
quell’abitazione e quella casa appartenevano all’uomo senza qualità.
questi era in piedi dietro una finestra: attraverso il filtro verde tenero del giardino guardava la strada brunastra e da dieci minuti, orologio alla mano, contava le automobili, le carrozze, i tram e i visi dei
passanti che, sbiaditi per la distanza, entravano a occupare il suo campo visivo in una precipitazione vorticosa; misurava le velocità, gli angoli e le forze vive delle masse in movimento che, fulminee, attirano
1
nel descrivere la palazzina pare che musil si sia ispirato a Palazzo salm (Rasumofskygasse,
Vienna), che vedeva dalla finestra del suo studio.
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a sé l’occhio, lo trattengono e lo lasciano di nuovo andare, che per un
tempo non misurabile costringono l’attenzione a opporsi ad esse, a
eliminarle, a passare ad altro e a gettarglisi dietro; alla fine, dopo aver
dedicato un po’ di tempo a dei calcoli mentali, infilò l’orologio in tasca ridendo e decise che quel che stava facendo era assurdo. se si potessero misurare gli spostamenti dell’attenzione, il lavoro dei muscoli oculari, le oscillazioni dell’anima e tutti gli sforzi cui un uomo deve
sottoporsi per mantenersi in piedi nella corrente del traffico, probabilmente – a questo aveva pensato, tentando per gioco di calcolare
l’impossibile – si otterrebbe una grandezza a paragone della quale la
forza necessaria ad atlante per sollevare il mondo è irrisoria, e si potrebbe misurare l’immane fatica compiuta oggigiorno anche da un individuo che non fa nulla.
L’uomo senza qualità era per il momento un individuo del genere.
e un uomo attivo, invece?
“se ne possono trarre due conclusioni” egli disse tra sé.
Lo sforzo muscolare cui si sottopone un borghese che per tutta la
giornata attende tranquillo alle proprie occupazioni, è considerevolmente maggiore di quello di un atleta che una volta al giorno sollevi
un peso immane; la cosa è stata provata dal punto di vista fisiologico,
e questo significa che anche le minime fatiche quotidiane, nella loro
somma collettiva e nella loro predisposizione a essere sommate, immettono nel mondo molta più energia delle azioni eroiche; anzi, l’impresa eroica appare addirittura minuscola, come un granello di sabbia
che, per il colmo dell’illusione, venga posto sulla cima di un monte.
L’idea gli piacque.
Bisogna tuttavia aggiungere che gli piacque non perché amasse la vita
borghese: al contrario, aveva il gusto di frapporre ostacoli alle proprie
inclinazioni, che un tempo erano state diverse. e se proprio dal piccolo borghese fosse destinato a nascere un nuovo prodigioso eroismo
collettivo da formica? Lo si chiamerà eroismo razionale e lo si troverà bellissimo. Chi può saperlo fin da oggi? a quell’epoca, d’altronde,
di interrogativi del genere, della massima importanza e ancora senza risposta, ce n’erano a centinaia. aleggiavano nell’aria, bruciavano
sotto i piedi. i tempi si stavano muovendo. Chi a quell’epoca non era
ancora nato non vorrà crederlo, ma già allora, e non solo oggi, i tempi si muovevano alla velocità di un cammello. non si sapeva però in
quale direzione procedessero. e nemmeno si riusciva a distinguere
bene il sopra dal sotto, che cosa andasse avanti e che cosa indietro. “Fa
lo stesso” disse tra sé l’uomo senza qualità, alzando le spalle; “intanto
in questo intrico di forze, qualsiasi cosa si faccia, non ha la minima im9
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portanza.” si allontanò dalla finestra come un uomo che ha imparato
la rinuncia, anzi quasi come un malato che rifugge qualsiasi contatto
troppo stretto; ma attraversando lo spogliatoio contiguo e passando
davanti a un punching-ball che vi era appeso, lo colpì con una rapidità
e un impeto tutt’altro che consueti in chi si sente debole o rassegnato.
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Anche un uomo senza qualità
può avere un padre dotato di qualità
qualche tempo addietro, rientrando in patria, l’uomo senza qualità
aveva preso in affitto, di fatto solo per protervia e perché detestava le
abitazioni comuni, questa palazzina che una volta era stata una residenza estiva fuori porta, ma che poi, con l’estendersi della città, aveva perso la sua funzione ed era rimasta lì, una proprietà disabitata e
incolta, in attesa che aumentassero i prezzi dei terreni. Pertanto l’affitto era basso, ma risistemare l’edificio adeguandolo alle esigenze moderne aveva richiesto una quantità incredibile di denaro; era diventato un’avventura che, alla fine, lo costrinse a chiedere l’aiuto del padre:
un passo che gli costò molto, perché amava la propria indipendenza.
aveva trentadue anni, e suo padre sessantanove.
il vecchio signore ne fu indignato. non tanto per la sorpresa, quantunque anche un po’ per essa, giacché detestava l’avventatezza; nemmeno per il contributo che avrebbe dovuto sborsare, poiché in fondo approvava che il figlio avesse manifestato l’esigenza di avere una
casa e una vita proprie. ma la scelta di un edificio che, sia pure con
un diminutivo, non si poteva fare a meno di chiamare palazzo, ferì i
suoi sentimenti e lo intimorì come un’arroganza gravida di sventure.
Da giovane, prima quand’era studente e poi ancora mentre faceva
pratica in uno studio legale, egli era stato precettore in case patrizie,
e ciò senza averne bisogno, dal momento che le condizioni economiche dei suoi erano buone. Più tardi tuttavia, quando divenne docente
universitario e professore, ne ebbe il suo tornaconto, perché l’aver coltivato diligentemente quelle relazioni lo fece divenire a poco a poco
il consulente giuridico di quasi tutta la nobiltà feudale del suo paese, anche se ormai non aveva più bisogno di una seconda occupazione. anzi, quando già da tempo il patrimonio così acquisito era ormai
giunto a sostenere il confronto con quello di una ricca famiglia di industriali renani portatogli in dote dalla madre di suo figlio, prematuramente scomparsa, quelle relazioni strette in gioventù e consolidate
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in età matura non vennero meno. Benché lo studioso, ormai celebre,
si fosse ritirato dalla professione legale vera e propria, limitandosi occasionalmente a qualche perizia ben remunerata, ciò nondimeno tutti gli avvenimenti che riguardavano i suoi antichi protettori venivano
da lui accuratamente annotati e tramandati con grande precisione dai
padri ai figli e ai nipoti; e non c’era onorificenza, non c’era matrimonio, compleanno od onomastico, senza che una sua lettera si felicitasse con il destinatario in una delicata mescolanza di deferenza e ricordi
comuni. Con la stessa puntualità arrivavano ogni volta poche righe di
risposta che ringraziavano il caro amico e l’illustre studioso. suo figlio
ebbe così modo di conoscere fin dalla fanciullezza quell’aristocratica
attitudine alla superbia, quasi inconscia ma ben ponderata, che sa misurare esattamente il valore di una cortesia; e il contegno sottomesso
di un uomo, che pur apparteneva all’aristocrazia intellettuale, di fronte ai possessori di cavalli, campi e tradizioni, l’aveva sempre irritato.
ma la mancata suscettibilità di suo padre in quei frangenti non era dovuta al calcolo; unicamente per istinto naturale egli aveva fatto in tal
modo una bella carriera, divenendo non solo professore, membro di
accademie e di molte commissioni scientifiche e statali, ma anche cavaliere, commendatore, anzi perfino gran croce di alti ordini cavallereschi; alla fine sua maestà lo innalzò alla nobiltà ereditaria, avendolo già prima nominato senatore. in senato l’eletto aveva aderito all’ala
liberale borghese che talvolta si opponeva all’aristocrazia, ma significativamente nessuno dei suoi nobili protettori se ne ebbe a male o anche solo se ne stupì; in lui non avevano mai veduto altro che lo spirito
della borghesia in ascesa. il vecchio signore partecipava con impegno
all’attività legislativa, e perfino quando una battaglia parlamentare lo
vedeva schierato dalla parte dei borghesi, dall’altra nessuno gli serbava
rancore, ma si aveva piuttosto la sensazione che egli fosse lì senza esser stato invitato. agiva in politica esattamente come un tempo aveva
agito nella sua professione, conciliando cioè un sapere superiore e talvolta moderatamente innovativo con l’impressione che sulla sua personale fedeltà si potesse tuttavia contare; e così, come diceva suo figlio,
da precettore in case private era divenuto, senza mutamenti sostanziali, precettore del senato.1
1 il senato (Herrenhaus) era la Camera alta del Parlamento bicamerale austriaco (Reichsrat), rior-
ganizzato nel 1861 sulla base dei provvedimenti noti come Patente di febbraio, ed era formato
dagli arciduchi maggiorenni, dai principi della Chiesa, dai maschi maggiorenni delle famiglie
aristocratiche con ampie proprietà fondiarie (ai quali il sovrano conferiva il diritto ereditario
di far parte dello Herrenhaus) e da membri nominati dal monarca a sua discrezione.
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quando venne a sapere del palazzo, quell’iniziativa gli parve il trascendimento di un limite non segnato dalla legge, ma tanto più da rispettare, e mosse al figlio rimproveri ancor più aspri dei molti che già
gli aveva rivolto nel corso degli anni, anzi tali da suonare addirittura come profezia di una brutta fine verso la quale, con quell’atto, egli
si era ormai incamminato. si sentiva offeso nel sentimento sul quale
era fondata la sua vita. Come in molti uomini di successo, tale sentimento consisteva, ben lungi dalla ricerca del proprio utile, in un profondo amore per l’utile – diciamo così – universale e sovrapersonale;
si trattava, in altre parole, di una sincera venerazione per ciò su cui
si costruisce il proprio vantaggio, non per il fatto che lo si costruisce,
bensì in armonia e in concomitanza con esso e per ragioni generali.
questo è molto importante: anche un cane di razza si cerca un posto
sotto il tavolo da pranzo, senza badare ai calci, non tanto per umiltà
canina, quanto piuttosto per affetto e fedeltà; e così, tra gli uomini, i
freddi calcolatori non hanno nella vita nemmeno la metà del successo dei temperamenti equilibrati, che provano davvero un profondo
attaccamento per le persone e le relazioni che recano loro vantaggio.
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Se esiste il senso della realtà,
deve esistere anche il senso della possibilità
se si vogliono varcare senza danno delle porte aperte, bisogna tener
presente il fatto che gli stipiti sono duri: questo principio, al quale il
vecchio professore aveva improntato la sua vita, è semplicemente un
postulato del senso della realtà. ma se il senso della realtà esiste, e nessuno metterà in dubbio il suo diritto all’esistenza, allora deve esistere
anche qualcosa che si può chiamare senso della possibilità.
Chi ne è dotato, non dice ad esempio: «qui è accaduto, accadrà o
deve accadere questo oppure quello», bensì: «qui potrebbe o dovrebbe accadere un certo evento»; e se, di una cosa qualsiasi, gli si spiega
che è come è, allora penserà: “Certo, ma potrebbe benissimo essere diversa”. quindi, il senso della possibilità è addirittura definibile come
la capacità di pensare a tutto ciò che potrebbe essere e di non ritenere
ciò che è più importante di ciò che non è. È chiaro che le conseguenze di questa indole creativa possono essere notevoli e purtroppo non
di rado fanno apparire sbagliato ciò che gli uomini ammirano e lecito ciò che essi vietano, oppure entrambe le cose indifferenti. La vita
di questi uomini della possibilità è tessuta, si potrebbe dire, con un fi12
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lato più sottile, un filato fatto di fumo, immaginazione, fantasticherie e congiuntivi; quando un bambino manifesta una simile tendenza,
gliela si fa passare con metodi energici e, davanti a lui, quegli individui vengono definiti visionari, sognatori, codardi e saccenti o criticoni.
Chi vuol lodare quei matti, li definisce anche idealisti, ma con ciò
si intende evidentemente solo il tipo debole, che non sa comprendere la realtà o la fugge piagnucolando, nel quale la mancanza di senso
della realtà è dunque davvero un difetto. il possibile tuttavia non abbraccia soltanto i sogni delle persone nervose, bensì anche le non ancor deste intenzioni di Dio. un’esperienza possibile o una verità possibile non equivalgono a un’esperienza reale e a una verità reale meno
la loro realtà, ma hanno in sé, almeno secondo l’opinione dei loro fautori, qualcosa di veramente divino, un fuoco, un’esaltazione, un proposito costruttivo e un consapevole utopismo che non fugge la realtà,
ma la tratta piuttosto come un compito e un’invenzione. alla fin fine
la terra non è affatto vecchia e, a quanto pare, non è mai stata così gravida di possibilità. Volendo ora distinguere facilmente gli uomini della realtà da quelli della possibilità, basta pensare a una determinata
somma di denaro. tutto ciò che mille marchi, ad esempio, contengono
quanto a possibilità in generale, lo contengono senza dubbio sia che
uno li possieda oppure no; il fatto che tizio o Caio li possiedano aggiunge loro poco o nulla, così come poco o nulla aggiungerebbe a una
rosa o a una donna. ma chi è privo di senno, dicono gli uomini della
realtà, li nasconde sotto il materasso, mentre un individuo assennato
ne ricava qualcosa: perfino alla bellezza di una donna viene innegabilmente aggiunto o tolto qualcosa da colui che la possiede. È la realtà
che risveglia le possibilità, e nulla sarebbe così assurdo come negarlo.
tuttavia, sommate o in media, quelle che restano sono sempre le stesse possibilità destinate a ripetersi, finché non arriva un uomo per il
quale una cosa reale non è più importante di una solo pensata. È grazie a lui che le nuove possibilità acquistano finalmente il loro senso e
la loro determinazione, ed è lui che le risveglia.1
ma un uomo simile è un essere tutt’altro che semplice. Dal momento che le sue idee, quando non si rivelino oziose chimere, altro non
sono che realtà non ancor nate, anche lui possiede naturalmente il senso della realtà; ma è un senso della realtà possibile che raggiunge il
1 modello del Möglichkeitsmensch («uomo della possibilità») è nietzsche, come si ricava da una
pagina di diario di incerta datazione, ma certamente non successiva al 1905: nietzsche è colui
che «ha dischiuso cento nuove possibilità senza portarne a compimento nessuna. Perciò lo amano coloro per i quali le possibilità nuove sono un bisogno».
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suo scopo molto più lentamente che non il senso, insito nella maggior
parte degli uomini, delle proprie reali possibilità. egli vuole, per così
dire, il bosco, mentre gli altri vogliono gli alberi; e il bosco è qualcosa
di difficilmente definibile, mentre gli alberi significano tali e tanti metri cubi di una determinata qualità di legname. o forse lo si può spiegare meglio dicendo che l’uomo dotato del comune senso della realtà
assomiglia ad un pesce che abbocca all’amo e non vede la lenza, mentre l’uomo dotato di quel senso della realtà che si può chiamare anche
senso della possibilità tira una lenza e non immagina nemmeno lontanamente che vi sia attaccata un’esca. se da un lato rivela un’indifferenza fuori dal comune per la vita che morde l’esca, dall’altro corre
sempre il rischio di agire seguendo il proprio umore. un uomo poco
pratico – ed egli non solo lo sembra, ma lo è anche davvero – si rivela inaffidabile e imprevedibile nei rapporti con il prossimo. Compirà azioni che per lui hanno un significato diverso che per gli altri, ma
nulla gli darà pensiero se solo potrà ricondurlo a un’idea eccezionale.
e inoltre è ancora oggi ben lontano dalla coerenza. È molto probabile che un delitto dal quale un altro riceve un danno gli sembri soltanto una mancanza di cui non è responsabile il malfattore, bensì l’ordinamento della società. non si sa invece se, ricevuto lui stesso uno
schiaffo, lo riterrà ancora un oltraggio commesso dalla società o almeno altrettanto impersonale quanto il morso di un cane; probabilmente questa volta incomincerà con il restituire lo schiaffo, per poi pensare che non avrebbe dovuto farlo. ma non è tutto: se gli portano via
un’amante, oggi non saprà ancora prescindere completamente dalla
realtà di questo episodio e rifarsi con un nuovo inaspettato sentimento. attualmente tale evoluzione è ancora in corso, e per il singolo rappresenta tanto una debolezza quanto una forza.
e, poiché il possesso di qualità presuppone una certa gioia nel saperle reali, è lecito concludere che a chiunque manchi il senso della
realtà anche nei confronti di se stesso, potrà capitare un giorno la bella sorpresa di scoprire in sé un uomo senza qualità.
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Ulrich
L’uomo senza qualità del quale stiamo raccontando la storia si chiamava ulrich; e ulrich – non è cortese chiamare semplicemente con il
nome di battesimo una persona che si conosce appena, ma il cognome dev’essere taciuto per riguardo al padre – aveva già dato, alle so14
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glie dell’adolescenza, il primo saggio del suo temperamento in un
tema scolastico che aveva per titolo una frase patriottica. in austria
il patriottismo era un argomento tutto particolare. a differenza della Germania, dove i bambini imparavano semplicemente a disprezzare le guerre dei bambini austriaci, e si insegnava loro che i bambini francesi sono i nipoti di fiacchi libertini che, fossero anche in mille,
se la danno a gambe non appena incontrano un soldato tedesco della
milizia territoriale dotato di una folta barba. e, scambiati i ruoli e apportate le opportune modifiche, si insegnavano esattamente le stesse cose ai bambini francesi, russi e inglesi, che vantavano anche loro
parecchie vittorie. ora, i bambini sono dei fanfaroni, amano giocare a
guardie e ladri e, qualora ne facciano parte, sono sempre pronti a ritenere la famiglia Y, residente nella grande via X, la più importante famiglia del mondo. È dunque facile conquistarli al patriottismo. in austria invece la faccenda era un po’ più complicata. Gli austriaci infatti
avevano sì vinto tutte le guerre della loro storia, ma dopo la maggior
parte di esse avevano dovuto cedere qualche territorio. una circostanza, questa, che induce alla riflessione, e ulrich, nel suo componimento sull’amor di patria, scrisse che un vero patriota non deve mai reputare la propria patria la migliore di tutte; anzi, in un lampo di genio
che gli parve particolarmente bello, benché fosse piuttosto abbagliato
dal suo splendore che non consapevole del suo effettivo contenuto, a
quella frase sospetta ne aveva aggiunta un’altra, e cioè che probabilmente anche Dio preferisce parlare del suo mondo al conjunctivus potentialis (hic dixerit quispiam = qui si potrebbe obiettare...), perché Dio
crea il mondo e intanto pensa che esso potrebbe benissimo essere diverso. Di questa frase era molto fiero, ma forse nel formularla non si
era spiegato bene, perché ne era nata una gran confusione, e per poco
non lo avevano espulso dalla scuola, anche se poi non fu preso alcun
provvedimento, nell’impossibilità di decidere se quell’audace osservazione fosse un oltraggio alla patria o a Dio. egli frequentava allora
l’elegante ginnasio dell’accademia teresiana,1 che forniva i più nobili
pilastri dello stato, e il padre, indispettito per la vergogna procuratagli da quel suo frutto caduto lontano dall’albero, lo mandò all’estero,
in un piccolo collegio belga che aveva sede in una città sconosciuta e
che, amministrato con accorta mentalità commerciale, favoriva, in virtù delle sue rette contenute, un grande afflusso di studenti sbandati.
1 si tratta del theresianum, fondato nel 1746 dall’imperatrice maria teresa come istituto per
l’educazione dei giovani nobili, e trasformato nel 1849 in ginnasio pubblico.
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Lì ulrich imparò a conferire una dimensione internazionale al suo disprezzo per gli ideali degli altri.
Da allora, come le nuvole passano in cielo, erano trascorsi sedici o
diciassette anni che per ulrich, ormai trentunenne, non erano motivo
né di rimpianto né di fierezza: voltandosi a guardarli, non provava altro che stupore. nel frattempo aveva girato molto, trattenendosi anche in patria per brevi periodi, e ovunque aveva fatto cose importanti
e cose inutili. si è già accennato che era un matematico e non occorre dirne di più, giacché in ogni professione esercitata non per denaro
ma per passione arriva il momento in cui il passar degli anni sembra
condurre al nulla. quel momento durava ormai da parecchio, quando
a ulrich venne in mente che alla patria si attribuisce il misterioso potere di dare radici e solidità al pensiero: vi si stabilì quindi con lo stato d’animo di un viandante che si sieda su una panchina per l’eternità, pur presentendo che si rialzerà subito.
e quando mise ordine nella propria casa, secondo l’espressione biblica, fece un’esperienza che in fondo si aspettava. si trovò nella piacevole situazione di dover rinnovare ab ovo, a suo piacimento, quella
palazzina assai malandata. Dalla ricostruzione rigorosa fino alla libertà più completa, egli disponeva di tutte le soluzioni, e allo stesso modo
si offrivano alla sua mente tutti gli stili, dall’assiro al cubista. Che cosa
scegliere? L’uomo moderno nasce in una clinica e muore in una clinica: è anche in una clinica dunque che deve abitare! tale esigenza l’aveva recentemente avanzata un architetto di grido, mentre un altro
riformatore di ambientazioni pretendeva pareti scorrevoli negli interni, dal momento che l’uomo deve imparare ad aver fiducia nel prossimo vivendo a diretto contatto con lui, e non ha il diritto di isolarsi,
assumendo un atteggiamento separatista. Proprio allora era iniziata
un’epoca nuova (capita d’altronde ad ogni istante) e un’epoca nuova
ha bisogno di uno stile nuovo. Fortunatamente per ulrich, la palazzina, così come l’aveva trovata, presentava già tre stili sovrapposti, cosicché non si poteva davvero farne quel che si voleva; ciò nonostante,
la responsabilità di arredarsi la casa lo agitava moltissimo, e si sentiva pendere sul capo il minaccioso avvertimento: “Dimmi come abiti e ti dirò chi sei”, che tante volte aveva letto nelle riviste specializzate. Dopo aver consultato minuziosamente tali riviste, concluse che
era meglio intraprendere da solo la costruzione della propria personalità e incominciò a disegnarsi da sé i futuri mobili. ma aveva appena
ideato una forma massiccia e di grande effetto, che subito scorgeva la
possibilità di sostituirla con una funzionale, scarna, puramente tecnica, e mentre progettava una forma simile a certe strutture in cemen16
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to armato ridotta all’essenziale, pensava alle esili forme marzoline di
una tredicenne e invece di decidersi si metteva a sognare.
si trattava – in un settore per il quale egli non provava un interesse
particolarmente profondo – della ben nota incoerenza delle idee e del
loro propagarsi senza avere un centro: incoerenza che è tipica del nostro tempo e responsabile di quella sua logica curiosa, che salta di palo
in frasca senza unità. Finì così per non immaginarsi altro che stanze irrealizzabili, ambienti girevoli, arredi caleidoscopici, diversivi per l’anima, e le sue idee diventarono sempre più povere di contenuto. era finalmente arrivato al punto verso il quale si sentiva attratto. suo padre
lo avrebbe espresso più o meno in questo modo: “se si lascia che uno
faccia tutto quello che vuole, tanta sarà la confusione, che alla fine gli
darà di volta il cervello”. oppure: “se uno può appagare tutti i propri
desideri, alla fine non saprà più che cosa desiderare”. ulrich si ripeteva queste massime con grande piacere. quella saggezza avita gli pareva un pensiero straordinariamente nuovo. nelle sue possibilità, nei
suoi progetti e sentimenti, l’uomo deve all’inizio essere costretto da
pregiudizi, tradizioni, difficoltà e limitazioni di ogni genere, come un
pazzo nella camicia di forza, e solo così ciò che riuscirà a creare potrà
forse avere valore, organicità e durata: è davvero difficile misurare tutta l’importanza di questo pensiero! ebbene, l’uomo senza qualità, una
volta tornato in patria, fece anche il secondo passo per lasciarsi determinare dall’esterno, dalle circostanze: a questo punto delle sue riflessioni abbandonò l’arredamento della casa all’ingegno dei fornitori, fermamente convinto che alle tradizioni, ai pregiudizi e alle limitazioni
avrebbero provveduto loro. Per parte sua, diede solo una rinfrescata
a certi motivi preesistenti, alle scure corna di cervo sotto le volte bianche del piccolo vestibolo o al severo soffitto del salotto, aggiungendo
inoltre tutto quello che gli pareva comodo e funzionale.
quando i lavori furono finiti, scosse il capo e si domandò: “sarà dunque questa la mia vita?”. Possedeva ormai un delizioso piccolo palazzo; si era quasi costretti a chiamarlo così, poiché corrispondeva esattamente all’idea che ci si fa di un edificio del genere: l’elegante residenza
di un’importante personalità, come gliel’avevano presentata i migliori
fornitori di mobili, tappeti e impianti vari. Peccato che quell’incantevole congegno ad orologeria non fosse carico: perché allora gli equipaggi
con alti dignitari e aristocratiche dame sarebbero saliti su per la rampa
d’accesso e i lacchè sarebbero saltati giù dal predellino, per domandare
diffidenti a ulrich: “Buon uomo, dov’è il Vostro padrone?”.
ulrich era ritornato dalla luna e sulla luna si era immediatamente
ristabilito.
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Leona, o uno spostamento di prospettiva
quando si è messo ordine nella propria casa, bisogna anche cercarsi
una donna. L’amica che ulrich aveva a quell’epoca si chiamava Leontine e faceva la canzonettista in un piccolo cabaret; era alta e slanciata,
ma formosa, di un languore eccitante, e lui la chiamava Leona.
L’aveva colpito per i suoi occhi scuri e umidi, per l’espressione dolente e appassionata del suo bel viso oblungo e regolare, per le canzoni sentimentali che cantava invece di quelle volgari. erano canzonette
fuori moda che parlavano tutte di amore, dolore, fedeltà, solitudine,
frusciar di boschi e guizzar di trote. La figura imponente in atteggiamento di completo abbandono, Leona stava ritta sul piccolo palcoscenico e, rivolta al pubblico, cantava paziente con la voce di una buona
massaia; e se talvolta le canzonette prevedevano qualche passaggio un
po’ audace, l’effetto era tanto più spettrale in quanto la ragazza sottolineava sia gli stati d’animo tragici sia quelli maliziosi con gli stessi
gesti faticosamente compitati. a ulrich erano subito venute in mente
vecchie fotografie o ritratti di belle donne riprodotti in annate ormai
irreperibili di riviste tedesche per famiglie e, mentre studiava il volto
della ragazza, vi aveva notato una quantità di piccoli tratti che, presi uno per uno, non potevano assolutamente essere reali, anche se nel
loro insieme costituivano proprio quel volto. in ogni epoca esistono,
naturalmente, tutti i tipi di visi, ma il gusto del tempo ne mette in rilievo uno soltanto, conferendogli fortuna e bellezza, mentre tutti gli altri cercano di assomigliargli; e perfino quelli brutti, con l’aiuto dell’acconciatura e della moda, più o meno ci riescono. Gli unici che non ci
riusciranno mai sono invece i volti nati per straordinari successi, quelli nei quali si esprime senza riserve il regale e sorpassato ideale di bellezza di un’epoca trascorsa. tali volti vagano come spoglie di desideri svaniti nell’immenso vuoto dei rapporti d’amore, e agli uomini che
s’abbandonavano incantati alla profonda noia del canto di Leontine,
senza sapere che cosa stesse loro capitando, le narici fremevano per
sentimenti ben diversi da quelli suscitati dalle piccole sfacciate sciantose con la pettinatura “alla tango”. Fu così che ulrich decise di chiamarla Leona, e il possesso di lei gli parve desiderabile come quello di
una grande pelle di leone impagliata.
Dopo che ebbero fatto conoscenza, Leona rivelò un’altra peculiarità anacronistica: era incredibilmente vorace, e questo è un vizio che
da tempo ormai è passato di moda coltivare. nato in lei dalla voglia
di costose leccornie che l’aveva tormentata quando era una bambina
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povera e che solo molto più tardi era finalmente riuscita a soddisfare,
possedeva ora la forza di un ideale che, liberato dai lacci, avesse infine
assunto il potere. il padre doveva essere stato un rispettabile piccolo
borghese, che la picchiava tutte le volte che usciva con un ammiratore; ma Leontine lo faceva solo perché le piaceva da impazzire starsene
seduta nel dehors di una piccola pasticceria e gustare il suo gelato, un
cucchiaino dopo l’altro, guardando i passanti con aria distinta. sostenere che fosse frigida sarebbe certo eccessivo, ma si potrebbe dire, se
ci è consentito, che anche in questo, come in tutto, era piuttosto pigra
e poco amante del lavoro. in quel suo corpo così grande ogni stimolo
aveva bisogno di un tempo straordinariamente lungo per raggiungere il cervello, e capitava che in pieno giorno i suoi occhi prendessero
a farsi languidi senza motivo, mentre la notte fissavano immobili un
punto del soffitto come se stessero osservando una mosca. e succedeva talvolta che, nel più completo silenzio, si mettesse a ridere per una
barzelletta della quale solo in quel momento afferrava il senso, mentre giorni prima l’aveva ascoltata imperturbabile, senza capirla. Perciò,
quando non aveva motivi particolari per comportarsi altrimenti, manteneva un contegno assolutamente corretto. in che modo fosse giunta alla sua professione, non si riuscì mai a cavarglielo di bocca. Probabilmente nemmeno lei se lo ricordava più con precisione. si venne a
sapere soltanto che riteneva l’attività di canzonettista parte necessaria della vita e vi collegava tutto ciò che di grande avesse mai sentito
dire a proposito dell’arte e degli artisti, sicché le sembrava senz’altro
giusto, educativo e distinto uscir fuori ogni sera su un piccolo palcoscenico offuscato dal fumo dei sigari, e cantare canzoni il cui potere
emotivo era un fatto incontestabile. naturalmente, quando si trattava di seminare qua e là qualche sconcezza, com’è necessario per ravvivare un po’ quel che è soltanto decente, non si tirava mai indietro,
anzi era fermamente convinta che anche la prima cantante dell’opera imperiale facesse esattamente come lei.
Certo, se si vuole assolutamente chiamare prostituzione la condotta di un individuo che, per denaro, cede non tutto se stesso, come di
norma, bensì solo il proprio corpo, allora Leona esercitava ogni tanto la prostituzione. ma quando per nove anni, come era capitato a lei
dai sedici in poi, si conosce la miseria dei compensi che vengono pagati nei locali di infimo ordine, quando si pensa ai prezzi degli abiti e della biancheria, quando si ha a che fare ogni giorno con le trattenute, l’avarizia e l’arbitrio dei proprietari, con le percentuali su cibi e
bevande consumati dai clienti resi euforici, e sul prezzo delle stanze
nell’albergo vicino, quando bisogna litigare e fare i conti come botte19
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gai, allora quella che al profano appare un’allegra scostumatezza diventa una professione piena di logica, di oggettività e regolata da leggi
proprie. La prostituzione infatti è, per l’appunto, uno di quei fenomeni che risultano molto diversi, a seconda che li si guardi dal di sopra
oppure dal di sotto.
Pur possedendo una concezione assolutamente realistica del problema sessuale, anche Leona aveva però i suoi lati romantici. solo che
l’esuberanza, la frivolezza, la prodigalità, così come i sentimenti di orgoglio, d’invidia, di voluttà, di ambizione, di dedizione, insomma le
forze motrici della personalità e dell’ascesa sociale erano collegate in
lei, per una stranezza della natura, non con il cosiddetto cuore, bensì con il tractus abdominalis, con la funzione nutritiva; funzione con la
quale del resto erano già state in regolare collegamento nei tempi passati, come ancor oggi si può constatare fra i popoli primitivi o i contadini crapuloni, i quali amano manifestare la signorilità e la distinzione in solenni banchetti, dove si mangia a crepapelle, con tutto quel
che ne consegue. ai tavoli del cabaret Leona faceva il suo dovere; ma
sognava un ammiratore che, con una relazione della stessa durata del
suo contratto, la dispensasse da tale impegno e le permettesse di starsene seduta in atteggiamento elegante, in un ristorante elegante, davanti a un’elegante lista delle vivande. quando le capitava un’occasione del genere, più di ogni altra cosa le sarebbe piaciuto mangiare
tutte le vivande della lista, ed era per lei una soddisfazione dolorosamente contraddittoria essere anche in grado di dimostrare che sapeva benissimo che cosa si deve scegliere per mettere insieme un menù
raffinato. solo al momento del dessert poteva sbizzarrirsi e di solito
ne risultava, in ordine inverso, un secondo copioso pranzetto. Caffè
nero e grandi quantità di bevande stimolanti la rimettevano presto
in condizione di ricominciare a mangiare: si eccitava allora con delle
sorprese, finché la sua voglia non era soddisfatta. a quel punto il suo
corpo era così pieno di squisitezze, che a malapena stava ancora insieme. Leona lanciava tutt’intorno occhiate di pigra esultanza e, sebbene non fosse mai molto loquace, in quelle circostanze si abbandonava volentieri a considerazioni retrospettive sulle ghiottonerie che
aveva gustato. quando diceva «Polmone à la torlonia» o «mele à la
melville», lasciava cadere queste espressioni come un altro potrebbe
raccontare, con studiata indifferenza, di aver parlato con il principe o
con il lord omonimi.
Dal momento che farsi vedere in pubblico con Leona era piuttosto
contrario ai suoi gusti, ulrich preferiva rifocillarla in casa propria, dove
lei poteva pranzare alla presenza delle corna di cervo e dei mobili in
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stile. Così, però, Leona si riteneva defraudata di ogni soddisfazione sociale e, quando l’uomo senza qualità la sollecitava a solitarie intemperanze con i più inauditi manicaretti che un cuoco di trattoria sapesse
preparare, si sentiva mortificata esattamente come una donna che si accorga di non essere amata per la sua anima. era bella ed era una cantante, non aveva bisogno di star nascosta, e ogni sera accendeva i desideri di decine di uomini che le avrebbero dato ragione. quest’uomo
invece, benché volesse restar solo con lei, non era nemmeno capace di
dirle: «Gesù maria, Leona, il tuo c... mi manda in estasi!», leccandosi i
baffi con l’acquolina in bocca al solo guardarla, come facevano solitamente i suoi ammiratori. Leona, pur restandogli fedele, lo disprezzava
un poco, e ulrich lo sapeva. sapeva anche, d’altronde, come avrebbe
dovuto comportarsi con lei, ma l’epoca in cui sulle sue labbra si sarebbe potuta disegnare una frase del genere, l’epoca in cui quelle labbra
erano ancora sormontate dai baffi, era ormai troppo lontana. e quando non si è più capaci di fare una cosa che un tempo si riusciva a fare,
per stupida che fosse, è esattamente come se un colpo apoplettico ci
avesse bloccato la mano o la gamba. Gli occhi gli uscivano dalle orbite, quando vedeva la sua amica in preda ai fumi del cibo e delle bevande. staccandola con cautela, le si sarebbe potuta portar via la sua bellezza. era la bellezza della duchessa che l’ekkehard di scheffel1 porta
dentro le mura del convento, la bellezza dell’amazzone con il falco sul
guanto,2 la bellezza dell’ormai leggendaria imperatrice elisabetta3 con
la pesante corona di capelli, una delizia per gente ormai morta. a voler essere precisi, Leona ricordava anche la divina Giunone, ma non la
dea eterna e immortale, bensì ciò che in un remoto o più recente passato si chiamava “giunonico”. Così il sogno dell’essere sfiorava appena la materia. Leona però sapeva che, quando si è invitati da un gentiluomo, si è sempre in debito, anche se il padrone di casa non chiede
nulla, e che non basta lasciarsi guardare; perciò, appena era di nuovo
in grado di farlo, si alzava in piedi e incominciava a cantare tranquilla, ma a voce spiegata. al suo amico quelle serate davano l’impressione di un foglio sciolto, animato da ogni sorta di idee e di pensieri, ma
1 Ekkehard, romanzo storico di Joseph Viktor von scheffel (1826-1886), poeta e narratore tedesco
molto popolare ai suoi tempi. Pubblicata nel 1855, l’opera narra le vicende di ekkehard, giovane e brillante monaco del X secolo che, insofferente dell’ascesi monastica, amante della poesia
e lui stesso poeta, intreccia una storia d’amore con una bella duchessa vedova.
2 un’altra immagine medievale: la caccia con il falco era un passatempo della società cortese, da
cui non venivano escluse le donne.
3 elisabetta, imperatrice d’austria e regina d’ungheria (1837-1898), moglie dell’imperatore
Francesco Giuseppe i.
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mummificato come tutto ciò che è avulso dal proprio contesto e pieno
di quella tirannide insita nelle cose destinate a restare fissate per sempre che costituisce il fascino inquietante dei quadri viventi, come se
all’improvviso la vita avesse preso un sonnifero e ora se ne stesse lì rigida, perfettamente coerente in sé, ben delimitata, eppure tremendamente assurda nell’insieme.
7
In un momento di debolezza
Ulrich si prende una nuova amante
un mattino ulrich rientrò a casa malconcio. i vestiti gli pendevano addosso a brandelli, dovette applicare compresse bagnate sulla testa contusa, l’orologio e il portafogli erano spariti. non sapeva se gli fossero
stati sottratti dai tre uomini con i quali s’era azzuffato o se, durante i
pochi attimi in cui era rimasto svenuto sul selciato, glieli avesse portati via un silenzioso filantropo. si mise a letto e, mentre le membra
esauste si sentivano di nuovo delicatamente sorrette e avviluppate, ripensò alla sua avventura.
quei tre tipi se li era trovati davanti all’improvviso; nel cuore della
notte, lungo la strada deserta, poteva darsi che ne avesse sfiorato uno
senza accorgersene, immerso com’era in altri pensieri: quelle tre facce
però, già pronte all’ira, erano entrate stravolte nel cerchio di luce del
lampione. a quel punto aveva commesso un errore. avrebbe dovuto
indietreggiare subito, come per paura, andando a urtare violentemente con la schiena il tizio che gli si era messo alle spalle oppure infilargli
un gomito nello stomaco e, subito dopo, cercare di svignarsela, dato
che non si può lottare da soli contro tre uomini robusti. invece aveva
esitato un attimo; era colpa dell’età: a trentadue anni l’ostilità e l’amore hanno bisogno di più tempo per scatenarsi. non voleva credere che
quelle tre facce, sbucate all’improvviso nella notte con un’espressione
d’ira e di disprezzo nei suoi confronti, mirassero solo al suo denaro,
e si abbandonò invece all’impressione che in quel punto fosse venuta a confluire e ad incarnarsi una qualche forma di odio verso di lui; e,
mentre quei malviventi già lo apostrofavano con degli insulti, lo rallegrava il pensiero che forse non erano affatto dei malviventi, bensì borghesi come lui, solo un po’ alticci e liberi da freni inibitori, che, alla sua
fuggevole apparizione, si erano fermati per scaricargli addosso quell’odio sempre latente contro di lui e contro ogni estraneo, come un temporale nell’atmosfera. anche ulrich, infatti, provava talvolta qualcosa
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del genere. moltissime persone si sentono oggi in uno spiacevole contrasto con moltissime altre persone. È una caratteristica fondamentale
della civiltà che l’uomo provi una diffidenza assai profonda per l’individuo estraneo alla sua cerchia, che dunque non solo il tedesco ritenga l’ebreo un essere incomprensibile e inferiore, ma che lo stesso faccia il calciatore nei confronti del pianista. in definitiva ogni cosa esiste
soltanto in virtù dei suoi limiti e quindi grazie a un atto in qualche misura ostile nei confronti del suo ambiente: senza il papa non ci sarebbe
stato Lutero, e senza i pagani non ci sarebbe stato il papa, ragion per
cui è innegabile che l’uomo si attacca più tenacemente al proprio simile
nel momento stesso in cui lo respinge. naturalmente in quell’occasione ulrich non aveva riflettuto sulla questione in modo così dettagliato; ma conosceva quello stato di vaga ostilità atmosferica di cui nella
nostra epoca è carica l’aria; e se una volta esso si condensa all’improvviso per scaricarsi, come i tuoni e i fulmini, in tre individui che subito
dopo spariranno per sempre, è quasi un sollievo.
in ogni caso, alla presenza di quei tre malviventi era rimasto troppo tempo a riflettere. infatti il primo che gli saltò addosso fu sì costretto a indietreggiare, visto che ulrich l’aveva prevenuto con un pugno
al mento, ma il secondo, che avrebbe dovuto essere steso con la stessa fulminea velocità, fu solo sfiorato dal pugno, perché nel frattempo
un oggetto pesante aveva colpito ulrich alle spalle e per poco non gli
aveva spaccato la testa. Cadde in ginocchio, si sentì afferrare e, con
quella lucidità del corpo quasi innaturale che segue di solito al primo
crollo, si rialzò, si dibatté in quell’intrico di corpi estranei, finendo a
terra sotto una gragnola di pugni che si facevano sempre più pesanti.
Poiché aveva ormai identificato l’errore commesso – errore di carattere esclusivamente sportivo, proprio come succede di fare ogni tanto
un salto troppo corto –, ulrich, che possedeva pur sempre dei nervi eccellenti, si addormentò tranquillo, con lo stesso delizioso abbandono
alle spirali in fuga della perdita di coscienza che aveva già vagamente provato mentre lo gettavano a terra.
al risveglio si accorse che le ferite non erano gravi e rifletté ancora una volta sull’episodio. una rissa lascia sempre in bocca lo sgradevole sapore di una, per così dire, precipitosa intimità e, indipendentemente dal fatto di essere lui l’aggredito, ulrich aveva la sensazione di
essersi comportato in modo inadeguato. ma inadeguato a che cosa?
a ridosso di strade nelle quali ogni trecento passi una guardia punisce la minima infrazione all’ordine, ce ne sono altre che richiedono
la stessa forza e accortezza necessarie nella foresta vergine. L’umanità produce Bibbie e fucili, tubercolosi e tubercolina. È democratica,
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ma ha i suoi nobili e i suoi re; erige chiese e, dirimpetto alle chiese,
università; trasforma i conventi in caserme, ma assegna alle caserme
cappellani militari. naturalmente mette anche in mano ai malfattori
dei tubi di gomma pieni di piombo, per pestare a sangue il corpo del
prossimo, ma provvede poi per quel corpo solitario e maltrattato letti di piume, come quello che in questo momento accoglieva ulrich e
che sembrava tutto imbottito di rispetto e di deferenza. È la solita faccenda delle contraddizioni, dell’incoerenza e dell’imperfezione della
vita. se ne sorride o si sospira. ma ulrich non era fatto così. odiava
quel miscuglio di rinuncia e di amore smodato per la vita che ne sopporta le contraddizioni e le mezze misure come una vecchia zia rimasta zitella sopporta le impertinenze di un giovane nipote. e tuttavia,
pur rendendosi conto che l’indugiare a letto era un trarre vantaggio
dal disordine delle faccende umane, non si premurò affatto di saltar
subito giù, giacché evitare il male e fare il bene individualmente, invece di adoperarsi per l’ordine del tutto, è in un certo senso un precipitoso pareggio con la coscienza a spese della cosa in quanto tale, un
cortocircuito, una fuga nel privato. anzi, in seguito alla sua involontaria esperienza, a ulrich venne addirittura in mente che abolire qua i
fucili, là i re, e ridurre con un piccolo o grande progresso la stupidità
e la cattiveria, non sarebbe servito praticamente a nulla dal momento
che la misura delle avversità e delle cattiverie torna immediatamente
a colmarsi, come se il mondo scivolasse sempre indietro con un piede,
mentre con l’altro avanza. se solo si riuscisse a conoscerne la causa e il
meccanismo segreto! sarebbe incomparabilmente più importante che
non comportarsi da brave persone in base a principi ormai desueti:
pertanto, in fatto di morale, ulrich propendeva più per il servizio di
stato maggiore che non per l’eroismo quotidiano delle buone azioni.
Richiamò ancora una volta alla mente la continuazione della sua
avventura notturna. era appena tornato in sé dopo quella zuffa finita male, quando una vettura di piazza si fermò accanto al marciapiede: mentre il cocchiere cercava di rialzare il ferito reggendolo per le
spalle, una signora si chinò su ulrich con in viso un’espressione angelica. nei momenti in cui la coscienza riemerge dal profondo, tutto
appare come nel mondo dei libri per bambini; ma non appena questo ottundimento ebbe lasciato il posto alla realtà, la presenza di una
donna che si dava da fare per lui avvolse ulrich in un’ondata leggera
e tonificante come acqua di Colonia, sicché egli si rese subito conto di
non essere troppo malconcio e cercò di rimettersi in piedi con disinvoltura. non gli riuscì esattamente come avrebbe voluto, e la signora
si offrì premurosa di accompagnarlo là dove qualcuno avrebbe potu24
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to assisterlo. ulrich chiese di essere riportato a casa e, poiché appariva ancora molto confuso e impacciato, la signora lo accontentò. in
carrozza si era poi ripreso rapidamente. sentiva accanto a sé qualcosa
di maternamente sensuale, una soffice nuvola di soccorrevole idealismo, al cui tepore incominciavano a formarsi, mentre egli ritornava
uomo, quei piccoli cristalli ghiacciati del dubbio e del timore di un gesto sconsiderato che riempivano l’aria con la morbidezza di una nevicata. Raccontò quel che gli era accaduto, e la bella signora, che pareva
appena poco più giovane di lui e doveva quindi essere sulla trentina,
deplorò la brutalità degli uomini e lo giudicò meritevole di una profonda compassione.
Come c’era da aspettarsi, ulrich prese allora a giustificare con vivacità l’accaduto e, a quella bellezza materna seduta tutta stupita al suo
fianco, spiegò che simili esperienze di lotta non devono essere giudicate in base all’esito. il loro fascino dipende anche dal fatto che in un
brevissimo spazio di tempo, con una rapidità inusitata per la vita borghese e guidati da segni appena percepibili, si devono compiere tanti
movimenti diversi, vigorosi e tuttavia così perfettamente coordinati
che diventa assolutamente impossibile affidarli al controllo della coscienza. al contrario, ogni sportivo sa che qualche giorno prima della gara bisogna sospendere l’allenamento, affinché i muscoli e i nervi
possano prendere gli ultimi accordi, senza che la volontà, l’intenzione e la coscienza vi assistano o addirittura vi mettano bocca. e al momento dell’azione – spiegò ulrich – ecco quel che succede: i muscoli e
i nervi scattano e combattono insieme con l’io; quest’ultimo però – ossia il corpo nel suo complesso, l’anima, la volontà, la persona tutta per
intenderci, così come il diritto civile la delimita rispetto all’ambiente – viene sollevato da quei muscoli e da quei nervi e trasportato come
europa in groppa al toro; e se per una volta le cose vanno diversamente, se per disgrazia anche solo il minimo barlume di riflessione attraversa quell’oscurità, allora l’impresa fallisce senz’altro.
ulrich aveva parlato con trasporto. in fondo – affermò – quest’esperienza del quasi totale venir meno della persona cosciente è affine a
esperienze ormai perdute, vissute un tempo dai mistici di tutte le religioni, ed è quindi una sorta di moderno surrogato di eterni bisogni,
un cattivo surrogato, ma pur sempre tale: pertanto il pugilato o altri
sport analoghi, che lo inseriscono in un sistema razionale, sarebbero
una specie di teologia, anche se, oggi come oggi, non si può ancora
pretendere che ciò venga riconosciuto da tutti.
indubbiamente ulrich s’era rivolto con tanta animazione alla sua
compagna di viaggio anche un po’ per vanità, nel desiderio di farle
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dimenticare la penosa situazione nella quale lo aveva trovato. Date
le circostanze, era per lei difficile capire se ulrich parlasse sul serio
o per scherzo. in ogni caso, le sembrò in fondo naturalissimo che lui
cercasse di spiegarle la teologia mediante lo sport: tentativo che forse era perfino interessante, dal momento che lo sport è un fenomeno
dei nostri giorni, mentre la teologia è qualcosa di cui non si sa assolutamente niente, benché sia innegabile che esistono ancora molte chiese. Comunque fosse, mentre pensava che era stata una fortuna l’aver
potuto salvare un uomo tanto intelligente, si domandò anche se egli
non avesse per caso riportato una commozione cerebrale.
ulrich, che ora voleva farsi capire, approfittò dell’occasione per accennare di sfuggita che anche l’amore rientra fra le esperienze mistiche e pericolose, perché strappa l’uomo dalle braccia della ragione,
per lasciarlo letteralmente sospeso nel vuoto.
«sì,» disse la signora «ma lo sport è così brutale!»
«Certo» assentì ulrich, affrettandosi a riconoscere che lo sport è
brutale. Lo si potrebbe definire – aggiunse – il sedimento di un odio
universale, capillarmente diffuso, che viene a concentrarsi nelle gare.
naturalmente si sostiene il contrario, che lo sport unisce, che rende
socievoli e cose del genere; ma questo in fondo dimostra soltanto che
brutalità e amore non sono più distanti, l’una dall’altro, di quanto lo
siano le ali di un grande uccello muto dai mille colori.
aveva posto l’accento sulle ali e sull’uccello muto dai mille colori:
un’immagine senza senso compiuto, ma pervasa di quella prodigiosa
sensualità con cui la vita nel suo organismo smisurato soddisfa contemporaneamente tutti gli opposti contraddittori; a questo punto s’accorse che la sua vicina non capiva assolutamente nulla, e tuttavia la
morbida nevicata che ella diffondeva nella carrozza era divenuta ancora più fitta. si volse allora tutto verso di lei e le domandò se per caso
le ripugnasse parlare di questioni del genere, che riguardavano il corpo. a dire il vero, l’attività fisica, che stava diventando già fin troppo
di moda, risvegliava in fondo una sensazione orribile, poiché il corpo,
quando è sottoposto a un allenamento serrato, prende il sopravvento e, con i suoi movimenti ormai automatici, risponde a ogni stimolo
senza bisogno di istruzioni e con una tale sicurezza, che al possessore
resta solo la spiacevole sensazione d’esser preso in giro, mentre il suo
carattere sembra sfuggirgli con una qualsiasi parte del corpo.
Parve in effetti che la questione toccasse intimamente la giovane
donna: si mostrò eccitata, respirò profondamente e, cauta, si ritrasse
un poco. sembrava che in lei si fosse messo in moto un meccanismo
simile a quello appena descritto: il respiro le si fece affannoso, arros26
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sì, il cuore prese a palpitare e forse c’era ancora dell’altro. ma proprio
in quel momento la carrozza si era fermata davanti all’abitazione di
ulrich. questi ebbe appena il tempo di chiedere con un sorriso l’indirizzo della sua salvatrice, in modo da poterle fare una visita di ringraziamento, ma con sua grande sorpresa tale favore non gli fu concesso. il cancello nero di ferro battuto si chiuse dunque alle spalle di
un giovanotto stupefatto. Poi, chi era rimasto fuori scorse probabilmente gli alberi di un vecchio parco drizzarsi alti e scuri alla luce delle lampadine elettriche; alcune finestre s’illuminarono e le ali basse di
una palazzina che faceva pensare a un boudoir si allargarono sul tappeto d’erba rasata e smeraldina; s’intravidero pareti adorne di quadri
e di file multicolori di libri, e il passeggero, bruscamente congedato,
fu accolto da un’esistenza inaspettatamente bella.
Così si erano svolti i fatti, e mentre ulrich ancora rifletteva come sarebbe stato spiacevole dover di nuovo perdere tempo in una di quelle avventure amorose delle quali era ormai sazio da un pezzo, gli fu
annunciata una signora che non aveva voluto dire il proprio nome e
che entrò da lui avvolta in un fitto velo. era la stessa che non aveva
voluto rivelare né identità né indirizzo, ma che ora, in quel modo romantico-caritatevole, con il pretesto d’informarsi sulle sue condizioni, continuava l’avventura di propria iniziativa.
Due settimane più tardi Bonadea era la sua amante già da quindici giorni.
8
La Kakania1
all’età in cui si prende ancora sul serio tutto quel che concerne il sarto o il barbiere e ci si guarda con piacere allo specchio, ci si raffigura
spesso anche un luogo dove si vorrebbe trascorrere la vita o dove sarebbe perlomeno segno di raffinatezza vivere, pur intuendo che, a conti fatti, non ci si starebbe troppo volentieri. questa sorta di ossessione
mentale ha assunto ormai da tempo le caratteristiche di una specie di
città superamericana, dove tutto corre o sta fermo con il cronometro
in mano. aria e terra costituiscono un formicaio attraversato dai piani delle corsie di traffico. treni, aerei, treni di superficie, treni sotterranei, uomini spediti per posta pneumatica, catene di autoveicoli sfrec1 Kakanien, neologismo musiliano coniato a partire dall’abbreviazione k.k. ovvero kaiserlich-kö-
niglich («imperial-regio»); vedi p. 30, note 1 e 2.
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ciano orizzontalmente; veloci ascensori pompano verticalmente masse
di individui da un piano di traffico all’altro; agli incroci si salta da un
sistema di trasporto all’altro, venendo risucchiati e inghiottiti, senza
avere il tempo per riflettere, dal ritmo di quei sistemi che, tra due velocità rombanti e incontrollate, crea una sincope, una pausa, una piccola crepa di venti secondi, e negli intervalli di quel ritmo universale a malapena ci si scambia in fretta due parole. Domande e risposte
ingranano l’una nell’altra come i pezzi di una macchina, ciascun individuo ha solo compiti ben definiti, le professioni sono raggruppate in luoghi speciali, si mangia mentre ci si sposta, i divertimenti sono
concentrati in altri quartieri della città, e in altri ancora sorgono le torri dove gli uomini ritrovano moglie, famiglia, grammofono e anima.
tensione e distensione, lavoro e amore vengono rigorosamente divisi nel tempo e misurati in base ad accurate ricerche di laboratorio. se
svolgendo una qualsiasi attività si hanno degli inconvenienti, si desiste subito: infatti se ne troverà un’altra, o magari si riuscirà a imboccare una via migliore, oppure qualcun altro scorgerà la via giusta che
a noi è sfuggita; e questo non nuoce affatto, anzi nulla comporta tanto
spreco di forza comune quanto la pretesa di essere chiamati a perseguire personalmente e fino in fondo un determinato obiettivo. infatti,
in una comunità dove ci sono forze in movimento, ogni via conduce a
un giusto obiettivo, purché non si indugi e non si rifletta troppo. sono
obiettivi a breve termine, ma anche la vita è breve, e così facendo le
si strappa il massimo del successo; del resto, per essere felice, l’uomo
non ha bisogno d’altro, giacché è il successo che forma l’anima, mentre il desiderio irrealizzato la deforma soltanto: per essere felici l’importante non è quel che si vuole, bensì il riuscire a ottenerlo. tanto più
che, come c’insegna la zoologia, da una somma di individui limitati
può benissimo risultare un insieme geniale.
non è affatto certo che le cose debbano andare proprio così. ma simili fantasticherie sono come quando si sogna di viaggiare e si ha la
sensazione del movimento incessante che ci porta con sé. sono superficiali, irrequiete e brevi. Dio solo sa che cosa succederà davvero. si
direbbe che ad ogni istante abbiamo l’opportunità di ricominciare da
capo e di stendere un progetto globale. se quel sistema tutto velocità
non ci piace, perché non costruirne un altro? uno lentissimo, ad esempio, con una fortuna che ondeggia velata, misteriosa come una chiocciola di mare e con quel profondo sguardo bovino che già faceva sognare i greci. ma purtroppo non è così semplice. il sistema ci tiene in
pugno. al suo interno viaggiamo giorno e notte e facciamo anche tutto il resto: ci si fa la barba, si mangia, si ama, si leggono libri, si esercita
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la propria professione, come se le quattro pareti stessero ferme; ma le
quattro pareti – è questo l’inquietante – viaggiano senza che noi ce ne
accorgiamo e lanciano avanti le loro rotaie come lunghe antenne ricurve che tastano l’ignoto, lasciandoci all’oscuro della meta. e inoltre vorremmo anche far parte, per quanto è possibile, delle forze che guidano
il treno del tempo. si tratta di un ruolo assai poco chiaro, e quando si
guarda fuori dal finestrino dopo un intervallo più lungo del solito, si
ha l’impressione che il paesaggio sia mutato. Ciò che fugge via, continua a fuggire solo perché non potrebbe fare altrimenti, mentre in noi,
che pure siamo rassegnati, si fa sempre più intensa la spiacevole sensazione di avere come oltrepassato la meta o imboccato la linea sbagliata. e un bel giorno siamo pervasi da un bisogno irresistibile: scendere,
saltar giù! un desiderio di esser trattenuti, di non progredire, di restar
fermi, di tornare indietro al punto che precede la diramazione sbagliata. e, nel buon tempo antico, quando esisteva ancora l’impero austriaco, in un caso del genere si poteva scendere dal treno del tempo, salire
su un normale convoglio di una normale ferrovia e ritornare in patria.
Là in Kakania, in quello stato incompreso, che ormai non esiste più
e che in tante cose fu un modello ingiustamente sottovalutato, c’era
anche velocità, ma non troppa. quando si era all’estero e si ripensava
a questo paese, sorgeva davanti agli occhi il ricordo di quelle sue strade bianche, larghe e comode, risalenti al tempo delle marce a piedi e
dei postali, strade che si diramavano in tutte le direzioni, come le vie
di trasmissione del regolamento, come i nastri del traliccio chiaro nelle uniformi dei soldati, e che cingevano le province con il braccio bianco-cartaceo dell’amministrazione. e che province! Ghiacciai e mari, il
Carso e i campi di grano della Boemia, notti sull’adriatico percorse
dallo stridio inquieto dei grilli, e villaggi slovacchi dove il fumo usciva dai camini come da narici camuse e il villaggio se ne stava rannicchiato tra due collinette, quasi che la terra avesse dischiuso un poco
le labbra per riscaldare il suo bambino. naturalmente su quelle strade
si incontravano anche automobili; ma non troppe. Ci si preparava anche là alla conquista dell’aria; ma senza eccedere in solerzia. Di quando in quando si faceva partire una nave per il sudamerica o per l’estremo oriente; ma non troppo spesso. non si ambiva al dominio del
mondo, né dal punto di vista economico né da quello politico; si era
al centro dell’europa, dove si intersecano gli antichi assi del mondo;
le parole “colonia” e “oltremare” risuonavano ancora come un qualcosa di remoto e di non sperimentato. si viveva nel lusso, ma di certo non con l’estrema raffinatezza dei francesi. si praticava lo sport,
ma non da forsennati come gli anglosassoni. si spendevano somme
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ingenti per l’esercito, ma solo quel tanto che bastava per esser certi
di rimanere la penultima delle grandi potenze. anche la capitale, pur
essendo una delle città più grandi del mondo, era un po’ più piccola di tutte le altre, ma notevolmente più grande di quanto lo siano di
solito le grandi città. e l’amministrazione di questo paese, illuminata, discreta, volta a smussare prudentemente tutti gli spigoli, era nelle mani della migliore burocrazia d’europa, alla quale si poteva rimproverare un solo difetto: ritenere saccenteria e presunzione il genio
e la geniale intraprendenza dei privati che non fossero legittimati a
ciò dal privilegio di alti natali o di un incarico statale. e d’altronde,
c’è forse qualcuno cui piaccia farsi comandare da chi non è autorizzato? in Kakania, poi, un genio passava sempre per uno sciocco, ma
a differenza di quel che capitava dalle altre parti, non succedeva mai
che uno sciocco passasse per un genio.
ma quante cose curiose si potrebbero ancora dire su questa Kakania che ormai non esiste più! era ad esempio imperial-regia, ma anche imperiale e regia: ogni cosa e ogni persona portava là uno dei due
segni “i.r.” o “i. e r.”; occorreva tuttavia una scienza occulta per riuscire sempre a distinguere con certezza a quali istituzioni e a quali individui toccasse l’appellativo di imperial-regio e a quali quelli di imperiale e regio.1 si scriveva monarchia austro-ungarica, ma si diceva
austria, usando dunque un nome cui si era rinunciato con un solenne giuramento ufficiale,2 ma che continuava a venir impiegato in tutte
le questioni di sentimento, a dimostrazione del fatto che i sentimenti
sono importanti quanto il diritto costituzionale e i decreti non toccano
le cose realmente serie della vita. in base alla sua costituzione era uno
stato liberale, ma il suo governo era clericale. il governo era clericale, ma si viveva in un’atmosfera liberale. Davanti alla legge tutti i cittadini erano uguali,3 ma non tutti erano cittadini. C’era un Parlamen-
1
in seguito alla trasformazione dell’impero in monarchia austro-ungarica, la denominazione
“i.r.” = imperial-regio spettava alle autorità e alle istituzioni statali della parte austriaca della
monarchia, mentre l’attributo “i. e r.” = imperiale e regio era riservato alle autorità e alle istituzioni statali comuni all’austria e all’ungheria.
2 il giuramento solenne è quello che nel 1867 segnò la trasformazione dell’impero nella monarchia austro-ungarica, costituita da due stati distinti: le province occidentali della Cisleitania (che comprendeva l’attuale austria, nonché trieste, Friuli orientale, istria, tirolo, Boemia,
moravia, Galizia, Bucovina e Dalmazia) e il Regno d’ungheria o transleitania. Fino al 1917,
anno in cui l’imperatore Carlo introdusse la denominazione di austria per la parte occidentale dell’impero, quest’ultima rimase ufficialmente senza nome, perché i territori e i popoli non
tedeschi non avrebbero mai accettato di chiamarsi austriaci.
3 L’uguaglianza dei cittadini era proclamata dall’articolo 2 della Costituzione del dicembre 1867
che, con poche modifiche, restò in vigore fino alla caduta della monarchia.
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to, il quale faceva un uso così smodato della sua libertà che di solito
lo si teneva chiuso; ma c’era anche un paragrafo per gli stati d’emergenza, in forza del quale si poteva fare a meno del Parlamento, e tutte le volte che già ci si rallegrava per il ritorno all’assolutismo, la Corona ordinava che fosse ricostruito un governo parlamentare. Di fatti
del genere ne accadevano molti, in quel paese, e fra gli altri ci furono
anche quei conflitti nazionali che attirarono, a buon diritto, la curiosità dell’europa e che oggi vengono presentati in modo completamente sbagliato. Furono così violenti da far inceppare e bloccare più volte
all’anno la macchina dello stato, ma durante gli intervalli e le pause di
governo si andava perfettamente d’accordo e ci si comportava come se
non fosse accaduto nulla. e, d’altronde, non era accaduto nulla di reale. semplicemente, l’ostilità che ciascun individuo prova nei confronti delle aspirazioni del prossimo, ostilità che ci trova oggi tutti d’accordo, in quello stato aveva precorso i tempi e, si potrebbe dire, si era
trasformata in un cerimoniale raffinatissimo che avrebbe potuto avere ancora importanti conseguenze, se la sua evoluzione non fosse stata interrotta prematuramente da una catastrofe.
in Kakania, infatti, non soltanto l’avversione nei confronti dei concittadini s’era accresciuta fino a divenire un sentimento collettivo, ma
anche la diffidenza verso se stessi e il proprio destino aveva assunto il
carattere di una profonda protervia. in quel paese si agiva – e talvolta
fino ai sommi gradi della passione con tutte le sue conseguenze – sempre diversamente da come si pensava, oppure si pensava diversamente da come si agiva. osservatori sprovveduti hanno ritenuto si trattasse di amabilità o addirittura di un difetto di quello che secondo loro è
il carattere austriaco. ma si sono sbagliati; e ci si sbaglia sempre a voler spiegare ciò che accade in un paese semplicemente con il carattere
dei suoi abitanti. in effetti, l’abitante di un paese ha perlomeno nove
caratteri: uno professionale, uno nazionale, uno statale, uno di classe, uno geografico, uno sessuale, uno conscio, uno inconscio e magari anche un carattere privato. egli li riunisce in sé, ma essi disgregano lui, riducendolo in fondo a una piccola cavità, erosa da tutti quei
rigagnoli che si riversano in essa e subito ne fuoriescono per riempire, insieme con altri ruscelletti, una nuova cavità. Perciò ogni abitante di questa terra ha ancora un decimo carattere, e tale carattere non
è altro che la fantasia passiva degli spazi non riempiti; esso permette
all’uomo qualsiasi cosa, eccetto una: prendere sul serio quel che fanno i suoi altri nove o più caratteri e quel che accade loro; ossia, in altre parole, gli impedisce proprio ciò che lo potrebbe riempire. questo
spazio che – ammettiamolo pure – è così difficile da descrivere, ha in
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italia colore e forma diversi che in inghilterra, perché un altro colore
e un’altra forma ha ciò che su di esso risalta, benché in sé tale spazio
sia il medesimo in entrambi i luoghi, per l’appunto un invisibile spazio vuoto che contiene la realtà come una piccola città d’un gioco di
costruzioni, abbandonata dalla fantasia.
Così era accaduto in Kakania, per quel tanto che in generale può
palesarsi agli occhi di tutti, e da questo punto di vista la Kakania era
lo stato più progredito del mondo, sebbene il mondo non lo sapesse ancora. era lo stato che, in qualche modo, riusciva ancora a tenere
il passo con se stesso: vi si godeva una libertà negativa, nella costante sensazione che la propria esistenza non avesse ragioni sufficienti,
e lambiti dalla grande fantasia del non-accaduto, o meglio del non irrevocabilmente accaduto, come dal soffio degli oceani dai quali è sorta l’umanità.
«È capitato che...» si diceva in Kakania,1 mentre altra gente da altre
parti credeva fosse accaduto qualcosa di straordinario: era una locuzione speciale, che non ha corrispettivo in alcun’altra lingua, una locuzione al cui soffio i fatti e i colpi del destino diventavano lievi come
piume e pensieri. sì, benché molte cose testimoniassero il contrario,
la Kakania era forse un paese di geni, e fu probabilmente per questo
che andò in rovina.
9
Primo dei tre tentativi
di diventare un uomo importante
L’uomo senza qualità, ritornato in patria, non ricordava periodo della sua vita che non fosse stato animato dalla volontà di diventare un
uomo importante; pareva che ulrich fosse nato con quel desiderio. È
vero che una pretesa simile può anche tradire vanità e stupidità, ma
non è meno vero che si tratta di un’aspirazione molto bella e molto
giusta, senza la quale ci sarebbero probabilmente ben pochi uomini
importanti.
L’unico guaio era che egli non sapeva che cos’è un uomo importante né come lo si diventa. quando andava a scuola, aveva ritenuto tale napoleone, in parte per la naturale ammirazione che la gioventù prova per il crimine, in parte perché gli insegnanti parlavano
1
Es ist passiert..., più vago e fatalistico di Es geschah («È accaduto»).
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esplicitamente di quel tiranno, che aveva tentato di mettere a soqquadro l’europa, come del più grande delinquente della storia. La conseguenza fu che ulrich, appena ebbe lasciato la scuola, divenne cadetto in un reggimento di cavalleria. È probabile che già allora, se lo si
fosse interrogato sulle ragioni di quella scelta, non avrebbe più risposto: «Per diventare tiranno». tanto sono gesuiti tali desideri! napoleone aveva incominciato a manifestare il suo genio solo dopo esser
divenuto generale, e come avrebbe potuto il cadetto ulrich convincere il suo colonnello della necessità di questa condizione? Già durante le esercitazioni era emerso più volte che il colonnello la pensava
in tutt’altro modo. Ciò nonostante, se ulrich non fosse stato così ambizioso, non avrebbe maledetto la piazza d’armi, sul cui pacifico terreno la presunzione non è distinguibile dalla vocazione. a certi programmi pacifisti, quali “educazione del popolo mediante le armi”,
egli a quell’epoca non attribuiva il minimo valore e si lasciava invece pervadere dal ricordo appassionato delle virtù eroiche dell’autorità, della forza e dell’orgoglio. Praticava gli sport equestri, si batteva
in duello e divideva l’umanità in tre sole categorie: ufficiali, donne e
borghesi. questi ultimi costituivano una classe fisicamente sottosviluppata e moralmente spregevole, le cui mogli e figlie erano riserva
di caccia per gli ufficiali. Professava un sublime pessimismo: secondo lui, dato che il mestiere di soldato è uno strumento affilato e incandescente, con esso bisognava arrivare al punto di mettere a ferro
e fuoco il mondo, pur di salvarlo.
ebbe sì la fortuna di non riportarne alcun danno, ma un giorno fece
un’esperienza. Durante un ricevimento venne a un piccolo diverbio
con un noto finanziere, e avrebbe voluto risolverlo nel solito modo
grandioso, ma risultò che anche fra i borghesi ci sono uomini capaci
di difendere i loro familiari di sesso femminile. il finanziere ebbe un
colloquio con il ministro della Guerra, che conosceva personalmente,
e la conseguenza fu che ulrich intavolò con il suo colonnello una lunga discussione, nel corso della quale gli fu spiegata la differenza tra un
granduca e un semplice ufficiale. Da quel momento in poi la professione del guerriero non gli diede più alcuna gioia. aveva immaginato di trovarsi sulla scena di avventure sensazionali delle quali era lui
l’eroe, e all’improvviso vide un giovanotto ubriaco far chiasso in un
grande spiazzo vuoto, con i sassi come unici interlocutori. quando se
ne rese conto, si congedò da quella carriera ingrata, nella quale era da
poco giunto al grado di sottotenente, e lasciò il servizio.
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