Il resto della Legge. Antigone nella psicoanalisi di Jacques Lacan di

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Il resto della Legge. Antigone nella psicoanalisi di Jacques Lacan di
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CULTURE CIVILTÀ POLITICA
ANNO XI
NUMERO 2 - 2013
ISSN 2281-3489
Il resto della Legge.
Antigone nella psicoanalisi di Jacques Lacan
di Pietro Lembo
La Cosa (...), trovata l’occasione per
mezzo del comandamento, mi ha
sedotto e attraverso di esso mi ha fatto
desiderio di morte.
J. Lacan, L’etica della psicoanalisi
Spesso si sente dire che le tragedie greche custodiscano messaggi
senza tempo. Pur non entrando nel vivo di questa complicata faccenda,
una cosa sembra evidente: la tradizione classica, attraverso il racconto
(mythos), ha trovato un modo per riflettere intorno ai problemi che
attanagliano gli uomini. La vita, la morte, il potere, il destino, le passioni:
questi i temi principali attorno ai quali i grandi poeti della grecità hanno
ordito le loro narrazioni mitiche. È perciò che a tutt’oggi si fa costante
riferimento allo spirito tragico. Fra gli svariati racconti ce n’è uno che ha
fatto scorrere fiumi di inchiostro: l’Antigone di Sofocle. Da secoli i
pensatori subiscono il fascino e la seduzione di questa tragedia che, fuor
di metafora, costituisce un vero e proprio vicolo cieco. Ciò che in questa
narrazione salta subito all’occhio è la dolorosa esperienza
dell’opposizione non riconciliata: da un lato spicca una fanciulla,
Antigone, la giovane silfide che, rea di aver trasgredito l’editto della Città,
colpevole di aver dato degna sepoltura a quel criminale di suo fratello,
emana un bellezza accecante e scabrosa. Dall’altro lato, quasi come per
una legge del contrappasso, Creonte, detentore del potere politico che,
leso nella sua sovranità, sentenzia la crudele pena ai danni della funesta
eroina. Con questa lacerazione irresolubile, il racconto tragico offre
l’occasione per riflettere in merito ad uno dei problemi più spinosi della
fenomenologia politica e sociale: il rapporto tra Legge e desiderio
singolare. Scandagliando la lettura che di questo racconto ha fornito uno
dei più celebri e importanti psicoanalisti del ‘900, Jacques Lacan, in
questa sede si cercherà di pervenire ad un punto di vista inedito
relativamente al summenzionato problema.
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1. Il politico tra immaginario, simbolico e reale
Sovrano della Città di Tebe, Creonte è l’incarnazione della
dimensione politica, di quella dimensione che, per essere compresa in
senso psicoanalitico, deve essere presentata in relazione ai registri che
strutturano l’esperienza umana1: l’immaginario, il simbolico e il reale. Si
tratta di sondare come si intrecciano questi tre livelli, ovvero come si
articola il politico in rapporto ad essi.
L’immaginario – stadio dello specchio – costituisce quella fase in cui il
piccolo d’uomo cerca di riparare la propria debolezza corporea attraverso
l’omogeneità rilanciata dallo specchio. Su queste basi avviene la
formazione dell’io, il quale, spiega Lacan, è paranoico per struttura.
Sorgendo da un’imago che non trova in sé, bensì fuori di sé, l’io è
destinato a rivaleggiare con la propria figurazione narcisistica, sia essa
ideale, materiale o personificata da un prossimo. Tale situazione si
innesca alla nascita: il primo oggetto desiderato dal bambino corrisponde
al desiderio della madre, al fallo2. Essere il fallo significa soddisfare il
desiderio della madre, colmarne la mancanza.
L’imago incestuosa figlio=fallo ingenera la strutturazione paranoica
dell’infans, il quale, specchiandosi negli oggetti desiderati dalla madre, si
sente onnipotente; d’altro canto, giammai effettivamente in grado di
colmare la mancanza materna, si sente inadeguato, e così minacciato da
coloro che, simili a lui, potrebbero usurparne il posto. Ne consegue una
fenomenologia rivalitaria – bellum omnium contra omnes – ove, doppi l’uno
dell’altro, gli individui sono costretti ad annientarsi reciprocamente per
raggiungere l’illusione di pienezza bramata.
Per una decostruzione dell’umanismo lacaniano, cfr.: J. Derrida, L’animale che dunque
sono, tr. it. di M. Tannini, Jaca Book, Milano, 2006; Id., La Bestia e il Sovrano I (20012002), tr. it. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano, 2009.
2 Cfr. J. Lacan, La significazione del fallo, in Scritti. Volume II, tr. it. di G. Contri, Einaudi,
Torino, 2002. Il fallo è il significante-primo giacché caratterizza la prima relazione che
il piccolo d’uomo intraprende con il mondo, vale a dire la relazione con la madre.
Identificandosi nel fallo di cui la madre manca, il bambino è portato a saturare la
mancanza materna. Questa mancanza testimonia che il fallo non è l’organo naturale,
giacché, spiega Lacan, sul piano organico la madre non manca di nulla. La mancanza è
un concetto simbolico, talché, anche il fallo non può che essere un simbolo. In ogni
caso, tutto l’equilibrio psichico del futuro adulto, secondo Lacan, è connesso alla
madre, la quale dovrebbe evitare di ridurre il bambino a strumento con cui colmare il
proprio vuoto. In caso contrario, il figlio resterà fissato al desiderio della madre
sviluppando svariati sintomi: dalla fobia al feticismo. Per ulteriori approfondimenti,
cfr. Id., Il seminario. Libro IV. La relazione oggettuale (1956-1957) tr. it. di R. Cavasola e C.
Menghi, Einaudi, Torino, 2007.
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Ad interrompere quest’inimicizia interviene il linguaggio3.
Contrariamente al campo immaginario, ove tutto appare come un
tremolante miraggio dell’io, il linguaggio svolge una funzione simbolica:
consta di significanti che, mediando ogni percezione, impediscono al
soggetto di identificarsi negli oggetti che lo attorniano, ovvero di restare
fissato al desiderio della madre. Si tratta di una vera e propria
simbolizzazione dell’immaginario4 che non neutralizza il desiderio
giacché, al contrario, lo regola attraverso un operatore centrale del
linguaggio5, attraverso il cosiddetto significante-primo o Nome-delPadre. Con questo termine lo psicoanalista individua la Legge, la
funzione strutturale a partire dalla quale si innesca la mediazione
traumatica del significante, l’interruzione della triade immaginaria madrefallo-figlio. In questo modo, al desiderio secondo l’altro, secondo la
madre, segue il desiderio dell’Altro, il desiderio di essere riconosciuto dal
Terzo, dalla Legge6.
Così si esprime Lacan in proposito: “i simboli avvolgono infatti la vita dell’uomo con
una rete così totale da congiungere prima ancora della sua nascita coloro che lo
generano “in carne ed ossa”, da apportare alla sua nascita insieme ai doni degli astri
(...) le leggi degli atti che lo seguiranno persino là dove non è ancora e persino al di là
della sua stessa morte” (J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio, in Scritti.
Volume I, cit., p. 272).
4 Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica psicoanalitica
(1954-1955), tr. it. di A. Turolla, C. Pavoni, P. Feliciotti e S. Molinari, Einaudi, Torino,
2006.
5 Benché non sia possibile in questa sede affrontare la concezione lacaniana del
linguaggio, un piccolo cenno è d’obbligo. Riprendendo il pensiero di Saussure, Lacan
adopera la contrapposizione tra langue e parole al fine di tracciare il rapporto fra Altro e
Soggetto. In verità non si tratta di tradurre Saussure nel linguaggio psicoanalitico, ma
di considerare la linguistica strutturale decostruendone l’assunto di base: l’algoritmo
fra Significato e significante. Secondo Lacan, infatti, l’idea che il significante costituisca
la buccia esteriore del significato mentale è dogmatica. Rovesciando questo paradigma,
Lacan mostra come non possa esistere alcun puro significato al di là o al di qua della
catena significante. Si tratta di comprendere che prima delle marche linguistiche non
esiste alcun senso, ovvero che il senso scaturisce dal significante in rapporto ad altri
significanti, invece che dalla relazione fra significante, significato e referenza. Lungi
dall’essere qualcosa di autonomo e indipendente – in sé –, il senso è il significante per
un altro significante: “si può dire che è nella catena significante che il senso insiste, ma
che nessuno degli elementi della catena consiste nella significazione di cui è capace in
quello stesso momento. Si impone dunque la nozione di uno scivolamento incessante
del significato sotto il significante” (J. Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione
dopo Freud, in Scritti. Volume I, cit., p. 497). La digressione appena menzionata sembra
imparentata con le riflessioni derridiane sulla traccia come perdita dell’origine. Per
approfondimenti, cfr. J. Derrida, Della Grammatologia, tr. it. di R. Balzarotti, F.
Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso e A. C. Loaldi, Jaca Book, Milano, 2006.
6 Il Nome-del-Padre è quel significante che produce un particolare lavoro nella catena
del linguaggio: la metafora. Come dice Lacan: “essa scaturisce tra due significanti uno
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È a questo punto che è possibile parlare del Politico in senso
psicoanalitico: senza Nome-del-Padre, senza Simbolico, senza Legge,
non vi sarebbe possibilità per alcun patto sociale. Il Nome-del-Padre
assurge a garante dell’ordine simbolico-politico, o, per dirla con lo stesso
Lacan, a significante che fonda il significante.
Su queste basi potrebbe sembrare che la psicoanalisi lacaniana
culmini in una specie di strutturalismo politico che regola tutto per il
tramite del significante-primo. Ma le cose non stanno così. Partendo dal
trauma che questo stesso significante ingenera, Lacan individua una
specie di buco interno alla simbolica politica: “dal momento che l’essere
umano è parlante, tutto è fottuto, finisce la perfezione”7. Mediando tutti i
desideri, differendo tutte le relazioni oggettuali, il simbolico svela che
l’appagamento in generale non è mai pieno, bensì afflitto da una
mancanza interna, dalla cosiddetta mancanza-ad-essere. Ecco l’imprevisto:
quel che produce la mancanza – il simbolo – da un lato funziona come
interdetto, ma per questa stessa ragione, dall’altro sollecita che si colmi
ogni residuo, che si compia un godimento completo, tipico dell’illusoria
condizione di purezza pre-linguistica. La tensione al godimento pieno, in
tal senso, deve essere riconsiderata retrospettivamente, alla luce di ciò che
l’innesca interdicendola: il linguaggio, il simbolico, la Legge, l’Altro8:
la trasgressione nel senso del godimento si compie solo facendo leva sul
principio contrario, sulle forme della legge (...). Bisognava che il peccato
dei quali s’è sostituito all’altro prendendone il posto nella catena significante, mentre il
significante occultato rimane presente per la sua connessione (metonimica) con il resto
della catena” (J. Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio, cit., p. 502). In altri termini, la
metafora sostituisce il Nome-del-Padre al fallo in modo da sottrarre il figlio dalle
grinfie della madre. Al contempo, tuttavia, il fallo della madre persiste come desiderio
inconscio: esso viene ricercato negli oggetti sostitutivi con i quali il desiderio assume
caratterizzazione metonimica. A causa della rimozione del fallo, infatti, il desiderio è
costretto a ottenere la parte – l’oggetto sostitutivo – invece del tutto – l’immagine del
fallo. Per ulteriori approfondimenti, cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro V. Le formazioni
dell’inconscio (1957-1958), a cura di Di Ciaccia, Einaudi, Torino, 2004.
7 J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), tr. it. di C.
Vigano e R. E. Manzetti, Einaudi, Torino, 2001, p. 32.
8 Come dice Lacan: “la legge è forse la Cosa? Questo no. Tuttavia io non ho potuto
prendere coscienza della Cosa se non attraverso la Legge. Non avrei infatti avuto l’idea
di bramarla se la Legge non avesse detto: non la bramerai. Ma la Cosa, trovando
l’occasione, suscita in me ogni sorta di bramosie grazie al comandamento; infatti senza
la Legge la Cosa è morta. (...) la Cosa infatti, trovata l’occasione per mezzo del
comandamento, mi ha sedotto e attraverso di esso mi ha fatto desiderio di morte” (J.
Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), tr. it. di M.D. Contri,
Einaudi, Torino, 2008, pp. 98-99).
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avesse la Legge affinché, dice San Paolo, egli potesse diventare
smisuratamente peccatore9.
Per dirla altrimenti, “c’è identità tra il (...) significante e
l’introduzione nel reale di un’apertura beante, di un buco”10, di una faglia
che Lacan ha identificato altresì nel reale, nell’impossibile, nella Cosa11 (das
Ding). “La Cosa è ciò che patisce del significante”12, è la mancanza
tracciata dal simbolico nelle profondità del desiderio, il quale, come tale,
è destinato a recuperare ciò che, in verità non ha mai posseduto13.
Irriducibile a tutte le immagini e a tutti i simboli, la Cosa non potrà
essere reperita in nessun oggetto, così da corrispondere sempre ad
un’“Altra Cosa”14, se non, addirittura, a una “Non-Cosa”15: “la Cosa (...)
non è – brilla per la sua assenza, per la sua estraneità”16. Il problema è
che intraprendere la via del desiderio puro, dell’Altra Cosa, equivale ad
emanciparsi dall’ente in generale che, inadeguato al bagliore dell’oggetto
perduto, merita di essere annientato. Questa distruzione, ancora una
volta, dipende dalla catena significante. Iscrivendo la natura nella storia, il
significante agisce in senso creazionistico (ex nihilo)17 consente di
Ivi, p. 208.
Ivi, p. 144.
11 L’emersione della Cosa, inoltre, è spiegata da Lacan in relazione alla strutturazione
dello psichismo che Freud presenta nel suo famoso Progetto per una psicologia scientifica.
Per approfondimenti in merito, cfr. ivi, pp. 23-62.
12 Ivi, p. 140.
13 Con le parole di Lacan: “questo oggetto comunque, dato che si tratta di ritrovarlo, lo
qualifichiamo come oggetto perduto. Ma questo oggetto, in fin dei conti, non è mai
stato perduto, benché si tratti essenzialmente di ritrovarlo” (ivi, p. 68).
14 Ivi, p. 141.
15 Ivi, p. 162.
16 Ivi, p. 74. Su questo punto occorre una puntualizzazione. L’Altra Cosa, benché
prossima alla totalità prodotta dall’immaginario, non deve essere confusa con questo
registro. L’immaginario, come vedremo meglio in seguito, svolge una funzione velante
rispetto alla Cosa, serve, cioè, ad occultarla del tutto, giacché essa mette in crisi tutte le
identificazioni invitando ad un godimento mortifero. Per chiarire questa differenza,
potrebbe essere utile la distinzione fra reale immaginario e immaginario reale tracciata da
Žižek. Mente nel primo caso siamo di fronte ad una simulazione illusoria della totalità,
tale appunto da mascherare ogni effettivo contatto con das Ding, nel secondo caso,
invece, siamo di fronte al cosiddetto passaggio all’atto, ovvero alla concrezione del
godimento mortifero, al reale stesso. Per approfondimenti, cfr. S. Žižek, G. Daly,
Psicoanalisi e mondo contemporaneo. Conversazioni con Žižek, tr. it. di G. Senia, Edizioni
Dedalo, Bari, 2006, p. 96.
17 La dimensione creazionistica del significante consente di elaborare una cosmologia
del tutto antitetica a quella della filosofia platonico-aristotelica. Mentre quest’ultima,
priva dell’ex nihilo, culmina nell’idea illusoria di un’armonia cosmica, la logica
creazionistica, secondo Lacan, è ben più in grado di svelare la reale condizione di
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scorgere l’inizio dei cicli biologico-evolutivi, quell’origine che, giacché
“posta”, è suscettibile di essere “deposta”, ovvero di aprire nuovi cicli
cosmici, possibilmente non più afflitti dall’assenza dell’Altra Cosa. La
ricerca di Altra Cosa è, quindi, destinata a compiersi nella creazione, o, il
che è lo stesso, nella distruzione di tutto ciò che è:
Volontà di distruzione. Volontà di ricominciare daccapo. Volontà di
qualcosa d’Altro, nella misura in cui tutto può essere chiamato in causa a
partire dalla funzione del significante. Se tutto ciò che è immanente o
implicito nella catena degli eventi naturali può essere considerato come
sottomesso a una pulsione detta di morte, è solo nella misura in cui c’è la
catena significante18.
Pulsione di morte: ecco il nome del resto prodotto dal simbolico19.
Prefigurando “l’aldilà di tale catena, l’ex nihilo”20 evoca una natura nuova,
infiamma la passione del reale, della distruzione cosmica. Stando a questi
presupposti, gli uomini non sono alla ricerca del bene, del piacere,
dell’utile: condannati a non poter cedere sul proprio desiderio, in nome
dell’Altra Cosa sono disposti a tutto, anche al sacrificio della loro stessa
vita. Per assurdo che possa sembrare, c’è una tensione nell’uomo che non
si lascia addomesticare.
Ciò detto, quel che poco sopra è apparso come il garante
dell’ordine simbolico-politico – il Nome-del-Padre – emerge adesso alla
luce del proprio limite interno. Tracciando una mancanza nella vita, il
Nome-del-Padre, da un lato regola, rappresentandole, le pulsioni dei
soggetti che include al proprio interno; dall’altro innesca la ricerca di
quell’impossibile che, pur eccedendo tutti i significanti, ma forse proprio
perciò, assurge a cifra espressiva della singolarità di ognuno. Il simbolico
è dunque bucato da un resto che è esso stesso a produrre: “è l’azione
stessa del linguaggio che determina la differenza irriducibile tra l’essere
squilibrio degli uomini nel mondo; cfr. J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., pp. 142146.
18 Ivi, p. 250.
19 Dice Lacan: “La pulsione di morte va collocata in un ambito storico, in quanto essa
si articola a un livello definibile soltanto in funzione della catena significante, ossia in
quanto un riferimento, che è un riferimento d’ordine, può essere situato rispetto al
funzionamento della natura. Ci vuole qualcosa al di là, da dove possa essere colta in
una memorizzazione fondamentale, di modo che tutto possa essere ripreso, non
semplicemente nel movimento delle metamorfosi, ma a partire da un’intenzione
iniziale” (ivi, p. 249).
20 Ivi, p. 250.
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che trova una rappresentazione e ciò che, fatalmente, questa stessa
rappresentazione esclude proprio laddove lo rappresenta”21. Singolarità è
il nome del resto che spazia l’ordine simbolico: “se il soggetto è escluso
dall’ordine simbolico, a sua volta, l’ordine simbolico (…), si trova
decompletato da una mancanza interna che è quella aperta dal soggetto
stesso”22. In definitiva, benché insuperabile, pena lo squilibrio
psicosociale, il Nome-del-Padre si rivela essere solo un sembiante senza
fondamento23: “il Nome-del-Padre non è il fondamento dell’ordine
simbolico, ma ciò che, in quanto sembiante, supplisce all’assenza di
fondamento ultimo di questo universo”24. I membri di tutti i patti sociali,
in tal senso, benché sempre identificati al significante-padrone, sono
altresì costretti a separarsi da esso, talché si assumano la responsabilità
del proprio nome, di ciò che non può trovare sostegno definitivo nel
Nome-del-Padre. Si tratta di elaborare il lutto: “l’Altro vacilla”25, l’Altro
dell’Altro, il garante dell’Altro scopre la propria incompletezza; “non c’è
metalinguaggio (…) non c’è Altro dell’Altro. E il legislatore (colui che
pretende di erigere la Legge) in quanto esige di supplirgli si presenta
come impostore”26. Nessun Altro può dire la verità del desiderio
singolare27, pena l’identificazione immaginaria con il significantepadrone, ovvero la credulità nei confronti dell’Altro dell’Altro.
21 M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina,
Milano, 2012, p. 212.
22 Ivi, p. 214.
23 Per ulteriori approfondimenti, cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XVIII. Di un discorso che
non sarebbe del sembiante (1971), tr. it. di A. Di Ciaccia e M. Daubresse, Einaudi, Torino,
2010.
24 M. Recalcati, Jacques Lacan, cit., p. 219. Il padre, dunque, permettendo l’ingresso nel
simbolico, conferisce il senso, e tuttavia, dacché non ha il potere di esaurire il campo
esperienziale con il proprio significante, al contempo, è portavoce del limite del senso,
ovvero del non-senso. Ciò significa che, benché il padre permetta l’accesso
dell’esistenza al senso, non può comunque salvare l’esistenza dal non-senso. Invece di
credere che dietro alle cose risieda altro senso, occorre piuttosto, secondo Lacan,
accettare il limite del senso, pena la caduta nel patologico.
25 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 227.
26 J. Lacan, Sovversioni del soggetto, cit., p. 816. Come dice Recalcati a proposito del vuoto
dell’Altro: “è evidente che, seguendo la logica dell’eccezione è sempre in agguato il
rischio della tirannide, cioè di qualcuno che occupi realmente (e non solo
simbolicamente) quel posto e che, di conseguenza, esso cessi di essere un posto logico
– quindi strutturalmente vuoto – per divenire il luogo dove si esercita sadicamente un
potere senza più limiti. È ciò che accade in ogni tirannia. In questo caso si tratterebbe
di un modo totalitario di intendere la funzione logica dell’eccezione. L’antidoto a
questa possibile deriva è invece quello di saper preservare il posto dell’eccezione come
un posto vuoto” (M. Recalcati, Jacques Lacan, cit., p. 533).
27 M. Recalcati, Lo psicoanalista e la città. L’inconscio e il discorso del capitalista, manifestolibri,
Roma, 2011, p. 66.
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Ecco il quadro in cui si svolge lo scontro fra Creonte ed Antigone;
tra colui che cerca di occultare la mancanza dell’Altro, e colei la quale
tenta di saturare la mancanza del proprio desiderio: entrambi vorrebbero
riempire la mancanza che si sono vicendevolmente procurati. Creonte
incarna il discorso del padrone, quel discorso che, raccontando la favola
di un Sommo Bene cui tutti i sudditi dovrebbero identificarsi, utilizza
l’immaginario per riparare la mancanza del simbolico28, convincendo,
così, circa la completezza della Comunità: “l’idea immaginaria di un tutto,
così come è data dal corpo, in quanto si appoggia (…) su ciò che, al
limite, diviene sferico, è sempre stata utilizzata in politica”29. Di contro,
Antigone, inseguendo il proprio desiderio singolare sino alla mancanza
che le scappa, riconferma il buco del simbolico, incarnando, come tale,
una condizione di tremenda estraneità. Assolutamente singolare,
infiammata dalla propria pulsionalità acefala, slacciata da ogni vincolo,
Antigone rende visibile il desiderio, ciò che, per l’appunto, buca la Legge,
sottolineandone i limiti.
2. Creonte e il bene della Comunità
Secondo Lacan, Creonte ricopre una funzione cardine nella
tragedia. Egli è colui che, in quanto sovrano, cerca di fare il bene: “il che,
dopo tutto, è il suo ruolo. Il capo è colui che conduce la comunità. È li
per il bene di tutti”30. Ma a quali condizioni è possibile fare il bene di
tutti se non attraverso una degenerazione, un eccesso? Rifiutando la
degna sepoltura di Polinice, offrendone le putride carni alle bestie,
Creonte, come Antigone, compie uno sconfinamento dei margini. E
tuttavia, mentre la funesta eroina è cosciente di spingesi sino
all’incandescenza della Cosa, tale da resistere ad ogni compromesso nei
confronti del proprio desiderio, Creonte, al contrario, pur incarnando “la
legge senza limiti, la legge sovrana, la legge che deborda, passa il
limite”31, è ignaro di tutto ciò: “un vero padrone (…) non desidera sapere
Tutto ciò dipende dal fatto che la cosiddetta simbolizzazione dell’immaginario
consiste in una struttura di piena reversibilità: non appena si è finito di superare
l’immaginario attraverso il simbolico occorre ricominciare il lavoro in questione,
poiché il superamento del narcisismo, non solo non è mai completo, ma, addirittura,
perde terreno laddove si cerca di nascondere le fessure del simbolico. Cfr. ivi, p. 91.
29 J. Lacan, Il rovescio della psicoanalisi, cit., p. 29.
30 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit. p. 301.
31 Ivi, p. 302.
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assolutamente nulla”32, antepone il velo dell’immaginario, del bene, alle
mancanze della Legge. Tutta l’analisi di Lacan, dunque, ruota attorno al
rapporto fra il bene, il potere di Creonte e la Cosa: in questo trittico è
racchiuso il magma incandescente del racconto tragico. Il potere di
Creonte è teso verso il bene, verso ciò di cui, dice Lacan, non se ne può
parlare “forse tanto bene”33. Il bene “è un punto di fissazione
immaginaria”34 avente funzione di specchio: riflettendosi in esso, il
soggetto si illude di arrestare la metonimia della propria mancanza, si
illude di neutralizzare l’Altra Cosa, credendo così di guadagnare una
fantomatica padronanza di sé35, e sconfessare conseguentemente la
spinta estatica espropriante e spossessante del godimento mortifero.
Come una specie di tappo, la politica mirante al bene della
Comunità annebbia i suoi membri, li trattiene al di qua del principio di
piacere, e, così, “può anche darsi che (…) li porti fuori strada”36,
inducendoli ad una cieca fede nei confronti dell’Altro dell’Altro, ovvero
innescando una politica identitaria priva di resti, tale da creare masse
normalizzate attraverso il discorso del significante-padrone37. Comunità,
32J.
Lacan, Il rovescio della psicoanalisi, cit., pp. 19-20.
J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit. p. 257.
34 Ivi, pp. 115-113. Inoltre: “l’oggetto si introduce nella misura in cui è continuamente
intercambiabile con l’amore che il soggetto ha per la propria immagine. Ichlibido e
Objektlibido vengono introdotte da Freud in relazione alla differenza tra l’Ichideal e
l’Idealich, tra il miraggio dell’io e la formazione di un ideale. Questo ideale occupa il
suo campo da solo, e all’interno del soggetto arriva a dare forma a qualcosa che
diventa preferibile e a cui il soggetto si sottometterà. Il problema dell’identificazione è
legato a questo sdoppiamento psicologico, che mette il soggetto in una posizione di
dipendenza rispetto ad un’immagine idealizzata” (ivi, p. 115).
35 Come dice Lacan: “il passo fatto, al livello del principio di piacere, da Freud è di
mostrarci che non c’è Sommo Bene – che il Sommo Bene, che è das Ding, che è la
madre, l’oggetto dell’incesto, è un bene interdetto, e che non c’è altro bene” (ivi, p. 82).
36 Ivi, p. 220.
37 Il bersaglio di Lacan, da questo punto di vista, è rappresentato indubbiamente
dall’etica di matrice aristotelica, la quale, basata sul tentativo di reperire il bene
secondo natura, culmina nel cosiddetto ideale del maître, nell’ideale dell’uomo
aristocratico che svolge una vita contemplativa priva di pulsioni bestiali, ritenute,
appunto, estranee all’umanità dell’umano. Un progresso notevole, rispetto a questo
tipologia di etica, è rappresentato dall’utilitarismo, il quale, in forza della teoria delle
finzioni di matrice benthamiana, ha permesso di sottrarre il discorso sul bene dal mero
registro della natura, portandolo, così, sul piano del simbolico. Inoltre, l’utilitarismo,
nato in epoca moderna, ha permesso di superare il cosiddetto discorso del maître
aristotelico, giacché ha esteso il problema dei beni a tutta la società. In questo senso,
l’utilitarismo, secondo Lacan, costituisce un avanzamento rispetto al pensiero
aristotelico, benché, d’altro canto, presenta un limite considerevole, quello di non
comprendere che la dimensione dei beni non ruota solo attorno alla questione
dell’utile, ma, altresì dell’inutile, ovvero del godimento. Per approfondimenti, cfr. ivi,
33
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Bene e Legge, dunque, altro non sono che differenti modi tramite cui
mascherare quel godimento eccedente in grado di condurre lo spazio
sociale all’ustione, all’abbandono, all’estasi, alla jouissance38. Negata in
quanto tale, ovvero quale pulsione acefala di perdizione, la jouissance, la
fiamma della vita nei riguardi dell’Altra Cosa, viene formattata
nell’illusoria “identificazione con il significane dell’onnipotenza”39, ciò
che appunto si innesca nel rapporto con i beni. Captando gli individui nei
miraggi di una supposta padronanza, i beni sollecitano ad annientare gli
altri, coloro che ne minacciano il possesso. Lotta sociale: ecco lo scenario
prefigurato dalla logica narcisistica dei beni tramite cui nascondere il
buco dell’Altro. Una Comunità che si percepisce priva di mancanza, una
Comunità paga della propria presenza a sé, della propria pienezza, non
può che considerare l’altro come altro immaginario, come rivale: “il
rapporto dell’uomo con il reale dei beni si organizza in rapporto al
potere dell’altro, l’altro immaginario, di privarlo di essi”40. Gli altri
assumono i tratti di coloro che sono in procinto di sottrarre il bene, di
attentare alla garanzia della “pseudopadronanza”41 su cui poggia la
Comunità. Il rischio di questa rivalità immaginaria è quello di una spirale
di violenza crescente, tale de superare ed eccedere tutti i limiti. Cavalcare
l’onda del bene, del miraggio:
apre in se stesso quell’aldilà che costituisce oggi la nostra questione:
pp. 257-282.
38 Secondo Žižek, ancora oggi, nell’epoca dell’esaltazione della jouissance, lo schermo
dell’immaginario continua ad essere adoperato come tappo del reale: “le ingiunzioni
che ci intimano di passarcela bene (...) non sono forse delle ingiunzioni che mirano a
evitare la jouissance eccessiva (...)? Le cose a ben vedere sono più complesse: anche se
l’ingiunzione immediata ed esplicita sembra soggiacere al dominio del principio di
piacere (...), l’effettivo funzionamento dell’ingiunzione fa crollare ogni barriera” (S.
Žižek, America oggi. Abu Ghraib e altre oscenità, tr. it. di L. Chiesa, ombre corte, Verona,
2005, p. 31).
39 Ibidem. Come dice Lacan: “l’analista sa che tale questione è una questione chiusa.
Non soltanto quel che gli si chiede, il Sommo Bene, egli non l’ha di certo, ma sa che
non c’è proprio. Aver condotto un’analisi altro non è che aver incontrato questo limite
su cui si pone tutta la problematica del desiderio” (ivi, p. 347).
40 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 274.
41 Ibidem. Così continua inoltre Lacan: “Non è una gelosia ordinaria, è la sola gelosia
che nasce in un soggetto nel suo rapporto con un altro, nella misura in cui questo altro
è ritenuto partecipare a una certa forma di godimento, di sovrabbondanza vitale,
percepita dal soggetto come qualcosa che lui stesso non può conseguire per mezzo di
alcun moto affettivo, neppure il più elementare. Non è davvero singolare, strano, che
un essere riconosca di invidiare nell’altro, e sino all’odio, sino al bisogno di
distruggere, quel che non capace di afferrare in alcun modo, per nessuna via
intuitiva?” (ivi, p. 278).
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come mai, a partire dal momento in cui tutto si organizza attorno al
potere di fare il bene, si propone a noi qualcosa di totalmente enigmatico
che ci ritorna incessantemente dalla nostra azione come la minaccia
sempre crescente in noi di un’esigenza dalle conseguenze ignote?42
Fare il bene significa servire il sostegno della Legge, l’Altro
dell’Altro, ma, proprio per questo, significa mascherare la voragine
dell’Altro dell’Altro, del fondamento comunitario. Il problema è che
questa fiction deve scontrarsi con il reale nudo e crudo della mancanza, il
cui rinnegamento, nella gran parte dei casi, è condotto attraverso
l’individuazione di un colpevole: come a dire, non è l’Altro che manca,
sei tu – malcapitato di turno – il colpevole che l’ha violato. In tal senso, la
costituzione dell’Altro, del fondamento dell’Altro, proprio in quanto
impossibile, non è auto-referenziale, bensì implica l’esclusione dell’altro
immaginario43. Prendere consapevolezza che non c’è alcun bene in grado
di sostenere lo spazio sociale significa provocare l’implosione dello
spazio sociale stesso, della Comunità, la quale, per salvarsi dal proprio
buco, per riparare le crepe del simbolico, ricorre ancora all’immaginario,
colpevolizza l’altro, il proprio rivale:
Quelli che affermano di voler realizzare completamente la (...) (finzione
simbolica) devono poi ricorrere alla (...) (apparizione spettrale) al fine di
giustificare i propri fallimenti44.
Ivi, p. 275. Significativo, da questo punto di vista, il riferimento di Lacan al potlatch:
rito basato, invece che sull’accumulazione delle risorse e dei beni, sulla distruzione
degli stessi. Praticato in epoca arcaica, questo rito, spiega Lacan, aveva il merito di
mettere in forma quella violenza che, oggigiorno, giacché non più formattata, dilaga.
Cfr. ivi, p. 276. Per ulteriori approfondimenti, cfr. G. Bataille, La nozione di dépense, in
La parte maledetta, tr. it. di F. Serna, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
43 Trovare il nemico da neutralizzare è una legge stessa dell’immaginario in senso
lacaniano. Dacché l’immagine non sutura la propria fragilità, ne consegue che occorre
trovare un nemico cui attribuire la responsabilità di questo scacco, talché esso non
dipenda più dal sé ma dall’altro.
44 S. Žižek, Il Grande Altro. Nazionalismo, godimento, cultura di massa, tr. it. di M. Senaldi,
Feltrinelli, Milano, 1999, p. 27. In tal senso, «la “teoria della cospirazione” fornisce una
garanzia che il campo del Grande Altro non è un inconsistente bricolage (...). I regimi
“totalitari” erano abili specialmente nel coltivare il mito di un potere parallelo, segreto
e invisibile, e per questa stessa ragione onnipotente, un tipo di “organizzazione
nell’organizzazione” (...) che compensi l’evidente inefficienza del potere pubblico e
legale, e così assicuri il tranquillo operare della macchina sociale; questo mito non solo
non è in alcun modo sovversivo, ma funge da definitivo supporto del potere» (ivi, pp.
14-15). In questa dinamica occorre inquadrare anche le tesi žižekiane sul supplemento
osceno del potere: ciò che interviene non appena viene meno l’efficacia della finzione
simbolica, non appena riappaiono le schegge che bucano, fessurandolo, l’Altro
42
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È a questo punto che si ha lo scatenamento della violenza:
annientando il nemico, si crede di riparare le faglie del simbolico, ovvero
di ripristinare l’Incorrotto alla base della Comunità cui si appartiene.
Questa specie di compattezza immaginaria, in fondo, costituisce
l’ossessione dello stesso Creonte. Il fatto di scagliarsi contro Polinice
rientra nella logica che stiamo qui esaminando. Il fratello di Antigone è
colui che ha messo in piazza l’incompletezza dello spazio sociale, la
conflittualità intestina della Comunità. Cosicché, rifiutando l’idea che
questa specie di voragine sia co-originaria alla Città, bensì causata da
Polinice, Creonte ritiene di risolvere il problema eliminando il
responsabile della corruzione: “non si può onorare allo stesso modo
coloro che hanno difeso la patria e coloro che l’hanno attaccata”45. Nel
tentativo di fare il bene della Comunità, nel tentativo di instaurare
l’agognata completezza immaginaria dello spazio sociale, il potere, nella
figura di Creonte, eccede tutti i limiti.
Benché ciò possa sembrare azzardato, Creonte si comporta come
Sade: per applicare la sua punizione, ovvero per neutralizzare la
corruzione in nome del Bene, deve superare la catena significante.
Collocandosi aldilà, nell’ambito della creatio ex nihilo, il sovrano di Tebe
tenta un nuovo inizio, un cominciamento con cui fare piazza pulita del
male. Creonte cerca di scrivere la storia ex novo, di modo da cancellare il
nome di Polinice dalla catena delle generazioni: è per questo che occorre
rifiutare la degna sepoltura, ovvero per cancellare le tracce del nemico
dalla memoria storica. Non siamo in presenza di un omicidio, bensì di
ciò che Sade, nella sua Filosofia del boudoir, definisce come Crimine: il
tentativo di conferire la seconda morte, di nullificare l’esistente per il
tramite di una ri-fondazione della storia. Differentemente da quanto
hanno proposto i vari interpreti della tragedia, la colpa di Creonte,
dunque, non sta nell’aver violato le leggi ctonie, bensì nell’aver superato
l’al di là del linguaggio in nome del bene: “non si tratta di un diritto che
si contrappone a un diritto, ma di un torto che si contrappone – a che
cosa? A qualcos’altro che è rappresentato da Antigone”46:
Antigone non richiama nessun altro diritto se non quello che sorge nel
Comunitario. Per approfondimenti, cfr. Id, Il godimento come fattore politico, tr. it. di D.
Cantone e R. Scheu, Raffaello Cortina, Milano, 2000.
45 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 302.
46 Ivi, p. 298.
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linguaggio dal carattere incancellabile di ciò che è – incancellabile dal
momento in cui il significante che sorge lo ferma come cosa fissa in
mezzo a qualunque flusso di trasformazioni possibili47.
Antigone cerca di riparare lo strappo inaugurato da Creonte e
ripetuto nella storia dai detentori del potere politico. Si tratta di quello
strappo prodotto ai danni della catena significante, ovvero di quel
ricominciamento tramite cui ricondurre gli uomini nel Nulla dal quale
sono provenuti (seconda morte). La rivendicazione di Antigone serve da
monito: non è possibile sradicare gli individui dalle catene significanti.
Ciò si palesa se, come suggerisce Lacan, pensiamo all’aporia del fantasma
sadiano della seconda morte: il carnefice vorrebbe infliggere alle sue
vittime la seconda morte, vorrebbe cancellarle definitivamente oltre la
semplice morte, tuttavia, paradosso dei paradossi, per fare ciò fantastica
l’idea di un supplizio eterno, la cui sofferenza, come tale, diventa
supporto dell’immortalità della vittima medesima. Siamo di fronte al
“potere di una sofferenza che a sua volta non è altro che il significante
del limite”48. Nel tentativo di valicare detto significante, il discorso di
Creonte, archetipo di tutte le politiche dei beni, svela come queste ultime,
spaziate da uno scacco insuperabile, ossessionate dal tentativo di
superarlo, si traducano nei cosiddetti “discorsi spaventosi della
potenza”49:
non saranno i perversi a scatenarla ma i burocrati, dei quali non c’è
neppure da sapere se saranno bene o male intenzionati. Sarà un ordine a
darle il via, e si perpetuerà secondo le regole, i meccanismi, i gradi, le
volontà piegate, abolite, curvate perseguendo un compito che perde qui il
suo senso. Questo compito sarà il riassorbimento di un insondabile
scarto ridotto qui alla sua dimensione costante e ultima per l’uomo50.
Dietro il burocrate si tratta di rintracciare sia l’odierno capo di
Stato, sia il vecchio Creonte, entrambi impegnati nella difesa del bene
sommo, nella lotta al male, nella preservazione di un ideale la cui misura
dipende purtroppo da un “potere umano, troppo umano”51.
Continuamente sedotto dallo specchio con cui mascherare i desideri,
Ivi, p. 325.
Ivi, p. 305.
49 Ivi, p. 271.
50 Ivi, p. 273.
51 Ivi, p. 365.
47
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questo potere è sempre sul confine della seconda morte52. Un solo passo
e si è già nel forno crematorio:
Qual è il proclama di Alessandro all’arrivo a Persepoli, come pure di
Hitler all’arrivo a Parigi? Il preambolo importa poco: Sono venuto a liberarvi
da questo o da quello. L’essenziale è: Continuate a lavorare. Il lavoro non si fermi.
Che vuol dire: Beninteso questa non è in alcun modo un’occasione per manifestare il
minimo desiderio. La morale del potere, del servizio dei beni, è: Per i desideri,
ripassate un’altra volta. Che aspettino53.
3. Antigone e il resto della Legge
Antigone si macchia. Fa ciò che non deve fare. Si reca laddove non
deve andare. Confessa di non potere più tollerare. La sua vita è divenuta
insopportabile, se ne infischia della sua vita, l’aldilà, per così dire, le
importa più. Antigone segue solo se stessa, segue la propria “individualità
assoluta”54, slegata da ogni vincolo con l’Altro. Corre nell’oltre, nello
spazio fra le due morti, nell’Ate, laddove è possibile riparare lo strappo
che Creonte ha prodotto, la sospensione della catena significante.
Preservare Polinice nella sua irriducibile singolarità, sottrarlo dall’assurda
punizione, dalla seconda morte, dalla cancellazione definitiva: ecco
l’ossessione di Antigone. In nome di essa l’eroina non sente ragione
alcuna, confermando, in tal senso, la terribile memoria (merimma)
ereditata dalla sua famiglia, dalla stirpe dei Labdacidi: Edipo e Giocasta,
non a caso, hanno dato inizio ad una genealogia avente origini
incestuose, direttamente scaturenti dal punto incandescente della Cosa, di
das Ding55. Portavoce di questi atroci progenitori, rei di aver valicato i
52 Come dice Moroncini il gesto di Creonte è stato ripetuto dal Führer: “dietro le
maschere di Creonte e Antigone Lacan non sta in realtà tentando di formalizzare la
comprensione dell’evento chiave di tutto il novecento, ossia il nazismo, la soluzione
finale e lo sterminio? (...) Hitler voleva il bene di tutti (gli ariani) e voleva ricoprire tutti
(gli ariani) di tutti i beni; e per farlo non poteva che infliggere la seconda morte agli
ebrei e a qualche altro “degenerato”. Ciò che è decisivo nello sterminio perché esso sia
un hapax non è né l’assassinio di massa, né la crudeltà, né il carattere industriale della
produzione dei cadaveri, ma soltanto la spinta micidiale a non lasciare tracce” (B.
Moroncini, L’etica del desiderio. Un commentario del seminario sull’etica di Jacques Lacan,
Cronopio, Napoli, 2007, pp. 252-253).
53 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 365.
54 Ivi, p. 324.
55 Così si esprime Lacan in merito: “il desiderio della madre, il testo vi fa allusione, è
l’origine di tutto. Il desiderio della madre è al tempo stesso il desiderio fondante di
tutta la struttura, quello che ha fatto venire alla luce quei rampolli straordinari, Eteocle,
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limiti del piacere, per sprofondare nell’abisso del godimento mortifero,
Antigone non è da meno: senza esitazioni, senza pietà, senza timore,
insegue “il punto di mira che definisce il desiderio”56, testimoniando che
non esistono significanti tali che possano nominarlo. In forza del suo
carattere “antivitale, suicidario, irriducibile all’ordine della città, aspirato
dal reale”57, il desiderio trascende ogni possibile determinazione,
collocandosi sempre aldilà dell’oggetto, in direzione dell’Altra Cosa.
Quando Lacan afferma che ci troviamo di fronte ad una “vittima
terribilmente volontaria”58, è proprio a questo che allude: l’eroina non è
disposta a cedere sul proprio desiderio, pur sapendo a cosa va incontro
non si arresta: “Antigone sa a cosa è condannata – a fare la sua parte, se
così si può dire, in un gioco in cui si sa in partenza il risultato”59.
Antigone:
ci mostra dove finisce la zona limite interna del rapporto con il desiderio.
In ogni esperienza umana, questa zona è sempre rimandata al di là della
morte, poiché l’essere umano comune regola la sua condotta su ciò che
bisogna fare per non rischiare l’altra morte, quella che consiste nel
crepare di fame60.
Antigone, come gran parte della stirpe dei Labdacidi, non si limita a
vivere, non vivacchia nel mero registro edonistico del piacere, non le
interessano i bisogni alimentari, le interessa solo il proprio desiderio,
contrariamente a quanto fa la gran parte della gente che si nasconde
dietro l’ordine dei beni, dietro il cosiddetto primum vivere per il quale “le
questioni di essere vengono sempre rimandate a più tardi, il che non vuol
dire che (...) non siano presenti all’orizzonte”61. Accettando la propria
condanna, Antigone mostra tutta la sua non rassegnazione, svela
l’irriducibilità del suo desiderio di morte, del suo desiderio di Altra Cosa,
purga le proprie volizioni da ogni identificazione narcisistica, dai sostegni
Polinice, Antigone, Ismene, ma è al tempo stesso un desiderio criminale (...). La
discendenza dell’unione incestuosa si è sdoppiata in due fratelli, uno che rappresenta la
potenza, l’altro che rappresenta il crimine. Non c’è nessuno che si assuma il crimine, la
validità del crimine, al di fuori di Antigone. Tra i due Antigone sceglie di essere
puramente e semplicemente la guardiana dell’essere criminale come tale (...). Antigone
perpetua, rende eterna, immortale, questa Ate” (ivi, pp. 329-330).
56 Ivi, p. 290.
57 M. Recalcati, Jacques Lacan, cit., p. 262.
58 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 290.
59 Ivi, p. 326.
60 Ivi, p. 355.
61 Ibidem.
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e dagli appoggi offerti dal potere: “il desiderio puro, il puro e semplice
desiderio di morte come tale. Questo desiderio, ella lo incarna”62.
Un tutt’altro potere caratterizza, perciò, la funesta fanciulla. Si tratta
della catarsi dei desideri, con i rischi che ne seguono, primo tra tutti
quello di esasperare il proprio nome-proprio, vale a dire la propria
indisponibilità a stringere legami con l’Altro. L’eroina, in tal senso, è
degna di suo padre Edipo, il quale, strappandosi gli occhi, demistifica
l’immaginario:
rinuncia ai beni e al potere in cui consiste la punizione, che punizione
non è. Se egli si strappa al mondo con l’atto che consiste nell’accecarsi, è
perché soltanto colui che si sottrae alle apparenze può arrivare alla verità.
Gli antichi lo sapevano – il grande Omero è cieco, Tiresia pure63.
L’accecamento corrisponde, in questa sede, all’iconoclastia degli
idoli dello specchio, dei miraggi del proprio potere su se stessi, ovvero
alla presa di coscienza del carattere scabroso, estatico, “assolutamente
non riconciliato”64, del desiderio, la cui catarsi impone alla Legge di
tacerne e custodirne l’assoluto e terribile segreto. Il potere di Antigone è
dunque paradossale, è tale da compromettere il potere tradizionalmente
inteso. Si tratta di un potere dissolvente: svelando l’erranza del desiderio,
disinnescando le identificazioni immaginarie, esso produrrà un “un
turbamento, (...) qualcosa che si iscrive nell’ordine dei vostri rapporti di
potenza, e precisamente ciò che ve li fa perdere”65. Antigone, non a caso,
fa perdere la testa al Coro, sino a fare in modo che esso se ne infischi
degli editti della Città:
l’immagine di Antigone ci appare sotto un aspetto che letteralmente fa
perdere la testa al Coro, come esso stesso ci dice, che rende i giusti
ingiusti e al Coro stesso fa varcare ogni limite e gettare alle ortiche tutto
il rispetto che può avere rispetto agli editti della città. Niente è più
toccante di questo (...) desiderio reso visibile che si sprigiona dalle
palpebre della mirabile fanciulla (...). È per questa via che si stabilisce
secondo noi un certo rapporto con l’aldilà del campo centrale66.
Ivi, p. 329.
Ivi, p. 359.
64 Ibidem.
65 Ivi, p. 292.
66 Ivi, p. 327.
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Rendere visibile il desiderio, ecco ciò che fa perdere la testa, talché
Creonte prontamente sentenzia l’atroce pena: Antigone “entrerà viva
nella tomba”67. Antigone come Niobe: con questa metamorfosi, con
questo passaggio dalla condizione organica a quella inanimata68, spiega
Lacan, l’eroina mette in luce il proprio desiderio di morte, la spinta
iperedonistica al di là del bene: “ecco l’immagine limite attorno alla quale
ruota l’asse del dramma”69.
Il gesto di Creonte, da questo punto di vista, consiste quasi in una
strategia difensiva. Si tratta di una segregazione: Creonte cerca di
neutralizzare das Ding, quel resto della Legge che, tuttavia, è un prodotto
della Legge stessa, quel resto di godimento, quella Cosa ustionante con
cui la Polis è costretta, seppur in modo indiretto, a negoziare, pena
degenerazioni che Sofocle ha descritto con grande acume.
Dopo la segregazione della malcapitata succederanno due eventi
singolari: la profezia inquietante di Tiresia, che condurrà Creonte a
rivedere le proprie posizioni, e l’inno a Dioniso da parte del Coro,
l’invocazione del dio dell’estremo. Dopo aver udito le tremende parole
del veggente Tiresia, Creonte mostra di che pasta è fatto, mostra di
essere del tutto diverso dalla fanciulla: manca di coraggio, non è capace
di andare fino in fondo. Comprendendo di avere ecceduto, cerca in tutti i
modi di ritrattare. Il problema è che si accorge di ciò quando è ormai
troppo tardi: Antigone si darà la morte e, in questo viatico suicidario, sarà
seguita dal figlio e dalla moglie di Creonte. Alla fine anche l’anti-eroe, nel
perdere tutti i suoi beni, sarà “liberato” dall’imago del potere, sarà
condotto sulla via del proprio desiderio di morte70.
Ecco dove conduce l’errore (amartia) del sovrano, ossia il tentativo
di tappare i buchi del simbolico con le illusioni dello speculum.
È contro questo eccesso che risuona il pianto di Antigone, le cui
lacrime sono immortali, giacché ricordano che, per evitare di alimentare
l’idolatria del potere, occorre non cedere sul proprio desiderio: “Antigone
(...) fa parte della vostra morale, che lo vogliate o meno”71. Ma di quale
morale? Certamente non della morale pubblica, bensì di un’altra morale.
La morale di Antigone è una morale eroica, una morale intramontabile,
nostalgica e mortifera che viene invocata ogni volta che il potere,
Ivi, p. 312.
Evidente è il rimando alla pulsione di morte in senso freudiano: S. Freud, Al di là del
principio di piacere, tr. it. di A. Durante, Mondadori, Milano, 2007.
69 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 313.
70 Ivi, p. 371.
71 Ivi, p. 331.
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eccedendo i propri limiti, cerca di colonizzare la purezza del desiderio.
Oggi più che mai, nell’epoca del bio-potere, nell’epoca in cui l’azione
politica si capillarizza in modo infinitesimale, la voce di Antigone sembra
risuonare nella disperazione dei dannati della terra che, come martiri,
senza pietà e senza timore, offrendo se stessi alla morte, senza alcun
attaccamento edonistico alla vita, sospendono la Legge72, benché con il
rischio di fare divampare una spirale di violenza generalizzata73:
“credetemi, il giorno del trionfo dei martiri vi sarà l’incendio universale”.
Queste tremende dichiarazioni di Lacan lasciano comprendere che
Antigone non costituisce, e non può costituire, l’ultima parola della
nostra esistenza, pena il parossismo della violenza. Ma allora, quale il
senso della lettura lacaniana di Antigone? A nostro avviso, lo
psicoanalista, nel momento in cui assurge la fanciulla ad ideale etico della
psicoanalisi, non sta professando un’apologia del godimento mortifero74.
Incarnando la singolarità della pulsione pura, Antigone consente di
svelare il resto interno alla Legge, la quale, tuttavia, dilazionando il
desiderio, rendendolo insaziabile, ne assicura il carattere eccedente ed
eccessivo.
Ciò detto, se Antigone è il resto della Legge, la Legge e il resto di
Antigone. Sembra quindi che l’effettiva posta in gioco della lettura
lacaniana della tragedia di Sofocle risieda nel tentativo di pensare il
rapporto tra Legge e desiderio tenendo a mente lo scarto interno che
Questa la personale interpretazione fornita da Žižek: «Antigone rischia la sua intera
esistenza sociale, sfidando il potere sociosimbolico della Città, incarnato dal
governatore (Creonte), e “cade in una specie di morte” (cioè subisce una morte
simbolica, un’esclusione dallo spazio sociosimbolico). Per Lacan, non c’è atto etico
vero e proprio senza il rischio di questa momentanea “sospensione del Grande Altro”,
della rete sociosimbolica che garantisce l’identità del soggetto: si assiste a un atto
autentico solo quando il soggetto rischia un gesto che non è più coperto dal Grande
Altro» (S. Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, tr. it. di D. Cantone e L.
Chiesa, Raffaello Cortina, Milano, 2003, p. 329).
73 In merito, cfr. D. Mazzù, La categoria mitologica del diritto, in Voci dal Tartaro. Per
un’ermeneutica simbolica dello Stato, ETS, Pisa, 1999, p. 153.
74 Lucide, in tal senso, le riflessioni di Recalcati: “la versione etica del desiderio che la
psicoanalisi sostiene non può coincidere con il desiderio puro di Antigone. Il desiderio
puro – il desiderio di morte – non può essere assimilato a quello dell’analista. Il
desiderio dell’analista, (...), non è un desiderio puro come sarà costretto a precisare
Lacan nel Seminario XI, perché non da luogo a una religione del desiderio. Resta la
domanda: Antigone è davvero l’emblema della realizzazione etica dell’imperativo del
desiderio? (...). Lacan non ha incoraggiato questa lettura che altri suoi allievi hanno
invece proposto. L’esperienza dell’analisi educa effettivamente all’assunzione del
proprio desiderio ma, al tempo stesso, educa all’impossibilità che il desiderio porta con
sé” (M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina, Milano, 2012, pp. 150-151).
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l’uno costituisce per l’altra. Al di là dell’unilateralismo in cui cadono
Creonte e Antigone, oltre ogni facile conciliazione dialettica75, Lacan
pare esplicitare che l’esperienza della Legge sia destinata a coincidere con
l’esperienza dell’aporia. Da un lato occorre che la Legge adoperi i propri
significanti per tradurre universalmente i desideri singolari dei soggetti, i
quali, dall’altro, eccedendo la Legge, bucandola, ne mostrano l’assenza di
fondamento, oltre che il limite intrinseco ai suoi criteri di traduzione e
universalizzazione simbolica. Sulla china di questa asimmetria non
dialettizzabile che relativizza la Legge senza neutralizzarla, è possibile
comprendere il modo in cui Lacan reinterpreta l’Antigone di Sofocle. Non
si tratta affatto di invitare all’anarchia, ma, giustappunto, all’aporia intesa
come possibilità di creare un accordo imperfetto e difettoso, ma perciò
rivedibile, rettificabile, sempre di là da venire76, fra la Legge che pone la
misura e la singolarità che ogni misura eccede.
Questa piuttosto è la posizione di Hegel, il quale, considera il superamento della
contrapposizione in un terzo termine come una “virtù che gode del proprio sacrificio,
che porta a compimento ciò che si prefigge, e che quindi, innalzando l’essenza a
presenza reale, ha il proprio godimento in questa vita universale” (G.W.F. Hegel,
Fenomenologia dello Spirito, tr. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano, 2000, p. 619).
76 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit. p. 312. Il resto del simbolico non pare essere
concepito da Lacan come qualcosa che deve essere saturato. Esso dovrebbe essere
inteso come una specie di Altrove, come una sorta di trascendenza, la quale,
eccedendo la mera presenza, è in grado di esplicitare l’infondatezza di tutte le Leggi,
oltre che di decostruire tutti i poteri: “promessa che vi sia avvenire possibile, che non
tutto sia già scritto, che vi sia spazio per il non ancora visto e per il non ancora
conosciuto, per un orizzonte diverso del mondo” (M. Recalcati, Ritratti del desiderio, cit.,
p. 122). Per dirla altrimenti, si tratta del fatto che la realtà, proprio a causa del
simbolico, non è ontologicamente piena, bensì non-tutta, costantemente spaziata da
un resto, da un significante vuoto. I vari gruppi politici, sia nei momenti di lotta contro
il potere, sia nei momenti di tensione sociale, si scontrano al fine di imporre la propria
significantizzazione del vuoto, vale a dire al fine di piegare lo scarto alle esigenze
particolari del gruppo vincitore. Nonostante ciò, lo scarto continua ad eccedere le
significantizzazioni del potere, prestandosi, come tale, alla sovversione dello status quo
e alla rifondazione di nuovi ordini: “non ci si accorge che la lotta per l’egemonia (...) è
infondata: il Reale di fondo non può essere basato su qualche struttura ontologica” (S.
Žižek, Il soggetto scabroso, cit., p. 225). Prossime a queste considerazioni, le riflessioni di
Regazzoni che, avvicinando la nozione derridiana di a-venire al reale lacaniano, scorge
nel significante vuoto la condizione della democrazia a-venire per come la intende,
appunto, Derrida: «il significante “democrazia” non solo lavora a dispetto del suo
essere un significante vuoto, ma lavora precisamente come tale, come significante
vuoto che è al contempo promessa e minaccia: minaccia per i nemici della democrazia,
per coloro che al fondo, sono terrorizzati dal vuoto della democrazia; promessa per
chi ha fede nella democrazia e nel suo a-venire» (S. Regazzoni, Derrida. Biopolitica e
democrazia, il melangolo, Genova, 2012, p. 87).
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