WISH YOU WERE HERE Il balcone è quieto ed

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WISH YOU WERE HERE Il balcone è quieto ed
WISH YOU WERE HERE
Il balcone è quieto ed immobile sotto il sole estivo. A volte, quando piove, con la coda
dell’occhio lo vedo agitarsi e scrollarsi di dosso l’acqua.
Ha piovuto molto, di questi tempi.
Sono seduta sullo sgabello di legno, quello che ti piace tanto. Fumo una sigaretta, che ormai
è tutta cenere e tra poco mi cadrà sulle cosce nude. Indosso solo una maglietta, ma di quelle
lunghe. Aspiro.
So bene che non vorresti che io fumassi sopra il tuo sgabello, però ieri l’ho preso da parte e
gli ho spiegato come stanno le cose, che non so mica quando torni e tutto, e lui sembrava
d’accordo.
Nei vasi, i fiori sono morti. Li ho annaffiati quando picchiava il sole. Intorno ci è cresciuta
dell’erbaccia spontanea. Allungo le dita, accarezzo una foglia, la stacco e me la infilo in
bocca, tutta insieme. Mastico. Mi cola un po’ di clorofilla dal labbro.
Ho insegnato alle tartarughe a lottare tra di loro. Apprezzerai, quando vedrai come si
mangiano il guscio l’una con l’altra. Alcune se lo sfilano per lottare, o glielo toglie l’avversaria
per colpirle meglio, e sotto sono a semisfera, rosate, cicciotte, raggrinzite come un cervello.
Due di quelle piccole si sono attaccate: carapace contro carapace, hanno un buco nelle
viscere da cui si scambiano pensieri e cibo. Di notte, posso sentirle sussurrare. A volte le
faccio dormire sul tuo cuscino, così mi sembra il tuo respiro, e faccio finta che sei ancora qui.
Il frigorifero dà frutti spontanei. Te l’ho sempre detto, che bastava lasciarlo fare. La verdura
cresce al secondo piano, invece le proteine se ne stanno tutte al terzo, buone buone come le
avessimo educate apposta.
Ho cibo abbastanza per aspettarti. Dovresti muovere quel culo, ma mi rendo conto che non
dev’essere mica facile; prenditi il tempo che ti serve.
Prendo un’arancia molliccia, la schiaccio a piedi nudi contro il pavimento perché si spiaccichi
per bene. La raccolgo col cucchiaio, il metallo che gratta contro le righine del finto parquet,
la metto in una terrina insieme a un po’ di burro. Lascio mantecare per giorni. Mi dimentico
di mangiarla. Te la metto in fresco, se vuoi assaggiarla quando torni. Ho messo da parte due
zampette di tartaruga. Se le sono staccate lottando, sai, e allora ho preso una scatolina e le
ho messe lì dentro a seccare. Mi sento nelle viscere che potranno tornarci utili.
Non mi guardi più come facevi prima. Ho messo le ciglia finte e, dalla tua cornice, nemmeno
un cenno. So che devo avere pazienza. Eppure, proprio faccio fatica. Ti fisso, dritto negli
occhi, e tu non reagisci. Non ricordo più come suonava la tua voce. Metto una mano sulla
gola e mi vibrano le corde vocali sotto i polpastrelli, ma la stanza rimane silenziosa.
Provo a chiamarti dal cellulare e il tuo telefono suona, sul tavolo. Non rispondi.
I tuoi messaggi non sono più gli stessi. Mi dico che devo avere ancora pazienza.
Ti sento che torni, di notte. Ascolto i tuoi passi in corridoio, ma tengo gli occhi chiusi perché
capisco che tu non voglia ancora farti vedere. Vieni solo a controllare che tutto proceda.
Ho raschiato tutto dal frigo e l’ho buttato giù per lo scarico del water. Un modo silenzioso
per farti sapere che io sono pronta, quando lo vorrai.
Ricordo ancora tutto, le piccole regole per vivere insieme, che non sopporti di vedermi a
piedi nudi, che i peli delle ascelle ti piacciono corti e quelli altrove invece non ci devono
nemmeno essere. Iniziare dalle gambe qualunque approccio. Lasciare la saponetta a testa in
giù perché si asciughi per bene. I jeans grigi non sono veri jeans.
Non rimangerò le mie opinioni, ma, se tornerai, giuro che non mi importerà di avere ragione.
Ho deciso che i pomodori possiamo anche lavarli con l’acqua calda. Ti vengo incontro.
Mi dormi accanto, e sei l’essere umano più ben fatto che abbia mai visto. Hai un nuovo
sapore ora, dai peli del culo al bordo delle narici. Mi ci devo abituare. Apro la scatolina,
prendo le zampette di tartaruga e te le infilo nelle orbite vuote. È così che doveva andare, è
qui che dovevano stare, e ognuno dorme sul lato giusto ed ogni cosa s’intesse come
dovrebbe.
Racconto scritto da Federica Riccardi; illustrazione di Federica Riccardi
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