Donne e Resistenza un quotidiano eroico

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Donne e Resistenza un quotidiano eroico
Fiorenza Taricone
Donne e Resistenza: un quotidiano eroico
La Resistenza femminile appartiene ad uno di quei territori
d’indagine della storia di genere che più rivela l’inadeguatezza
delle parole usate per classificarla. Spesse volte, infatti,
compresa chi scrive, ha usato o è stata tentata di farlo,
l’espressione: il contributo delle donne alla Resistenza. Una
delle
ragioni
iniziali
risiedeva
sicuramente
nel
volere
testardamente convincere la storia tradizionale a riconoscere “la
tessera mancante”, a farsi finalmente una storia di donne e
uomini, e anche bambini/e.
Poi, in anni di studi e di fatiche, lo sguardo si è affinato e ho
iniziato a provare un’insofferenza lessicale. Un contributo è
narrazione di una parzialità, e parziali sono tutti gli attori e
attrici delle umane vicende. Così preferisco parlare oggi di
contributo da entrambe le parti e pormi anche la domanda: come ha
introiettato la storia politica questo capitolo della storia di
genere
e
in
quali
modi
la
Repubblica
democratica,
nata
essenzialmente da italiani e italiane che hanno avuto il coraggio
di scegliere, ha remunerato, a livello di cittadinanza compiuta,
le Resistenti? Non è stato infrequente il senso di stupore, mano a
mano che le resistenti venivano fuori dall’opacità, nel pensare a
tali e tanti gesti quotidianamente eroici, cosicché la domanda
conseguente era d’obbligo. Perché un silenzio così complice fra
uomini e donne che ne erano stati i protagonisti e fra gli storici
che ne narravano le vicende? Un silenzio interrotto da poche voci,
fino agli anni Settanta. La risposta non potrebbe essere trovata
semplicemente nella misoginia di una narrazione maschile che ha
confinato le donne in posizione subalterna. Il silenzio di quelle
tante che hanno deciso di raccontare tardi, e di quelle
altrettanto numerose che non l’hanno fatto, è stato spiegato
talvolta da loro stesse con il ridurre ciò che avevano messo in
campo a semplice dovere, a lavoro di cura, ad uno stare accanto
agli affetti, quindi un “traslocare” nella resistenza ciò che
vivevano quotidianamente; io ritengo invece che quel quotidiano
sia stato rovesciato in un evento straordinario, che sia stata
attuata una rivoluzione mentale, resa più chiara a chi non aveva
strumenti culturali opportuni, da quelle che avevano una coscienza
politica più spessa.
La storiografia ha per molto tempo continuato a sottovalutare
l’apporto di donne nella guerra partigiana anche perché ha
conservato come unico riferimento le dinamiche di azione
maschili; coglierne quindi l’originalità e la consistenza si è
rivelato un
lavoro lungo e difficile. Molte delle azioni
femminili partigiane erano, come si è detto, inserite nella vita
quotidiana
che
la
maggior
parte
delle
donne
continuava
necessariamente a condurre e non avevano le caratteristiche di
atti di lotta, benché i rischi fossero a volte gli stessi.
Procurare cibo e vestiti per partigiani, confezionarli e portarli
percorrendo chilometri per raggiungere le postazioni o i punti
convenuti, procurarsi medicine e consigli medici, quindi avere
contatto con dottori, farmacisti, infermieri, trovare rifugi
sicuri nelle case, in campagna, nei conventi, negli istituti
religiosi, stabilendo collegamenti con parroci, preti, monache,
madri superiori, raccogliere denaro per aiutare altre donne
rimaste sole e con famiglia a carico e per le necessità dei
partigiani dentro e fuori le città, e quindi avere contatto con
industriali, commercianti, persone ritenute abbienti, perché
s’impegnassero a prestare aiuto economico ai combattenti che in
cambio offrivano protezione per le fabbriche e le attività, i
depositi, i magazzini, le merci … sono alcune delle mille
iniziative delicate e importanti che le donne portarono avanti in
quei due anni, mescolandole alle loro faccende quotidiane"1.
Furono molte anche le infermiere, le staffette, le fattorine con
la stampa clandestina, le "organizzatrici di proteste", che
nascevano non solo nei cortei, nelle manifestazioni, negli
scioperi,
nei
funerali
finalizzati,
per
così
dire,
a
"politicizzare" i lutti. Le donne che entravano nelle formazioni
partigiane facevano gli stessi turni di guardia degli uomini,
smontavano
e
pulivano
le
armi,
sottostavano
alla
stessa
disciplina, partecipavano senza alcuna speciale tutela alle
azioni e agli assalti. Ma le donne che facevano questa scelta
erano poche, anche perché "le convenienze, le abitudini, i tabù
sociali impedivano che una donna condividesse le giornate e le
notti con tanti maschi. La scelta di vivere in formazione comportava da parte della donna un carattere straordinariamente deciso
e spesso la rottura con la famiglia”2. Le donne non furono
semplici forze aggiuntive, anche perché, giovani, meno giovani e
giovanissime corsero pericoli di ogni sorta facendo la spola per
portare
notizie,
informazioni
ordini,
viveri,
munizioni,
medicinali, stampa clandestina, oltre a prendere in qualche caso
parte diretta ai combattimenti. Il periodico Donne della
resistenza affermava già più di trenta anni fa che chi si fosse
proposto di scrivere la storia della resistenza femminile avrebbe
dovuto evidenziarne il carattere collettivo e anche anonimo." Non
che manchino le eroine, donne cui le circostanze concessero di
compiere gesta eroiche o imposero il sacrificio supremo, ma la
loro gloria illumina di una stessa luce l’anonimo eroismo
quotidiano delle migliaia di altre donne che, nella resistenza,
trovarono modo di esprimere le virtù tradizionalmente femminili
della devozione, della pazienza, della lunga, tenace, indomabile
sopportazione"3. Tutti i compiti ausiliari in pratica furono
1
M. ADDIS SABA, Partigiane. Tutte le donne della Resistenza, Milano 1998, pp.VII-VIII.
2
Ivi, p. 95.
3
La donna italiana dalla Resistenza ad oggi, Roma 1975, p.11.
svolti dalle donne, anche se non è possibile al riguardo avere
cifre esatte poiché molte di esse, appena conclusa la lotta,
tornarono alla loro vita familiare o lavorativa, poco curandosi
dei riconoscimenti. I numeri delle donne attivamente impegnate
nella Resistenza oscillano da un numero superiore al milione,
alle cifre al ribasso rilevate dalle statistiche ufficiali, che
parlano di trentacinquemila partigiane combattenti; fra loro, vi
furono circa 500 commissari politici, investite di responsabilità
di comando. I Gruppi Operativi spingevano la loro azione nelle
famiglie e nelle fabbriche, nei municipi, nelle carceri, nelle
scuole. In molte città, come Modena, Parma e Forlì le donne
presero iniziative per far cessare le deportazioni di massa. Tra
i contributi più singolari, si ricordano quelle che fecero la
spola fra le due parti d’Italia, allora divisa dalla Linea
Gotica,
lanciandosi
con
il
paracadute
e
assic u rando
i
collegamenti con gli Alleati. Le donne rimaste nelle case le
trasformarono
talvolta
in
laboratori,
dove
si
preparavano
indumenti, si raccoglievano vettovaglie, armi e munizioni. In
quella parte d’Italia che era rimasta sotto il dominio tedesco,
furono costituite formazioni femminili militari, le Volontarie
della Libertà, "formate da donne energiche e audaci decise a
partecipare attivamente alle operazioni di guerra". La loro
azione comprendeva atti di sabotaggio nelle fabbriche, per
paralizzare la produzione destinata ai tedeschi, interruzione
delle vie di comunicazione, occupazione di depositi alimentari
dei tedeschi, approntamento di squadre d’infermiere e posti di
pronto soccorso, prendendo dimestichezza anche con l’uso delle
armi. In Emilia organizzarono grandi manifestazioni femminili,
assalirono
magazzini
di
viveri,
diressero
ospedali,
distribuirono legna e vettovaglie. Nei manifestini stampati e
diffusi dalle donne si leggeva: Anche noi siamo scese in
campo...Tutte le donne hanno preso il loro posto di battaglia.