3 - SATURA art gallery
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Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 1 SaTuRa Trimestrale di arte letteratura e spettacolo Redazione Giorgio Bárberi Squarotti, Milena Buzzoni, Giuseppe Conte, Gianluigi Gentile, Rosa Elisa Giangoia, Mario Napoli, Mario Pepe, Giuliana Rovetta, Stefano Verdino, Guido Zavanone Redazione milanese Simona De Giorgio via Farneti,3 20129 Milano tel.: 02 74 23 10 30 e-mail: [email protected] Direttore responsabile Gianfranco De Ferrari Segreteria di Redazione Flavia Motolese Collaboratori di Redazione Silvia Bottaro, Francesca Camponero, Wanda Castelnuovo, Elena Colombo, Ilaria Leopoldo, Marta Marin, Andrea Rossetti, Laura Rudelli, Martina Terenzoni Editore SATURA associazione culturale Amministrazione e Redazione SATURA piazza Stella 5, 16123 Genova tel.: 010 2468284 cellulare: 338 2916243 e-mail: [email protected] sito web: www.satura.it Progetto grafico Elena Menichini Stampa Essegraph Via Riboli 20, 16145 Genova Abbonamenti versamento sul conto corrente bancario: Banca Intesa IBAN IT36 P030 6901 4041 0000 0019 187 intestato a SATURA ASSOCIAZIONE CULTURALE AnnuAlE € 20,00 SoStEnitoRE A PARtiRE DA € 50,00 Anno 7 n° 25 primo trimestre Autorizzazione del tribunale di Genova n° 8/2008 in copertina Luigi Grande, Colpo di vento, 2011, olio su tela, 60x50 SATURA è un trimestrale di Arte Letteratura e Spettacolo edito dall'Associazione Culturale Satura Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi pubblicati senza l'autorizzazione scritta della Direzione e dell'Editore Corrispondenza, comunicati, cartelle stampa, cataloghi e quanto utile per la redazione per la pubblicazione vanno inviati a: SAtuRA associazione culturale, piazza Stella 5/1 16123 Genova Le opinioni degli Autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quella della direzione della rivista Tutti materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 2 sommario 3 Per ricordare Elena Bono Introduzione di Rosa Elisa Giangoia 80 7 In ricordo di Elena Bono Francesco De Nicola 82 13 Riflessioni sul teatro di Elena Bono Roberto Trovato 84 22 Elena Bono accolta in Spagna Letizia Casella 29 DUE POESIE Aldo Forbice 30 Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra Giuliana Rovetta 42 DUE POESIE Banderuola La tessitrice Giovanni Chiellino 43 La bacheca Milena Buzzoni 46 UNA POESIA Sotto la specie del nulla Silviano Fiorato 47 Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi Emilia Michelazzi 55 UNA POESIA Piazzetta di Santa Croce Mario Pepe 56 PROSPEZIONI L’ESORDIO DI STEFANIA PAGLIERO ALLA LUCE DELL’ELLEBORO Milena Buzzoni L’AMORE NELLA VITA Rosa Elisa Giangoia TRA PUBBLICO E PRIVATO IN TEMPI RECENTI Rosa Elisa Giangoia DONNE GENOVESI Rosa Elisa Giangoia FALSE MEMORIE DI UN BRILLANTE IMPOSTORE Giuliana Rovetta LE LUNGHE ORE DI COLETTE, REPORTER di Giuliana Rovetta ERIK FERRARI ORTELLI: L’ARTE DELLA TRASPARENZA E DELLA LUCE Milena Buzzoni 65 76 78 CRITICA I COLORI CHE SERVONO LUIGI GRANDE Giorgio Getto Viarengo VETRINA UGO CARMENI AL DI LÀ DELL’IMMAGINE Andrea Rossetti DRINA A12 DUE PERCORSI PER LA VIA DELL’ARTE Marco Piva EMANUELA PASOLINI LA MISURA DELL’INFINITO Flavia Motolese GISELLA PENNA UN VIAGGIO Flavia Motolese MATTIA SCAPPINI SOSPESI INCANTI Flavia Motolese 86 SATURA INTERNATIONAL CONTEST 1ST CONTEMPORARY ART CONTEST Mario Napoli 90 I LIBRI DI ELENA COLOMBO Elena Colombo 96 ANDANDO PER MOSTRE Wanda Castelnuovo Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 3 PER RICORDARE ELENA BONO Introduzione di Rosa Elisa Giangoia Anche se era nata a Sonnino, nel Lazio, il 29 ottobre 1921, Elena Bono si può considerare una scrittrice ligure, dato che si trasferì nella nostra regione all’età di dieci anni, insieme alla sua famiglia, quando il padre, Francesco, valente studioso del mondo classico, fu nominato preside del liceo di Chiavari. In questa città Elena studiò e visse tutta la vita, fino alla morte, avvenuta all’ospedale di Lavagna, dopo un brevissimo ricovero, il 26 febbraio 2014. Come scrittrice esordì con Garzanti nel 1952 con la pubblicazione di una raccolta di poesie, I galli notturni, proseguendo nel 1956 con i racconti di Morte di Adamo (Garzanti, seconda edizione nel 1969, ora anche in e-book con la prefazione di Andrea Monda). La sua produzione letteraria è vastissima e comprende sia opere in poesia, raccolte nel 2007 in Poesie Opera omnia, sia di narrativa, oltre i racconti di Morte di Adamo, la trilogia Uomo e Superuomo, sia moltissimi testi teatrali, tra cui La testa del profeta, Ippolito, I templari, Ritratto di principe con gatto, Storia di un padre e di due figli, Sera di Emmaus. Dopo gli iniziali successi editoriali e gli apprezzamenti di noti critici letterari (Cecchi, Fabbretti, Pedrina) l’opera di Elena Bono ha subito, a livello nazionale, una stagione di parziale eclisse, anche se i suoi testi teatrali sono stati messi in scena da registi importanti (Ugo Gregoretti, Orazio Costa Giovangigli) ed interpretati da attori di successo (Giorgio Albertazzi, Emma Gramatica, Irene Papas, Eros Pagni, Claudia Koll). La minore attenzione della critica nei suoi confronti è stata certo anche determinata, in anni di imperante ideologia marxista nella cultura, dalla sua sempre dichiarata fede cattolica che l’ha portata a scrivere opere di forte tempra morale con netta contrapposizione tra il male ed il bene e sapiente perseguimento di quest’ultimo, nella prospettiva di un’apertura alla dimensione ultraterrena. Fondamentale per la formazione della scrittrice è stata l’esperienza della Resistenza, a cui ha dato in gioventù un contributo attivo, durante il periodo dello sfollamento con la famiglia sull’Appennino Ligure, come informatrice e staffetta, e di cui ha poi cantato gli eroi in molti testi poetici di alta risonanza lirica. Accanto alla tematica resistenziale ad ispirare la sua poesia è stata soprattutto la fede religiosa, oltre agli affetti familiari, al mondo classico e a quello orientale. Negli anni Novanta, grazie a critici letterari più liberi ed attenti (Giovanni Casoli), ad autori televisivi (Stas’ Gawronski), ad esponenti della cultura cattolica (Ferdinando Castelli s.j.), ad alcuni studiosi dell’ateneo genovese (Francesco De Nicola, Elio Gioanola, Roberto Trovato, Stefano Verdino), nonché all’intelligente messa in scena della maggior parte delle sue opere da parte di Daniela Ardini, è iniziata una stagione di rinnovata attenzione nei confronti della scrittrice, a cui, proprio nel giorno della scomparsa è stata dedicata un’intera pagina dall’“Osservatore Romano”. Rosa Elisa Giangoia Introduzione PER RICORDARE ELENA BONO 3 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 4 Elena Bono Fenicotteri 4 PER RICORDARE ELENA BONO Ci auguriamo che quest’interesse cresca e si consolidi la presenza della Bono nel canone della letteratura italiana del Novecento, in cui merita senz’altro di occupare un posto di rilievo. Speriamo anche che molti leggano le sue opere, tutte attualmente disponibili presso l’editore Le Mani, in quanto esse possono utilmente contribuire alla formazione morale ed intellettuale, soprattutto dei giovani. Per promuovere la lettura e la conoscenza della scrittrice proponiamo alcune sue poesie e alcuni contributi critici presentati alla giornata a lei dedicata nel salone del Consiglio Provinciale di Genova l’8 aprile 2014. Fenicotteri Viene la sera e accende, quasi richiamo, i suoi fuochi su tutte le vette dei monti: fiammeggiano, a picco su nere valli, castelli di corallo. Giù nelle valli nere stagni invisibili mandano gelidi lampi d’argento, splendono qua e là luci vive: i fenicotteri bianchi. Bevono lungamente le gelide acque, lungamente si chiamano, o chiama forse ognuno la sua eco. E l’ascolta stupito, guardano altri quel magico cerchio di fuochi sulle montagne. Ma il loro non è che un passare: né alla roccia mai apparterranno, né alla palude, né a cosa alcuna di terra. Attendono solo la notte e i grandi cieli pieni di vento, sognano il volo soltanto altissimo quieto e il lento migrare con gli astri in sciami lucenti. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 5 PER RICORDARE ELENA BONO Tu mi percuoti col tuo amore tu sei come il mare. Immensamente il mare corre verso la terra. Sulla terra si abbatte e grida e si frantuma. Fugge per ritornare più violento, un desiderio lo sospinge di dar morte e morire. Mutamente la terra lo attende lo chiama, protesa nera disperata sulle acque: sulla sua morte. Ogni giorno lasciandoti Ogni giorno lasciandoti ogni giorno dicendo addio la morte imparo, amore, e l’angoscia dell’ultimo distacco. In te la morte imparo ed ogni angoscia e tremore. In te mi perdo come in immensa terra sconosciuta e quando tutto ti ho percorso ancora tutto ignoro di te, e non so mai ai tuoi occhi chi io sia e di me stessa che mi resti, amore, quando tu ti allontani se non morte e dolore. Elena Bono Tempesta / Ogni giorno lasciandoti Tempesta 5 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 6 Elena Bono Ad Alessio / In esta vita brieve - Alla maniera di Federico II 6 PER RICORDARE ELENA BONO Ad Alessio* Per le tue rose rosse e quella rosa bianca non potrei darti ormai che le rose del buio e della notte. Ma fioriscono esse al di là dei cancelli. I cancelli da cui le tue sbiancate mani mi fanno addio. Ti prego, vieni anche tu col giardiniere un giorno ad aprirmi i cancelli. Saprò riconoscere il viso non conosciuto. In esta vita brieve – Alla maniera di Federico II In esta vita brieve che alla morte diclìna de vui me dolgo, Amuri, e ve movo lagnanza che mai non me feciste comparire se non in sogno et in delìro chello fino splenduri, chella perla nascosa che m’assale la mente e notte e dìa. Eo chella cerco, Amuri, la sola amata e disiata la non mai comparìta in esta vita brieve che allo niente declìna. (da Elena Bono, Poesie. Opera omnia, Le Mani Editore, Recco (Genova) 2007) *Alessio P., amico non conosciuto mai personalmente, fece pervenire all’a. delle rose per la “prima” di Ippolito. De I galli notturni egli amava in particolare la lirica “Alla morte” da cui con lieve modifica è riportato qui un verso. Quella lirica gli fu letta dagli amici durante la veglia funebre. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 7 PER RICORDARE ELENA BONO di Francesco De Nicola La notizia della scomparsa di Elena Bono, avvenuta lo scorso 26 febbraio nell’ospedale di Lavagna, è passata quasi inosservata sulla stampa quotidiana del capoluogo ligure, pur essendo vissuta la scrittrice – laziale di Sonnino di nascita – oltre mezzo secolo a Chiavari e avendo compiuto i suoi studi nell’università di Genova; e probabilmente nessuno in città le avrebbe dedicato un non frettoloso ricordo se Maria Cristina Castellani e Rosa Elisa Giangoia non avessero organizzato il meritorio incontro di testimonianza svoltosi a Palazzo Spinola martedì 8 aprile. Eppure appena il giorno prima della sua scomparsa un quotidiano di larga diffusione e di solido prestigio, come l’“Osservatore Romano”, aveva pubblicato un ampio servizio su Elena Bono e qualche mese prima, nel maggio del 2013, l’università di Siviglia le aveva dedicato un convegno di studi di due giorni, organizzato da un gruppo di ricerca che da tempo si occupa di lei e che ha pure pubblicato un pregevole volume di saggi sulla sua opera, Le nevi del Fujiyama, a cura di Daniele Cerrato e Letizia Casella (Roma, Aracne). Del resto questa vicenda postuma tra oblio e celebrazione è perfettamente coerente con la sorte che in vita accompagnò la carriera di scrittrice di Elena Bono, per lo più ignorata e tuttavia da altri, forse non troppi, addirittura esaltata: chi aveva e ha ragione? È indubbio che la sua scelta, che risale agli anni Sessanta, di lasciare l’editoria a diffusione nazionale, nel caso specifico la casa editrice Garzanti, per pubblicare da allora in poi tutti i suoi numerosi e varii libri presso una piccola, ancorché pregevole e meritoria, casa editrice di Recco –denominata prima Emmee e poi Le Mani – non le ha certo giovato, ma ha contribuito a collocarla in una nicchia nella quale è comprensibile che non molti volessero/dovessero andare a cercarla. Né le ha giovato, per avere un’attenzione più vasta e meno fortemente connotata, la sua collocazione – da lei stessa rivendicata in più occasioni con molta energia – all’interno di una letteratura che, pur con tutte le approssimazioni che la definizione comporta, si dovrà definire di forte ispirazione religiosa; questo non è certo un limite, anzi, e tuttavia è un’indicazione che ha finito per collocarla in una categoria ben segnata che può aver fatto cadere a priori possibili attenzioni di critici e lettori rivolti a lei. Ben inteso, con queste osservazioni non desidero affatto sminuire il valore letterario dell’opera di Elena Bono, ma solo trovare una spiegazione del (troppo) silenzio che ha accompagnato la sua lunga carriera letteraria, peraltro cominciata sotto i migliori auspici. Il suo esordio, infatti, risale alla fine del 1946, quando il suo racconto Morte d’Adamo apparve sul numero del 15 dicembre dell’ “Illustrazione italiana”, uno dei maggiori e allora più letti rotocalchi del dopoguerra, del quale era editore Garzanti che, non a caso, sei anni più tardi le pubblicherà il suo libro d’esordio, la raccolta di poesie I galli notturni, scelta editoriale coraggiosa perché il libro conteneva numerose poesie a tema resistenziale, quando ormai si era esaurita la pienezza della stagione neorealista e già era stato abbastanza Francesco De Nicola In ricordo di Elena Bono IN RICORDO DI ELENA BONO 7 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 8 Francesco De Nicola In ricordo di Elena Bono 8 PER RICORDARE ELENA BONO accantonato il tema della guerra civile, semmai rivisitato anche in chiave critica proprio da due libri in prosa usciti in quello stesso anno, I ventitré giorni della città di Alba di Fenoglio e Fausto e Anna di Cassola. E il rapporto con Garzanti si rinsaldava quando nel 1956 pubblicava una raccolta di racconti di Elena Bono sotto il titolo di Morte di Adamo quando ancora le donne occupavano nell’Italia letteraria (e non solo) un ruolo di secondo piano: appena conosciute erano, ma solo presso il pubblico ristretto dei lettori dei “Gettoni” (uniche donne nella collana di Vittorini) Anna Maria Ortese e Lalla Romano e un po’ più note Gianna Manzini, Elsa Morante, comunque sempre lontanissime dai Cassola, Bassani e Tomasi di Lampedusa che avevano dato vita al best-seller in Italia. Ma proprio in quegli anni Garzanti tentava la strada dello sperimentalismo, tanto lontana dal mondo creativo di Elena Bono: nel 1955 pubblicava Ragazzi di vita di Pasolini, nel 1957 Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda e nel 1959 Primavera di bellezza di Fenoglio e Una vita violenta ancora di Pasolini; il divorzio era inevitabile e di qui comincia il lavoro in penombra di Elena Bono, proprio quando critica e lettori cominciano a considerare con maggiore attenzione le nostre scrittrici, ma soprattutto quelle come Dacia Maraini, espressione di un femminismo dichiarato e provocatorio come risulta, ad esempio, dal romanzo L’età del malessere (1963) o quelle come Natalia Ginzburg, che con Lessico familiare, anch’esso uscito nel 1963, praticavano il genere più leggero della memorialistica familiare. Sia dalla scrittura sperimentale della nuova stagione garzantiana, sia dai temi politici visti da sinistra e sia infine dai tuffi consolatori nella memoria Elena Bono era sideralmente lontana ed ecco allora che questa scrittrice decideva di continuare il suo lavoro nella consapevolezza di essere fuori moda e anzi perfino di battere sentieri apertamente controcorrente, come il recupero dei miti classici o di personaggi della storia lontana (Il nome della rosa sarebbe arrivato vent’anni più tardi, nel 1980, a ridestare l’interesse per il Medio Evo che però Elena Bono aveva scoperto assai prima). Ovvio però che questa libertà avrebbe avuto un prezzo: la disattenzione editoriale e critica, ma non le avrebbe precluso la possibilità di scegliere, di volta in volta, che cosa e come scrivere. Certo, pochi scrittori italiani del secondo Novecento si sono cimentati come Elena Bono in generi letterari tanto diversi tra loro e in generi di scrittura così variegati, tuttavia accomunati da alcuni tratti comuni assai evidenti: ad esempio dalla forte presenza del mondo classico (ereditato dalla sua formazione) e dal costante vincolo con la storia, l’una e l’altro occasione di riflessione attualizzata e oggetto di personale interpretazione. E così Elena Bono ha spaziato dalla poesia al racconto, dal romanzo al ritratto storico, dal testo scritto per il teatro – al quale tanto e tanto generosamente ha dato – alla traduzione delle tragedie greche di Sofocle. Davanti a una mole così ingente di opere e di opere tra loro tanto differenti, volendo cercarne una che in qualche misura compendi l’importanza e l’originalità dell’opera di Elena Bono, riterrei di dover indicare quello che considero non solo il suo capolavoro, ma uno dei romanzi italiani più importanti del secondo Novecento: Come un fiume, come un sogno, nato da una gestazione lunga e faticosa e approdato alla pubblicazione nel 1985 (e poi ristampato nel 1999), un romanzo ambientato al tempo della Resistenza, quando quel tema ormai da almeno vent’anni quasi più nessuno scrittore italiano aveva affrontato; e dunque con questa scelta, ancora una volta, Elena Bono si era posta in una condizione atipica e dunque non facile. Occorre an- Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 9 PER RICORDARE ELENA BONO Francesco De Nicola In ricordo di Elena Bono che aggiungere che l’angolazione della sua narrazione non era quella ideologica che, ovviamente, aveva predominato nelle opere resistenziali almeno per un quindicennio, anche se in verità con le pagine postume di Fenoglio, da Una questione privata (1963) al grande Partigiano Johnny (1968), la dimensione politica dei fatti si era già spostata verso un piano etico e privato (per riprendere appunto l’aggettivo del titolo del più fortunato romanzo fenogliano). Anche Come un fiume, come un sogno, che pure dallo scenario militare si eleva verso altri e più lontani orizzonti, nasce da un’esperienza autobiografica dell’autrice, che trascorse venti mesi, tra il ’43 e il ’45, sfollata con la famiglia nell’entroterra di Chiavari, uno degli epicentri della lotta partigiana, della quale furono protagonisti e purtroppo vittime alcuni suoi amici coetanei e compagni di studi. Quella drammatica esperienza ha sedimentato a lungo in lei e si è trasformata un po’ alla volta in emozioni, pensieri, parole, arte: prima, quasi a caldo, sotto forma di poesia nei versi dei già ricordati Galli notturni e poi nel poderoso romanzo Come un fiume, come un sogno, che peraltro già nel titolo si collega saldamente al mondo poetico-religioso di Elena Bono, titolo desunto dal salmo 90, versetto 5 della traduzione di Lutero (con la sostituzione dell’originale “sonno” di Schlaf in “sogno” che sarebbe Traum) che richiama due parole-chiave dell’intera sua opera: “fiume”, come allegoria di quanto scorre e quindi degli eventi della storia che potrebbero essere dimenticati, proprio per la loro successione incalzante, ma che invece devono offrire capitali insegnamenti; e “sogno”, come non meno trasparente allegoria di una realtà “altra”, spesso racchiusa in noi e non definibile con le consuete coordinate della realtà e ancora “sogno” inteso come non come consolante rifugio nel torpore del sonno, bensì come occasione privilegiata di conoscenza più profonda, depurata dai fuorvianti e inessenziali dati contingenti del fenomenico. Insomma se il “fiume” rappresenta la quotidianità nelle sue forme più immediate, il “sogno” costituisce il successivo momento dell’interpretazione di quella realtà e della sua proiezione futura. Del resto l’attività letteraria di Elena Bono, per sua stessa ammissione, appare sostenuta da una consuetudine con questo tipo di ideale e costruttivo sogno, a tener conto di quanto la scrittrice aveva affermato in un’intervista a Paola Tiscornia uscita sul “Secolo XIX” del 25 gennaio 1986: “Penso che lo scrivere sia una forma di visitazione, una dettatura… Ho sempre detto che meno v’è dello scrittore-persona nella pagina e meglio è. Perché se lo scrittore si confessa può venirne fuori anche un bel documento umano. Ma se lo scrittore ascolta, trascrive ciò che vede, ecco, queste sono visioni; è un altro discorso che ci interessa tutti e che diventa un fatto universale”. Insomma Elena Bono, che con l’immagine della “dettatura” si richiama esplicitamente alla teoria dantesca del «quando amor mi spira noto /e a quel modo che ditta dentro vo significando», in Come un fiume, come un sogno ritrova proprio questa dimensione di opera intesa come trascrizione di quanto l’autrice, assecondando la sua vocazione creativa, ha veduto – in un passo del romanzo si legge l’espressione «vedere le parole» –, autrice che si propone così in una funzione vaticinante anche se, nella finzione narrativa, viene ammorbidita dall’espediente del ritrovamento del diario di un soldato, da lui diligentemente redatto nella previsione che in futuro esso potesse cadere sotto gli occhi di qualcuno. E così, pur con un rapporto saldissimo con la storia raccontata nella sua dimensione più crudele e feroce, nel romanzo Elena Bono parla 9 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 10 Francesco De Nicola In ricordo di Elena Bono 10 PER RICORDARE ELENA BONO dell’uomo e dell’umanità intera e rivela ciò che la quotidianità di guerra (ma non solo) tiene nascosto: e perché questo alto disegno si realizzi è necessaria all’autore una visione ispirata, è necessario che sappia staccarsi da una realtà pur attentamente seguita e conosciuta: «Così semplice era tutto: chiudere gli occhi e guardare» aveva scritto in una sua poesia dei Galli notturni (Dalla betulla si effonde) composta la sera «della più oltraggiosa e lacerante giornata della nostra storia patria, l’ 8 settembre 1943». Il legame tra la prima raccolta di versi resistenziali e il grande romanzo non si limita però a questo distico, che peraltro esprime un’implicita dichiarazione di poetica, poiché i già sottolineati motivi centrali del “sogno” e del “fiume” erano già più volte presenti nei Galli notturni – dalla già citata lirica iniziale Dalla betulla si effonde (dove il rombo sconosciuto nella sera può essere appunto «la voce del fiume» e infine «il tempo che lacerava il suo cuore è ora un immobile sogno») alla lirica eponima («fluisca il sonno sulle cose/quale fiumana tacita») e ai versi di Terra lunare («uno struggente e vago desiderio di approdo / per il tutto fluente, / quasi corrente / che sospinga verso / quella riva remota all’orizzonte, / lunare terra uscita / dalle acque del sogno e della notte»). Il richiamo frequente e assai significativo alle parole chiave “fiume” e “sogno” non è tuttavia il solo evidente collegamento che dal romanzo rinvia a precedenti opere di Elena Bono; oltre al ritorno più o meno accentuato ai miti di Antigone e Orfeo (la tragedia sofoclea è stata da lei tradotta nel 1977 e Alzati Orfeo è il titolo della sua raccolta di versi del 1958), lo spunto storico più drammatico e di maggior rilievo del romanzo, la fucilazione di dieci partigiani avvenuta il 15 febbraio 1945 alla Squazza e il divieto del seppellimento dei loro corpi, rinvia ad un’altra intensa lirica dei Galli notturni, intitolata emblematicamente Rappresaglia. Come un fiume, come un sogno, pubblicato dopo una lunga gestazione con significativi recuperi da precedenti scritti di Elena Bono, può dunque essere letto come una summa dei motivi più profondi e frequenti del suo impegno letterario, collocata sullo scenario a lei più congeniale anche perché coincidente con la sua esperienza umana che per sempre l’ha segnata e cioè gli ultimi mesi della seconda guerra mondiale. Proprio la precisa e circostanziata ambientazione storica ha favorito alcune interpretazioni critiche frettolose del romanzo, un po’ approssimativamente inserito tra quelli della o sulla Resistenza; più correttamente si dovrebbe parlare, stando almeno alla cornice esterna, di romanzo certo ambientato nel periodo resistenziale ma centrato sul tema delle contraddizioni ideologiche e morali dei soldati tedeschi all’interno di quel dualismo “uomo/superuomo” che dà il titolo alla trilogia, della quale Come un fiume, come un sogno è il primo titolo. A ben guardare, infatti, i partigiani hanno nel libro presenze alquanto ridotte e per lo più funzionali a rappresentare soprattutto la loro costante minaccia sul destino dei nemici occupanti, ora sprezzanti e ora inquieti e timorosi. E infatti i protagonisti del romanzo non sono i partigiani bensì i tedeschi (in realtà già altri scrittori nostri avevano raccontato la Resistenza vista dalla parte nazista: ad esempio Fenoglio nel racconto Golia e Venturi in Vacanza tedesca), ma tra i personaggi figura una ragazza italiana, Vannella, che rappresenta in pieno il senso morale e civile della Resistenza, spesso presente nelle parole e nei pensieri dei tedeschi per il suo ruolo di avversaria fragile e tuttavia moralmente invincibile, ma di fatto presente nell’azione del libro solo in un paio di occasioni. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 11 PER RICORDARE ELENA BONO Francesco De Nicola In ricordo di Elena Bono Cronologicamente compreso tra il 4 dicembre 1944 e il 4 marzo 1945, Come un fiume, come un sogno non affronta quello che era il problema militare più importante nella prima parte di quel periodo per i partigiani: il loro sbandamento dopo il proclama Alexander di metà novembre 1944 con il conseguente rischio di esporsi alle delazioni delle spie e la necessità di girovagare in cerca di occasionali rifugi contro il freddo e il gelo; questi argomenti, storicamente decisivi, non rientravano evidentemente tra quelli attorno ai quali Elena Bono intendeva far ruotare le vicende del romanzo, che dunque non affronta l’epopea resistenziale ma piuttosto, sullo scenario di quegli avvenimenti, racconta il tarlo che divora lentamente e inesorabilmente l’esercito tedesco rappresentato in queste pagine, nelle sue estreme contraddizioni, dai due emblematici personaggi dello scritturale telefonista Werner Kaltenbrunner, ostile alla guerra (stesso cognome del capo del SD, il servizio di sicurezza incaricato dell’ eliminazione degli ebrei che sarà impiccato a Norimberga) e del comandante del presidio Henry von L. Il romanzo tuttavia, più che sull’azione (gli episodi narrati non sono più di una decina nelle oltre 350 pagine del libro) si articola e prende linfa in particolare dai dialoghi, dalle riflessioni e dalla psicologia dei due protagonisti, i quali – ed è qui soprattutto che il romanzo si allontana dal contesto storico – al di là delle loro divise di soldati tedeschi, divengono emblemi della condizione dell’uomo chiamato alle prove della vita in un momento tremendo della storia ed entrambi, sia pure in modi opposti, finiscono schiacciati e travolti dal “fiume”, cioè il corso degli eventi, perché insufficiente risulta la forza del loro “sogno”: velleitario, tormentato ma privo di risoluti slanci vitali quello del pur rigoroso soldato protestante, avverso alla guerra e tuttavia fedele fino in fondo al suo ruolo odioso di confidente delle spie e zelante trascrittore delle loro informazioni, tanto da determinare con una sua inopportuna frase ambigua i sospetti su Vannella; “sogno” invece nihilistico e superoministico quello del superbo e tracotante Henry, la cui ubris lo porta, con inutile esibizionismo e spregio della sorte tanto a passeggiare tra le mine in segno di sfida alla sorte, quanto a violare le consegne di una fantomatica Kommandantur solo per il gusto di compiere verso gli uncinati uno sgarbo «che non è stato il primo ed escludo sia l’ultimo». Se questo romanzo, ambientato nella Resistenza, di fatto si sottrae ad una lettura storica e politica e pure presenta più motivi che ne possono rivelare una connotazione di tipo religioso, viene da domandarsi perché mai Elena Bono negli anni Ottanta ha scritto e pubblicato un romanzo su quelle vicende ormai tanto lontane (rimosse o dimenticate?) dalla coscienza nazionale. Una risposta a questo interrogativo può essere data tenendo conto di un altro suo libro uscito all’inizio di quel decennio (1981), un libro di poesie ancora, con il titolo Piccola Italia, cioè l’Italia dei tanti eroi senza nome – un po’, ma solo un po’, come i personaggi minimi di La storia (1974) di Elsa Morante – e tuttavia senza i quali non ci sarebbe stato un 25 aprile e la piccola Italia non avrebbe recuperato la libertà; sono poesie sui suoi compagni di scuola caduti combattendo tra i partigiani o su ragazzi che han preferito la fucilazione alla delazione, storie spesso poco note di personaggi poco noti che i versi di Elena Bono hanno saputo scolpire nel tempo. Ma al di là di tante storie di questa gigantesca Piccola Italia la scrittrice non ha mancato con i suoi versi di gettare dei semi per il futuro, scrivendo alcune poesie che sono un monito ed un’esortazione ad apprendere dalla storia recente una lezione di etica e di civiltà fondamen- 11 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 12 Francesco De Nicola In ricordo di Elena Bono 12 PER RICORDARE ELENA BONO tale per le nuove generazioni. E così, nella lirica Su una piccola armonica a bocca nell’ultima strofa (p. 48) leggiamo: Dicono ch’era un sogno e che per nulla più di un sogno siete morti. E sia. Sogno per sogno in terra di dormienti scegliamo il sogno da sognare. Chi di bruto chi d’uomo. In questi versi essenziali e assoluti, Elena Bono sottolinea la necessità di scegliere, di sottrarsi alle masse dormienti ma non per questo non responsabili (come non ripensare ai “miti carnefici” fiorentini della Primavera hitleriana di Montale, dei quali «nessuno è incolpevole»); e al contrario è necessario avere degli obiettivi, dei sogni – ritorna dunque una delle parole chiave del romanzo – e per questi vivere e lottare, fino al sacrificio estremo. E ancora, nel breve epitaffio Per i compagni caduti nella Resistenza (p. 3), Elena Bono scrive: Morirono per la libertà, essi, a cui i padri non avevano insegnato a vivere liberi. Ecco, forse le migliaia di pagine scritte da Elena Bono – dalle poesie ai romanzi, dai testi teatrali alle rievocazioni storiche - non sono che le tante facce di un suo unico e ricorrente impegno centrale: insegnare a chi verrà dopo di lei il privilegio della libertà, quella libertà che lei stessa scelse per svolgere senza condizionamenti il suo lavoro di scrittrice, ben sapendo che così si sarebbe per gran parte precluso il raggiungimento delle attenzioni e degli onori che il suo importante impegno letterario avrebbero meritato. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 13 PER RICORDARE ELENA BONO Di Roberto Trovato Nella presentazione di un volume che raccoglieva tre racconti e dieci testi teatrali della scrittrice chiavarese (1921-2014), oggetto dell’attenzione di alcuni critici italiani1 e più di recente di studiosi spagnoli2, scrivevo “Elena Bono non finirà mai di stupirmi”3 . La stessa sorpresa ho avuto nel leggere due suoi nuovi testi: Requiem per Francesco Burlamacchi, uno degli ultimi difensori dei Comuni italiani e La testa del brigante ovvero Un malo indulto, che usciranno a breve in un volume miscellaneo assieme a saggi di altri studiosi4. A quanto mi ha precisato Stefania Venturino, la Bono ha scritto la prima pièce sopra citata nel 2010 “per rievocare ed indicare ai giovani questo esempio di civismo e spirito cristiano, quale altissima testimonianza di virtù morali e civili. È il contributo che Elena ha voluto lasciare all’Italia nel 150° anniversario della sua unità”. 1 Oltre agli studi pioneristici di Elio Gioanola l’hanno studiata a più riprese, Francesco De Nicola, Elio Andriuoli, Liliana Porro Andriuoli, Giovanni Casoli e il sottoscritto. La scrittrice è stata indagata in un volume ideato e curato da Stefania Venturino, Il castello in fiamme e l’unguento della parola. Elena Bono e la sua opera, Recco, Le Mani 2007. Nel volume sono raccolte testimonianze di sette autori: Capuano, Casoli, la Giangoia, Gioanola, Monda, Trovato e Verdino e ritratti dell’autrice della Ardini, monsignor Careggio, De Nicola, la Elert, Gawronsky, Gregoretti, la Landò, Manzari, Martini, Musso, la Novaro, la Prodi e la Roda. 2 La scrittrice è stata scandagliata in molte delle sfaccettature della sua poliedrica produzione in un volume, curato da Daniele Cerrato e da Letizia Casella, uscito nel Roma per i tipi di Aracne, intitolato Le nevi del Fujiama. La via della catarsi. Studi critici su Elena Bono. Inserito nella collana Donne del Novecento, diretta da Antonella Cagnolati, il libro è preceduto da una lucida premessa di Mercedes Arriaga Florez, Elena Bono, una scrittrice che parla alla coscienza del mondo, e da una acuta introduzione di Daniele Cerrato. Nel volume sono raccolti contributi di Pociña Pérez, della López López, Sciffo, De Nicola, la Segatori, la Casella, la Martin Clavijo, Trovato, la Pitto e Ciulla. Il libro curato dalla Venturino e questo riportano la bibliografia di quanti si sono occupati della Bono. Segnalo un nuovo intervento sulla scrittrice di P. Bruno in Poetesse liguri dallo scrittoio alla pagina, Genova, De Ferrari 2011, pp. 87-95. Sulla ricezione spagnola dell’opera della Bono già a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso e negli anni successivi, nonché ai progetti in cantiere rimando alle notazioni puntuali contenute nel saggio di Letizia Casella. 3 E. Bono, L’erba e le stelle. Tra mito e storia. Racconti e pièces per teatro da camera, Recco, Le Mani 2011. La presentazione, dal titolo Una donna all’apparenza fragile, amante della vita, si trova tra le pp.11-18. 4 La loro conoscenza è un atto di cortesia che devo a Stefania Venturino, grande estimatrice e conoscitrice della Bono e da alcuni anni sua press-agent. La prima pièce, più ampia, e la seconda, molto breve, sono state depositate alla Siae, sezione DOR, il 28 dicembre 2011. Il primo testo è interessante anche in relazione ad altri lavori teatrali della commediografa che riguardano le figure dell’imperatore Carlo V e di Andrea Doria, più volte ricorrenti nei suoi testi. In un testo teatrale in particolare, Ultima estate dei Fieschi, seconda parte di un dittico raccolto in volume col titolo complessivo Gatto di sangue, sono drammatizzati eventi accaduti tra il 1546 e il 1548. Quei tre anni furono caratterizzati non solo da profonde trasformazioni della geografia politica delle penisola che porteranno all’affermazione dell’egemonia spagnola, e da mutamenti interni a molti stati italiani. Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono RIFLESSIONI SUL TEATRO DI ELENA BONO 13 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 14 Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono 14 PER RICORDARE ELENA BONO I personaggi di questo testo sono rigorosamente storici, con la sola eccezione di un sacerdote e della moglie del protagonista indicato nel titolo, appartengono, per sua esplicita dichiarazione, “ai ricordi e alla cronaca famigliare” della sceneggiatrice dell’opera. Il secondo componimento si rifà invece ad un episodio che l’autrice aveva sentito raccontare quando era bambina dal nonno paterno Nicomede. In questo testo, ambientato nella prima metà del secolo XIX a Sonnino, città in cui l’autrice era nata, è espresso “lo sdegnoso rifiuto morale dei cosiddetti confidenti di giustizia” che, a quanto osserva la Bono alla nota prima, “si procurano il perdono denunciando, e spesso inventando e calunniando”. Poco oltre, in quella stessa nota, l'autrice richiama ciò che è accaduto per l’uccisione del bandito Giuliano, di Calvi e di Sindona “Chi ha fatto la Resistenza, come me, deplora tutto questo, come deplora piazzale Loreto… non si fa giustizia così. Così fanno i fascisti… Così fanno i nazisti… Queste cose ce le buttiamo alle spalle, invece no, sono davanti a noi!”. I riferimenti a Giuliano, Calvi e Sindona spostano l’attenzione della Bono dai drammatici accadimenti della seconda guerra mondiale, che permeano e sostanziano tanta parte della sua opera poetica, narrativa e teatrale, verso altri più vicini a noi, dimostrando la sua attenzione per il presente. A differenza del testo precedente pertanto l’autobiografia, unita ai rinvii al presente, appaiono centrali. A dispetto della loro brevità, dovuta alla malattia e all’età avanzata, che pure non ne hanno mai arrestato la creatività, le due pièces cui sopra ho fatto riferimento dimostrano ancora una volta la singolare capacità della scrittrice di far rivivere eventi e personaggi che hanno inciso sulla micro e la macro storia. Le pagine della Bono hanno alcuni temi ricorrenti: la critica al potere, elemento nullificante del singolo; il sarcasmo verso la “eterna, rancida, rognosa politica”5 degli uomini; il conflitto fra imperativi morali e scelte dettate da necessità contingenti; il confronto con la Storia, luogo in cui siamo chiamati a batterci per cambiare il mondo; la denuncia dell’assurdità della guerra; il senso di pietà che unisce sconfitti e vincitori; la sacralità della sofferenza quotidiana; il biasimo per quanti non fanno tesoro del sacrificio degli altri; l’esaltazione della libertà; e infine il rispetto della dignità dell’uomo. Sebbene tutti, umili e grandi, patiscano le ferite della storia, i dolori di quanti vivono appartati sono “lievito trasformatore”, “possibilità e speranza di modificazione”6 della società. Le premesse di un domani più giusto sono poste da coloro che operano, nonostante tutto. Emblematico è a tale proposito il botta e risposta fra Catullo e Cesare in Cuore senza fine: “CATULLO Ma non c’è niente … niente da fare … vero, Cesare? CESARE Sopportare con coraggio. E agire. Agire fin all’estremo limite di quel che è consentito e un po’ più in là, Catullo. Tu hai la 5 La definizione è tratta da una battuta detta da Erodiade in La testa del Profeta, Milano, Garzanti 1965, p. 29. 6 E. Gioanola, Ritorno sotto l’albero del bene e del male: lo Zar delle farfalle nere, Recco, Le Mani 1995, p. 7. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 15 PER RICORDARE ELENA BONO Va aggiunto che il tema caratterizzante della sua intera produzione è rappresentato dal riconoscimento che ogni forma di vita attesta la grandezza di Dio, disposto a perdonare gli errori compiuti. Come del resto era già avvenuto nel trittico Uomo e Superuomo, la Bono presenta dunque la Passione di Cristo calata nella storia, incarnandola in individui reali o verisimili. Per oltre sessant’anni nella Bono il teatro8 e la letteratura sono state intese come memoria e fedeltà, al servizio dell’uomo, del suo vivere come del suo morire. In effetti il senso della morte assume per lei il significato di pienezza, ma nel contempo anche di riscatto dell’esistenza. I suoi personaggi agiscono nella Storia9, luogo primario di responsabilità morale e civile. Il suo, va sottolineato, è un Cristianesimo del tutto personale: disarmato ancorché consapevole ed umile, che è una risposta forte al nichilismo, teorico o di fatto, diffuso nel nostro presente. Significativamente la scrittrice ha affermato: “Ciò che nel mio lavoro più mi conforta è il risultato degli spiriti: il fatto che qualcuno, a suo dire, ne abbia ricavato un po’ di coraggio per vivere e qualcuno, perfino per morire”10. La Bono avverte poi il “dovere per ognuno di noi di essere presente e facitore (non semplice spettatore) della Storia”11. Un critico a cui si deve il merito di aver individuato nella “potenza, finezza e profondità psicologica”12 gli elementi peculiari della scrittura dell’arE. Bono, Odio e amo. Tu forse mi chiedi … , Recco, EmmeE 1991, p. 33. La Bono si era già cimentata, con eccellenti esiti, col teatro a partire dal 1951 con il dramma in tre atti Ippolito. Dopo l’esordio aveva composto altri lavori: il dialogo Cesare e Bruto (1956); il dramma in tre atti La testa del profeta (1965); gli atti unici La grande e la piccola morte (1970); El entierro del Rey (1971); Ritratto di principe con gatto (1985); Ultima estate dei Fieschi o Il peso dell’armatura (1993); L’ombra di Lepanto e i sei quadri de Le spade e le ferite (1995); i drammi in due tempi I Templari (1975) e Odio e amo, tu forse mi chiedi (1991); i drammi in tre atti Lo zar delle farfalle nere (1994); Flamenco matto. Cena a metà quaresima in casa di don Giovanni (1996) e il dramma in sette scene, Saga di Carlo V e di Francesco I (2005). A questi titoli vanno aggiunti i dieci brevi atti unici usciti nel 2011 nel già ricordato L’erba e le stelle. Alcune di queste pièces sono state rappresentate in Italia e in Francia. A questo robusto corpus drammaturgico vanno aggiunte la pregevole traduzione di una trilogia di Sofocle, Edipo Re, Edipo a Colono e Antigone, uscita nel 1977 e più volte riedita, nonché due azioni teatrali pubblicate nel 2008, Storia di un padre e di due figli e Sera di Emmaus, suddivise rispettivamente in sette e in cinque scene. 9 . Per altre considerazione rinvio al mio saggio La fiducia ostinata della Bono nel far rivivere la storia, pubblicato in Teatro in Liguria alle soglie del Duemila (a cura di R. Trovato e L. Venzano), Erga, Genova 1997. 10 L. Tagliaferro, La poesia dell’anti-alibi di Elena Bono, su “La nuova Campania”, 8 marzo 1975. La definizione per di “letteratura dell’anti-alibi” era già stata espressa da N: Palumbo in un articolo pubblicato su “Corriere Mercantile”, il 19 dicembre 1970. 11 L. Porro Andriuoli, Intervista a Elena Bono, su http://www.ilportoritrovato.net. La studiosa è autrice del libro Valori umani e cristiani nella poesia di Elena Bono (Recco, Le Mani 1999). 12 G. Casoli, Novecento letterario italiano ed europeo, Città Nuova, Roma 2002, vol. 2, p. 67. 7 8 Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono poesia. Io lo Stato. E qualunque cosa … dal falegname che fa una sedia, a chi scrive un verso o una legge, farla per i secoli. Farla come se ne dipendesse il destino del mondo”7. 15 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 16 Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono 16 PER RICORDARE ELENA BONO tista chiavarese, ha evidenziato le radici profonde di un’operosità caratterizzata, come aveva già evidenziato alcuni anni prima Gioanola, “dall’obbedienza all’imperativo di fare della scrittura, lo spazio dell’Altro, non del Sé. É questo rispetto radicale dell’Altro, cioè della realtà, a fare della letteratura e dell’arte il luogo primario della verità”. Autrice di libri che, come si legge13 nell’antologia di Casoli, sono un ex lege nell’industria culturale, prosegue anche nei due ultimi componimenti la ricerca avviata nella precedente produzione, indicando forme di resistenza contro quanti cercano di distruggere l’individuo. A giudizio della scrittrice, anche con piccoli gesti è possibile combattere il Male. Quasi tutti i suoi personaggi, storici e inventati, vengono colti nel momento del congedo dall’esistenza, nel momento in cui passano in rassegna quanto hanno compiuto, dialogando anche in maniera non di rado aspra “con la propria anima e i propri ricordi”14. Burlamacchi, come altri protagonisti della drammaturgia della Bono, viene colto in limine mortis. A tale proposito uno studioso spagnolo ha osservato acutamentepoco tempo fa: “Determinadas obras teatrales de Elena Bono presentan como leitmotiv común el tema de la Meditatio mortis. Tema expuesto con diferentes modulaciones ya que los espejos en los que se reflejan sono diferentes pero con unas constances comunes. Se trata por lo general de obras cuyos protagonistas son personajes históricos pero pasados por el tamiz de la interpretación creadora de la autora. Son figuras históricas que en buena parte de sus vidas detentaron un gran poder, que sirven a Elena Bono de contrapunto a la fugacidad del tiempo y a la nulidad del ser humano ante el momento decisivo de la muerte, o sea al momento de la rendición de cuenta ante el Creador, pues entonces nada importa sino salvar el alma”15. (Determinate opere teatrali di Elena Bono presentano come leit-motiv comune il tema della Meditatio mortis. Tema esposto con diverse modulazioni giacché gli specchi nei quali si riflettono sono differenti ma con delle costanti comuni. Si tratta in generale di opere i cui protagonisti sono personaggi storici ma passati attraverso il setaccio dell’interpretazione creativa dell’autrice. Sono figure storiche che in buona parte della loro vita detennero un grande potere, che servono a Elena Bono da contrappunto alla fugacità del tempo ed alla 13 Il già ricordato Casoli, è stato tra i pochi- così si legge nell’ articolo, a firma di S. Guidi e F. Marchitti, Perché il Nobel non serve, uscito alla pagina 4 dell’”Osservatore Romano” la mattina del 26 febbraio 2014, che dopo Emilio Cecchi “hanno saputo scrivere con penna e giudizio raffinati quale fenomeno avessimo di fronte. Esemplare è la sua denuncia: “ È un fatto che quella che riteniamo la scrittrice italiana più importante della seconda metà del XX secolo sia da quasi quarantanni emarginata dalla cosiddetta grande editoria”. 14 Così recita la didascalia del quarto componimento, Ultima conversazione di Michelangelo con la morte. Anno 1564 inserito nel volume L’erba e le stelle, cit. 15 F. Diaz Padilla, Ante el espejo de la muerte en el teatro de Elena Bono, articolo che verrà pubblicato in un nuovo volume di saggi dedicato alla Bono. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 17 PER RICORDARE ELENA BONO Un altro saggista ha scritto che la sua ispirazione “spesso la guida verso il genere storico, dentro cui riplasma costantemente la divaricazione tra imperativi morali e necessità contingenti, tra cielo e mondo. Il passato, allora, al di là delle apparenze esteriori, sotto la sollecitazione di quel sofferto anelito spirituale, si smaterializza in un tempo e in uno spazio astratti, che sono il tempo e lo spazio dei Valori modulati dall’etica cristiana”17. Avvalendosi di un linguaggio originale, nei suoi testi ha saputo delineare personaggi duramente critici nei confronti del potere, che tende ad annullare il singolo. Nel contempo essi si oppongono con fermezza al nulla, proponendo, come rilevava tempestivamente e autorevolmente il sopracitato Gioanola, una forma di resistenza al dissolvimento dell’uomo, nella certezza che qualcosa gli sopravviverà oltre la morte. A quanto scrivevo nel 1995, la definizione che le è stata attribuita di scrittrice appiattita sui principi della Chiesa di Roma è fuorviante, o quantomeno limitativa, per la corretta comprensione di testi che, come aveva intuito Dario G. Martini in un saggio dedicatole nei primi anni ’50 del secolo scorso18, conducono un’ostinata e puntigliosa polemica contro il nulla. La Bono è intimamente cattolica, anche se il suo cattolicesimo ha evidenziato col tempo qualche venatura di maggiore asprezza. Il suo cristianesimo ama certo la croce, ma non disdegna, quando sia necessaria, la spada19. Sono sempre più convinto che, come alcuni laici, la scrittrice sia giunta a riconoscere che il nulla può essere vinto anche da chi non crede in Dio ma nell’umanità. Anche se ognuno di noi fosse destinato a dissolversi dopo la morte non per questo sarebbe condannata l’umanità. Significativamente i suoi testi si oppongono al nichilismo dell’arte e del pensiero, responsabile per tanta parte della disperazione di questa epoca segnata da sconvolgimenti politici, sociali e ideologici. A quanto scrivevo in un breve saggio, il suo cristianesimo, inizialmente percorso da accenti di un francescanesimo non edulcorato e progressivamente sempre più sostanziato di cose che di parole, si esplicita in componimenti”20 che invitano con fermezza alla battaglia “contro la distruzione dell’uomo”21. Secondo la scrittrice La traduzione italiana è di Letizia Casella. E. Buonaccorsi, Il teatro in Liguria dal 1945 al G. Ponte, a cura di, Bilancio della letteratura del Novecento in Liguria, Atti del Convegno, Genova, 4-5 maggio 2001, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova 2002, p. 133. 18 Dario G. Martini, Poesia e teatro di Elena Bono, Savona, “I quaderni del Raccoglitore”, n. 2, 1953. 19 Tale tesi è sostenuta anche da G. Cassinelli, nel volume Non la pace ma la spada, edito nel ’68 per i tipi della savonese Sabatelli. La tesi è fondata su quanto la Bono scriveva nell’exergo di Morte di Adamo, il suo primo libro, che faceva riferimento ad un passo del Vangelo di Matteo, X, 34: “Non pensate che io sia venuto a portare pace nel mondo: io sono venuto a portare non la pace ma la spada”. 20 R. Trovato, Un oltre senza vuoto. Riflessioni sul teatro di Elena Bono, su “ La Riviera Ligure”, n. 32, maggio-settembre 2000, p.29. 21 E. Gioanola, Ritorno sotto l’albero del bene e del male, cit., p. 20. 16 17 Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono nullità dell’essere umano nel momento decisivo della morte, ossia nel momento della resa dei conti davanti al Creatore, poiché allora nulla importa se non salvare l’anima”)16. 17 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 18 Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono 18 PER RICORDARE ELENA BONO anche con piccoli gesti è possibile combattere il Male, che nei suoi testi si identifica molte volte con la ragion di stato. Di qui l’“ossessione del potere”22 da cui sono nati, per limitarmi ai testi maggiori, personaggi come Catullo, Cesare, Erode, Federico II, papa Innocenzo IV, il precettore dei Templari, Giovanna d’Arco, Carlo V, Andrea e Gian Andrea Doria, lo zar Paolo I e Garibaldi. La Bono li sa cogliere “sul discrimine tra il Nulla e l’Eternità”, vale a dire nel momento in cui “si aprono ad una rivisitazione di sé e del proprio vissuto, in tutto il loro splendore e la loro miseria”23. Nella sua corposa produzione, costituita da quattordici testi scritti fra il ’51 e il ’97, e negli anni successivi da poche ma interessanti prove, la Bono fa rivivere gli eventi storici nella prospettiva di un’educazione alla coscienza. Si vogliono capire le cause che hanno inciso sulla storia, senza tralasciare peraltro l’approfondimento della psicologia dei personaggi. Esemplare in questo senso è il monologo di Andrea Doria in Ritratto di principe con gatto, una delle sue pièces più belle per la sobrietà della costruzione e la limpidezza del linguaggio. Davanti all’eternità, l’uomo più potente della Genova della prima metà del Cinquecento fa un bilancio disincantato della propria esistenza, prendendo coscienza di avere desiderato il bene, ma di avere anche compiuto il male. Tale consapevolezza fa sì che il congedo dalla vita gli sia meno doloroso. Del resto per stare meglio – lo afferma Giobatta, il capo del villaggio devastato dai Saraceni in Le spade e le ferite. “Basta un peu de carité”24 e tanta solidarietà nei confronti di tutti. Lo stesso personaggio poco oltre aggiunge con tono paterno ma fermo: “A peggio cossa è fa’ dô mâ. […] A ‘sto mondo, figgê, gh’è poco da sta’ allegri: terremoti, balzelli, e peste e fame e cavallette. E gh’è pure a guerra, no capìmo perché. Forse manco o capisce chi a scadena. Ma de tutto, pazienza. Diè ne compensià”25. L’originale scrittura teatrale della Bono si caratterizza, come hanno rilevato due studiosi intelligenti, Elio Andriuoli e Graziella Corsinovi, nella “lucidità di un pensiero sempre pronto a cogliere i problemi politici e sociali, anche meno noti, dell’epoca in cui il dramma viene ambientato”26, nel recupero di “personaggi e sfondi storici rigorosamente documentati” e nell’intensità dei messaggi affidati “ai nudi momenti di verità dell’anima, spalancata sull’abisso dell’oltre” 27. E ancora Andriuoli osserva che il teatro della Bono si caratterizza per la “lucidità di un pensiero sempre pronto a cogliere i problemi politici e sociali, anche meno noti, dell’epoca in cui il dramma viene ambientato”28. La Bono sa rendere bene le sfumature del cuore umano. Detto in altri termini i suoi personaggi, piccoli e grandi, sono vivi sulle scene. Nel sopra segnalato E. Gioanola, Storia della letteratura italiana, Librex Scuola, , Milano 1996, p. 946. G. Corsinovi, Lo Zar delle farfalle nere, nel fascicolo “LiguriaSpettacoli” supplemento a “Liguria”, marzo-aprile 1995, p. VII. 24 E. Bono, Le spade e le ferite, Le Mani, Recco 1995, p. 78. 25 E. Bono , Le spade e le ferite, cit., p. 79. 26 E. Andriuoli, Flamenco matto, nel fascicolo ‘’LiguriaSpettacoli”, supplemento a “Liguria”, maggiogiugno 1997, p. VIII. 27 G. Corsinovi, cit., p. VIII. 28 E. Andriuoli, Flamenco matto, nel fascicolo ‘’LiguriaSpettacoli”, supplemento a “Liguria”, maggiogiugno 1997, p. VIII. 22 23 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 19 PER RICORDARE ELENA BONO “Penso che lo scrivere sia una forma di visitazione, una dettatura. […] Meno v’è dello scrittore nella pagina e meglio è. Perché se 29 Nei testi maggiori l’impasto linguistico vede la sapiente commistione di italiano, antico e moderno, francese, provenzale, tedesco e spagnolo. 30 Le sotto riportate citazioni sono tratte dalla pagina 165 de Il teatro di Elena Bono, tesi discussa con me presso l’Università di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia, nel dicembre 1998 “Dalle prime prove giovanili sino al recente, bellissimo Flamenco matto, sembra che Elena Bono non abbia fatto altro che rimettere ogni volta in discussione se stessa e il suo lavoro rifuggendo da facili affermazioni commerciali e senza cristallizzarsi sui risultati (peraltro notevoli) ottenuti. Naturalmente la nostra autrice ha scontato un impegno e una coerenza di tal genere nell’indifferenza dell’ambiente letterario (le sue opere, pubblicate da un piccolo e coraggioso editore ligure hanno una circolazione assai limitata) e con la latitanza del mondo teatrale, evidentemente legato più a ragioni di mercato che non attento alla vera cultura”. Subito dopo aggiungeva: “Recensendo Ritratto di principe con gatto, il già ricordato Dario G. Martini si convinceva ancora di più di quanto sia falsa la dichiarazione che non esistono autori italiani viventi degni di veder rappresentati i loro testi. Di recente, proponendo il suo nome in un’antologia della letteratura italiana, Elio Gioanola ha parlato di atto dovuto” nei confronti di un’artista difficile e controcorrente, apprezzata e tradotta all’estero negli anni ’50-’60”. 31 Per le realizzazioni dei suoi testi in palcoscenico e alla radio rinvio all’Appendice bibliografica con cui si chiude il volume Il castello in fiamme e l’unguento della parola. Elena Bono e la sua opera, cit., pp.275-279. 32 È la storia dell’ultima giornata di Giovanna d’Arco nella prigione di Rouen, dove in un ultimo incontro sta per affrontare il suo giudice, il vescovo Cauchon. Questi le propone un accordo inaccettabile: uscire di prigione e sposarsi per farsi dimenticare politicamente, a patto che una strega prenda il suo posto sul patibolo. 33 Testimonianza dell’autrice in Atti delle giornate di studio su Edipo, convegno tenuto a Torino fra l’11 e il 13 aprile 1983, p. 58. Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono Requiem per Francesco Burlamacchi è presente il singolare impasto linguistico, caratterizzato in questo caso dalla felice commistione di italiano, latino e spagnolo29. Ne La testa del brigante troviamo la citazione dei primi cinque versi dell’Iliade di Omero nell’ostica versione di Vincenzo Monti (1754-1828), con cui per decenni si sono trovati a fare i conti gli studenti delle nostre scuole medie. Mancano invece, come nei testi maggiori l’alternanza di registri alti e bassi, arcaici e moderni. A quanto annotava una mia allieva, Patrizia Pitto, nella sua tesi di laurea, la scrittrice ha rivelato una straordinaria capacità di rinnovarsi30. Le battute dei personaggi della Bono, in equilibrio fra aulico e familiare, sgorgano naturalmente, rendendo la parola ferma e incisiva, in grado di rendere tutte le sfaccettature dell’anima umana. Anche per questo arriva in maniera diretta al pubblico, come hanno dimostrato le quattro regie firmate, fra il ’94 e il ’97, da Daniela Ardini, e quelle di Ugo Gregoretti e Pino Manzari de Le spade e le ferite e I templari, nell’estate del 2000 e del 2002, alla Festa del teatro a San Miniato, e prima ancora l’allestimento in Francia nell’aprile 1999 de La grande e la piccola morte31 col titolo Jeanne ou la mort volée32, per la regia di Sophie Elert. Fin dall’esordio la Bono ha avuto ben presente la questione della lingua, nodale a teatro. In effetti già nei primi anni ’80 aveva riconosciuto che il problema non era astratto ma “un fatto istituzionale […], grazie al quale i singoli personaggi” gli si rivelavano “attraverso stilemi connotativi propri, non interscambiabili”33. Nell’86 precisava: 19 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 20 Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono 20 PER RICORDARE ELENA BONO lo scrittore ascolta, trascrive ciò che vede, ecco, queste sono visioni; è un altro discorso che ci interessa e che diventa un fatto universale”34. Parlando nel 1999 ai miei allievi di Flamenco matto. Cena a metà quaresima in casa di don Giovanni Tenorio 35, una sorta di auto sacramental, articolato in tre tempi di robusta teatralità, in cui era proposta la versione di Don Giovanni redento, che trova il precedente nel Don Giovanni Tenorio composto da Zorrilla nel 1844, così illustrava il suo personale input creativo: “I miei personaggi mi si presentano spontaneamente. In una prima fase mi limito a osservarli e ad ascoltarli, trascrivendo come meglio mi riesce le loro parole. In un secondo tempo però il mio compito si fa più arduo in quanto devo restituire accanto alle battute realmente pronunciate, la tonalità e il timbro inconfondibile delle loro voci, l’abbigliamento con cui mi si sono presentati, i movimenti e i gesti compiuti, i colori visti e i suoni uditi”. Si tratta di un procedimento che, per sua esplicita affermazione, richiede per un verso l’identificazione e per l’altro il distacco dalle sue creazioni. A quanto si legge alla pagina 92 del volume di Piera Bruno segnalato nella seconda nota, la stessa commediografa è consapevole che la sua è “una scrittura attiva, dove io sono presente come una radio ricevente o un nastro magnetico che registra eventi e voci diverse”. Negli ultimi tempi i già ricordati allestimenti francesi de La grande e la piccola morte e alla Festa e quelli italiani del Teatro di San Miniato de Le spade e le ferite e in piazza San Matteo a Genova della Ardini, hanno favorito una ripresa di interesse per una scrittrice complessa e sfuggente che al debutto aveva suscitato per un verso l’interesse del critico Emilio Cecchi e dell’editore Garzanti, e per l’altro l’attenzione del regista Orazio Costa Giovangigli e di due interpreti della levatura di Emma Grammatica e di Gualtiero Tumiati. Autrice mai ripetitiva, capace di una straordinaria evoluzione di contenuti e linguaggi, la Bono parla al pubblico con semplicità, comunicando la speranza che l’uomo possa finalmente raggiungere e una nuova e più equilibrata dimensione. La sensibilità poi con la quale sa cogliere i dubbi e gli interrogativi dell’uomo di tutti i tempi fa sì che essa sappia reinterpretare con sensibilità moderna drammi della passione sotterranea che alla fine affiorano con grande forza, e altri dell’intrigo politico condotto lucidamente e dai quali emerge la tragica doppiezza della natura umana. Intervista pubblicata su “Il Lavoro”, 25 gennaio 1986. Nel ricevere questo testo, uscito nel 1996, l’anno stesso della stesura, mi aveva colpito la seconda parte della dedica autografa in cui la Bono definiva il suo un “don Giovanni redento e purificato, forse perché venuto a visitarmi quando ero, giusto un anno fa, tra la vita e la morte, tra questo triste mondo e Dio”. 34 35 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 21 PER RICORDARE ELENA BONO Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono In ogni caso la Bono, di fronte alla crisi dei valori che ha travolto l’umanità ad un certo punto della storia, che persiste tuttora, afferma la propria fede in Dio, considerato da lei un punto di riferimento importante, dal quale muoversi per ritrovare noi stessi e per ricostruire (parafrasando una riflessione di Kaltenbrunner, soldato tedesco protagonista del romanzo Come un fiume, come un sogno) “l’uomo dentro di sé”, rifiutando di continuare come se nulla fosse accaduto: I testi della Bono evitano le secche dell’ ideologismo per la forte passione civile da cui sono sostanziati e innervati. Per questi motivi le sue pièces, sostenute da un grande rigore artigianale, dal pieno dominio della materia e da un talento indubbio, segnano profondamente. 21 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 22 Letizia Casella Elena Bono accolta in Spagna 22 PER RICORDARE ELENA BONO ELENA BONO ACCOLTA IN SPAGNA di Letizia Casella Nel settembre 2009 ho incontrato per la prima volta Elena Bono. Conoscerla è stata per me un’esperienza indimenticabile. Lei mi conquistò immediatamente. La magia delle sue parole e della sua grazia si è ripetuta ad ogni successivo incontro. Non avrebbe potuto essere diversamente, come sa bene chiunque abbia avuto il piacere di frequentarla. Questa donna minuta mi emozionava ogni volta per una forza di volontà non comune, la cultura vastissima, un garbo d’altri tempi e una delicatezza che faceva sembrare la sua casa un’oasi sospesa sul mondo. Ho il privilegio di far parte da alcuni anni di un gruppo di ricerca, Escritoras & Escrituras, diretto magistralmente da Mercedes Arriaga, docente di Filologia Italiana presso l’Università di Siviglia. È stata la Arriaga a volere con determinazione e a curare con passione un convegno internazionale dedicato alla scrittrice italiana, che ha avuto luogo a Siviglia il 7 e l’8 giugno 2013. Il gruppo svolge da anni ricerche per dare visibilità a autrici che hanno contribuito in modo determinante allo sviluppo della letteratura, ma che sono state spesso poco apprezzate o ignorate. Il titolo della manifestazione era Ausencias: para la reconstrucción del canon en la literatura italiana contemporánea. El caso de Elena Bono (Assenze: per la ricostruzione del canone nella letteratura italiana contemporanea. Il caso di Elena Bono). Pur essendo una figura di grande spessore culturale, morale, umano, in Italia è poco conosciuta. Sebbene i suoi testi siano stati tradotti in diverse lingue straniere, nel nostro paese su di lei grava un silenzio che dura da molti anni. Poche, anche se autorevoli, sono stati le persone che l’hanno sostenuta. Tra queste segnalo Francesco De Nicola e Roberto Trovato che hanno partecipato al convegno andaluso con due relazioni accurate. Durante l'incontro sivigliano sono stati presentati due importanti libri, freschi di stampa: il primo è Le nevi del Fujiyama. La via della catarsi. Studi critici su Elena Bono 1, raccolta di saggi di studiosi italiani e spagnoli, per il quale mi pare doveroso ringraziare Antonella Cagnolati, direttrice della Collana Donne nel Novecento che esce per i tipi della romana Aracne. Il libro è impreziosito dalla copertina della pittrice e scrittrice Adriana Assini. Nella premessa del volume la Arriaga definisce la Bono: “una scrittrice che parla alla coscienza del mondo”, perché “ci mette davanti a verità scomode. Verità che non vogliono essere ascoltate e che soltanto il fatto che siano state annunciate ed enunciate suppone in sé un atto di sovversione e di ribellione.[...] Molti dei testi di Elena Bono girano, appunto, intorno al tema del non dimen1 D. Cerrato - L. Casella, a cura di, Le nevi del Fujiyama. La via della catarsi. Studi critici su Elena Bono, Aracne, Roma, maggio 2013. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 23 PER RICORDARE ELENA BONO Daniele Cerrato, che ha avuto un ruolo importante nella cura del volume, dopo avere spiegato nella sua lucida introduzione il titolo, indicato dalla stessa Elena in ricordo da una sua lirica che porta lo stesso titolo, in cui aveva scritto che le nevi del Fujiyama erano per lei un simbolo di purificazione, osserva che la voce della scrittrice italiana “è tenue come quella di una profetessa, ma sa arrivare nella profondità dell’animo umano, descrivere il dolore e la sofferenza, come solo chi l’ha conosciuta da vicino, sa accarezzare il cuore e lo sa guidare su e giù per i tornanti della vita. Le Nevi del Fujiyama sono il viaggio e insieme la meta, crocevia di cammini e di destini, la via della catarsi che, ognuno a suo modo, ha percorso e vissuto”3. Andrés Pociña Peréz, docente presso l’Università di Granada, da profondo conoscitore di Elena Bono qual è, nel suo contributo ripercorre i momenti dell’accoglienza in terra iberica delle opere della scrittrice4. Lo studioso puntualizza che già nel 1954 venne pubblicata la poesia Negro Blue5, tradotta in gallego da Dictinio de Castillo Elejabeytia. L’anno dopo fu Eduardo Moreiras a tradurre in gallego tredici poesie tratte dalla silloge I galli notturni6. La traduzione venne salutata con entusiasmo ed ammirazione da un altro illustre scrittore, Álvaro Cunquerio. Nel 1961 uscì a Barcellona la traduzione di Morte di Adamo (Muerte de Adán7), ad opera di Jaime Berenguer Amenós. Nel 1965, a Malaga, sulla rivista “Caracola. Revista malagueña de poesía”, apparve la traduzione di María Antonia Sanz Cuadrado della poesia Ora conosco le strade. 2 M. Arriaga Flórez, Elena Bono, una scrittrice che parla alla coscienza del mondo in, D. Cerrato-L. Casella, cit., 9. 3 D. Cerrato, cit., p.21. 4 A. Pociña Perez, Tracce poco note della ricezione di Elena Bono in Spagna, in, D. Cerrato-L. Casella, cit., 19. 5 E. Bono, Poesie, Opera omnia, Le Mani, Genova 2007, p. 166. 6 E. Bono, Xardín dos cabaleiros de Malta, Traducción do italiano de Eduardo Moreiras, Poetas de Hoxe, Buenos Aires, 1955. 7 E. Bono, Muerte de Adán, Versión del italiano por J. Berenguer Amenós, Editorial Vergara, Barcelona, 1961. Letizia Casella Elena Bono accolta in Spagna ticare, perché l’oblio è una malattia dei popoli, e una morte molto più dura della morte stessa. Elena Bono è una delle poche scrittrici italiane contemporanee che ha intravisto nella Storia recente un contributo prezioso per la crescita civile ed etica, non solo per il suo paese, ma di tutta l’umanità che deve far tesoro dei tempi bui per far sì che la barbarie non possa ripetersi. Elena Bono tratta allo stesso modo, con la stessa dignità, sia gli eroi della Resistenza sia le figure mitiche o bibliche per sottolineare che la Storia, cioè la vita di tutti i giorni, può diventare archetipica, coscienza collettiva, modello da imitare o da evitare. Aldilà delle ferite che la vita procura, Elena Bono mantiene salda la fede nella parola, la parola che ci sana e ci salva, e ci rende migliori nell’incontro con gli altri ai quali va destinata”2. 23 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 24 Letizia Casella Elena Bono accolta in Spagna 24 PER RICORDARE ELENA BONO Il mio contributo è dedicato al testo Una valigia di cuoio nero 8 , il secondo volume della trilogia Uomo e superuomo. A mio avviso, è un testo che ben rappresenta quello che è stato per Elena una sorta di missione, ossia arrivare “al cuore del lettore, senza mai ferirlo, cercando di non scrivere mai una sola parola inutile”. La scrittrice ci dimostra come in una guerra non ci siano vincitori, ma soltanto vinti, da qualunque parte la si guardi, perché il dolore è lo stesso, non ha nazionalità né religione né ideologia; lei dà voce a ebrei, a soldati fascisti, a padri tedeschi e ne racconta le sofferenze e le lotte per sconfiggere il Male. Stas’ Gawronski, così ha annotato a proposito de La valigia di cuoio nero: “questo capolavoro della letteratura italiana del dopoguerra è indirettamente una lente d’ingrandimento sui nostri giorni e sul Grande Fumo di oggi, non più quello dei forni crematori, ma quello dell’individualismo più esasperato, del successo a tutti i costi, della minimizzazione dell’umano e di qualsiasi dimensione religiosa”9. Proprio per questo motivo lo ritengo un testo attualissimo, che fa molto riflettere sulla necessità di perdonare se stessi, per potersi amare ed amare gli altri, pensieri espressi magistralmente da Elena anche con una delle sue poesie, Il magrissimo asceta fece un interminabile cammino: Il magrissimo asceta fece un interminabile cammino per arrivare all’altopiano dove sedeva il sorridente Illuminato e gli stette davanti con la sua ombra lunga contro il sole. - Spiegami, - disse – come accade questo: dopo digiuni e veglie e tormenti e preghiere ed infinite ed infinite meditazioni, io non ho che il deserto dentro di me. – - Iddio ama se stesso, rispose il sorridente Illuminato, - va’ ed aggiungi anche questa alle infinite tue meditazioni. – Dopo aver meditato tutta la notte Tornò l’asceta e disse: - Iddio è perfetto: Come potrebbe non amare la Perfezione? – - E come tu potresti amar te stesso vedendo in te l’imperfezione? Nessun uomo si ama veramente, 8 9 E. Bono, Una valigia di cuoio nero, Le Mani, Genova 1998. S. Gawronski, Elena Bono, Il classico nascosto, in http:// www.railibro.rai.it/articoli. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 25 PER RICORDARE ELENA BONO Elena Bono, che è stata testimone degli orrori della seconda guerra mondiale, ha impiegato gran parte della sua vita a parlare di quell’esperienza sconvolgente, come atto di fedeltà verso chi è morto. Ecco cosa scriveva in un brano dedicato al ricordo delle vittime di Sant’Anna di Stazzema: “Anch’io ho visto dieci uomini andare alla fucilazione e mi è giunto a distanza il loro grido. […] Non c’è vita senza libertà. Senza libertà sarebbe come vivere senza l’aria e la lotta per la libertà non finisce mai, perché non è soltanto una lotta contro altri. Ma una lotta interiore per liberarci di quello che Max Picard chiamava “Hitler in noi” cioè lo spirito di sopraffazione, di intolleranza. In questa fraternità vi abbraccio e vi sento vicini e sempre presenti nel lavoro che continuo considerandolo una battaglia, un atto di fedeltà verso quelli che sono morti per restituirci quella libertà che è la dignità e il senso stesso della vita umana”11. I contributi degli altri partecipanti al volume sopra ricordato sono Aurora López López, Andrea Sciffo, Francesco De Nicola, Stefania Segatori, Milagro Martín Clavijo, Roberto Trovato, Patrizia Pitto e Salvatore Ciulla. Il secondo testo presentato alla conclusione del convegno di Siviglia è stato Cerrar los ojos y mirar12, scelta di poesie della Bono, tradotte in castigliano da Mercedes Arriaga. La traduttrice spiega che l’antologia è il frutto di due circostanze che potrebbero considerarsi parte dei misteriosi percorsi che traccia il destino. La prima è legata ad un viaggio in Liguria, in cui ha incontrato, assieme a Trovato e Cerrato, la scrittrice ammalata. L’incontro viene così ricordato: “A sus noventa y un años, mantiene intacto su espíritu de muchacha, su conversación lúcida, su interés por el mundo y las personas, aún sin poder ver. Nosotros, los visitantes, nos convertimos a su ceguera de inmediato, “cerramos los ojos para poder mirar” a través de sus palabras, y ella nos llevaba. Su voz nos guiaba de un argumento a otro, su voz nos hacía entrar y salir de libros, su voz nos traía y nos llevaba de página en página, recitando poesías suyas o citando de memoria lecturas. Su presencia prodigiosa me conquiE. Bono, Poesie, Opera omnia, op. cit.,, p. 408. E. Bono, Non c’è vita senza libertà (18/7/2007), in Poesie e brani dedicati a Sant’Anna e alla Resistenza, www.santannadistazzema.org, consultazione del 25/11/2012. 12 M. Arriaga Flórez, traducción de, Cerrar los ojos y mirar. Elena Bono, ed. Benilde S.L., Sevilla 2013. 10 11 Letizia Casella Elena Bono accolta in Spagna poiché nessuno ama le cose verminose. Di qui nasce il deserto dentro e fuori di voi. Ma tu imita Iddio nella misericordia che è la suprema Perfezione. Va’ e perdona te stesso, sorrise a lui l’Illuminato10 . 25 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 26 Letizia Casella Elena Bono accolta in Spagna 26 PER RICORDARE ELENA BONO stó, me rendí a la clarividencia de sus versos, a su desvelamiento profundo de las cosas y, cuando salí de allí, me propuse hacer esta antología para que otros pudieran gozar de este encuentro”13. (“Con i suoi novantun anni, conserva intatto il suo spirito di ragazza, la sua conversazione lucida, il suo interesse per il mondo e le persone, anche senza poter vedere. Noi, i visitanti, ci convertimmo alla sua cecità immediatamente, chiudemmo gli occhi per poter guardare attraverso le sue parole, e lei ci conduceva. La sua voce ci guidava da un argomento all’altro, la sua voce ci faceva entrare e uscire dai libri, la sua voce ci trasportava di pagina in pagina, recitando poesie sue o citando letture a memoria. La sua presenza prodigiosa mi conquistò, mi arresi alla chiaroveggenza dei suoi versi, alla sua rivelazione profonda delle cose e, quando uscii da lì, mi proposi di fare questa antologia affinché altri potessero godere di quell’incontro”) (traduzione mia). Nel volume la Arriaga ha scelto alcune liriche che rivelano le impronte della personalità della scrittrice: figure femminili, versi autobiografici o personaggi mitici presentati in modo insolito, attraverso “quello sguardo interiore” che permette di sentirne vicinissime le voci. La seconda circostanza, legata alla scelta di alcuni poemi sulla Resistenza, è relativa alla casa della famiglia Cerrato, a Vado Ligure, dove la docente spagnola ha visto la fotografia del nonno di Daniele, Guido, un partigiano soprannominato Tarzan. La scelta delle poesie della Bono, afferma la Arriaga, non è stata sua, perché sono state le parole della Bono a scegliere lei, attraverso il ritratto di Guido. Non a caso la valente studiosa spagnola scrive: “Se trata de una épica en la que los héroes no se sienten vencedores, sino vencidos por el peso del dolor y de la muerte de otros, derrotados por la absurdez de un mundo enloquecido”14. (Si tratta di un’epica nella quale gli eroi non si sentono vincitori, ma vinti dal peso del dolore e della morte di altri, distrutti dall’assurdità di un mondo impazzito). Una delle liriche più significative inserite nella silloge è Lamento di David sul gigante ucciso 15: La notte è troppo pesante sopra il mio capo, la luna non s’alza non s’alza dalle colline, io grido e non mi risponde la terra di bronzo. Ma ieri chiamavo la luna su quelle colline e il giovane vento a giuocare 13 14 15 M. Arriaga Flórez, cit., p. 15. M. Arriaga Florez, cit., p. 18. E. Bono, Poesie, Opera omnia, cit., p. 295; in M. Arriaga Flórez,. cit., p. 118. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 27 PER RICORDARE ELENA BONO Nella conclusione la Arriaga osserva acutamente: “Quizàs traducir es una la ùnica foma que se conoce de permanecer cerca de la persona y de las palabras que nos impresionan y nos conforman y, al mismo tiempo de compartirlas con la personas que las van a leer quando se termine el libro. Estas pàginas se proponen transportar idealmente, a quien se aome a ellas, a esa habitaciòn de Chiavari, en la que Elena Bono sigue recitando sus versos”16. 16 Ibidem. Letizia Casella Elena Bono accolta in Spagna nella foresta e i cani e le nuvole l’acqua del fiume ed il sonno. Docile sonno, o mio agnello perduto io non so dove. Giuochi che David non giuocherà mai più. Se io fossi morto, mia madre piangerebbe su me, s’io fossi ferito, qualcuno laverebbe il mio sangue. Non piange nessuno se in qualche parte ho perduto il mio vergine cuore; se grondo del sangue di un altro nessuno mi lava. Tutti laggiù fanno festa, io sono qui solo con quello che ho ucciso. Alzati, rosso gigante ammucchiato ai miei piedi, riprenditi il tuo respiro le cento teste e l’ira e le armi di bronzo. Ridammi la semplice fionda e il mio cuore il mio veloce cuore in corsa sulle colline. Tu non rispondi, gigante di bronzo. Terra, tu non rispondi. E sia pure così. È inutile gridare. Dunque la luna ieri non si alzava per me. 27 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 28 Letizia Casella Elena Bono accolta in Spagna 28 PER RICORDARE ELENA BONO (Forse tradurre è l’unica forma che si conosce per rimanere vicini alle persone ed alle parole che ci impressionano e ci conformano e, al tempo stesso, di condividerle con le persone che le leggeranno quando si finisca il libro. Queste pagine si propongono di trasportare idealmente, chi si affacci ad esse, a quella stanza di Chiavari, nella quale Elena Bono continua recitando i suoi versi). Altri studiosi, che hanno preso parte al convegno o che sono stati impossibilitati a farlo, hanno espresso comunque il desiderio di testimoniare il loro apprezzamento per la scrittrice. Come accennavo in precedenza, a Siviglia si sta lavorando per raccogliere i saggi pervenuti, e che perverranno, in un’altra raccolta che verrà pubblicata il prossimo anno. Mi piace segnalare un saggio recente di Fausto Díaz Padilla, Poder religioso y poder civil en el teatro de Elena Bono 17, presentato durante il convegno Scrittrici ai margini della cultura, svoltosi presso l’Università UNED di Madrid nell’ottobre 2013. Un altro saggio dello stesso studioso, già segnalato nell'intervento di Roberto Trovato, verrà forse edito il prossimo anno. In Spagna, docenti di Granada, Madrid, Oviedo, Salamanca, Siviglia, parlano di Elena Bono, a differenza di quanto non si faccia nelle nostre Università. Nell’avviarmi al termine del mio intervento ricordo che, a parte le numerose battute in spagnolo ricorrenti nei suoi testi teatrali, un suo lavoro destinato al palcoscenico, Flamenco matto, è ambientato a Siviglia. Di altre due pièces poi, El entierro del Rey e della prima parte di Saga di Carlo V e di Francesco I, il protagonista è l’imperatore Carlo V. Concludo con una lirica della Bono tradotta con molta finezza da Mercedes Arriaga: Despedida A todos, a todo adiós. Dejadme marchar. Al final de esta dura jornada he descubierto que se puede llorar mucho sin derramar ni una sola lágrima. Congedo A tutti, a tutto addio. Lasciatemi andare. Al termine della dura giornata ho scoperto che si può piangere tanto e non versare una lacrima sola)18. 17 F. Díaz Padilla Poder religioso y poder civil en el teatro de Elena Bono, in Actas: Ausencias, Escritoras en los márge de la cultura, Arcibel Editores, Sevilla 2013. 18 E. Bono, Poesie, Opera omnia, cit., p. 428; in M. Arriaga Flórez, cit., p. 122. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 29 DUE POESIE Di Aldo Forbice Si affollano nella mia mente i tuoi stimoli pungenti, le tua amarezze lascive, i tuoi tormenti rituali. le tue ricorrenti litanie infantili, Che cosa dire ora, di fronte al deserto, delle idee, delle riflessioni colte, dei sottili ragionamenti che rinviano, sempre, ogni decisione? Nulla che possa veramente cambiare le cose, che renda la palude una foresta lussureggiante, abitata da uccelli variopinti, volpi, lepri e cavalli bianchi che corrono senza mai fermarsi . Quando i pianeti si scontrano provocano apocalissi, quando due esseri umani si scompongono, si sovrappongono, si feriscono, si annullano, l’esplosione è imprevedibile, anche se tutto era già previsto. Ho parlato di uomini, donne, bambini che subiscono soprusi, violenze, stupri… Quegli orrori rimangono sospesi, nella coscienza, non lasciano indifferenti, non increduli, non “assenti”, ma quel masso si tende a rimuoverlo e polverizzarlo, sino a farlo scomparire dalla nostra vista. Ho parlato di diritti umani violati e gli occhi degli ascoltatori sembravano impietriti, anche illanguiditi da qualche lacrima. Poi però qualcuno ha pensato che “era meglio passare ad altro” perché quel vero declino della violenza non ci sarà mai e che la rivoluzione umanitaria appare sempre più lontana. E un altro ha aggiunto: e allora perché intristirsi? Aldo forbice Due poesie DUE POESIE 29 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 30 Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra 30 SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA di Giuliana Rovetta Nessuno infatti, è così stolto da preferire la guerra alla pace, poiché in tempo di pace sono i figli che seppelliscono i padri, mentre in tempo di guerra sono i padri che seppelliscono i figli. Erodoto, Storie, I, 87 Proporsi di raccontare “la guerra” come se fosse un soggetto fra tanti è quasi impossibile. Ogni guerra porta avanti la propria storia e nessuna somiglia a un’altra, così come dissimili sono i luoghi, i tempi, le circostanze, gli antefatti: tanto più gli individui. Osservandola da vicino, come evento vissuto in prima persona, la guerra in sé è così frantumata, mimetizzata e sfuggente che in pratica non diventa mai un vero oggetto d’indagine. Incomprensibile, fantomatica è solo il nome generico di un immane disastro che i suoi narratori-protagonisti, soldati e civili, testimoni e scrittori, poeti e cronisti, attraversano per un tempo e uno spazio circoscritto. Abbracciarne, in un tentativo di descrizione sistematica, le infinite componenti è un progetto utopico. E il segno che lascia nell’animo dell’uomo, si fa ora profondo ora sbiadito col mutare dello sguardo, che non resta lo stesso mentre gli eventi incalzano rispetto a quando, alla fine, ci si ferma a costatare le perdite e a contare i morti. E tuttavia la Grande Guerra, con la raffigurazione inedita della morte di massa e della distruzione a ritmi industriali, mette in scena una produzione letteraria e figurativa che occupa un posto di grande rilievo nell’esperienza artistica del Novecento. Approdati o catapultati da giovani nel conflitto armato (ma alcuni volontari come Renato Serra, Henri Barbusse e lo stesso Bissolati avevano superato largamente l’età dell’arruolamento), coloro che avevano capacità e volontà di scrivere, hanno portato in quel contesto la propria baldanza, l’impronta di una personale sensibilità e l’eco del loro tempo, ma hanno anche subito traumi che li cambieranno per sempre. La molteplicità delle voci, discontinue e anche in intima contraddizione, compone un mosaico che, fra grandi linee o minimi e sconcertanti dettagli, ben lungi dall’esaurire ogni dubbio rende invece inquieti, quanto più le esperienze conosciute si coagulano in un eccesso d’impressioni, ricordi, turbamenti, enunciazioni che, sebbene affrontati in gruppo saranno poi elaborati singolarmente. Per chi scrive sulla scorta di competenze letterarie specifiche, confrontarsi con la guerra significa innanzitutto interrogarsi sul proprio ruolo d’intellettuale, cioè sulla capacità di incidere nelle menti di altri, usando il linguaggio come mezzo di convincimento o straniamento. In secondo luogo la domanda riguarderà quale sia la funzione (posto che ve ne sia una ammissibile e identificabile) della lette- Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 31 SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA 1 Ricordiamo alcuni testi base sullo studio e l’interpretazione della Grande Guerra attraverso le testimonianze scritte di poeti e scrittori: Mario Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, Laterza, Bari, 1970; Paul Fussel, La Grande Guerra e la memoria moderna, Il Mulino, Bologna, 1984; Antonio Gibelli, La grande guerra degli italiani (1915-1918), Rizzoli, Milano, 1998; Andrea Cortellessa, Le notti chiare erano tutte un’alba, Bruno Mondadori, Milano, 1998; AA.VV., Écrire la guerre, Nouveau Regards, Magazine Littéraire, Parigi, 2013, sotto la direzione di Laurent Nunez. 2 Abbreviazione di la dernière des dernières, vale a dire l’ultimissima (guerra). 3 Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano, Einaudi, Torino, 1945. 4 Henri de Montherlant, Chant funèbre pour les morts de Verdun, Grasset, Parigi, 1925. Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra ratura rispetto alla società e all’individuo nelle condizioni estreme e irrituali di un conflitto armato1. La Grande Guerra, evento catalizzatore della “modernità”, è nuova anche nel nome, originato dal basso come espressione adatta a suggerire una dimensione terrorizzante, assunta subito come irripetibile: auspicio condiviso Oltralpe dove la Guerre de Quatorze viene indicata ultimativamente “la der des ders”2. In effetti l’evento bellico 1915-18, sconsideratamente immaginato breve nella sua evoluzione, è reputato un’occasione unica rispetto al futuro, ma che rompe anche in modo netto col pur vicino passato, costringendo tutti gli individui coinvolti (insolitamente riuniti in modo eterogeneo: studenti, operai, contadini, intellettuali, abitanti del nord e del sud) a fronteggiare problemi inediti e a superare soglie fino a quel momento inaspettate: l’ampia mobilitazione generale, il peso del cosiddetto fronte interno, l’erosione progressiva dei margini di quotidianità, la finalizzazione di ogni sforzo all’obbiettivo bellico, mentre l’adozione di nuove tecniche e strumentazioni “a distanza” induceva a disumanizzare il rapporto col nemico (entità senza volto, senz’anima), ma anche a spersonalizzare i contatti fra la truppa e gli alti gradi. La sensazione falsante che fa percepire il nemico come un essere alieno è attentamente elaborata da Emilio Lussu che nel suo Un anno sull’Altipiano racconta il turbamento nell’aver assistito, da un nascondiglio fra i cespugli, al “rito del caffè” officiato nella trincea nemica: “Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli come i passanti su un marciapiedi di città. Ne provai una sensazione strana. Uomini e soldati come noi, fatti come noi…”3. Ma oltre allo sbigottimento per l’attestata normalità di chi veniva immaginato pregiudizialmente diverso, risulta alterata anche la percezione di ciò che è indispensabile alla sopravvivenza, come pure si verifica un sovvertimento nei criteri di valutazione di determinate attitudini, per nulla o poco funzionali alle necessità di quella guerra. A chi, a che cosa serve un poeta, uno scrittore nell’ora dell’attacco alle postazioni nemiche o a fronte delle privazioni e sofferenze imposte dalla disorganizzata ed estenuante guerra di posizione? Henry de Montherlant, a distanza di molti anni dagli eventi vissuti, così si esprimerà: “La gente deve sapere che un grande scrittore serve la patria con le sue opere, meglio e più che con l’azione a cui può prendere parte…”. Giovanissimo volontario, ferito nel 1918, Montherlant percorre intera la strada che conduce dall’entusiasmo al rifiuto della guerra, rifiuto che espliciterà nel Chant funèbre pour les morts de Verdun: “La patria crea i doveri e con essi la loro tristezza. Ma la patria è nata dalla guerra. È la guerra che ci sottrae alla felicità”4. Se le guerre del passato avevano una localizzazione riconoscibile, lo spazio che la Grande Guerra occupa dal fronte alle retrovie diventa quello che oggi si chiamerebbe un vasto non luogo: un’area imprecisa, dove l’atto violento da 31 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 32 Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra 32 SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA eccezione diventa regola e addirittura obbligo, le norme usuali sono accantonate e con esse i diritti elementari. In senso più ampio le stesse leggi naturali non corrispondono più allo schema in cui l’uomo si è fino ad allora riconosciuto: il terreno agricolo abbandonato e martoriato non produce più al ritmo stagionale, le esplosioni e gli scavi trasformano orribilmente il profilo del paesaggio, quasi indistinguibili sono le ore del giorno trascorse tra fumi, polveri, ceneri o nel buio delle trincee, da quelle notturne illuminate dai riflettori e dai bengala. Così Eugenio Montale in Valmorbia, ritornando col pensiero all’esperienza militare sul Corno del Pasubio, non certo congeniale al suo atteggiamento di pensoso distacco dai fatti bellici, ricorda l’incongrua e straniante luminescenza delle ore notturne: “Sbocciava un razzo su lo stelo, fioco/ lacrimava nell’aria.// Le notti chiare erano tutte un’alba/ e portavano volpi alla mia grotta./ Valmorbia, un nome –e ora nella scialba/ memoria, terra dove non annotta//”5. Diversa dalla montaliana evocazione di una veglia silenziosa è la rappresentazione di una natura quasi umanizzata fatta da Apollinaire, che in una commistione di percezioni diverse la vede popolata di fantasmi, mentre i sensi sono variamente sollecitati a rispondere nel segno del pianto: “Cimetières de soldats croix où le képi pleure/ L’ombre est de chair putréfiée les arbres si rares sont des morts restés debout./ Ouïs pleurer l’obus qui passe sur ta tête/”6. E nel quadro di un simile stato d’eccezione De Roberto rappresenta in tutta la sua crudezza la condizione dell’uomo al cospetto dell’ambiente attraverso il ricorso a precisi dati geografici introdotti nel clima vibrante del racconto La paura: “Nell’orrore della guerra, l’orrore della natura: la desolazione della Valgrebbana, le ferree scaglie del Montemolon, le cuti delle due Grise, la forca del Palato e del Palbasso, i precipizi della Fòlpola”7. Il carattere dirompente dello scenario bellico è rappresentato da Palazzeschi, una volta maturato il distacco dai futuristi inneggianti alla guerra sola igiene del mondo, in un libro dedicato alla seconda guerra mondiale, dove accenna con sbigottimento all’annuncio della prima: “Noi che eravamo adulti in quella fine di Luglio del 1914, fummo sorpresi dalla notizia più inaspettata e incredibile: la guerra, la guerra di cui avevamo solo letto nella storia e nelle cronache, che ci era apparsa una cosa irreale e irrealizzabile, una cosa d’altri uomini e d’altri tempi, una fiaba…”. L’improvviso attuarsi di un’ipotesi su cui “leggenda e fantasia avevano lavorato la loro parte” dà la misura di quanto rapidamente le coordinate utili a interpretare il mondo circostante non abbiano più valore alla luce di un avvenimento destinato per sempre a cambiarle8. L’arco di tempo in cui si situano le principali testimonianze sulla Grande Guerra va dal 1915, anno in cui Renato Serra compila il suo brevissimo Diario di Trincea, al 1961 data di pubblicazione di Baracca 15 C, narrazione di Bonaventura Tecchi della dura realtà della prigionia a Cellelager vicino ad HanEugenio Montale, Ossi di seppia, Gobetti, Torino, 1925. “Cimiteri di soldati in croce ove piange il chepì/l’ombra è di carne putrefatta i radi alberi sono dei morti rimasti in piedi./Odi piangere l’obice che ti passa sulla testa./” Da Côte 146, Poèmes à Madeleine, in Oeuvres Complètes, Gallimard, Parigi, 1956. 7 Federico De Roberto, La paura, e/o, Roma, 2008; questo racconto lungo, rifiutato da La Lettura del Corriere della Sera per il suo realismo e il contenuto di denuncia, fu poi pubblicato nell’agosto 1921 su Novella. 8 Aldo Palazzeschi, I due imperi…mancati, Vallecchi, Firenze, 1920. 5 6 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 33 SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA Tocca in sorte a Charles Péguy di aprire nell’agosto 1914 la lunga serie degli scrittori francesi caduti in guerra11, mentre Apollinaire, ferito gravemente nella battaglia dell’Aisne ai piedi dello Chemin des Dames e poi stroncato 9 10 Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato, Sellerio, Palermo, 1994. Carlo E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Garzanti, Milano, 1999. Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra nover. All’interno di questa lunga stagione è possibile circoscrivere una fase in cui affluiscono diverse opere tra il 1918 e il 1924, a cui fa seguito un periodo di sospensione che sarà interrotto, all’inizio degli anni trenta, da una seconda ondata di scritti sullo stesso tema, in progressivo rallentamento fino all’uscita di nuove opere distanziate ormai dall’evento e prossime alla guerra successiva (la principale testimonianza di Lussu esce a Parigi nel 1938). Acquista visibilità e importanza anche l’apporto delle letterature straniere: in quella tedesca la guerra è protagonista a partire dal 1916, ma solo negli anni Venti, rispettivamente all’inizio e alla fine, arrivano sul mercato due testi diversi ma ugualmente basilari come Nelle tempeste di acciaio di Erns Jünger e il romanzo notissimo di Remarque Niente di nuovo sul fronte occidentale. Il contributo degli scrittori americani (in alcuni casi già residenti a Parigi allo scoppio della guerra) arruolatisi volontari sullo slancio di un ideale umanitario, ruota intorno a romanzi databili nel decennio 1921-31 che, oltre ad avere lo scenario bellico come sfondo e pretesto, denotano un proprio e riconoscibile impianto narrativo. Naturalmente la datazione è solo uno degli elementi discriminanti, in quanto anche lo sfasamento tra atto della scrittura e epoca della pubblicazione offre spunti di riflessione sulle motivazioni a cui questo scarto va addebitato. Serra, intellettuale formatosi nell’ambiente vociano, redige il testo che varrà come suo testamento spirituale (ma anche come specchio del travaglio di gran parte della generazione chiamata alle armi) addirittura in anticipo sui fatti: il suo Esame di coscienza di un letterato, scritto nel marzo 1915 e subito pubblicato sulla Voce, mostra il tragitto da una posizione decisamente favorevole all’intervento a una più intensa riflessione sul valore della cultura come argine alla barbarie, per poi approdare a un sentimento accorato di angoscia: tutto è vano se dall’occasione bellica l’umanità non riuscirà a trarre stimolo per recuperare il senso della solidarietà9. Nel caso di Carlo Emilio Gadda il tema della guerra viene inizialmente adombrato in testi non diaristici, in cui è consentito all’autore esprimersi con maggiore libertà, rivendicando la propria scelta interventista ma ammettendo che “molte sofferenze si sarebbero potute evitare con più acuta intelligenza, con più decisa volontà, con più alto disinteresse, con maggiore spirito di socialità e meno torri d’avorio”. Al di là della denuncia d’incompetenza delle gerarchie, il concetto base espresso nel suo Giornale di guerra e di prigionia è che la guerra, lungi dal rappresentare un grande evento liberatore delle forze represse, è invece l’occasione per sottoporsi a una disciplina necessaria (“la sola degna d’essere vissuta”). L’interventismo gaddiano si esprime dunque in termini opposti a quello di Marinetti in quanto è centrato non sull’eroe che aspira ad affermare le proprie pulsioni istintive, ma sul concetto di abnegazione in nome di un “motivato obbligo individuale e sociale”10 . 33 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 34 Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra 34 SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA dalla febbre spagnola nel novembre 1918, ne suggella la chiusura. Il poeta cristiano e il poeta dell’avanguardia contrassegnano così inizio e fine della guerra, entrambi destinati a diventare figure emblematiche di un destino perseguito e voluto da molti intellettuali, ai quali l’offesa portata con le armi proprio alla testa, sede del pensiero (un destino che li accomuna fra gli altri anche a Serra e a Céline) conferisce un’aura dal forte valore simbolico. Apollinaire, arruolatosi nel 1914 nel solco dell’entusiasmo marinettiano, è certamente in antitesi (al pari di Blaise Cendrars12, proprio per la realistica rappresentazione della tragica condizione di vita in trincea che accomuna i loro scritti) con altri convinti interventisti dalla vena patriottica e bellicistica come Anatole France o Maurice Barrès, i quali non esitano ad esaltare “la belle blessure” descrivendo idilliaci ospedali in cui si prodigano graziose crocerossine. Se Cendrars, ferito nell’offensiva delle Ardenne e privato del braccio destro (menomazione anche questa altamente simbolica confrontata all’atto di scrivere), testimonia con lucidità la trasmutazione dei valori civili europei in carburante brutalmente fornito al funzionamento della macchina da guerra, Apollinaire articola in un gioco di specchi la sua personale partecipazione agli eventi con un linguaggio insieme straordinario e banale, tragico e sarcastico (“J’ai tant aimé les Arts que je suis artilleur” scrive ironicamente nelle sue lettere dal fronte) regalando un’immagine del conflitto esente da retorica ma anche dalla semplice pratica memorialistica: “Je t’écris de dessous la tente/ Tandis que meurt ce jour d’été/ Où floraison éblouissante/ Dans le ciel à peine bleuté/ Une canonnade éclatante/ Se fane avant d’avoir été”13. Il dibattito culturale che ha preceduto l’entrata in guerra dell’Italia condiziona tutti gli intellettuali, da Marinetti a Soffici, da Jahier a Stuparich e Prezzolini. Le riviste impegnate quali Lacerba e La Voce, maturano idee ed indicazioni. Nella ricerca di una linea stilistica, la ramificazione va dalla lingua poetica classicheggiante di un D’Annunzio, allo sperimentalismo marinettiano, all’intimismo e autobiografismo dei vociani. Lungo questa linea i dati di partenza si modificano a contatto con l’esperienza incandescente della guerra e all’intellettualismo introspettivo si sostituisce una narrazione legata più strettamente ai luoghi, alle funzioni, agli eventi imminenti. La posizione di Giani Stuparich è quella di un interventista sfuggito all’Austria e imbevuto di ideali risorgimentali con l’aggiunta della motivazione irredentista che gli proviene dallo “stato di disagio sentimentale” della sua origine triestina14. Nel rappresentare lo slancio emotivo del 25 maggio (“C’era un gran palpito eroico nell’aria. Lo so che tali impressioni sono soggettive, ma io sentivo così quella mattina a Firenze”) il giovane soldato, inesperto di azioni militari ma fornito di strumenti critici, mentre registra con sobrietà, solo a tratti interrotta da un affla11 L’Anthologie des écrivains morts à la guerre, pubblicata in 5 volumi da Edgar Malfère, Amiens,1924, ne elenca 525. 12 Blaise Cendrars, La main coupée, Denoël, Parigi, 1946. Non essendo cittadini francesi né Apollinaire né Cendrars erano di fatto tenuti ad arruolarsi. 13 Guillaume Apollinaire, La tête étoilée- Carte postale, in Calligrammes, Mercure de France, Parigi, 1918: “Ti scrivo da sotto la tenda/ Mentre si spegne questo giorno d’estate/ In cui come una splendida fioritura/ Nel cielo appena azzurrino/ Una potente cannonata/ Svanisce prima di essere stata./” 14 L’espressione è di Gaetano Salvemini, in Come siamo andati in Libia e altri scritti, Feltrinelli, Milano, 1963. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 35 SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA Si può leggere la stagione prebellica come il progressivo coagularsi di criticità e inquietudini, diffuse in vari strati sociali, attorno al malessere di una generazione che, ansiosa di cambiamenti, arricchisce il progetto di valenze rivendicatrici: la guerra, unica soluzione rimasta, funge da terapia collettiva per un In Colloqui con mio fratello (1925), Guerra del ‘15 (1931) e Ritorneranno (1941), trilogia sulla guerra, Giani Stuparich ricorda il fratello morto e illustra sobriamente la vita di trincea; Piero Jahier, Con me e con gli alpini, Editrice La Voce, Roma, 1919. 16 Giovanni Boine, Carteggio G.Boine-E.Cecchi (1911-1917), lettera 5 agosto 1914, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1983. Clemente Rebora, Tra melma e sangue, lettera 7 dicembre 1915, Interlinea, Novara, 2008. 15 Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra to celebrativo, gli avvenimenti circostanti, gradualmente si lascia invadere da un senso di virile compassione verso persone e cose, persino verso l’odiato nemico. Dallo stesso ambiente vociano ma con una tensione interiore ancora più profonda, dovuta al contesto familiare e alla specifica formazione (il padre pastore evangelico, gli studi teologici) Pietro Jahier colorerà il suo interventismo con riflessioni di carattere esistenziale, perseguendo il sogno di una palingenesi collettiva: il ritorno a una moralità originaria potrà avvenire solo se i valori saranno condivisi tra i graduati più acculturati e la massa illetterata, in uno scambio reciproco che forse salverà la società in crisi. La “lezione di cose” impartita dalla guerra è ben rappresentata dai versi che aprono Con me e con gli alpini, testo degli anni 1916-17 pubblicato nel 1919 (contemporaneamente a Il mio Carso di Slataper): “Altri morrà per la Storia d’Italia volentieri/ e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita./ Ma io per far compagnia a questo popolo digiuno/ che non sa perché va a morire/”15. Si intuisce che l’animo di Jahier, al di là dei toni predicatori, non è più in pace di quello di un Boine o di un Rebora. Ed è proprio Boine a rappresentare con forza l’inutilità e la disumanità della guerra in una lettera scritta a Emilio Cecchi: “Il primo risultato ideale di questa guerra è un’insopportabile miseria (…). Il secondo sarà che per venti anni la patria empirà di sé tutte le rettoriche”. E Clemente Rebora dalla zona di guerra ad Antonio Banfi: “Ma non chiedermi notizie - la vita (sono come un Ugolino anonimo, fra lezzo di vivi e morti, imbestiato e paralizzato per la colpa e la pietà, e l’orrendezza degli uomini - di fronte a Gorizia) ch’io lordo nella gora del tempo, è quella di un troglodita che chiude un cuore” 16. Come Rebora anche Ungaretti risponde al richiamo interventista in risposta a una situazione interiore di vuoto, tensione, inquietudine e ansia di cambiamento. Il Porto sepolto prende forma nel 1916, durante le ore di riposo e di attesa, sul fronte del Carso e poi dello Champagne. Questo testo basilare quanto a potere evocativo e novità di stile, sottoposto in seguito a un’intensa attività variantistica, è frutto del contatto del poeta non solo col mondo militare ma con un’umanità ferita. La sua ispirazione si nutre di impressioni: la trincea, i compagni in armi, ombre e coloriture che accennano a una stagione fondativa di dolore fisico e trauma psicologico. L’atteggiamento del soldato Ungaretti non risponde ai canoni convenzionali del militarismo, essendo i sentimenti sollecitati dall’umana sofferenza in lui più pregnanti rispetto alle bellicose aspirazioni di vittoria. Alla radice c’è la consapevolezza che la condizione umana è fatta di precarietà, mentre il dolore è muto: “Come questa pietra/ è il mio pianto/ che non si vede”. 35 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 36 Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra 36 SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA disagio giunto al culmine. In questo quadro di vocazione all’intervento, pur con diverse sfumature d’intensità, gli intellettuali in “inquïeta brigata”17, vedono condivise le loro aspirazioni da un poeta appartato e reticente come Umberto Saba. Dell’autore del Canzoniere conosciamo sia la disomogeneità rispetto all’ambiente vociano, candidamente ammessa nel decimo sonetto di Autobiografia (“Ero fra lor di un’altra spece”), sia l’intima difficoltà di vita dovuta a una sensibilità bruciante e all’ambizione di voler produrre una poesia onesta18. Allo scoppio della guerra Saba, animato da una foga interventista di cui poi si pentirà, è indeciso fra l’osservanza del dovere fino all’eventuale sacrificio (“Io ti saluto amica; e dal mio cuore/ che non chiede il ritorno,/ tutto affluisce il nostro vecchio amore/ come nel primo giorno”) e una totale incapacità a far sua la logica bellica: per lui il pendolo oscilla tra “aver paura e non fuggire” e “saper uccidere, saper morire”. Assegnato a ruoli amministrativi lontano dal fronte, il poeta triestino coltiva il suo ineliminabile senso di esclusione (di cui commovente espressione è Addio ai compagni: “Voi quasi m’odiavate ed io v’amavo/ cari compagni/”) e rimpiange assurdamente di non essere stato messo alla prova (“Le mani non sono ancora rosse/ di sangue…son d’inchiostro ancora nere/ la baionetta è nel fodero ancora”). Assurdamente perché Saba difficilmente avrebbe imparato a uccidere e avrebbe invece corso il rischio malaugurato di aggiungere il suo nome alla già lunga lista dei vari Slataper, Serra e Carlo Stuparich caduti nel massacro. Ma la sua testimonianza dell’esperienza bellica, proprio perché nata dalla riflessione e non dall’azione apre, tra momento storico collettivo e presa di coscienza individuale, squarci di toccante umanità sul dramma consumato in quegli anni. Nell’insieme di scritti a carattere autobiografico e memorialistico sulla Grande Guerra scarseggia in Italia la produzione del genere breve e quasi del tutto mancano testi elaborati in forma di romanzo. Tra i romanzi d’autore italiano che propongono un affresco della società italiana e insieme il ritratto di una figura complessa, stretta nelle contraddizioni che caratterizzano la crisi di quest’arco del Novecento, il riferimento è a due autori di estrazione e stile diverso ma ugualmente impegnati nel produrre una narrazione che intreccia alla testimonianza dei fatti bellici le linee portanti del romanzo di formazione. Se in Rubé, Borgese, siciliano delle Madonie, illustra le motivazioni psicologiche e politiche, ben calibrate tra neutralismo e interventismo, proprie di un intellettuale ambizioso e inquieto negli anni destabilizzanti della guerra e del fascismo, Corrado Alvaro con maggior distacco temporale offre con Luca Fabio, protagonista di Vent’anni, un personaggio che cerca se stesso nel turbine della guerra, passando dall’illusione alla cocente delusione: “L’età non contava più. È vero, pensava Fabio avviandosi lungo il margine della strada battuta dal viavai degli autocarri: ho vent’anni; ma era i vent’anni di un mondo e d’una generazione vissuti, i vent’anni di un vecchio ritratto sbiadito”.19 L’espressione è di Rebora in Fantasia di Carnevale, pubblicata da Prezzolini sulla Voce, 28 febbraio 1915. Saba espresse questa poetica nel famoso scritto del 1911 Quello che resta da fare ai poeti, che La Voce, nella persona di Slataper, preferì non pubblicare; i versi citati sono tratti rispettivamente da Decembre 1914 e Vita di guarnigione, in Canzoniere, 1900-1921, La Libreria Antica e Moderna, Trieste 1921. 19 Giuseppe Antonio Borgese, Rubè, Treves, Milano, 1821; Corrado Alvaro, Vent’anni, Treves, Milano, 1930. 17 18 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 37 SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA 20 Jules Hervier, Deux individus contre l’histoire : Drieu La Rochelle et Ernst Jünger, Klincksieck, Parigi, 1978. 21 Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Mondadori, Milano, 1931 (versione originale 1929); Ernst Jünger, Nelle tempeste d’acciaio (versione originale 1920), viene tradotto in francese nel 1942 (accolto da un commento fortemente elogiativo di Gide sul Journal) e in italiano nel 1961, Guanda, Milano. Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra Sul tema della guerra il romanzo più celebre e diffuso (oltre un milione di copie nell’anno della pubblicazione, 1929) è Niente di nuovo sul fronte occidentale, uscito in Germania prima come feuilleton e poi in volume, dando l’avvio a una serie di opere dedicate non solo allo scontro bellico ma anche a una lotta diversa, quella economica, pesantemente segnata dalla disoccupazione. Remarque, arruolatosi giovanissimo dalla Bassa Sassonia, prende spunto dalla sua breve (due mesi) esperienza sul fronte Ovest per elaborare un testo che sotto l’apparenza di una testimonianza è invece opera d’immaginazione, ma così verosimile da suscitare la reazione degli ambienti militari contro una ricostruzione considerata lesiva dell’onore dell’esercito e del concetto stesso di guerra. La sua penna è quella di un ottimo giornalista (sportivo) abituato a captare il ritmo di eventi ripetitivi senza cadere nella monotonia finché, convertito alla letteratura, trova una cifra di scrittura narrativa molto accattivante. Magicamente evasivo, in bilico fra linguaggio popolare e argot militare, sentimentale quanto basta, Remarque evoca un mondo unito e senza distinzioni in cui lo scontro non è fra tedeschi e alleati ma dell’individuo contro la guerra. Il suo soldato-tipo, Bäumer, è vivo, ma già prima di essere morto è praticamente inesistente, invischiato in una serie di gesti assurdi e di obblighi immotivati che rendono vana, in mancanza di una possibilità di scelta, la dimensione eroica del sacrificio. Antitetica rispetto a quella di Remarque è la visione riconducibile a Ernst Jünger, che lo studioso Hervier definisce “apocalittica”20, quanto meno nella prima fase di ardente nazionalismo e bellicismo, ben illustrata in Nelle tempeste d’acciaio. Questa testimonianza di un coraggioso e pluridecorato eroe di prima linea, a differenza di altre relative alla guerra di trincea, lascia trasparire solo brevemente sentimenti di paura e di orrore, puntando invece su una descrizione, di fatti anche estremamente tragici, sempre distaccata e oggettiva mentre la partecipazione più viva è riservata al racconto delle emozioni in combattimento, della foga nell’assalto, della soddisfazione crudele nell’eliminare l’avversario. Le caratteristiche del conflitto “industrializzato” finiranno tuttavia per convincere Jünger che il suo concetto di guerra come agon, ovvero competizione fra parti messe in condizione di giocarsi la vittoria con lealtà, non ha più spazio. Di questo ripensamento sono prova le successive opere come pure le diverse (ben sette) versioni revisionate di Tempeste d’acciaio, da cui vengono espunte espressioni inneggianti alla “gioia demoniaca” di uccidere e alla mistica del sangue versato. Un percorso, quello di Jünger, simile al cambiamento di prospettiva che abbiamo riscontrato in Montherlant: dall’entusiasmo dell’eroe protagonista di Le Songe (“Nel pericolo, cercato per un atto di volontà, cresceva in lui una meravigliosa esaltazione della vita...”, 1922) all’esaltazione, solo due anni dopo, non più della guerra in sé, ma piuttosto delle virtù eroiche che l’accompagnano21. L’esperienza della Grande Guerra è stata invece per il medico volontario Céline l’occasione di vedere rappresentato nel suo contesto ideale l’istinto di morte, tema freudiano per eccellenza, sottinteso nel corso di tutta la sua opera con 37 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 38 Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra 38 SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA emersioni via via più evidenti. L’affermazione esplicitata in una lettera diretta al critico Faure nel 1935, un’ammissione di sfiducia nel genere umano (“Je ne crois pas aux hommes”), è già tutta presente nel Viaggio al termine della notte, l’opera che nel 1929 causerà grande scandalo consacrando per sempre la fama di questo autore scomodo e controcorrente. All’origine del Viaggio c’è l’ammirazione per Henri Barbusse, già famoso homme de lettres: arruolatosi a più di quarant’anni, malfermo in salute l’autore di Il Fuoco elabora in occasione di un forzato riposo le note raccolte nei ventidue mesi passati al fronte. La sua scrittura che illumina realisticamente la vita quotidiana e il quotidiano orrore di una piccola collettività di soldati colpisce enormemente Céline: lo scrittore fa sua quella visione della guerra, tragico evento contrario ad ogni logica, che svilisce i grandi ideali e spinge ai peggiori crimini, e ancor peggio sviluppa intorno e dentro all’uomo gli istinti più bestiali: malvagità fino al sadismo, egoismo fino alla ferocia. Di Barbusse e della sua violenza verbale (“L’umanità mi mostra le sue budella”) l’autore del Viaggio condivide l’attrazione morbosa per la verità nelle sue forme più atroci. Disilluso, acutamente ironico, Céline nel suo romanzo largamente autobiografico lascia trasparire senza reticenze il risentimento rabbioso verso le regole e gli ideali collettivi: patriottismo, colonialismo, progressismo borghese. Attraverso il personaggio di Bardamu, anarchico convinto che si lascia prendere al gioco di arruolarsi “per vedere le cose come sono”, il vero Louis-Férdinand entra nell’inferno della guerra e ne parlerà, sconvolto dal rancore, sempre col sentimento di paura che l’ha aggredito fin dal primo giorno: “Ogni metro d’ombra davanti a noi era una nuova promessa di finirla o di crepare, ma in che modo? D’imprevisto, in questa storia, c’era solo la divisa di chi ci avrebbe colpito. Uno dei nostri? O uno di fronte?”. La paura cresce con l’insicurezza perché nel disordine, o eseguendo comandi insensati, i soldati corrono il rischio di essere “inquadrati, sorvegliati da guardie che passano rapidamente alle vie di fatto”. Céline parla (e di qui lo scandalo) di un sadismo doppiamente articolato: da una parte, nelle retrovie, i civili premono sui soldati in licenza per farli tornare al fronte, dall’altra gli ufficiali “pazzi, viziosi, diventati improvvisamente capaci soltanto di uccidere” mandano i fanti allo sbaraglio in operazioni senza possibilità di salvezza. Il linguaggio singolarissimo, erudito e brutale, ricco di ellissi e di iperboli, veicola la tesi dell’autore secondo cui il patriottismo non autorizza la violenza e l’origine del massacro è da ricondursi alla barbarie insita nella natura umana. Non c’è posto per gli eroi nel panthéon céliniano: “Era come se, rimproverandomi violentemente, mi avessero spinto a desiderare di suicidarmi”. E ancora, descrivendo la mattanza di maiali per sfamare i soldati, evocativa di ben altro massacro: “E poi sangue ancora e dappertutto, per l’erba, in pozze molli e confluenti che cercavano la pendenza giusta. […] Ho fatto ancora in tempo a gettare due o tre occhiate su quella controversia alimentare, mentre mi appoggiavo contro un albero, e ho dovuto cedere a un’immensa voglia di vomitare e mica un po’, fino a svenire”. Da quel momento la nausea non gli dà tregua, inquina i sentimenti, svilisce ogni rapporto, si trasforma in presentimento di morte22. 22 Henri Barbusse, Il fuoco, Sonzogno, Milano, 1917 (versione originale 1916); Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, Enrico dall’Oglio editore, Milano, 1932 (versione originale 1931): il nome del protagonista Bardamu è ispirato a tre scrittori molto ammirati da Céline: Barbusse, Dabit, Ramuz. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 39 SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA William Faulkner, La paga del soldato, Garzanti, Milano, 1953 (versione originale 1926); Ernest Hemingway, Addio alle armi, Mondadori, Milano, 1948 (versione originale 1929); John Dos Passos, Tre soldati, Editrice Casini, Roma 1967 (versione originale 1921). 23 Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra Alcuni scrittori provenienti dagli Stati Uniti, a volte già presenti in Europa per aver scelto di venire a condividere l’atmosfera culturale del Vecchio Continente, decideranno di situare parte dei loro romanzi nel contesto bellico, conosciuto di persona da posizioni più o meno esposte, facendone un background letterario senza uguali per impatto sulle coscienze. Se in Faulkner il tema è ricorrente (circa un terzo della sua opera fa riferimento alla guerra: quella di Secessione, la Grande Guerra, la guerra civile spagnola, la seconda guerra mondiale) e sempre con interesse rivolto agli effetti prodotti più che allo svolgersi delle azioni militari, altri autori invece dopo l’esordio abbandoneranno lo scenario bellico per addentrarsi in altri territori narrativi. In Addio alle armi, romanzo parzialmente basato su esperienze di vita vissuta (Hemingway, com’è noto, si arruolò come autista di ambulanza nella Croce Rossa e combatté sul fronte italiano) il sentimento collettivo di partecipare a un’avventura mettendo alla prova le proprie risorse personali è collocato nel cuore di un evento epocale, ma anche gli altri scenari prediletti da questo scrittore suggeriscono il tema della sfida, ora nel contesto spagnolo (corrida, guerra civile), ora africano (il safari del 1933) e soprattutto nel mare aperto, con la lotta estrema fra Santiago e il “suo” marlin. Il famoso addio alla vita militare che la traduttrice Fernanda Pivano suggeriva di interpretare anche come un addio all’amore, assumendo per “arms” il secondo significato di braccia, è un manifesto contro la guerra che lascia poco spazio alle illusioni sulla sacralità dell’evento e sull’eroismo dei protagonisti: “parole astratte come gloria, onore, coraggio e dedizione erano oscene accanto ai nomi concreti dei fiumi, dei monti, dei villaggi, dei reggimenti”. Non solo disilluso ma ancor più pessimista è il musicista sazio della propria libertà che vuole cimentarsi con i rischi e le difficoltà invano cercati nella vita quotidiana, così come viene dipinto da John Dos Passos nel romanzo Tre soldati. Impegnato come Hemingway nel trasporto dei feriti sul fronte italiano, Dos Passos esprime in un registro espressionista la cruda realtà: gli ideali di cameratismo e solidarietà non hanno spazio nel panorama senza luce e pieno d’orrore della guerra, a tal punto che il protagonista, infinitamente turbato, si sentirà indotto a disertare. Mentre i due scrittori americani avranno avuto modo di conoscere l’esperienza del fronte, Faulkner non riuscirà a entrare nella Royal Air Force, malgrado l’addestramento svolto a Toronto: l’armistizio sarà siglato prima. Il suo romanzo d’esordio, La paga del soldato, 1926, segnala fin dalle prime parole (“They are stopped the war on him”), come questo impedimento sia stato vissuto con senso di profonda frustrazione. Anche se il protagonista, il tenente aviatore Donald Mahon, non può essere considerato un alter ego dell’autore, in quanto la vicenda narrata lo vede, orribilmente ferito in combattimento, sopportare una tormentosa convalescenza, anche sopra di lui aleggia la stessa colpa di omissione a cui non c’è rimedio: il difficile ritorno del reduce al suo paese in Georgia, irriconoscibile in volto e con gravi menomazioni alla vista e all’udito, è narrato attraverso una magistrale rappresentazione di stati d’animo e atmosfere che vanno dal lirismo all’asprezza di un crudo realismo, utilizzando un linguaggio originale che mescola echi letterari europei ai modelli americani. Va ricordato che Faulkner rifiutò con forza ogni tentativo editoriale di editing volto a normalizzare il suo testo.23 39 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 40 Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra 40 SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA In visita sul fronte italiano in Friuli nel settembre 1917 il poeta e filosofo di origine basca Miguel de Unamuno, voce tra le più rappresentative e innovative dell’ispanismo, si rallegrava in un articolo scritto per La Nacion della “perfetta macchina da guerra” messa in campo dall’Italia, aggiungendo queste elogiative parole riguardo ai quadri militari: “Quando mai avevo sentito un colonnello in carriera, un professionista della milizia, citare i grandi classici in greco e latino? Quando mai ci eravamo imbattuti in un militare che potesse leggere Omero in lingua originale)”. Quest’enfasi, trasmessa attraverso molte pagine dei quotidiani a grande diffusione, riproduceva il mito della guerra come occasione valorizzante, con effetti di rigenerazione e coesione: un mito che molti scrittori e giornalisti avevano fatto propria, relegando di fatto neutralisti e incerti nel ruolo di pavidi traditori della patria. E in effetti, tra propaganda e censura, il giornalismo svolge un ruolo determinante per sostenere le tesi governative e mantenere vivo il consenso popolare: nel maggio 1915, poche ore prima dell’entrata in guerra, un apposito decreto proibiva ai giornali di divulgare notizie raccolte fuori dei canali ufficiali (l’accesso al fronte fu ostacolato ai cronisti per scelta di Cadorna) e anche quando le restrizioni si attenuarono il racconto della guerra non per questo si trasformò in un resoconto veritiero, ma continuò nella prassi di minimizzare le perdite, demonizzare il nemico, evitare l’argomento del dubbio e del pessimismo di cui erano preda i soldati impegnati al fronte. Ogni paese belligerante utilizza appositi mezzi per ottimizzare l’influenza della stampa sul cosiddetto “fronte interno”: in Francia la censura è introdotta alla vigilia della dichiarazione di guerra, nell’agosto 1914, con un decreto mirato a reprimere ogni affermazione di natura tale da “esercitare un’influenza negativa sullo spirito dell’ esercito e dei popoli”, negli Stati Uniti lo stesso compito spetterà al Sedition Act istitutivo del reato di “attività antipatriottica”. È noto che lo scrittore e viaggiatore Albert Londres, corrispondente nel 191418 da diversi fronti di guerra fra cui quello italiano, fu allontanato dal Petit Journal su ordine diretto di Clemenceau a causa dei suoi reportages esplicitamente indirizzati “contre le bourrage de crâne”. Al “lavaggio del cervello” si ribella anche Curzio Malaparte quando decide di intitolare, sotto pseudonimo, il saggio narrativo dal provocatorio titolo Viva Caporetto!, due volte sequestrato dalla censura (nel 1921, poi anche nel 1923 col titolo La rivolta dei santi maledetti) e infine pubblicato integralmente da Mondadori nel 1981 a cura dello storico Mario Isnenghi. La tesi dello scrittore-giornalista di origine tedesca, arruolatosi volontario diciassettenne, consiste in pratica in una denuncia, del tutto inaccettabile al momento della prima pubblicazione, secondo cui solo i santi maledetti, cioè gli umili soldati di fanteria, e gli ufficiali subalterni meritano onore avendo sacrificato tutto per la patria, mentre agli alti gradi è da imputare in blocco la colpa per incompetenza dell’“inutile strage” di Caporetto. Questa pagina tragica e controversa dell’esperienza bellica è invece interpretata da Giovanni Comisso come l’episodio saliente di una “avventura esistenziale”, espressione di vitalismo e giovanile fervore che non è consentito o possibile sfogare nella grigia quotidianità del tempo di pace. Comisso, più giovane degli altri interventisti, non porta con sé lo stesso bagaglio culturale e si permette dunque, vivendo la vita di trincea fianco a fianco coi soldati semplici, un’interpretazione più diretta, meno ideologizzata degli eventi. Nel suo ricordo l’emozione del rischio e dell’imprevisto hanno la meglio sulla contestua- Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 41 SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA 24 25 Giovanni Comisso, Giorni di guerra, Mondadori, Milano, 1930. Romain Rolland, Al di sopra della mischia, Fabbri, Milano, 1965 (versione originale 2015). Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra lizzazione storica: “Presto gli alberi furono tutti meravigliosi ciliegi con frutta gonfia dolcissima non vendemmiata dalla popolazione che era fuggita. Ci si arrampicava con tutto il nostro slancio e da sopra buttavamo giù ciocche di ciliegie al nostro ufficiale che ci diceva: Su, su presto e sorrideva. Nessun colpo di cannone intorno, il sole ardente, il luogo deserto, quelle ciliegie straordinarie: eravamo beati”. Una sorta di spensieratezza quasi adolescenziale prevale sulla rappresentazione della figura retorica del giovane eroe in armi pronto al sacrificio24. Si è potuto costatare che tra gli autori inizialmente schierati a favore dell’intervento, molti, dopo aver attraversato di persona l’esperienza della guerra, non hanno potuto evitare d’esprimere lo sgomento per un evento rivelatosi tanto contrario al senso d’umanità. Lo studioso e scrittore francese Romain Rolland ebbe invece modo e capacità di dichiarare da subito il suo sentimento antimilitarista pubblicando diversi appelli ai belligeranti sul Journal de Genève, riuniti poi in un testo intitolato Au dessus de la mêlée, che fecero scandalo per la loro intonazione pacifista: “La guerra europea in corso è la più grande catastrofe della storia, è la rovina delle nostre speranze più sacre nella solidarietà umana”. Senza timore dell’effetto di emarginazione riservato ai non fautori dello scontro, Rolland si rivolge ai suoi detrattori “thuriféraires de la guerre”, che sono numerosissimi, mentre solo pochi (e fra questi il poeta Pierre-Jean Jouve) lo sostengono, affermando che le loro ingiurie sono per lui “un onore da rivendicare davanti al futuro” 25. 41 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 42 Giovanni Chiellino Banderuola / La tessitrice 42 DUE POESIE DUE POESIE di Giovanni Chiellino Banderuola La tessitrice Il vento, il vento, un suono di campane. Nello spazio vuoto corre la spola, corre, si ferma, riprende il suo cammino. Sale e scende la calcola, sicura è la spinta, abile la caviglia, vigile l’idea. Gira la banderuola, gira. Corrono voci. Fanciulli nelle vie. Il tuo abito bianco di sposa, la tua camicetta verde di sera sul molo. Il mare. Lontano è il gabbiano. Vuoto il nido della rondine sotto la grondaia. Cadono foglie, cadono. Il freddo, la neve sugli occhi. Solitudine e silenzio. L’anima si culla. Si gioca. Si ama. Si muore. Nel nodo del pensiero trama e stame s’incontrano, s’intrecciano: il corpo e la sua anima, lo spirito e la forma, colori, colori che s’affollano nell’ombra e nella luce, nel lutto e nella gioia, nel bianco della neve, nel rosso dell’estate. E la tela s’allunga, il subbio la raccoglie finché affilata forbice falcia la tessitura e tutto lascia cadere nel cesto del finito, abisso senza fondo: il volto della morte. Nel disegno del Sarto è scritto il suo futuro e a noi la taglia è sconosciuta, ignota è la sostanza dell’opera compiuta. Caselette 2011 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 43 LA BACHECA di Milena Buzzoni Paolo non ha voglia di scrivere niente stasera. Si guarda attorno dondolandosi sulle gambe posteriori della seggiola. La stanza nella quale, quasi ogni giorno, dopo le cinque, si ritira per lavorare, è molto piccola. C’è giusto lo spazio per una vecchia scrivania da ufficio macchiata di inchiostro e un tavolo con computer e stampante. Una libreria chiusa da due ante di vetro custodisce giornali su cui sono comparsi suoi articoli o che parlano dei suoi libri, riviste letterarie alle quali collabora, gli appunti e “le brutte”, buttate giù a mano, dei suoi lavori. Ci sono anche libri scolastici, di letteratura latina, letteratura italiana, critica letteraria, filosofia, storia, storia dell’arte. C’è una libreria a giorno con una collana di volumi sulle civiltà, pubblicazioni geografiche, guide turistiche. Accanto è appesa una bacheca chiusa da uno sportello a vetro che lascia vedere sei stretti piani sui quali sono raccolti oggetti disparati. È la bacheca ad attirare la sua attenzione, per la varietà delle cose esposte, ognuna delle quali evoca qualcosa. In alto, a partire da sinistra, sono allineate sei minuscole tazze con la forma e il colore di piccole ortensie. Azzurre, tondeggianti, con il manico dorato, erano state comprate molti anni prima in un mercatino dell’antiquariato in Francia, quando lui e Sandra, non ancora separati, a volte trascorrevano i fine settimana in giro per bric-à-brac, comprando le cose più strane che, in genere, entusiasmavano entrambe e di fronte alle quali provavano un simultaneo impulso di possesso. Per le tazzine era capitato così. Erano originali per la forma a imitazione del fiore, belle nell’azzurro qua e là più intenso e nella sottigliezza della porcellana e, essendo sei, costituivano un servizio completo anche se inservibile per le dimensioni eccessivamente ridotte. Furono acquistate per pochi franchi e non fu neppure necessario contrattare il prezzo per ottenere uno sconto. La loro vista, nonostante il crollo del suo matrimonio, evoca in Paolo una sensazione piacevole: il sole che si frantuma tra le foglie dei platani e lascia cadere i suoi specchi di luce sulle bancarelle allineate sulla piazza lunga e stretta di Arles, di Agde, di Antibes? Alcuni oggetti sfavillano, altri restano in ombra. Su tutto, il tepore di una matura primavera provenzale, il profumo del gelsomino e della lavanda, la sensazione di un giorno di vacanza senza ore, tra una settimana di lavoro e l’altra, in una fuga breve e felice. E la nostalgia di quella fuga, di un’armonia finita, il magone per quella cosa fatta insieme. A fianco alle tazzine, una grossa penna di osso che si svita a un’estremità e contiene una matita, un righello e una penna a pennino. Anche questa è legata a un mercatino dell’antiquariato, ma a un tempo posteriore rispetto a quello delle tazze. Altri i sentimenti legati a questo acquisto. La confessione di un primo tradimento di Sandra li aveva portati a tentare una vacanza di riconciliazione in Portogallo. Sulla via del ritorno, già attraversata la Spagna, si erano trovati una domenica mattina, quasi sul confine francese. Stavano attraversando Pera Tallada e avevano intravisto, tra il grigio delle case di pietra, le tende bianche di un mercato. Avevano parcheggia- Milena Buzzoni La bacheca LA BACHECA 43 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 44 Milena Buzzoni La bacheca 44 LA BACHECA to ed erano andati a vedere. Paolo aveva girato tra i banchi, aveva guardato gli oggetti esposti, aveva preso in mano qualcosa e lo aveva posato. Sandra aveva insistito per comprare quella penna, tentava di convincerlo che sarebbe stata bene su un piano della bacheca, nel suo studio. Paolo, alla fine, aveva acconsentito. Avevano cenato in un ristorante magrebino: lampadari a stella, ai muri appliques semi-coniche di lamiera traforata diffondevano una luce dolciastra. I tavoli erano di mosaico: un susseguirsi di esagoni schiacciati color senape e triangoli blu accostati ai lati di ogni esagono. Mentre Sandra parlava e gli raccontava i dettagli della sua relazione, forse per salvare, nella mortificazione dell’amore, la solidarietà e l’amicizia, Paolo ascoltava ad occhi bassi, osservando le geometrie del tavolo. Avrebbe voluto sistemare i suoi pensieri confusi nell’ordine dello schieramento delle piastrelle, allinearli uno accanto all’altro, blu e senape, triangoli ed esagoni. Avrebbe voluto scivolare nel labirinto delle tessere del tavolo dove erano rimasti i loro piatti vuoti che sembravano pezzi di banchisa polare alla deriva. I loro anni solidali stavano scomparendo sotto un manto di ghiaccio che, come un peccato originale, avrebbe decretato la cacciata dall’Eden. Paolo continua a guardare la bacheca. Accanto alla penna, tre vecchi sonagli d’argento. Uno con un manico e cinque bracci con altrettante palline all’estremità, un altro fatto a fiaschetto, lavorato sulla superficie e l’ultimo sferico, ammaccato qua e là e con evidenti segni di morsi, sostenuto da un manico d’avorio. I primi due erano stati comprati da Sandra quando avevano deciso di pensare a un figlio che in realtà non avevano avuto. L’altro era sempre stato in casa, attribuito allo zio Bruto, direttore d’orchestra, difficile da immaginare bambino con un sonaglio da rosicchiare. Il secondo piano della bacheca raccoglie oggetti di famiglia appartenuti ai nonni o ai bisnonni di Paolo. Sulla sinistra c’è una donnina di bisquit con una cuffia in testa, uno scialle sulle spalle qua e là scolorito, una sottana bianca dalla quale spuntano due minuscoli piedi. Tra le mani raccolte in grembo un foro è il punto in cui era inserita una bandierina. Un’antiquaria gli aveva detto che erano state fatte per l’inaugurazione della torre Eiffel. “Chissà da dove viene? Però mi ricordo di averla sempre vista nella sala da pranzo della nonna Maddalena dentro alla vetrina liberty sullo stesso scaffale sul quale erano appoggiati anche gli altri oggetti che ora sono qui sul piano della bacheca. Sono almeno quarant’anni che condividono lo stesso spazio: devono odiarsi o essere diventati amici.” Due piccole teste di porcellana con gli occhi di vetro, la fronte corrugata e le guance colorite sono quelle dei clown che saltavano fuori dalle scatole magiche dei bambini. Tra queste un putto di bisquit, in piedi, sembra che stia facendo la pipì tenendosi la veste sul petto. In testa ha un berretto celeste aperto in cima: da qui si può riempire d’acqua e vederla zampillare. Ai suoi piedi infatti sono posati due minuscoli vasi da notte di porcellana con l’interno dorato che portano la stessa scritta: “ancor felici beviamo un goccetto da questo santo e gentile vasetto.” Due soldatini con divisa, fucile e l’aria fiera, stanno dritti, uno alla destra e uno alla sinistra, delle teste dei clown. A concludere la fila è un porta stuzzicadenti di porcellana costituito da una ragazzina seduta che porta una gerla sulle spalle. Paolo guarda questo corteo e ricorda l’emozione che suscitavano in lui quando erano chiuse, inaccessibili, nella cristalliera della nonna Maddalena. La Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 45 LA BACHECA Milena Buzzoni La bacheca sala da pranzo gli era consentita solo qualche volta e con l’unico scopo di strimpellare il pianoforte che, sulla parete a destra della porta d’ingresso, odorava d’incenso. Provava sulla tastiera qualche motivo che non usciva mai come quello che aveva in testa. Contemporaneamente era incuriosito da tutto quello che c’era nella stanza, soprattutto dalle cose nella vetrina. Ma se interrompeva il suono per avvicinarsi al mobile, dopo un minuto arrivava la nonna a controllare cosa stesse facendo. Così aveva escogitato un sistema per accontentarsi senza attirare l’attenzione. Brandendo uno dei bastoni da passeggio riuniti in una giara, poteva allontanarsi dal pianoforte e continuare a battere sui tasti provocando un suono sconnesso ma insospettabile. Con una sola mano libera non si azzardava ad aprire le ante della vetrina ma poteva guardare tutto da vicino. Fissava gli occhi di vetro dei clown, il putto di bisquit con cui avrebbe voluto giocare: portarlo sul lavandino di cucina, riempirlo d’acqua e vederla zampillare nel vasino da notte; soprattutto avrebbe voluto portarsi a casa i soldatini: con quelli sì avrebbe potuto giocare alla guerra, metterli nel fortino di legno, farli combattere contro i cow boys. Sul piano inferiore della bacheca sono in parte appoggiati e in parte appesi alcuni orologi da taschino. Tre hanno la cassa lavorata. Uno è sbeccato sullo smalto del quadrante. Il quinto ha le ore nere sbieche, come in prospettiva e dietro ad ognuna di esse, in rosso, è indicato il numero corrispondente in dodicesimi. Nella parte alta del quadrante, in uno stemma ovale, è indicata la scritta “Roskops”, al di sopra di un animale alato. Il famoso orologio svizzero primi novecento, nonostante fosse nato per essere un oggetto economico alla portata di tutti, ha sempre goduto di prestigio in famiglia. “È un Roskops!” diceva sua madre. A parte un Longines fatto riparare da poco che ogni tanto carica, gli altri sono fermi da anni. Ognuno indica un’ora diversa e Paolo si chiede quale evento abbia sancito l’interruzione del tempo. Perché le 3 e 25 dell’ Henry, le 10 e 2 del Fiorenza, le 7 meno 5 dell’Eolo, le 4 e 10 del Rosskops? “Dovrei conoscere i dettagli di queste interruzioni. Mi riguardano. E invece, come tutte le morti, restano senza destino. Forse qualcuno ha smesso di caricare il suo perché è deceduto. Forse nessuno ha fatto più ruotare la rondella, così, senza un motivo. Qualcuno forse è stato abbandonato perché il suo proprietario è passato all’orologio da polso. Chissà se li ha fermati un trauma o il caso”. Paolo si ricorda l’ora della morte dei suoi genitori, sul comodino l’orologio di suo padre che nessuno aveva più caricato. Non saprebbe dire a che ora sia finito il suo matrimonio; eppure è una precisa frazione di secondo a determinare un cambiamento storico o privato: una dichiarazione di guerra, un incidente, un colpo di stato, una nascita, un consenso o un rifiuto, un sì o un no. “ E meno male che il meccanismo fa metabolizzare il tempo poco alla volta, momento per momento. Mi risparmia di vedere ammucchiati uno sull’altro secondi, minuti, ore. Così, quando sarò vecchio, non mi spaventerò per la montagna di tempo accumulato, nessun orologio segnerà, come un contatore, il consumo degli anni né le perdite intermedie.” Le 11 meno 10. Paolo carica il suo Jaeger le Coultre, il regalo di Sandra per il loro matrimonio. 45 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 46 Silviano Fiorato Sotto la specie del nulla 46 UNA POESIA UNA POESIA di Silviano Fiorato Sotto la specie del nulla La presenza di Te sotto la specie del nulla tarla il legno della mia solitudine dentro alla stalla dei porci, dove sempre mi cerchi se pensassi al ritorno. Quanto folto di boschi ho attraversato dove Tu non vedevi il mio essere nudo a suggere il sidro dei miei tradimenti; quanti pavesi ho disteso nel campo del vasaio di lacrime e di gioie che asciugano al tuo vento. Solo gli uccelli di passo mi scendono ancora d’attorno con puntigliosi becchi colgono il segno dei semi delle assenze. Sopra i bruciati asfalti resta solo il silenzio. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 47 TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI di Emilia Michelazzi Moribus antiquis res stat romana virisque1 PREMESSA Il consumo incessante di testi, suoni, immagini, attraverso l’utilizzo di mezzi tecnologici sempre più avanzati, rappresenta una delle caratteristiche delle società postmoderne. I media, infatti, formidabili strumenti di comunicazione, informazione, socializzazione, esercitano grande potere ed influenza sull’immaginario delle masse: grazie alla possibilità di invenzione di nuove esistenze, di molteplici identità, che essi forniscono, tv, social network, radio, entrano sempre più prepotentemente nel vissuto della gente comune2. Nell’ambito di questo ruolo ormai riconosciuto ai media nella formazione dell’identità del soggetto postmoderno, qual è il l’importanza rivestita da film, telefilm, documentari riguardanti l’antichità, il nostro comune passato, in tale processo, tenuto conto dell’abbondanza di opere su questo tema che invadono i nostri schermi? Qual è l’importanza dei cosiddetti “peplum” nella postmodernità3? Siamo sì nell’epoca dei reality, del Grande Fratello, delle soap e dei talent show, ma accanto a tronisti, veline, personaggi più o meno piacenti e più o meno famosi fanno la loro comparsa intrepidi legionari, invincibili gladiatori e affascinanti patrizie romane, in una fase che è stata giustamente definita di “revival del peplum”. Quali sono i sentimenti, le passioni, i valori, messi in scena da questi nuovi peplum postmoderni? Hanno veridicità storica? E in un’ipotesi di recupero della sentimentalità ai giorni nostri, quanti di questi valori costruiscono l’immaginario identitario, sociale e culturale del soggetto postmoderno? Prima di rispondere a tali quesiti conviene restringere il campo della nostra indagine, definendo esattamente cosa s’intende per “peplum film” e distinguendo tra pellicole del passato e pellicole attuali, che presentano caratteristiche e peculiarità tali da differenziarli da tutta la produzione cinematografica, attinente al mito e all’antichità, di epoca precedente. Il PEPLUM: NASCITA E SVILUPPO DI UN GENERE CINEMATOGRAFICO Partendo dal presupposto che l’antichità è il mito fondatore per eccellenza della nostra civilizzazione (come lo è l’antico Far West per gli AmericaENN. Ann. XVIII 3. Sul ruolo svolto dalla tv nella formazione delle identità del soggetto postmoderno cfr. G. VATTIMO, La società trasparente, Garzanti 2011. 3 Il termine peplum indicava originariamente, nel mondo greco e latino, una tunica femminile. Negli anni 60 il termine passò ad indicare i film sull’antichità, caratterizzati per l’appunto da costumi d’epoca. Cfr. C. AZIZA, Le péplum, un mauvais genre, Paris 2009, pp. 13-17. 1 2 Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI 47 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 48 Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi 48 TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI ni) il cinema storico-mitologico trae ispirazione proprio da tale nostro comune passato, attingendo dalla Bibbia e dalla storia greca e romana episodi edificanti, figure eroiche e affascinanti fanciulle, generalmente conosciuti attraverso lo studio scolastico e facenti parte del nostro patrimonio culturale. Prima caratteristica del genere, dunque, è inventare poco o nulla, ma semplicemente abbellire, romanzare, e mettere in luce taluni aspetti piuttosto che altri di un materiale già esistente, ai tempi della nascita dei primi peplum, già ampiamente conosciuto e diffuso attraverso altri veicoli culturali. Quest’operazione di “recupero” avviene praticamente insieme alla nascita del cinema stesso. La prima proiezione dei fratelli Lumière al Grand-Café avviene nel dicembre 1895 e appena l’anno successivo uscirà Néron essayant des poisons sur un esclave di G. Hatot. La necessità di rendere episodi storici attraverso il neonato strumento cinematografico porta alla nascita di un nuovo linguaggio che trae spunti dalla tragedia classica (Shakespeare, Racine) dal teatro lirico, (l’opera), ma soprattutto dalle grandiose scenografie della pittura storica, prima fra tutte le raffigurazioni di Roma antica, particolarmente amate nel XIX secolo4. Tuttavia, nonostante i primi embrionali tentativi di film a carattere storico della fine dell’800, è solo a partire dai primi anni del 900 che si può parlare di una vera e propria età dell’oro delle pellicole sull’antichità: i film si allungano, le tecniche cinematografiche migliorano ed appartengono a tale epoca film quali Cabiria (G. Pastrone, 1913), che rappresenta una vera e propria pietra miliare del genere e contiene già in nuce quelli che saranno gli elementi di successo del genere peplum: una trama avvincente, costituita da episodi e personaggi storici conosciuti (l’azione si svolge durante le guerre puniche) alternati a personaggi d’invenzione, che garantivano il giusto pathos al susseguirsi degli eventi; scenografie grandiose e spettacolare realizzazione cinematografica con tutti i mezzi tecnici allora a disposizione; sapiente uso del sonoro, con musiche composte da celebri compositori. Questi furono solo alcuni degli elementi che decretarono il successo di Cabiria e la definitiva consacrazione del genere a intrattenimento sì popolare, ma fruibile anche da un pubblico borghese. Il successo di Cabiria inaugura un fecondo ventennio di produzioni cinematografiche a tema storico, esploranti i diversi aspetti e le diverse tematiche dell’antichità: si passa dal tono patriottico di un Giulio Cesare (Enrico Guazzoni, 1914), al motivo altrettanto fortunato della decadenza dell’Impero (Messalina, E. Guazzoni, 1923), a quello, strumentalizzabile politicamente, del colonialismo e dell’espansione romana nel Mediterraneo5. 4 Si può citare l’opera di Lawrence Alma-Tadema o di Jean-Léon Gérôme, la cui tela Pollice verso ha ispirato, in tempi recenti, le grandiose scenografie del Gladiatore di Ridley Scott. 5 Argomento dibattuto è quello dei rapporti tra peplum e fascismo: al contrario della tesi storica più diffusa, secondo la quale il fascismo avrebbe utilizzato i film ambientati nell’antica Roma a scopi propagandistici, molti peplum si rivelano viceversa critici nei confronti del regime (si vedano Nerone di Alessandro Blasetti, con il comico Petrolini; o Processo e morte di Socrate di Corrado D’Errico) e un solo film appartenente al genere può essere considerato di chiara propaganda mussoliniana: Scipione l’Africano (Carmine Gallone, 1937), funzionale a giustificare i tentativi coloniali italiani in Africa e il cui produttore esecutivo era proprio Vittorio Mussolini, figlio del Duce. Cfr. http://www.peplums.info/. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 49 TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI I NUOVI PEPLUM: DAL GLADIATORE A SPARTACUS È solo nel 2000 che il peplum entra nella sua terza “età dell’oro”, quella che concerne il nostro studio, grazie al grande successo di pubblico riscosso dal Gladiatore di Ridley Scott, a cui seguiranno altre produzioni di successo variabile6. 6 Alcuni esempi di peplum degli ultimi anni: Quo Vadis ? (Jerzy Kawalerowicz, 2001), La passione di Cristo (Mel Gibson, 2004), Troia (Wolfgang Petersen, 2004), Alessandro (Oliver Stone, 2004) , 300 (Zack Snyder, 2006). Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi A questa prima fase d’oro dei film sull’antichità ne segue una seconda, databile a dopo la seconda guerra mondiale (1957-1964) in cui la ormai spietata concorrenza della televisione impone all’industria cinematografica hollywodiana la necessità d’inventare qualcosa di nuovo, per attirare nuovamente il pubblico nelle sale. Gli studios cominciano dunque ad avvalersi della tecnologia CinemaScope, un procedimento inventato dal francese Henri Chrétien per la 20th Century-Fox, che dona grandiosità, spettacolarità a questi nuovi peplum prodotti negli anni 50. Non solo l’America, ma anche l’Italia, nell’era post-fascista, si afferma in questi anni come paese produttore di pellicole riguardanti l’antichità, con un ritmo sorprendente di quaranta film per anno: si citano, a titolo di esempio, L’Apocalisse di Gian Maria Scotese (1946), Fabiola d’Alessandro Blasetti (1947), Nerone, tiranno di Roma di Primo Zeglio (1949). Questi film italiani raccolgono un grandissimo successo negli Stati Uniti, forse per la prestanza fisica degli attori italiani, veri e propri “bodybuilders”, tant’è vero che il genere peplum è anche conosciuto come “il cinema dei forzuti”. I registi americani, sulla scia del successo dei film italiani, cominciano a girare pellicole a Cinecittà, realizzando nella penisola alcuni dei capolavori del genere peplum: Quo Vadis? (Mervyn LeRoy, 1951), Ulisse (Mario Camerini, 1954), Elena di Troia (Robert Wise, 1956), Ben Hur (William Wyler, 1959). I film di questo periodo affrontano tutti gli episodi più celebri della storia e del mito, arrivando talvolta a creare veri e propri “mostri” cinematografici e anacronismi: si pensi ad un Maciste contro Zorro (Umberto Lenzi 1963). Tuttavia, anche questa seconda fase di produzioni di peplum è destinata a essere detronizzata da una nuova moda, quella degli western-spaghetti, affermatasi a metà degli anni Sessanta. I film sull’antichità diminuiscono, anche se continuano ad essere prodotti: si può citare la serie televisiva prodotta dalla tv britannica, la BBC, Io Claudio imperatore (Herbert Wise, 1976), basata sull’omonimo romanzo di Robert Graves. In Italia si segnala, per avere dato il via ad un nuovo genere di peplum, a carattere erotico, Caligola (Tinto Brass 1979). Negli anni Ottanta, anche in seguito alle sperimentazioni sul genere prodotte negli anni Settanta, avviene la definitiva canonizzazione del genere peplum in tre sottogeneri: le serie tv ad argomento storico, le produzioni a carattere erotico, sul modello di Caligola, e le produzioni ad argomento storicofantastico (stile “Conan il barbaro”). Nessuna di queste pellicole raggiunge tuttavia il successo di opere come Quo Vadis? e ancora prima, Cabiria: è solo a partire dal nuovo millennio che questo genere cinematografico tornerà a vivere una nuova fase di grandezza. 49 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 50 Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi 50 TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI Si entra dunque in una nuova era del peplum, rappresentata, oltre che dalla produzione di film, da quella di telefilm, docufiction e speciali, tutti di argomento storico: tra di esse si segnalano in particolare Rome, prodotta da HBO, BBC e Rai Fiction dal 2005 al 2007 e Spartacus, attualmente ancora in onda, che ottengono un grandissimo successo di pubblico. Quali sono le caratteristiche di questi nuovi peplum? Cosa ne determina il successo nell’era postmoderna, e quali sono i valori e i sentimenti che rispecchiano? Tutte le caratteristiche del genere sono racchiuse nel film che ne è il capostipite e che detta i canoni per queste nuove produzioni: nel Gladiatore si trova infatti rappresentato l’eroe buono, bello (si ricordi l’espressione “cinema dei forzuti” per definire i peplum degli anni Cinquanta) e che assomma in sé tante delle virtutes romane per eccellenza, quali teorizzate da Catone il Censore, da Cicerone e da Seneca e facenti parte del mos maiorum7. Il protagonista, il fedele generale Massimo Decimo Meridio, viene tradito quando Commodo, l’ambizioso figlio dell’imperatore Marco Aurelio, assassina il padre e s’impossessa del trono. Ridotto in schiavitù, Massimo cercherà vendetta per l’assassinio della sua famiglia e dell’imperatore combattendo nell’arena tra le file dei gladiatori. Massimo non è solo un valente guerriero, ma mostra inoltre di possedere alcuni valori fondamentali della romanità, tra cui la pietas, da non identificarsi con la moderna pietà, ma con la devozione, il dovuto rispetto verso gli dei, lo Stato, la famiglia, valori che si concretizzavano in un’accurata osservazione dei rituali e in una loro corretta esecuzione. Il gladiatore osserva infatti il cultus, la serie di pratiche ripetitive alla base della religione romana e nelle sue preghiere mostra tutto il suo amore verso i suoi cari passati ai Campi Elisi, pregando di fronte alle statuette dei suoi avi. Il personaggio interpretato da Russell Crowe si dimostra inoltre fedele alla parola data, in questo caso al morente imperatore Marco Aurelio, che gli affida l’arduo compito di far tornare Roma ad essere una repubblica, restituendo il potere al senato, ovvero al popolo romano, come prima dell’avvento dell’età imperiale. La fedeltà alla propria parola secondo il valore della fides, viene mantenuta anche nella vendetta preannunciata a Commodo. Il coraggioso gladiatore mostra inoltre di possedere la gravitas, la serietà di comportamento, la costantia, cioè la condotta di vita in coerenza con se stessi, e il decus, il rispetto per la tradizione: tutti valori a cui si riconnette quello di dignitas, cioè la reputazione, l’onore e la stima presso il prossimo, ottenuti grazie ad un comportamento in linea con i valori del mos maiorum. Massimo Meridio assomma dunque su di sé quelle che sono le caratteristiche del “buon romano”: il rispetto per la tradizione, la serietà, la dignità, l’autorità, l’auto-controllo, la costanza, la tenacia, la forza d’animo, la stabilità di un comportamento, tutti valori che contribuiscono a creare il suo personaggio e a decretarne il successo presso il grande pubblico. Il termine mos, plurale mores, i costumi, indicava in genere i mos maiorum o mores maiorum, cioè i costumi degli antenati, che permeavano tutta la gloriosa tradizione romana e comprendevano non soltanto le credenze e le cerimonie che univano il popolo dell’Urbe, ma anche i cosiddetti valori della romanità. Cfr. M. BETTINI, Mos, mores und mos maiorum in die Erfindung der « Sittlichkeit » in der römischen Kultur Moribus antiquis res stat Romana, pp. 303-352; A. WARD, F. HEICHELHEIM, C. YEO, A History of the Roman People, New Jersey 2003. 7 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 51 TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi Sull’onda del successo del Gladiatore e del suo protagonista, Massimo Meridio, è stata realizzata Rome, una serie televisiva prodotta da HBO, BBC e Rai Fiction dal 2005 al 2007 e girata negli studi di Cinecittà. La fiction unisce abilmente elementi innovativi dei nuovi peplum, come le scene di sesso e violenza esplicite, con elementi dei peplum tradizionali, quali la compresenza di personaggi storici realmente esistiti con personaggi d’invenzione e le ricchissime scenografie, talmente costose da determinare un’interruzione della serie proprio a a causa delle enormi spese di realizzazione. Rome è ambientata a Roma nella seconda metà del I secolo a.C., nel periodo in cui la Repubblica, ormai morente, è scossa dalle guerre civili. In questo quadro storico s’inseriscono gli ultimi anni di vita di Caio Giulio Cesare, dalla resa di Vercingetorige alla sua morte avvenuta in Senato per mano di Cassio e Bruto e i primi anni di attività politica di Ottaviano Augusto. Tema della serie sono quindi i profondi contrasti sociali, il clima sordido e magnifico nello stesso tempo, che caratterizza gli ultimi anni della morente Respublica. Personaggi caratterizzanti della serie non sono tuttavia Cesare e Augusto, ma il centurione Lucio Voreno e il legionario Tito Pullo, realmente esistiti e nominati da Cesare nel De bello gallico (V 46), intorno ai quali vengono sapientemente intrecciate vicende di fantasia. Anche in questo caso è facile enucleare alcuni temi e valori cari alla romanità, rappresentati proprio da Lucio Voreno e Tito Pullo: i due soldati hanno infatti comportamenti antitetici, sebbene li leghi un sentimento di amicizia e il comune valore militare. Non a caso nel De bello gallico i due soldati vengono descritti come in perenne competizione per raggiungere la promozione ai gradi più elevati. Il centurione Voreno è campione della virtus, valore ideale del maschio romano, che comprende la capacità di discernere ciò che è bene da ciò che è inutile, vergognoso, o disonorevole, ma anche l’abilità in battaglia dell’eroe e del guerriero. Lucio Voreno non a caso viene descritto come “Centurione Prima Lancia” grazie alle sue doti di soldato. Strettamente collegata alla virtus è la gloria, cioè la fama che si ottiene dopo aver compiuto azioni valorose e il riconoscimento di esse da parte della comunità: grazie alla gloria guadagnata sui campi di battaglia Lucio Voreno, una volta congedatosi dall’esercito, viene successivamente nominato da Cesare, che vuole garantirsi una valida guardia del corpo, magistrato e quindi senatore. Tito Pullo rappresenta invece il topos del soldato “fanfarone” delle commedie di Plauto, amante delle belle donne, del buon cibo, secondo l’ideale della simplicitas, il concetto di vivere secondo le origini in maniera semplice, ma genuina, lontano dai lussi sfrenati dell’Urbe. Tito Pullo, nello stesso tempo, risulta però spietato in battaglia, capace di sincera amicizia verso Lucio Voreno e di amore verso la bella schiava Irene: i personaggi di Rome uniscono dunque al coraggio guerresco valori e sentimenti profondi, che li rendono, come Massimo Meridio, eroi “umani”. Altrettanto umano, pur nella crudeltà e nella violenza del contesto in cui vive, è il trace Spartaco, divenuto gladiatore in seguito alla cattura da parte dell’esercito romano (e fautore di una rivolta contro la Repubblica romana stessa nel 73 a.C.) e protagonista della serie Spartacus. Negli intenti dei produttori vi era quello di creare un peplum non classico, ma divertente, dinamico, con azione e personaggi appassionanti e con una punta in più di profondità rispetto ai film degli anni 60, aggiungendo a questo già vincente mix contenuti a for- 51 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 52 Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi 52 TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI te sfondo sessuale, effetti speciali da videogioco e un’estetica generale fortemente legata ai fumetti e ai video giochi8. Le gesta di Spartaco si svolgono nell’Anfiteatro campano di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), ovvero l’Antica Capua, citata più volte nel serial dai protagonisti e plumbeo sfondo alle avventure dei gladiatori (da notare che l’unico cielo blu presente nella serie è quello della prima puntata, dove Spartaco, ancora in Tracia, era un uomo libero); l’intento della serie è quello di rappresentare la società romana dell’epoche delle Guerre Civili in modo vivo e intenso, senza mezze misure, attraverso la violenza quotidiana del mondo dei gladiatori e attraverso gli intrighi delle classi più alte, che si abbandonano senza remore alla lussuria e agli agi: l’atmosfera della serie è appunto quella di un luogo senza luce, né fisica, né morale. Il tentativo di realizzare un peplum innovativo risulta perfettamente riuscito e la prima serie del telefilm (la produzione della seconda è stata ritardata dalla prematura morte dell’attore protagonista, Andy Withfield) ha raggiunto ottimi risultati di share, anche grazie all’eroico personaggio protagonista, vero e proprio “duro dal cuore tenero”. Come il gladiatore, infatti, anche Spartaco ama la propria moglie, per cui combatte (dapprima per rivederla, poi saputo della sua morte per mano del suo padrone, per vendicarla) e presenta le caratteristiche dell’eroe: è forte, invincibile, coraggioso. In questo caso la romanità non rappresenta il fondamentale humus in cui è cresciuto il protagonista al quale, essendo trace, non è stato inculcato il mos maiorum, ma permea comunque la serie dei valori fondamentali. Anche nella serie Spartacus ritorna, come in Rome, il tema fondamentale dell’amicitia, che il gladiatore stringe con Varro, e che nel sistema di valori romano non intende semplicemente il concetto di amicizia tra singoli individui, con progetti e interessi comuni, ma anche il legame di alleanza tra due nazioni, o il rapporto tra patronus e cliens. Ugualmente importanti sono i valori dell’humanitas, la comprensione di in individuo verso l’altro, tanto più importante in un ambiente come quello di Capua, dove la violenza è all’ordine del giorno e della disciplina, cioè la ferrea educazione, la rigidezza militare, a cui i gladiatori si sottopongono durante i loro durissimi allenamenti. Il giovane Spartaco, come i già citati personaggi di Rome e del Gladiatore, rappresenta un modello positivo di coraggio, umanità, e abilità nel combattimento, a cui si mescola la “debolezza” dei sentimenti d’amore e amicizia: tutti elementi che lo rendono un perfetto “eroe postmoderno”. CONCLUSIONI: I NUOVI EROI Avendo rapidamente analizzato i principali rappresentanti dei nuovi peplum, conviene ora soffermarci su di essi e trarne qualche conclusione. In un panorama di crisi dei valori e di ricerca di modelli educativi, che s’impongono soprattutto, nel nostro oggi, attraverso i vecchi e nuovi media, si può avanzare l’ipotesi che questi film e telefilm assolvano una funzione “didattica”, grazie ai valori che essi trasmettono, facenti parte del patrimonio identitario comune ed affondante le radici nel nostro comune passato, basati sul modello di “eroe” forte e buono che domina le scene. 8 Sull’estetica della serie Spartacus consultare http://www.peplums.info/. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 53 TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI 9 “La sollecitazione di ‘sensazioni forti’ nello spettatore avviene attraverso l’adozione del ‘film-concerto’, caratterizzato dalla presenza decisiva della musica come principio fondamentale della sua costruzione e contraddistinto da un insieme di figure stilistiche tendenti a provocare nello spettatore un “bagno di sensazioni” . (…) Di qui l’importanza, per il cinema postmoderno, di proiezioni ad alto livello tecnico: schermo grande, immagine perfettamente definita, sistema acustico perfetto” . Cfr. http://larica.uniurb.it/scss/files/2011/03/Il-postmoderno.pdf 10 http://www.gaetanomollo.it/data/download/189-Postmodernita_05.pdf. Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi Caratteristiche di queste produzioni non sono solo il ricorso a strumentazioni altamente tecnologiche, a colonne sonore struggenti e ad effetti speciali e a scenografie degne di budget hollywoodiani, che fanno pur parte della produzione cinematografica post-modernista e rispondono a criteri di spettacolarizzazione, sensazionalismo e dramma sociale9, ma anche la presenza di valori e sentimenti che realmente esistevano nel mondo romano. Le serie, pur non rispettando sempre la veridicità storica nelle scenografie (in questo senso, forse, la più aderente al vero risulta Rome), nei costumi, nella trama, assommano comunque, nel carattere dei personaggi, alcune virtù e valori del mos maiorum : il modello del perfetto romano è per l’azione, la razionalità, la fedeltà alla patria, l’onore agli Dei, la vita frugale e il disprezzo per la morte, tutti valori questi, che abbiamo trovato nei personaggi dei nostri peplum. E sono dunque, proprio questi valori e queste figure di eroi, sapientemente creati dai produttori, a colpire lo spettatore postmoderno, in cerca di modelli di vita, piuttosto che l’aspetto più cruento e sensuale di questi film e telefilm. I valori antichi rappresentati da questi eroi positivi possono in parte coincidere, in modo simbolico, con quei valori dell’espressività individuale, incentrati in tre dimensioni del “desiderabile”, che secondo recenti studi, sono i valori cercati dall’uomo postmoderno: l’autorealizzazione individuale, la ricerca di un lavoro per esprimersi; le relazioni interpersonali gratificanti10. L’autorealizzazione, da intendersi come diritto d’ogni singola persona di potersi fare architetto del proprio destino, ritorna negli obbiettivi dei nostri personaggi, che devono di volta in volta vendicare la famiglia, l’amata, riconquistare la libertà, combattere per le proprie idee e i propri valori. La ricerca di un lavoro espressivo, atto quindi a poter manifestare la propria personalità, è presente nei valori guerreschi degli intrepidi gladiatori e legionari, nella loro abilità nel combattere, nella fedeltà alla propria missione di soldato. Infine, la centralità di relazioni interpersonali che possano non solo sconfiggere l’isolamento e la solitudine, ma che siano in grado di dar senso agli aneliti dei sentimenti ed alle istanze che sottostanno agli autentici rapporti interumani, permea tutta la vita dei protagonisti dei nuovi peplum: l’amore verso la patria, verso una donna, verso gli amici è ciò che dona senso alle loro esistenze. Da qui si comprende come valori quali l’amicitia, la virtus, la gloria siano più o meno consapevolmente bramati e ammirati dallo spettatore di questi peplum, spettatore che rivendica, come il suo eroe di celluloide, interazioni umane sincere e sentite, un’occupazione soddisfacente, l’autorealizzazione. Non appare casuale dunque il successo di pubblico che queste opere ottengono: in un’ipotesi di recupero della sentimentalità ai giorni nostri, credo sia importante evidenziare, in positivo, il ruolo svolto dal nostro antico passato e dai suoi valori nello sviluppo di sentimenti quali amicizia, amor di patria, amore per la vita politica e impegno civile, amore coniugale e per la famiglia. 53 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 54 Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi 54 TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI Guardando alle nostre radici, segnatamente all’antica Roma, è possibile infatti ravvisare nei valori dell’epoca sentimenti immortali e per tale motivo, ancora adesso, di grande attualità, mentre altri appaiono ormai lontani dal nostro comune sentire e dalla nostra vita quotidiana. La dimensione emozionale, amoroso-sentimentale dei nuovi peplum emoziona, ispira, coinvolge l’attualità. La produzione di questi film, con costosissime sceneggiature e budget, dimostra un rinnovato e sempre più forte interesse per il passato: penso sia una buona idea partire proprio da un prodotto che incontra grande favore popolare ed è abilmente costruito per venire incontro ai gusti di un vasto pubblico, per cercare di evidenziare ciò che al di là del razionale, continua a farci sentire vicini e affini ai nostri antenati. Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 55 UNA POESIA di Mario Pepe Piazzetta Santa Croce Lassù ci sono le finestre dove abitavo, dietro vedo le stanze, e il mare, e quei giorni sospesi sull’azzurro dondolio delle navi. Guardo il portone da dove uscivi per incontrarmi, giovane e fanciulla, e mi viene voglia di aspettarti, ma non credo mi riconosceresti, vestito da vecchio come sono. Mario Pepe Piazzetta Santa Croce UNA POESIA 55 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 56 Milena Buzzoni L’esordio di Stefania Pagliero alla luce dell’elleboro 56 PROSPEZIONI PROSPEZIONI Letture di Milena Buzzoni, Rosa Elisa Giangoia, Giuliana Rovetta L’ESORDIO DI STEFANIA PAGLIERO ALLA LUCE DELL’ELLEBORO Milena Buzzoni È attraverso lo spigoloso percorso di una crescita che si dipana il romanzo d’esordio di Stefania Pagliero. Una crescita “fuori dal coro”, di quelle che il tempo non sana, che gli anni non risolvono. Carla, la protagonista, è una ragazza bruttina, o meglio, è una ragazza normale che si vede brutta, scialba, insignificante, che non si piace e non si ama. Nulla di nuovo, dunque, un’adolescenza come tante, come tutte. Invidia le amiche che solidarizzano e hanno un ragazzo, cerca di sabotare la riuscita delle loro imprese amorose, si difende dall’abisso della solitudine con piccole menzogne, fughe, prese di posizione. Ma il tempo, anziché risolvere il suo isolamento, lo approfondisce creando attorno a lei il vuoto: è come un soldato rimasto solo in prima linea, faccia a faccia con il nemico. E il nemico è lei stessa, il suo corpo inaccettabile, l’inaccettabile colore dei capelli, l’inaccettabile muoversi in mezzo agli altri. Fino ad arrivare a quella frase che giunge come una pugnalata all’orecchio della madre: “……almeno nessuno le dà una seconda occhiata, beata lei!…..” riferita a una donna sfigurata dalla lebbra. E il climax, seguito dal dénouement, come si direbbe in scrittura creativa, il nodosoluzione di tutta la vicenda, anziché risolverla con uno stratagemma, un finale ovvio che l’avrebbe banalizzata, le dà una svolta drammatica e definitiva. È una crescita, quella di Carla, che ne evoca altre famosissime, come quella di Giulio la protagonista dell’indimenticabile romanzo di Milena Milani, o quella di Anna nella “Storia di Anna Drei” sempre della Milani o ancora quella della giovane jainista nella “Pastorale americana” di Philip Roth. Ci sono delle affinità tra la Carla della Pagliero e le protagoniste, Giulio e Anna, della Milani: per esempio l’av- versione per il proprio corpo ( Anna parla della sua “lurida carne” e dice “sono disperatamente fatta come una donna” che somiglia all’invocazione di Carla nel momento in cui scopre di essere diventata donna e implora “Dio di non farla crescere, mai più”). Da qui emerge il senso di una profonda inadeguatezza, di uno sfasamento tra sogno e realtà, fra volontà di successo e incapacità di raggiungerlo. Tutto il romanzo si rifà a una matrice esistenziale anche per il senso di isolamento e di vuoto che lo sottende. E allora è inevitabile pensare a un’altra, famosissima, Carla, quella de “Gli Indifferenti” di Moravia: consapevole, questa, del suo ineluttabile destino e della propria deriva morale; cosciente, quella, della propria deriva esistenziale. Lungi dal dipanarsi in linea retta, la vicenda della Pagliero, si attorciglia su se stessa, trovando un proprio sbocco, logico e inaspettato: la destinazione scelta da Carla per il suo lavoro diventa l’emblema di un isolamento permanente, cifra esistenziale nella quale somatizzare la propria irrisolta solitudine. Lì finalmente troverà un proprio tempo e un proprio spazio e potrà fare come gli Inuit, il popolo che andrà ad aiutare: “…..si lasciano andare, sai, sopraffatti dal progresso del resto del mondo.” Ma attorno al calvario di questa crescita gravitano altri drammi familiari: quello della madre coinvolta in prima persona nelle dinamiche psicologiche della figlia, e quello del padre, prematuramente scomparso. Sullo sfondo, l’angoscia di un’intera città, l’impatto di un G8 violento, gli schieramenti della polizia con i caschi come “grosse biglie grigie traslucide”, i sacchi a pelo, il sangue sul marciapiede, l’ansia della protagonista che teme per la vita di quel ragazzo con le efelidi che le ha fatto balenare sotto gli occhi una possibilità d’amore. Accanto a questo, che potremmo definire come un “paesaggio storico” affiora, a tratti, anche quello più Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 57 PROSPEZIONI Stefania Pagliero, La luce dell’elleboro, Genova, De Ferrari Editore, 2012, pp. 120, € L’AMORE NELLA VITA Rosa Elisa Giangoia Per Philippe Popiéla l’amore è il centro della vita, il suo vivere infatti è illuminato dall’intessere relazioni con persone, soprattutto con figure femminili nei confronti delle quali vive intensi momenti di amicizie amorose, di innamoramento, anche non ricambiato, ma sempre sentito come armonia di anime, corrispondenza di cuori, somiglianza di anime sensibili ed anche comunanza di Fede. Per questo la sua silloge poetica è un susseguirsi di figure femminili, dalla “ragazza di Calais” al “Fiorellino”, alla “ragazza di Alba”, a Fabiana, «la bellissima ragazza dalla dolce voce delle “langhe”» ed anche «anima gemella», a Maria Elena, a Luisa, in fondo varianti di un’unica seduttrice immagine femminile che il poeta ha nella mente e di cui cerca l’incarnazione nella realtà. Per questo le sue figure femminili sono sempre legate al luogo in cui si trovano a vivere, sia in Francia che in Italia, in località care al poeta per ragioni biografiche o letterarie, perché lo sfondo diventa l’elemento di collegamento tra l’immagine creata dal sogno e la realtà. Gli amori per lui si intrecciano, si interrompono, si rincorrono, per poi ritornare per dare conforto e sapore alla vita, soprattutto dopo eventi molto dolorosi, come la perdita dei genitori o il suicidio del fratellino. In definitiva si potrebbe dire che Popiéla è innamorato dell’amore stesso, più che di singole persone. Ma per Popiéla guardare il mondo attraverso l’amore è un modo per comprenderlo meglio, per andare oltre l’apparenza, per individuare e cogliere il senso profondo della vita, il che di fatto è il suo anelito più autentico (Un senso di Pace). A questo si accompagnano il desiderio del poeta di liberarsi dal male terreno (Miracolo luminoso) e la sua aspirazione ad una Terra Promessa di eterna felicità (Tramonto sul mare), per cui, dietro alle descrizioni, agli aneliti d’amore e d’amicizia, si avverte il palpito inquietante del mistero della vita. Questo porta il poeta ad esprimere sempre una forte tensione per individuare, intraprendere e seguire il cammino della Fede e della Bontà, in spirito di comunione con gli altri. Accanto all’amore un posto significativo tra i motivi ispiratori della poesia di Popiéla spetta all’amicizia, soprattutto letteraria ed artistica, come dimostrano i testi dedicati a Carlo Ossola, a Guido Zavanone e a Claudio Baglioni, che si allarga anche alla consonanza di spirito con autori della nostra recente tradizione come Cesare Pavese (la cui memoria è presente in antifrasi nel titolo della raccolta), Mario Luzi e Lalla Romano (A Lalla, Fiore di Demonte). Dal punto di vista espressivo la caratteristica saliente di questa silloge poetica è quella di essere bilingue, in italiano e Rosa Elisa Giangoia L’amore nella vita specificatamente “geografico”: gli scorci di una Genova residenziale, nello stesso tempo presente e nostalgica, più paesaggio dell’anima che entità geografica, sullo sfondo di un mare ora accattivante ora inquieto, come nell’immagine che sembra alludere all’imperscrutabile segreto dell’universo femminile: “….il mare incomincia a incresparsi sulla superficie tesa e scura, turgido di mistero come un ventre di donna”. È invece il freddo, con la sua funzione ambivalente, a occupare il paesaggio finale: da un lato metafora di morte come fine di un ciclo esistenziale, annullamento della corporalità, dall’altro veicolo di rinascita: il corpo di Carla, sotto gli strati di pelliccia e indumenti, finalmente non avrà più forma né odore e la sua nuova vita comincerà proprio attraverso questo rito della vestizione che ha tutta la solennità di un rito iniziatico, come se, abbandonando la fisicità del corpo, acquisisse un’altra sostanza, diversa e immateriale, in un processo di sublimazione che diventa l’unico plausibile esito della vicenda. Su questa, non a caso, si diffonde la luce diafana dell’elleboro, il fiore del rigore invernale, che con i suoi poteri narcotizzanti si fa metafora di emarginazione e distacco. 57 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 58 Rosa Elisa Giangoia Tra pubblico e privato in tempi recenti 58 PROSPEZIONI in francese, per la sicura padronanza dell’autore di entrambe le lingue; in alcuni casi la traduzione italiana è stata curata da Guido Zavanone, quasi in gara con il poeta francese, come dimostra la conclusiva sezione Varianti. L’andamento delle poesie è prevalentemente colloquiale, di apertura comunicativa con il lettore a cui vengono presentati con sincerità e immediatezza spaccati di vita quotidiana. Per questo, accanto alle vicende d’amore, ci sono riflessioni sulla presente situazione politico-economica (Tempesta), riflessioni sulla professione di insegnante (L’ultimo viaggio), pensieri augurali di speranza di salvezza per la madre (Mia madre) e la nonna (A Boucha), espressioni di fiducia nell’Assoluto in occasione della morte del padre (Umile preghiera nella Trinità), ma c’è anche la vivacità festosa di uno spettacolo spagnolo (La bella di Cadice). È la vita stessa per Popièla a farsi poesia e proprio nel suo essere poesia trova la sua autenticità. Il tono discorsivo, fatto di immediatezza e semplicità, trova però anche occasioni di felici espressioni figurate («il tuo sorriso dolce di ciliegia», «i cuori di pietra dell’amarezza» e di brillanti giochi fonici con assonanze e onomatopee, che imprimono ai versi di Popiéla quell’originalità che, insieme alla ricchezza d’ispirazione e alla costante felicità espressiva, caratterizza il vero poeta. Philippe Popiéla, Amare non stanca, Prefazione di Carlo Ossola, Introduzione di Guido Zavanone, Bonaccorso, Verona 2013, pp. 245, € 15,00. TRA PUBBLICO E PRIVATO IN TEMPI RECENTI Rosa Elisa Giangoia Scorre veloce il tempo in questo ampio romanzo di Roberto Musetti, alla sua prima prova con un’opera di grande impegno compositivo e narrativo. Il tempo incalza in un susseguirsi di vicende che si snodano nell’arco di alcuni decenni della seconda metà del Novecento, anni di grandi trasformazioni politiche e sociali, di presa di consapevolezza più ampia e matura da parte di molti, ma anche anni di liberazione individuale da schemi di vita rigidi e tradizionali. Protagonista delle vicende che la vedono sempre coinvolta, in maniera più o meno diretta, è Luana, una giovane, all’inizio appena adolescente, ma che si evolve e trasforma profondamente nel corso di quanto viene narrato, tanto che il romanzo assume, oltre a molti altri, anche il carattere di “romanzo di formazione”, il cosiddetto Bildungsroman, con caduta nell’abisso nel negativo e recupero del positivo, soprattutto della propria personale dignità. La vicenda di Luana inizia con una fuga dal collegio di suore, a cui i genitori l’avevano affidata per completare la sua formazione culturale. È una fuga di protesta e di dissenso nei confronti soprattutto della madre che le ha celato verità scabrose sulla sua nascita, ma è anche una fuga dalla ristrettezza della provincia verso una grande città, che offre miraggi di libertà e apre nuove prospettive di vita. In questa fuga la ragazza è aiutata da chi crede nelle sue doti intellettuali e auspica per lei un futuro diverso da quello previsto dai genitori. Il luogo della ritrovata libertà è per Luana Venezia, con tutto il suo fascino di storia, arte, ricchezza, vita, eleganza, luminosità e meraviglia. Qui trova lavoro in una straordinaria libreria, dove, grazie al singolare personaggio di Libero, sintesi di cultura, saggezza e generosità, i libri non solo si commerciano, ma si leggono, studiano, discutono in gruppi che coinvolgono ed arricchiscono numerose persone. Gli orizzonti di Luana si possono così aprire in direzioni diverse, da quella politico sociale a quella sentimentale. A questo punto a Luana si impongono delle scelte di vita, per cui decide di andare a Futura, città emblematica dello sviluppo industriale del secondo Novecento in Italia, in mano ad un capitalismo senza scrupoli, per aprire una libreria che sia anche lì centro di diffusione di idee e occasione per far maturare una coscienza critica nei confronti soprattutto della negativa realtà della città. È un progetto in cui crede fortemente, come ci cre- Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 59 PROSPEZIONI della protagonista, dei libri e della libreria, a cui si contrappongono, nella seconda parte, quella della degradazione, i beni materiali, vissuti come possesso esclusivo ed egoistico, mentre la cultura è condivisione e arricchimento reciproco. Dal punto di vista formale il romanzo è costruito con sapiente scrittura, soprattutto per la capacità dell’autore di utilizzare un’ampia gamma di registri stilistici, sempre pienamente funzionali alle diverse situazioni e agli stati d’animo dei numerosi personaggi, descritti anche in momenti di forti tensioni emotive. Ai dialoghi che si snodano con naturalezza, sia che si svolgano tra personaggi diversi, sia che scendano nel profondo di uno solo, rapportandosi alla coscienza individuale, si affiancano i monologhi che servono per analizzare le più complesse situazioni psicologiche degli personaggi, sempre condotti da Musetti con quell’abilità che i maestri del romanzo novecentesco ci hanno insegnato. Certo una buona prova d’esordio narrativo per uno scrittore da cui pensiamo ci sia molto da aspettarsi. Roberto Musetti, Angeli caduti, Europa edizioni, Roma 2013, pp. 474, € 17,00. DONNE GENOVESI Rosa Elisa Giangoia Tra la fine del Settecento ed il primo Novecento la città di Genova ebbe vicende storiche che determinarono trasformazioni profonde anche con ripercussioni importanti sul resto d’Italia. Infatti, a seguito della Rivoluzione Francese, dopo aver mantenuto un atteggiamento neutrale nei confronti del governo rivoluzionario, nel 1797 la città stabilì rapporti di alleanza con Napoleone Bonaparte, a seguito dei quali la Repubblica di Genova cessò di esistere, sostituita dalla Repubblica Ligure, inclusa nel 1805 nell’Impero francese. Poi, dopo le sconfitte di Napoleone del 1814-1815, il Congresso di Vienna stabilì, pur contro la volontà della Repubblica, l’annessione della regione ligure al Regno di Sardegna. Da que- Rosa Elisa Giangoia Donne genovesi de Carlo che con lei lo intraprende; ma tra di loro la situazione è ambigua e sbilanciata, perché Carlo la ama perdutamente, mentre lei ama follemente Paolo, un affermato medico che aveva già fugacemente incontrato in collegio e poi rivisto in una brillante festa a Venezia, personaggio ambiguo, controverso nelle opinioni di quanti lo conoscono. L’esperienza di Futura si rivela ben presto un fallimento per l’insensibilità delle persone che in quella realtà vivono e per la netta opposizione della classe politica, economicamente coinvolta. Ma, nonostante questo, per Luana all’improvviso tutto sembra volgere al meglio: abbandonato definitivamente Carlo, stringe finalmente un felice legame sentimentale con Paolo, con cui torna a Venezia per iniziare una nuova esistenza, piena di gioie e soddisfazioni. È un’illusione breve, purtroppo. Le vicende volgono rapidamente verso sviluppi negativi, drammatici e dolorosi per Luana, che dovrà ancora abbandonare Venezia e che sceglierà deliberatamente di costruirsi una nuova vita all’insegna dell’ipocrisia, del cinismo e della durezza più spietata nei confronti degli altri, con il solo obiettivo di arricchirsi il più possibile. Finalmente, però, arriverà un giorno in cui tutte le verità della sua vita, in particolare quelle che riguardano le persone a lei care ormai scomparse, si chiariranno e le certezze recuperate le permetteranno di risalire la china della degradazione morale in cui era caduta. È un romanzo a tinte forti, di marcati contrasti tra il bene e il male, di netta contrapposizione tra personaggi di caratteri diversi, ma è anche un romanzo di presa di coscienza di alcuni gravi problemi che hanno percorso la società italiana nella seconda metà del secolo scorso e che, proprio grazie all’impegno di persone coraggiose, hanno potuto, se non essere superati (e molti non lo sono ancora oggi!), almeno essere messi sul tappeto e presi in considerazione. Ma è anche un romanzo di riconoscimento dell’importanza della cultura, con l’emblematica presenza in tutta la prima parte del romanzo, quella che vede il carattere positivo 59 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 60 Rosa Elisa Giangoia Donne genovesi 60 PROSPEZIONI sto momento in poi i destini di Genova e della Liguria saranno legati a quelli dell’Italia, soprattutto per gli importanti contributi che la città darà all’elaborazione teorica del movimento risorgimentale. Dopo l’unità d’Italia si aprirà per Genova la stagione del grande sviluppo portuale ed industriale. Di questo periodo storico di grande trasformazione politica e quindi anche civile e sociale, Francesca Di Caprio Francia prende in considerazione le figure femminile, attraverso la costruzione di 70 ritratti che rappresentano altrettante microstorie di donne genovesi per nascita o per residenza nella città che, in condizioni sociali, economiche e culturali anche molto diverse, hanno attraversato questi decenni lasciando un segno della loro presenza, che in alcuni casi è rimasto indelebile, mentre in altri è stato recuperato e riportato all’attenzione proprio dall’indagine dell’autrice. Infatti, come dice Stefano Verdino nella Prefazione «l’originalità della scelta di Francesca Di Caprio è stata quella di non fare solo la galleria delle donne illustri, ma di allestire un album delle ‘genovesi’ che la memoria ha tramandato, nei più diversi scomparti». Le prime figure femminili che vengono prese in considerazione, secondo un percorso cronologico in cui però si dà rilievo a gruppi con caratteristiche salienti omogenee, è quello delle “Dame illuminate”, donne della nobiltà locale che risentono del nuovo clima culturale venuto dalla Francia. Tra di loro emergono Clelia Durazzo Grimaldi, raro esempio di donna scienziata, particolarmente competente in botanica, Anna Pieri Brignole Sale, amante della poesia ed interessata alla politica che tenne un celebre salotto aperto alle idee illuministiche, e Antonietta Galera Costa, che rivendicò la sua autonomia nei confronti dei genitori riguardo al matrimonio, diventando poi la «vivace animatrice» di un salotto culturale, frequentato anche da Vincenzo Monti, che le dedicò il suo famoso Sermone sulla mitologia, considerato il manifesto del Neoclassicismo italiano. A loro seguono le “Grandi madri del Ri- sorgimento”, tra cui spicca la figura molto nota di Maria Drago Mazzini, accanto a cui si collocano Eleonora Curlo Ruffini e Adelaide Zoagli Mameli, tutte «meritatamente irradiate dalla luce riflessa» della fama dei loro figli a cui «instillarono» «ideali risorgimentali». Nel periodo risorgimentale diedero importanti contributi alla causa italiana anche le “Patriote nei salotti risorgimentali”, come Bianca Milesi Mojon, Bianca Desimoni Rebizzo e Anna Schiaffino Giustiniani, nota per l’infelice storia d’amore con il giovane Cavour. Accanto a loro ci sono le “Popolane patriote quasi dimenticate”, come le sorelle Maria e Caterina Avegno che accorsero in aiuto dei marinai inglesi della fregata Croesus, incendiatasi davanti a Camogli, in una situazione difficile che determinò la morte di Maria. Ci furono poi le “Letterate e giornaliste”, che fondarono e sostennero periodici patriottici, accanto ad altri più interessati alla questione femminile. In quest’ambito emersero anche vere e proprie scrittrici, come Willy Dias e Flavia Steno, le cui opere meriterebbero una rilettura, come quelle per l’infanzia di Fata Nix. La galleria delle figure femminili è arricchita ancora dai ritratti di religiose dalla vita avventurosa, come suor Blandina, coraggiosa missionaria prima nel West tra gli indiani, poi tra gli emigrati italiani, di numerose “Sante e Beate”, dedite soprattutto alla formazione morale e culturale delle ragazze dei diversi ceti sociali, tra cui spiccano Benedetta Cambiagio Frassinello ed Eugenia Ravasco. Accanto a loro ci sono le “Befattrici”, tra le quali la più famosa è indubbiamente Maria Brignole Sale De Ferrari, la Duchessa di Galliera. Il panorama è arricchito dal capitolo sulle “Artiste”, suddivise in “Pittrici”, da Carolina Olivia Celesia a Adelina Zandrino, “Cantanti e Musiciste”, nessuna delle quali ha acquisito una fama tale da varcare i decenni, e “Attrici”, come Giuditta Rissone e Rina Franchi Gaioni Govi. A dare un tocco di vivacità a questo grande affresco è l’ultimo capitolo dedicato alle “Figure caratteristiche di popolane”, Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 61 PROSPEZIONI Francesca Di Caprio Francia, Donne genovesi tra fine Settecento e primo Novecento, De Ferrari Editore, Genova 2014, pp. 150, € 16,00. FALSE MEMORIE DI UN BRILLANTE IMPOSTORE Giuliana Rovetta Una galoppata insolita e qualche volta disturbante attraverso l’arte del XX secolo: questo è il racconto paradossale che Roland Topor (1938-1997), personaggio geniale quanto sconcertante, propina ai suoi lettori sotto forma di una (falsissima) autobiografia dando alle stampe per l’editore Wombat, a metà degli anni Settanta, le Mémoires d’un vieux con. Questo testo, oggi disponibile in italiano nelle edizioni Voland con un titolo pudicamente sfumato rispetto all’originale, illustra con puntuale irrisione un genere, quello dell’autofiction, dove a compensare l’opposizione tra realtà e vissuto subentra l’equivalenza tra io e linguaggio. Il concetto che Topor sviluppa è piuttosto semplice: se ammettiamo che l’autobiografia è sempre diversa dalla vita reale, infarcita d’invenzioni a cui nessuno fa caso, allora perché privarsi del piacere di raccontare “una vita non vissuta ma che avremmo voluto vivere?”. Il protagonista narrante, affetto da un patologico narcisismo, si presenta come il geniale ispiratore e regista di ogni nuova moda e tendenza, di ogni cambiamento di rotta nel milieu culturale parigino: dall’invenzione del cubismo (e relativa lite con Picasso) all’anticipazione del racconto fantascientifico alla Orwell, mentre Breton lo implora di suggerire le formule adatte al suo manifesto del Surrealismo e i più grandi pittori tentano invano di imitare il suo stile sorprendente. A chi si affida il pavido Sartre per attraversare la trafficata rue Sant-Benoît ed accomodarsi finalmente al tavolino del Caffè Flore? A lui, genio e, appunto, cialtrone. A chi il mitico Meliès affida una parte nei suoi mirabolanti lungometraggi? Sempre a questo io narrante ingombrante quanto versatile. Per chi Sarah Bernard accetta di posare nuda? Per lui, artista sempre qualche passo avanti agli altri. Così avanti, spiega, che a volte deve fermarsi per aspettare le Avanguardie che procedono troppo lente rispetto al suo passo, ma poi sul più bello lo superano e si dimenticano di lui. In queste pagine trascinanti vengono passati in rassegna tutti i personaggi che hanno illustrato la cultura del Novecento: Apollinaire, Chaplin, Cocteau, Braque, Mirò, Cole Porter, Huysmans, Proust, persino Hitler e Trotsky: ognuno di loro viene prima contestualizzato e poi fatto a pezzi con le armi dell’ironia più dissacrante, lasciando spazio alla figura del protagonista narrante che vanta mille abilità, intuito sottile, eccezionale temperamento, indiscusso talento. Ma stringi stringi di tutto questo vorticoso spendersi per arrivare prima e primo, il nostro Giuliana Rovetta False memorie di un brillante impostore che ci informa sulla prima miss di Genova, la sarta Cesira Rolla, ma ci permette anche di conoscere meglio alcune donne da sempre note in città, come Caterina Campodonico Carpi, la famosa Catainin de nisseue, immortalata dalla statua a Staglieno, o Carlotta Navone, ostessa in Sottoripa, omaggiata dal giornalista Giovanni Ansaldo per la sua abilità nel preparare la torta pasqualina e ricordata anche da Mario Soldati. Questa rassegna di personaggi femminili ci dà conferma del fatto che anche a Genova, specie dopo il diffondersi delle idee illuministiche, ci siano state donne di grande cultura e di alti sentimenti civili e patriottici che hanno contribuito alla diffusione di quel pensiero che ha profondamente trasformato la società, ma ci fa anche capire come in tutte le classi sociali le donne siano state sempre molto attive e, qualora siano potute uscire dal ristretto ambito familiare, siano state sovente capaci di realizzazioni importanti, anche con sacrificio e generosità. Ancora una volta quest’ampia ed interessante rassegna di Francesca Di Caprio Francia ci conferma che la donna ha in sé le stesse potenzialità dell’uomo, ma che nel passato solo eccezionalmente ha avuto le possibilità per esprimerle e metterle a frutto. 61 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 62 Giuliana Rovetta Le lunghe ore di Colette, reporter 62 PROSPEZIONI poliedrico eroe non ha raccolto i meritati frutti, proprio perché si è perso nelle sue fandonie iperboliche anziché curare il personaggio e capitalizzare i risultati come hanno saputo fare altri…. Nella vita reale Topor (1938-1997), figlio di un quotato scultore ebreo-polacco, dopo la fuga in Savoia per sfuggire ai rastrellamenti, frequenta a Parigi l’École des BeauxArts e collabora da un lato al mensile Hara Kiri, rivista di culto dell’umorismo nero, dall’altro, e in netto contrasto, al magazine femminile Elle. Con la sua esuberante immaginazione mette nel mirino le contraddizioni della natura umana e crea un universo anticonvenzionale la cui traduzione espressiva passa attraverso la penna, l’inchiostro, la litografia, l’incisione su linoleum, la fotografia, la cartellonistica, la composizione di testi musicali, la scrittura di racconti e romanzi, ma anche la scenografia, la regia, la recitazione: per Fellini ha magistralmente disegnato le proiezioni oniriche della lanterna magica nel film Casanova, per Pressburger ha ideato i costumi dell’opera lirica Le Grand Macabre. In Italia, dove ha fondato con Jodorosky, il santone-clown e Arrabal, poeta visionario, quell’ultima assurda avanguardia che fu il Movimento Panico (“un Surrealismo, ma senza Breton a controllarci”), Topor ha anche partecipato all’esperienza del giornale satirico Il male. Le mille sfaccettature del suo insopprimibile spirito creativo hanno nuociuto alla conoscenza approfondita della sua opera che, sotto la coloritura grottesca o irridente, mostra in controluce le qualità più che di un artista cinico e beffardo, di un riflessivo umanista affetto da inguaribile pessimismo. Roland Topor, Memorie di un vecchio cialtrone, a cura di C. Mazza Galanti, Voland, Roma, pp.155, € 14,00. LE LUNGHE ORE DI COLETTE, REPORTER Giuliana Rovetta Poteva diventare un’icona di qualsiasi cosa: del femminismo e dell’antifemminismo, del conformismo e dell’anticon- formismo, dell’amore libero e della soggezione a uomini poco affidabili, dell’indipendenza conquistata a caro prezzo e dell’amore davvero indissolubile, quello materno. Invece Sidonie Gabrielle Colette, con quel cognome che sembrava inventato (ma era quello di suo padre Jules-Joseph, ufficiale di carriera), pseudonimo congeniale a una scrittura femminile agile e penetrante come uno scandaglio, è rimasta quella che era: una figlia (Sido, il suo libro più bello, è l’evocazione dell’intenso rapporto con la madre) debitrice verso il padre di un ricordo in cui s’intrecciano una guerra ormai passata, ovvero la Campagne d’Italie del 1859 in cui il capitano di fanteria Colette, ferito, restò privo di una gamba, e quella vissuta al fronte nel 1914 come inviata del quotidiano Le Matin al seguito del marito, lo scapestrato barone Henry de Jouvenel. Da Saint–Malo a Lugano, da Parigi all’Argonne e anche lungo la penisola da Roma a Venezia, Colette porta sugli eventi bellici (ma “le donne non devono parlare della guerra”) il suo sguardo obliquo e indagatore che fa tesoro dei dettagli, registra le incongruenze, scova la voglia di normalità nella tragedia. I quotidiani nazionali di tutta Europa diffondono inevitabili cronache su combattimenti, assalti e ritirate, bilancio delle perdite, mentre la scrittrice più originale di Francia, per immediatezza e autenticità di percezione, scrive i suoi articoli (che verranno pubblicati via via in un’apposita rubrica intitolata Propos d’une Parisienne) concentrandosi sulle retrovie, dove la vita trascorre lenta in una terribile quotidianità, scruta col suo occhio vagamente ironico i colori nero e blu della notte, le fantasie vivaci degli abiti dei bambini, la trasparenza dell’acqua, le ombre dei giardini e capta, col suo orecchio sensibile alle disarmonie, rintocchi di campane, sussulti, grida, richiami, pianti. Molte figure di donne, originali, emancipate, svagate o eroiche serviranno a costruire nei suoi futuri romanzi immagini femminili lontane dagli stereotipi dell’epoca. In queste “ore lunghe”, fatte di attese interminabili, ma anche di ricorso alla fan- Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 63 PROSPEZIONI Colette, Le ore lunghe, traduzione di Angelo Molica Franco, Del Vecchio, Roma, 2013, pp.226, € 14,00. ERIK FERRARI ORTELLI: L’ARTE DELLA TRASPARENZA E DELLA LUCE Milena Buzzoni In questa piazzetta soleggiata della vecchia Sturla, in fondo a via dell’Ombra, il mare è nell’aria con i suoi odori e le sue suggestioni. È inseguendo queste che si entra all’interno del Borgo Club, più simile a una conchiglia che al tempio del jazz genovese, e non si resta delusi. In questa mostra retrospettiva di Erik Ferrari Ortelli, artista genovese di origine svizzera, prematuramente scomparso sul finire del 2011, infatti, si ritrovano gli elementi di una natura perfettamente consona al contesto : onde, pesci, foglie, rami, fiori, alghe armonizzati in un gusto tattile per la materia che coinvolge anche i papier maché usati come passe-partout e cornice insieme che forniscono uno spessore naturale agli acquarelli e agli acrilici. Queste tecniche, così soft e poco invasive, sono l’approccio più discreto a un mondo, quello della natura, che, nell’esperienza di Ortelli, chiede soltanto rispetto. E a questo mondo l’artista si avvicina con lievi, sommesse incursioni, usando spatola e pennello che si alternano a creare impasti ora corposi ora rarefatti ma sempre garantiti dalla luce e dalla trasparenza come per sottrarli alla contingenza e affidarli a un’eternità trascendente e più vera. Ecco spiegata la leggerezza dei suoi pesci, il chiarore delle sue marine, la delicatezza dei più svariati materiali raccolti un po’ ovunque e utilizzati sulla tela come pennellate di colore-forma. C’è uno scambio osmotico tra le sue opere e la sua vita quotidiana influenzata dalla ricerca continua di elementi materici da utilizzare sulla tela, da rielaborare per creare nuovi messaggi artistici. Il suo lavoro presso lo studio di architettura di Emilio Morasso come responsabile amministrativo e curatore della presentazione grafica e fotografica dei progetti, non gli impedisce di dedicare costan- Milena Buzzoni Erik Ferrari Otelli: l’arte della trasparenza e della luce tasia, per chi malgrado tutto è in grado di esercitarla, trascorre il boato della guerra, il sospiro dei feriti, il sussurro di chi spera. Non si spegne mai l’aspirazione testarda e innocente a vedere la bellezza là dove si nasconde, filtrata dal coraggio di vivere, perché “la gioia è dappertutto, inevitabile” e in tempi così bui riuscire ad apprezzarla è un atto rivoluzionario. L’anima giornalistica di questa particolare testimone, che non esprime mai alcuna valutazione morale sulla guerra, si manifesta in una significativa carrellata dedicata alle città d’Italia: molte pagine del 1915 sono destinate a Roma, altre offrono un suggestivo quadro di Venezia e del lago di Como, altre ancora si riferiscono a Genova: “… gialla su un cielo umido di temporali, trabocca di giovani uomini, operai mercanti in abiti civili. L’aria è sazia di un pregnante odore di carbone, di catrame, di mare. Per raggiungere il golfo, il treno attraversa dei giardini negletti, dei roseti, e getta i suoi bruscolini roventi su degli allori. Il mare, che riusciamo a bordare soltanto alla fine, non reca alcuna traccia dei crudeli conflitti del momento e bagna alcuni villaggi color ocra – quasi sbocciati con tutte le porte aperte…”. Non tutti i passaggi di questa raccolta sono così idilliaci, a volte lasciano trapelare incredulità e sbigottimento (“…quel razzo festante che squarcia il crepuscolo è una partenza di truppe italiane. Sì, il popolo dei mandolini va in guerra!”), altre volte si rivelano pietosamente riflessivi: “Sono le tre di notte…La magnifica luna ghiacciata ha abbandonato il cielo, e ci vogliono ancora due ora perché le finestre si screzino del blu del mattino. È il momento più oscuro e il più calmo nel dormitorio universitario. Sotto la guardia di una lampadina accesa gli otto feriti stanno dormendo. Addormentati sì, ma non silenziosi. Il sonno svela quel lamento che durante il giorno l’orgoglio trattiene….”. E da Verdun: “…un’insolita grandine comincia a crivellare il canale sotto i nostri piedi, una singolare graniglia calda che fa cantare l’acqua….Chi ci sta gettando queste schegge di ferro rovente?”. 63 Satura 25-2014 nero_Layout 1 28/05/14 21:59 Pagina 64 Milena Buzzoni Erik Ferrari Otelli: l’arte della trasparenza e della luce 64 PROSPEZIONI ti energie all’arte: così dipinge di notte, nei ritagli di tempo, negli intervalli di lavoro con l’impellenza creativa di un’indole raffinata e istintiva che lo porta a produrre in pochi anni migliaia di opere. Si percepisce, nelle sue tele, l’eco di un’Africa lontana ma sperimentata e nostalgica, l’Africa orientale dove risiede tra gli anni settanta e ottanta e che resta riconoscibile nelle sfumature dei gialli, in un certo maturo arancione che evoca sole e calore, nella geometria di rami e foglie combinati a creare suggestioni di savana. Ma l’abilità di Ortelli non si esaurisce nell’esperienza pittorica: sette anni trascorsi negli Emirati lo orientano verso l’illuminotecnica: come impegno pubblico crea le installazioni luminose per la Municipalità di Dubai tra il 1995 e il 1999 e per il Al Bustan Palace Hotel di Muskat ”; tra il 2000 e il 2006 allestisce a Genova arredi di lightdesign per il Teatro Carlo Felice, il Teatro della Gioventù, il Palasport della Fiumara, l’Università, L’Ospedale di San Martino, il Teatro Alfieri di Torino. Come esperienza privata progetta le cosiddette lampade da compagnia presentate sulla rivista “Abitare”, alcune delle quali concludono il percorso della mostra al Borgo Club tra- sferendo il visitatore in un’atmosfera di alta suggestione: la sala al buio evidenzia queste creazioni in plexiglas che vanno dalle lastre nelle quali, come in un acquario, fluttuano alghe e pesci, ai fasci di luci multicolori che mutano lentamente tonalità in un intreccio arboreo, ad arcobaleni defunzionalizzati da un nodo che con le loro variazioni cromatiche trascinano in un misterioso mondo di chiaroscuri evocativo di incontri, contaminazioni e mutazioni dell’essere e del sentire. Ma l’aspirazione all’autenticità della natura e ai suoi materiali non è tradita neppure dalla tecnologia di questi elementi: ogni installazione poggia su una sezione di bambù dipinto di nero che riafferma l’antica passione! Sintetico e naturale si fondono in questi fuochi accesi nel buio, in questi giochi di led che davvero riescono “a fare compagnia” come dovrebbe avvenire per tutta l’arte: una fonte permanente di godimento che illumini la sensibilità di ciascuno e qualche volta ne risolva la solitudine. Erik Ferrari Ortelli “I colori dell’acqua e del vento - Quadri e sculture luminose -” 3 aprile - 17 maggio 2014 Borgo Club – Via Vernazza 7-9 R – Genova. 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 65 CRITICA di Giorgio Getto Viarengo Ricordo con grande precisione la prima volta che ho potuto visionare un’opera di Luigi Grande: era il 1974, a casa di un amico che aveva appena acquistato un suo quadro. Ai miei occhi non era un lavoro qualsiasi, ma un soggetto capace di colpire la fantasia, fu immediatamente suggestione, quel tratto illustrava un indiano, la sua rappresentazione mi portava ad indagare la profondità di quella scelta: un artista capace di rappresentare una condizione lontana, ponendo al centro della riflessione il mondo degli ultimi. Queste particolarità portarono il lavoro di Grande alla mia attenzione intellettuale, per cercare costantemente il risultato del suo dialogo, del suo contributo per attraversare l’infinito mondo del dibattito tra arte e società. Da quella prima emozione sono passati molti anni e non ho mai cessato la mia riflessione per seguire il suo complesso cammino. Mi sono sempre chiesto dove l’autore trovasse la condizione espressiva e quale fosse il suo metodo di ricerca, come Grande componesse il soggetto, il tratto, l’inquadratura del linguaggio espressivo, il tutto nella condizione essenziale dei colori che utilizzava. Il paesaggio di quest’artista non è riassumibile nella regolare lettura di come questo si sia creato ed evoluto, la composizione prende un’altra strada, non cerca i segni della pre- Sotto il vulcano a Tenerife, 1998, olio su tela, 70x100 Luigi Grande I COLORI CHE SERVONO LUIGI GRANDE 65 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 66 CRITICA Luigi Grande 66 Vecchio capo, 2001, olio su tela, 100x70 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 67 CRITICA 67 Luigi Grande Persone, persone, nessuno, 2003, olio su tela, 60x80 senza antropica, ma indaga la condizione umana più nella sua interiorità che nelle cose che la circondano. Un corpo di donna sulla spiaggia, nella solarità di un giorno d’estate, tra gli spigolosi scogli di Liguria è estrapolato, posto in primo piano. Questa immagine viene filtrata dalla visione essenziale di Grande e si prosciuga di tutti i dettagli di maniera, i colori diventano “quelli che servono”, il paesaggio circostante ritrova la sua natura delle origini, poche cose, ma infinitamente dilatate. Lo scoglio diventa un luogo caratterizzante, il mare un forte e robusto colpo di colore: ecco la non canonicità, qui è la presa di coscienza contro ogni maniera. Il mare di Grande è riconoscibile nel grande specchio che si raccoglie nella sua terra del Tigullio, ma si scompone, trova una nuova dimensione e inaspettati colori. Non è un effetto speciale, ma “il colore che serve”, quel- la necessità che l’artista ricerca nelle sue emozioni, ricava dalla straordinaria forza dell’immaginazione, come un potente motore della creatività che accelera al massimo e restituisce un blu, un azzurro, un nero probabilissimo. In queste scelte espressive si ritrova uno dei più forti schemi costruttivi dell’opera di Grande: il rapporto con la sua terra. L’oasi dell’artista è rinchiusa nelle sue passioni ideali, negli sterminati inverni, nelle buie notti, nel caldo assordante del cicaleggio assolato d’estate, nel silenzio dei portici e nei tetti dei nostri centri storici. Qui sono i “colori che servono”, in questo cosmo di persone, case, volti, situazioni segnate da pietre consumate dal tempo: qui vive il tratto di Luigi Grande. La sua artigianalità si ritrova nei gesti di chi vive in questa terra, nella Liguria realizzata dalla fatica atavica di uomini che hanno costruito spostando pietre, ta- 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 68 Luigi Grande 68 CRITICA gliando ardesie, vivendo nei colori dei cieli e dei mari del Tigullio: sono qui “i colori che servono”! Ho provato a scomporre alcune opere di Grande, a verificare se esistesse un percorso prevedibile, ma il filo della ricerca si perde nei complessi meandri delle dimensioni, degli spazi, dei luoghi delle emozioni: queste sono le materie prime di Grande. Allora si compren- Bagnante e cielo giallo, 2011, olio su tela, 90x80 de quali possano essere i “colori che servono”, la tavolozza dove il tubo plastico si riversa acquista la potenza della fornace, dove il fuoco-passione fonde i metalli-colori, dove il crogiuolo-pennello plasma il liquido incandescente della prossima creazione. Lo spazio del creare e del lavoro attivo dell’artista non si esprime solo sulla dimensione della più classica 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 69 CRITICA Luigi Grande Natura, 2011, olio su tavola, 166x86 tavola o tela, Grande ha saputo ricercare anche la forma più complessa della ricerca scultorea, della fusione del bronzo nella magica conchiglia capace di restituire l’oggetto essenziale della sua immaginazione. Qui desidero soffermarmi sul complesso della plasticità offerta dal monumento alla Resistenza in Lavagna. La scelta di realizzare un’opera pubblica, quell’estremo lavoro di ricerca che chiamiamo monumento, è senza dubbio una delle prove più difficili per un artista, spesso è capace di diventare l’esame estremo. Quella di Lavagna è una composizione essenziale, dove il soggetto si esprime in un paesaggio che non è limitato al paraggio circostante, ma si muove e vola in un ambito vastissimo, quella composizione non occupa l’immediato, si avvolge alle mulattiere, attraversa i boschi, entra nelle ferite del combattente, segna il sangue dei caduti, riprende il cammino degli ideali espressi da quelle colombe che iniziano il volo: ecco l’opera di Grande. Le colombe che prendono il volo sono il fuoco del monumento, una fiamma che destina l’opera all’eternità di quel valore. Il volo delle colombe inizia dalle mani tese del “soldato della libertà”, uno solo per raccontare il destino di chi scelse il cammino rappresentato da Grande: sono queste le scarpe rotte e 69 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 70 CRITICA Luigi Grande 70 Bagnante, 2012, olio su tela, 70x60 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 71 CRITICA pur bisogna andar. Quando si usa il termine monumento si scomoda una parola difficile, un termine che non finisce con la collocazione dell’opera, ma in quell’istante prende via un infinito cammino nel tempo e nello spazio: questo è il vero significato del monumento. Il tempo infinito non è una sfida difficile per uomini come Grande, il suo metronomo segna tempi diversi, i lenti palpiti della fine delle burrasche che diventano tempeste di colori, i timori del vulcano, i passi di Mimì a Ustica, un cane che racconta la sua vicinanza all’uomo anche nella cecità, l’ultimo paesaggio che si sviluppa nel caleidoscopio di uno specchio retrovisore di un’auto. Luigi Grande viaggia e ritorna sempre al suo balcone, l’amata fine- Luigi Grande Scogli, 2012, olio su tela, 80x60 stra davanti al mare, da qui si parte ogni volta, qui si ritorna dopo ogni sfibrante viaggio. Quel balcone è un punto d’osservazione, qui è custodita la stella polare, la bussola per orientare la prossima ricerca, dove si attrezzano le idee, dove si custodiscono i “colori che servono”. Mi piace pensare a Luigi Grande con le braccia posate sul davanzale, di quel balcone davanti al mare, qui il cammino del suo lavoro semina i tanti motivi del prossimo viaggio, è una vera stazione, dove tiene nascosti i suoi compagni d’esplorazione, ci sono sempre tutti e non manca quell’infinito che permette di trovare il prossimo tratto. II balcone davanti al mare è forse l’ultima dimora dei pensieri, ma come dimenticare, il terrazzo sui tetti nel cuore del centro storico, le ombre forti, le tramontane, gli odori, le disciplinate armonie di quei portoni, dei portici uguali e scanditi dalla geometria storica della vecchia città. Quasi un paradosso? Il balcone davanti al mare e il terrazzo sui tetti? No! Grande guarda con occhi senza età e tempo, il suo spazio non si divide in luoghi così dissimili, trova nuova forza, soggetti e pensieri per viaggiare, contemplazioni che portano al suo pentagramma cromatico, dove dormono i “colori che servono” e si risvegliano con infinita forza e compongono il nuovo lavoro. Quanti sono i passi di cui è capace, dove sono le nuove coordinate per arrivare al prossimo tratto, sono comprese in quella miriade di sentimenti che si traducono nei due luoghi del lavoro di Grande: il paesaggio e la figura. Non riesco a contare quante volte ho cercato di razionalizzare cosa sia un paesaggio, di ricercare linee descrittive per delineare dove sia contenuto questo luogo, quale sia il rapporto tra natura incontaminata e natura dilatata dall’uomo che vive nel paesaggio. Mi chiedo se per avere un paesaggio sia in assoluto necessario avere un rapporto tra natura e uomo, se basti la prima, se l’uomo sia il vero protagonista di questo spa- 71 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 72 Luigi Grande 72 CRITICA zio che ci permette di vivere. Forse è proprio questa la dimensione da ricercare: lo spazio per vivere e interpretare la propria vita, ma questa è la cultura! Allora mi pare di raggiungere un punto d’osservazione: il paesaggio di Grande è un luogo del suo vissuto, perciò contenuto nell’arte d’interpretare la vita, la cultura. Grande accende una luce forte sul paesaggio, una determinatezza che diventa offerta di un orizzonte compiuto e comprensibile, il luogo dell’essere di questo artista è il paesaggio, dove i lati della tela raccolgono una geometria profonda, capace d’offrire diversi punti d’osservazione, tutti riconducibili al punto focale: quello del viaggio. L’arte della figura è l’altro segno del suo confronto col mondo, la figura di Grande si compone nel preciso momento che il pensiero incontra la tavola del quadro. Il primo colpo di pennello è già determinato nel qualificare l’umore di quel personaggio, che si trasforma in figura capace di portarti nella natura, nelle confidenze, Erica, 2012, olio su tela, 80x60 sotto la luna, in una festa, nel tentativo di volare. Qui le virgole non bastano per determinare i tanti sogni che diventano figure, la continua ricerca è tale da diventare solitudine, angoscia, timore in un mondo di grandissima umanità. Un tratto singolare nelle figure di Grande è lo sfocamento nel movimento, quasi una fretta del passare nel fotogramma del quadro, una potenza che appare capace di muovere l’intera opera. La sfocatura è delimitata intorno alla figura e compromette il paesaggio circostante, quasi un segno futurista, un tratto della voglia di fuggire, di scappare da quel centro che ferma il soggetto, lo blocca, lo costringe; ma il pennello di Grande libera quel senso d’impossibile fissità: la velocità diventa libertà del movimento nello spazio del quadro. Dovessi trovare una chiave di lettura nell’opera di Luigi Grande, mi soffermerei a un diapason che più volte ho cercato in questa illustrazione, si tratta dell’inciso “dei colori che servono”, di quella tavolozza capace di creare il mondo infinito dei suoi lavori, dove l’arte delle figure e il paesaggio vivono l’eternità “dei colori che servono”. 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 73 CRITICA 73 Luigi Grande Metamorfosi, 2013, olio su tela, cm 120x80 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 74 Luigi Grande 74 BIOGRAFIA BIOGRAFIA Luigi Grande è pittore, scultore, grafico. La sua prima personale risale al 1960, alla galleria il Portico di Santa Margherita Ligure; seguono poi le gallerie milanesi de “Il Giorno” nel 1964 e dell’ “Agrifoglio” nel 1970 con testo critico di Mario De Micheli. Si aggiunge negli anni alle numerose personali la partecipazione a rassegne d’arte nazionali e internazionali (Francia, Germania, Grecia, U.S.A., Finlandia). Sulla sua attività artistica figurano numerose pubblicazioni, fra cui: “Pittura tra storia ed evento” di G. Beringheli nel 1985 - “Quest’arte” libri 1987, ed. Riccitelli e “Sui ritratti di Luigi Grande” 1992 di Vico Faggi a cui seguono: “L’arte del paesaggio” e “L’arte della figura” sempre di Vico Faggi - “Moralità dell’immagine” di Giorgio Seveso, al XXIII premio Vasto di Arte e critica d’Arte 1989-1990 e “Arte italiana contemporanea” ed. “Fenica 2000”, 1994 e più recentemente “Luigi Grande” di G. F. Bruno ed. Erga 1996 - “Repertorio degli incisori italiani” ed. Faenza 1997 - “Arte contemporanea italiana, 1946-1997” ed. De Agostini 1997-1998-1999 - “Luigi Grande” di G. Seveso, Quaderni artistici Galleria Armanti, Varese 1999 - “Autoritratto d’artista” Gall. Ciovasso (Milano). Sua è la copertina di “Le parole cadute”, poesie inedite di F. Mazzi (Bastogi editore) e di “Resine”, Quaderni liguri di cultura n. 85 Sabatelli Editore. Ha eseguito varie opere pubbliche fra cui: La scultura del partigiano in Piazza Innocenzo IV, Lavagna (1975), i Cippi a Cavi di Lavagna (1988), il monumento all’emigrante a Favale di Malvaro (1989), il busto di G. Casini al parco Villa Rocca di Chiavari (1996), pittura murale a Casoli - Atri (1997). Sue opere figurano alla Galleria Civica di Arte Moderna di Gallarate, al Museo Pinacoteca di Vado Ligure, alla Collezione Grafica Comune di Bagnocavallo (Ra), al Castello di S. Pietro in Cerro (Museum in motion). 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 75 BIOGRAFIA 75 Luigi Grande Sull’opera di Luigi Grande hanno scritto: E. Alfieri, G. Arato, F. Ballero, E. Balossi, G. Beringheli, L. Bianciardi, M. Bocci, C. Boldi, G. Bruno, M. Campomenosi, P. Cavallo, G. Chioma-Sgorbini, V. Conti, M. Cristaldi, M. De Micheli, M. Deutone, V. Faggi, D. Ferin, G. Ferrera, C. Ghiglione, L. Grande, P. Guella, N. Krings, G. Latina, F. Lecca, T. Marcheselli, F. Mazzi, G. Metz, M. Milani, G. Mondello, F. Musso, N. Mura, A. Natali, A. Nobile, M. T. Orengo, S. Paglieri, D. Pasquali, F. Passoni, L. Perissinotti, F. Ragazzi, S. Ricaldone, S. Riolfo Marengo, F. Sgorbi, G. Scorza, P. Serbandini, G. Seveso, F. Sirianni, S. Solimano, R. Tomasina, D. Villani, M. Vescovo, R. Vitone. 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 76 Ugo Carmeni 76 VETRINA UGO CARMENI AL DI LÀ DELL'IMMAGINE di Andrea Rossetti Anziché restituzione oggettiva di un universo concreto, e altrettanto oggettivo, l'immagine fotografica secondo Ugo Carmeni è un campo d'azione incerto e solo parzialmente prevedibile, limbo tra coscienza e incoscienza, tra la realtà per come la vediamo e il suo prestabilito disgregarsi su un piano bidimensionale. Poco interessato a tratteggiare una linea univoca o diretta tra soggetto e resa fotografica, Carmeni è portato piuttosto ad allentare la comune tensione soggetto-trama formale, a ritoccare l'immagine dall'interno, a lavorare col suo potenziale espressivo sino a mutuarne l'oggettività in una pura percezione meta-fotografica, basata su intercessioni emotive e sugli effetti della nostra conoscenza individuale della realtà. Per inciso, va chiarito che già in tempi non sospetti (precedenti quindi al progetto Percettive) tale approccio intuitivo/meta-fotografico è stato parte fondamentale in una produzione visiva abituata a premeditare per sé sviluppi sensorio-soggettivi, così come evidenziano le alterazioni fotografiche da schermo televisivo della serie Colorbox, datata 2004-2005. Nulla ha l'obbligo di assomigliare a sé stesso, niente di quanto fissato dall'obbiettivo manifesta la minima volontà di risultare troppo stabilito: Venezia ha perso lo smalto della dinamica città turistica, Carmeni l'ha resa una laconica e riflessiva partizione cielo-mare-terra, a sua volta scomponibile nella triplicità basilare dei colori primari rosso-verde-blu (Venice RGB). Città, habitat reale per una composizione Perceptions #2, 2014, fotografia - stampa fine art su alluminio, cm 70x110 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 77 VETRINA 77 Ugo Carmeni Perceptions #1, 2014, fotografia - stampa fine art su alluminio, cm 95x145 Venice RGB, 2013, fotografia - stampa lambda su alluminio, cm 80x140 tecnico-sentimentale in cui la fedeltà al soggetto è solo un concetto parziale divenuto oggetto di calcolata contraffazione, di una manipolazione identitaria che è pari alla descrizione del tramonto osservato dall'incostante trasparenza di un finestrino segnato dallo sporco e da resti di applicazioni adesive. Oppure a quella del vaporetto deserto che filtra tra l'evanescenza materica di una paratia in vetro, con un taglio prospettico volto a scarnificare delicatamente la contorta visione spaziale immortalata nel '60 da Berengo Gardin (Venice waterscapes). 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 78 Drina A12 78 VETRINA DRINA A12 DUE PERCORSI PER LA VIA DELL’ARTE di Marco Piva Il percorso, la storia artistica di Grazia Buongiorno, in arte Drina A12, sembra la narrazione di una storia meravigliosa, magica, al confine fra la realtà e il mondo della fantasia. Eppure tutta la vicenda corrisponde a realtà. Humans Some, 2014, caffè e carta fatta a mano, cm 100x100 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 79 VETRINA Drina A12 “C’era una volta…” una cartiera del Seicento, dove una ragazza dalle forti pulsioni artistiche ritrova nello stenditoio (il luogo dove si mettevano ad asciugare i fogli prodotti nella fabbrica) delle vecchie giacenze. Mirabilia. Ecco il tesoro della favola. A questo punto, la ragazza protagonista di questa favola moderna decide di usare per i suoi lavori, le sue sperimentazioni, questo tesoro che il destino consegnò nelle sue mani. Nasce dunque il progetto “Drina A12”. Drina è un fiume della penisola balcanica che attraversa sinuoso la Bosnia Erzegovina e la Serbia marcandone la divisione o, a voler vedere la cosa da un’altra prospettiva, ne unisce in maniera indissolubile i confini. Il nome d’arte scelto da Grazia, sta a indicare la volontà di seguire un percorso, così come la A12, l’autostrada che collega Genova a Roma, la città dove, secondo il vecchio adagio, “portano tutte le strade”. C’è un che di ineluttabile in questo percorso, l’idea che tutto porti a un luogo finale, una destinazione che, per quanto riguarda Drina A12, corrisponde alla gioia negli occhi di chi osserva i suoi lavori. Le immagini, i volti ricreati tramite il dominio di mezzetinte vanno a fondersi con i numeri e con le lettere e il contrasto tra testo e immagine, così come quello tra il marrone intenso e il beige leggero, vanno a comporre l’opera vera e propria, in un trionfo di caratteri dominanti fra loro opposti, suggerendo allo spettatore l’idea che, alla fine, sia il contrasto stesso il fattore che genera un’armonia visiva di una potenza assoluta. Durante il percorso realizzativo, la fotografia, l’immagine di partenza scelta da Drina viene smembrata e ricostruita da zero. I tratti dei volti scelti vengono azzerati dall’occhio che osserva la materia e, successivamente, ricostruiti dall’occhio interiore dell’artista che li riformula seguendo la propria ispirazione. Drina vive la propria esperienza artistica come una sorta di sfida contro se’ stes- 79 Shark, 2014, tecnica mista, cm 100x100 Driniano Allen, 2014, tecnica mista, cm 40x40 sa, con la voglia di apprendere fino in fondo la conoscenza del proprio sistema realizzativo, ripartendo da zero dopo aver concluso la produzione di un’opera. Nei suoi lavori è riscontrabile la ferma volontà di far progredire il proprio percorso artistico verso una definizione ben precisa, che sia in grado di trasmettere all’osservatore sensazioni forti, contrastanti, ma che smuovano qualcosa nel profondo dell’animo di colui che ricambia gli sguardi dei volti ipnotici di Drina A12. 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 80 Emanuela Pasolini 80 VETRINA EMANUELA PASOLINI LA MISURA DELL’INFINITO di Flavia Motolese Caleidoscopie cromatiche simili a mandala di puro colore, le opere frattali di Emanuela Pasolini si schiudono nello spazio. Sono l’evoluzione artistica di ciò che potremmo definire più lontano possibile dal concetto di creatività e arte: una funzione matematica. La geometria frattale è stata introdotta dal matematico Mandelbrot per studiare tutte quelle forme naturali a cui non si possono applicare gli assiomi della geometria euclidea, perché molto più complesse e frastagliate. Que- Luna, 2012, elaborazione digitale - stampa a pigmenti in digitale su carta matt, cm 40x40 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 81 VETRINA 81 Emanuela Pasolini Marte rosso, 2012, elaborazione digitale - stampa a pigmenti in digitale su carta matt, cm 90x70 Antropomorfo, 2012, elaborazione digitale - stampa a pigmenti in digitale su carta matt, cm 40x40 sti oggetti, definiti frattali, possono essere costruiti seguendo precise regole di tipo matematico, dai grafici dei risultati di tali calcoli nascono le immagini frattali. La peculiarità dei frattali è di essere dotati di autosimilarità: ogni loro parte è simile al tutto a qualsiasi scala li si ingrandisca. Sono come una cellula iniziale, una frazione del Tutto e il Tutto stesso, inteso come unità che genera ogni cosa, possono essere, quindi, considerati la “misura dell’infinito”. Prendendo avvio da queste teorie e dalla numerologia che applica nel suo lavoro nel campo della moda, creando fantasie per un prestigioso setificio, l’artista ha decodificato delle formule in grado di tradurre la realtà in figurazioni dall’impaginazione simmetrica, caratterizzate dalla ricorrenza di linee curve spezzate e dal ritmo circolare. Gli elementi oggettivi della natura, abbandonata la loro forma riconoscibile, assumono un nuovo aspetto imprevedibile a priori anche dall’artista stessa, ridu- cendosi ad una spazialità bidimensionale dove tutto è giocato dal contrappunto di nero e bianco, colore e silhouette. Successivamente, Pasolini interviene cromaticamente sulle strutture complesse ottenute: il suo uso sapiente del colore non teme l’utilizzo di tinte vivaci, fluo o, viceversa, della loro totale assenza. Nella sua produzione è risolta, in una soluzione di continuità, il “dibattito” forma-colore, poiché la materia figurativa è spazializzata dalla fluida dinamicità delle policromie o monocromie. Quest’arte simile ad un microscopio/telescopio svela la struttura base infinitesimamente piccola che costituisce le fondamenta di ogni cosa. Una sorta di universo parallelo o di galassia sconosciuta, in cui tutto ha un aspetto diverso e misterioso. Ne scaturiscono opere dallo straordinario fascino ipnotico in cui si raffigurano sagome di vago aspetto antropomorfo o astrale, in grado di evocare un senso d’infinito e di sacralità della vita. 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 82 Gisella Penna 82 VETRINA GISELLA PENNA UN VIAGGIO di Flavia Motolese Le opere di Gisella Penna ricordano le tappe di un viaggio, artistico ed esistenziale. Hanno i colori brillanti della vegetazione e quelli caldi della terra. Tele destrutturate in cui confluiscono elementi propri della pittura, del collage e della fiber art. Le stoffe ritagliate e poi cucite insieme diventano la base su cui l’artista interviene pittoricamente e vengono scelte e utilizzate sia come puri elementi coloristici, sia come segni grafici. L’apparente spontaneità della composizione finale, dettata dalla forte carica espressiva delle sue opere, cela in realtà una genesi meditata in cui nessun elemento è casuale, ma frutto di attente scelte. Nell’opera finita, ogni dettaglio si fonde perfettamente nell’insieme annullando la distinzione tra le diverse fasi di assemblaggio ed elaborazione. L’artista è uscita dalla rigidità del quadro, scegliendo di muoversi più liberamente su un supporto duttile, agevole e maneggevole, che si presta ad un intervento gestuale spontaneo e più diretto. Un’idea di nomadismo contemporaneo, culturale più che spaziale, che rispecchia l’esigenza sem- A sea dance, 2012, tela destrutturata, cm 112x133 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 83 VETRINA 83 Gisella Penna La casa dei limoni, 2012, tela destrutturata, cm 108x156 pre più attuale di libero movimento e accessibilità. È il viaggio, infatti, la sua primaria fonte di ispirazione, inteso come esperienza di vita, in grado di arricchire, di nutrire la mente. La produzione artistica di Gisella Penna, simile ad un carnet de voyage, prende forza da una grande passione per l’arte, quasi un’urgenza quotidiana di dare forma alla propria creatività. Sensibile e acuta osservatrice, ha fatto dell’espressione artistica un mezzo di comunicazione con gli altri e una vera e propria filosofia di vita. Nelle sue opere trovano espressione raffinati estetismi, argute sintesi grafiche ed espressività primitive, tribali. La sua solida cultura figurativa e grafica dimostra una particolare attenzione ai linguaggi e alla commistione dei generi, in un continuo interscambio tra arte e vissuto. Les routes berbères, 2013, tela destrutturata, cm 200x150 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 84 Mattia Scappini 84 VETRINA MATTIA SCAPPINI SOSPESI INCANTI di Flavia Motolese Nonostante la giovane età, le opere di Mattia Scappini evocano un’atmosfera di solenne austerità di derivazione morandiana. La sua recente produzione è costituita da dittici di grandi dimensioni, in cui solidi parallelepipedi emergono dal vuoto, come presenze evocative, o galleggiano simili ad isole in uno spazio indefinito. Invertendo le due tele, la composizione iniziale lascia il posto ad una nuova immagine, creando un particolare gioco speculare: il corpo centrale che fungeva da fulcro si apre AABB, 2013, olio su tela, 125x185 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 85 VETRINA 85 Mattia Scappini 2HDPE, 2011, olio su tela, 92x250 generando una profondità di campo inaspettata, una prospettiva più complessa e articolata. Lo spettatore ha come l’impressione di trovarsi all’interno di un labirinto: le distanze si allungano e gli scenari mutano all’improvviso. Luoghi illusori in cui l’artista evita di imporre convenzioni allo sguardo limitando la raffigurazione ad una lettura univoca. La figurazione essenziale e il tonalismo, giocato sul contrasto bianco e nero e le sfumature del grigio, legano la riconoscibilità di forme primarie elementari con un senso imprecisato di sospensione temporale. Le forme architettoniche modulari che si delineano in questi spazi immobili soffusi da vago chiarore, ispirano una poetica del silenzio. L’artista si dedica ad una pittura che infonde un’idea di purezza, filtrando in modo personale la lezione dei grandi maestri del- l’arte italiana, dal Rinascimento alla Metafisica. Tutto il lavoro è incentrato sullo studio dei volumi e sulla resa delle trasparenze, di luci e ombre, che riescono a bilanciare perfettamente il rigore delle forme e un profondo lirismo. La potenza di queste visioni è la loro forza evocatrice, il loro stare a metà tra una raffigurazione oggettiva e un’apparizione, un’inesplicabile affinità con luoghi quotidiani e al tempo stesso estranei e stranianti, tracce riemerse di presenze ormai scomparse o presenza misteriosa ed impenetrabile. Paesaggi interiori ed interiorizzati che scarnificano il superfluo per penetrare il cuore sostanziale delle cose. Scappini non mostra indugi nel dedicarsi ad una pittura che è mezzo e fine di se stessa, atto meditativo e controllato gesto espressivo, in grado di dialogare con la realtà restituendone la malinconia, ma privandola di ogni prosaicità. 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 86 Satura International Contest 86 S AT U R A I N T E R N AT I O N A L C O N T E S T SATURA INTERNATIONAL CONTEST 1ST CONTEMPORARY ART CONTEST a cura di Mario Napoli Inaugurazione sabato 3 maggio 2014 ore 17:00 - Palazzo Stella 160 ARTISTI IN MOSTRA aperta fino al 14 maggio 2014 dal martedì al sabato ore 15:30 – 19:00 Genova, SATURA art gallery Posizione aperta oltreconfine per il SATURA International Contest, nuovo concorso pensato dalla galleria di Palazzo Stella per tastare con mano nuovi linguaggi visivi, pittorici e fotografici. Concentrati sulla produzione contemporanea, ma con uno sguardo intenzionato a non fare anacronistiche divisioni tra Italia e resto del mondo, poiché, col passare del tempo, risulta sempre più impossibile discernere in modo sistematico pratiche artistiche divenute interdipendenti, e, decisamente inutile, pretendere di sezionare e dividere forme espressive all’interno di un libero scambio culturale. Sta in quest’ordine di pensiero il succo dell’operazione SATURA International Contest e il motivo logico della sua presenza nel fitto calendario eventi di SATURA art gallery. Questo concorso intende puntare ad un’idea di arte “allargata” e sdoganata in tutti i suoi confini di genere, in un periodo storico che riconosce negli artisti, come anche nei fruitori dell’arte, la tendenza sempre più diretta a muoversi almeno un filo oltre il perimetro - utile, ma pur sempre restrittivo - tracciato da sistemi simbolico-comunicativi locali. Il SATURA International Contest interviene in un’epoca che reclama con fare sempre più incalzante una mentalità internazionale per non sentirsi stupidamente tagliati fuori, e che ci spinge ad essere sempre culturalmente predisposti a macinare frammenti eterogenei di semiologia estetica provenienti da ogni zona produttiva dell’arte contemporanea. Impossibile quindi che ciò avvenga senza riflettere di conseguenza sul ruolo della diversità, sulla sua capacità d’influenzare e rendere socialmente specifica la selezione nei contenuti fatta da ogni artista o gruppo di artisti. I pittori e fotografi selezionati, hanno saputo mettersi in gioco davvero, anche scavalcando, sfidando o riscrivendo le regole di una confortante cultura visiva nazionale. Per un’arte un po’ più apolide e un po’ più consapevole cittadina del mondo. A Genova. Certamente impossibile, quanto inutile, classificare gli esiti di fronte ad artisti che s’incrociano senza direttive pressanti, mostrandosi sintonici se è il caso o empatici quando questioni di affinità lo permettono. Chiamati, assieme a tutti noi, a testimoniare un’arte contemporanea divenuta questione unitaria e soprattutto transnazionale. 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 87 87 ARTISTI VINCITORI 1° Premio Pittura Daniele Duò, 1° Premio Fotografia Aurora Giampaoli, 2° Premio Pittura Maurizio Morandi, 2° Premio Fotografia NECATI, 3° Premio Pittura Luca Ricci, 3° Premio Fotografia Stefano Cacciatore, Premio della Critica Guido Alimento, Premio della Giuria Marilisa Giordano. Aurora Giampaoli, Daniele Duò, Necati e Maurizio Morandi Satura International Contest LA GIURIA di SATURA INTERNATIONAL CONTEST 2014 Marino Anello collezionista, Elena Colombo critico d’arte, Gianluca Gandolfo storico dell’arte, Ilaria Leopoldo grafico, Milena Mallamaci architetto, Marta Marin art curator, Flavia Motolese art curator, Mario Napoli presidente associazione SATURA, Mario Pepe critico d’arte, Ketlin Ribeiro Maffessoni esperta in comunicazione dello spettacolo, Marco Piva critico letterario, Andrea Rossetti critico d’arte, Laura Rudelli storico dell’arte. 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:22 Pagina 88 S AT U R A I N T E R N AT I O N A L C O N T E S T Satura International Contest 88 ARTISTI SEGNALATI Luigi Agnelli, Henri Baviera, Caterina Bruzzone, Olga Cabezas, Antonio Carbone, Lorenzo Castello, Barbara Cervio, Liliana Condemi, Andrea Connell Fantechi, Renato Dametti, Angela Di Sanza, Carmine Fiore, Maura Gamba, Metella Guglielmone, Monica Kirchmayr, Marco Lami, Maria Lepkowska, Umberto Marangoni, Attilio Maxena, Andrea Morini,Tommaso Panzeri, Luca Paramidani, Silvia Pavarini, Gisella Penna, Giorgio Piana, Stefano Prazzoli, Paola Rapetti, Consuelo Rodriguez, Silvana Romano, Piergiorgio Saccomano, Giuliana Silvestrini, Clelia Tormen, Antonio Vescina, Massimo Zilioli. Stefano Cacciatoe e Luca Ricci ARTISTI PREMIATI Rossella Baldecchi, Isabel Carafi, Marina Carboni, Ugo Carmeni, Paolo Cau, Paul Critchley, Marco De Barbieri, DRINA A12, Domenico Fatigati, Silvia Fucilli, Angelo Giannetti, Enrico Grasso, Gisela Hammer, Antonio Isacco, Massimo Shoza Longhi, Donato Lotito, Alessandro Melis, Maria Micozzi, Egle Mercedes Murgese, Giorgia Napoletano, Peter Nussbaum, José Ángel Palao, Paola Pastura, Galya Popova, Michele Protti, Brigitta Rossetti, Umberto Signa, Marcello Terruli, Stefano Torrielli, Marta Vezzoli, Paola Volpe, Elizabeth Waltenburg. Guido Alimento e Marilisa Giordano 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 89 S AT U R A I N T E R N AT I O N A L C O N T E S T zari, Carmen Lietz, Marisa Maffei, Anita Maninchedda, Gianpaolo Marchesi, Rita Melita, Tiziana Monoscalco, Valeria Morasso, Domenico Nicoletta, Annamaria Nicosia, Cinzia Oneto, Manuela Pasolini, Valentina Pavone, Adriana Pinosanu, Michela Poggio, Mirella Raggi, Fabio Ramagnano, Fabio Ricco, Stefania Rizzelli, Pietro Roca, Alessandro Rossi, Vittorio Sacco, Maryna Sakalouskaya, Vittoria Salati, Giuseppe Salvatore, Rosaria Santorelli, Sergio Sarigu, Federico Sasso, Claudio Semino, Chiara Silvano, Tatiana Serokurova, Oleksandra Simanova, Antonino Sparla - CHICO, Edoardo Stramacchia, Savina Tarsitano, Mario Tonino, Rosario Tortorella, Maria Tripoli, Cosimo Valerio, Maria Vittoria Vallaro, Paolo Viola, Rita Vitaloni, Valeria Vittani, Matteo Zallio. Rossella Baldecchi, Paola Pastura, Umberto Signa e Angelo Giannetti Satura International Contest ARTISTI FINALISTI IN MOSTRA Vicky Queen-Ann Abu, Marinella Albora, Elena Alietti, Rita Alleruzzo, Giovanni Baia, Paolo Benvenuti, Alessandra Bisi, Elisabetta Bondì, Paola Borio, Martina Bovo, Antonio Cagnazzo, Maurizia Carantani, Giuliano Castelli, Caterina Cataldi, Rossana Chiappori, Aldo Ciabatti, Patrizia Maria Cocchiarella, Jolanda Comar, Emilio Costarelli, Aurelio Cottica, Valeria Crisafulli, Egle De Nuzzo, Roberto Del Fabbro, Stefano Devoti, Francesco Disciglio, Francesco Donato, Cira D’orta, Salvatore Falco, Maurizio Falcocchio, Sibilla Fanciulli, Vilma Fanti, Cynthia Fico, Cristina Flaviano, Marcella Foresio, Saverio Galano, Eleonora Gerbotto, Anna Ghisleni, Edoardo Giavelli, Giorgio Gioia, Francesca Giraudi, Bruno Greco, Aldo La Pietra, Maria Grazia Laz- 89 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 90 I libri di Elena Colombo 90 I LIBRI DI ELENA COLOMBO I LIBRI di Elena Colombo CIELO ARIDO Emiliano Monge La Nuova Frontiera, 220 pp., 19 € “Cielo Arido” s’inserisce nel nuovo corso della letteratura ispano-americana che usa la ricchezza della parola nella testimonianza civile. Lo stile di Emiliano Monge è un flusso di coscienza che illumina a due a due i momenti fondamentali della vita di Germán Alcántara Carnero che si trasformerà da “Gringo” esiliato in terra straniera a carnefice a “Penitente” ma non riuscirà a emanciparsi dal destino inscritto nel suo nome di battesimo – che lo condanna ad essere “Fogna” e “Montone” (e quindi “sacrificio”). Le tappe dell’evoluzione non sono lineari, perché una vicenda può avere diversi inizi o non averne affatto secondo il punto di vista dalla quale la si guarda, ma le emozioni descritte sono universali e riconoscibili, ampie fino a coprire lo spettro delle esperienze possibili. Questo rende la scrittura sperimentale e ostica al primo contatto, ma anche ipnotica e avvolgente, evidenziando nel magma dei ricordi le date che, segnando la biografia individuale del personaggio, hanno modificato anche la storia messicana: una persona passa da figlio-lavoratore spaventato a genitore legato a un figlio malato. La sua disperazione senza posa replica le molte varianti del dolore per la scomparsa dei propri affetti e in lui si materializza la situazione precaria di una patria idealizzata, che sembra non esistere all’infuori del piano soggettivo. I passaggi cronologici sono repentini e innescati dal meccanismo della memoria portata dagli oggetti, ma su ogni scena domina un paesaggio polveroso e riarso, che giustifica il paragone con la prosa di Cormac McCarthy quasi che la Meseta Madre Buena – sintesi di un’intera nazione – fosse un luogo alieno quanto il suolo lunare. Allo stesso modo ricorrono spesso i cani, come alterego del protagonista: come avveniva nel film “Amores Perros di Alejandro González Iñárritu, gli animali violenti o vittime di angherie immotivate sono l’estrema rappresentazione delle pulsioni umane che qui si manifestano, deformate dal tempo, nel ragazzo che si ribella al giogo di un padre obeso e spaventoso; nel giovane che viene reclutato quasi suo malgrado in una banda di ribelli rivoluzionari; nel funzionario che entra nel sistema scoprendone i metodi brutali e infine nell’uomo stanco che cerca soltanto una tardiva redenzione. DAL VENTRE DELLA BALENA Michael Crummey Neri Pozza Editore, 374 pp., 18 € “Dal ventre della balena” è stato paragonato a “Cent’anni di solitudine” per la struttura ellittica di un racconto che attraversa le generazioni regalando al lettore un affresco magico di una piccola comunità della costa del Terranova. L’analogia regge se si considera la tecnica narrativa che si serve del realismo per descrivere i fenomeni fantastici, ma ci sono importanti differenze rispetto al romanzo latinoamericano. Come Gabriel García Márquez, in ogni sua opera Michael Crummey parte dalle leggende della sua terra e dalle esperienze famigliari per costruire un mirabolante caleidoscopio di personaggi che s’inseguono 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 91 I LIBRI DI ELENA COLOMBO la Vedova o Mary Tryphena possono riportare alla mente Ursula Iguarán, l’alone sovrannaturale di alcune situazioni è accostabile a Última, la sciamana di frontiera di Rudolfo Anaya. GOYA Tzvetan Todorov Garzanti, 293 pp., 29 € Nella sua ricerca antropologica a tutto campo, Tzvetan Todorov ci ha già abituati alle incursioni nel mondo dell’arte: con “L’arte o la vita!”, l’autore aveva esaminato la figura di Rembrandt per stabilire il nesso tra il vivere e il creare. Il fulcro del nuovo libro è Francisco Goya – uno dei più controversi protagonisti della scena culturale spagnola a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, in un periodo di grandi mutamenti sullo scacchiere politico europeo. Qui si analizza la sua doppia personalità artistica: la carriera pubblica, fatta di commissioni e ritratti intrisi di psicologia, ma soprattutto si parla della parte privata, cospicua e variegata, da molti considerata oscura ma in realtà rivelatrice. Pitture, disegni e incisioni rispondono all’urgenza emotiva di mostrare la verità del mondo, mettendo l’umanità davanti a uno specchio. Le pulsioni, la violenza, i demoni interiori fanno tutti parte di un’unica sequenza che si dipana lungo tutta l’esistenza del pittore/osservatore, diventando un catalogo da consegnare ai posteri per esorcizzare certe dolorose inclinazioni. Lo studio rileva così l’attualità dei protagonisti che tornano sulle lastre incise, negli album, nei quadri e persino sulle pareti della Quinta del Sordo. La biografia di Goya è un punto di partenza schematico Le streghe, i folli, i briganti, perdendo individualità, si trasformano in esempi universali motivati dalla contingenza sociale e trovano un’eco nel linguaggio coevo e successivo. I mostri proliferano nel genere fantastico, mescolando vero e verosimile. L’abbattimento della frontiera tra la spiegazione comune e quella sovrannaturale è il filo conduttore che inserisce questo saggio sia nella critica letteraria sia nella semiotica ma, nelle opere precedenti l’attenzione di Todorov si era concentrata su personalità a che avevano ricercato la Bellezza sublime, ora egli – come già aveva fatto Eco – descrive un processo inverso che conferisce dignità anche alla Bruttezza. L’apparato iconografico è fondamentale in questo percorso ma purtroppo l’edizione cartacea spesso non rende giustizia al tratteggio degli I libri di Elena Colombo lungo il cerchio chiuso del tempo, però i riferimenti geografici e cronologici collocano il villaggio del clan Devine in un luogo preciso e identificabile, forse isolato quanto Macondo a causa dell’inclemenza del clima, ma non separato dalla Storia mondiale. Questo caratteristico parallelismo tra mito e verità unito al paesaggio gelido non richiama i colori sgargianti dei Caraibi colombiani ma piuttosto un altro scrittore dell’estremo del pianeta: Francisco Coloane con le sue cacce ai cetacei e agli indigeni fueghini. Il forte valore allegorico dei protagonisti è certamente un altro elemento che rievoca il boom sudamericano: come Melquíades o José Arcadio Buendía, il Giudeo è immune allo scorrere degli anni, ma in questo caso, l’uomo muto e albino scaturisce misteriosamente dalla pancia di una balena spiaggiata, con un eco biblico che ritorna lungo tutto il libro e si accompagna ai classici della letteratura di mare – da Samuel Taylor Coleridge a Herman Melville. L’autore suggerisce che la parola – sotto forma di parabola, proverbio o tradizione orale – è il principio che plasma l’ambiente e l’identità. Ciascuna generazione trae linfa dalla precedente e i segreti del passato si riaffacciano sul presente diventano omissioni innegabili, sul filo dei fondamenti morali tramandati dalle donne. Si sviluppa così un albero genealogico ricco di figure femminili carismatiche e, se 91 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 92 I libri di Elena Colombo 92 I LIBRI DI ELENA COLOMBO originali e i dettagli si confondono con la trama della carta. I RAGAZZI BURGESS Elizabeth Strout Fazi Editore, 445 pp., 18,50 € Reggendosi su momenti d’incredibile lirismo, il realismo di Elizabeth Strout descrive la realtà poliedrica dell’America contemporanea, preda di un sistema parassitario che spinge le persone a nascondere gli istinti. Nel quadro ci sono sia i colori del Maine di David Henry Thoreau sia quelli della grande metropoli, vista come la gabbia dorata dell’alta borghesia, analizzata con il taglio brillante di Francis Scott Fitzgerald. Nella dinamica centro/periferia s’inserisce però un elemento esterno che rischia di destabilizzare gli equilibri relazionali: l’arrivo di una comunità di somali nel cuore dello “Stato più bianco dell’Unione” crea tensioni e pregiudizi difficili da superare, mettendo in luce un’incomunicabilità di fondo che un tempo aveva caratterizzato i rapporti tra i ceti sociali. Un episodio – apparentemente a sfondo razzista – costringe Jim e Bob Burgess, rampanti professionisti newyorkesi, a tornare al loro paese d’origine per raggiungere e aiutare la sorella che, essendo rimasta a Shirley Falls, non è riuscita a trovare la propria strada. I disagi adolescenziali di suo figlio Zachary costringono i protagonisti a fare i conti con un passato segnato da un incidente di cui tutti e tre si credono colpevoli. Il triangolo tra fratelli si allarga ai diversi modelli di famiglia, ognuno con le sue disfunzioni e le sue fratture interne. La scrittrice padroneggia una tecnica narrativa che raggiunge vette di chiarezza lirica impressionanti, superando decisamente le ambizioni di “Pastorale Americana” di Philip Roth. Il paragone tra i due non rende giustizia: in “I Ragazzi Burgess” ogni frammento della situazione attuale riporta a galla un ricordo. Si genera così una parziale ricomposizione del puzzle, secondo una struttura che è insieme fattuale ed emotiva. Le scene si dispiegano davanti agli occhi del lettore come dipinti di Edward Hopper ma, accanto alla lezione appresa dai maestri statunitensi del cromatismo, coesiste un’attenta caratterizzazione dei personaggi che avvicina l’autrice – Premio Pulitzer del 2009 – ai migliori romanzi di Jonathan Franzen: nessuno può essere considerato totalmente buono o totalmente cattivo; nessuno è vincente al cento per cento. IL BORDO VERTIGINOSO DELLE COSE Gianrico Carofiglio Rizzoli, 315 pp., 18.50 € “A noi preme soltanto il bordo vertiginoso delle cose” è un verso del poeta romantico Robert Browning ; ed è da questo orlo metafisico che si parte (o si arriva?) leggendo l’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio, basato su un’originale costruzione letteraria: la scelta del “tu” come narratore straniante, che indica la scissione psicologica del protagonista. Ci vuole un po’ di tempo per capire che l’uomo al bar e il ragazzo che frequenta il liceo a Bari sono la stessa persona, perché una notizia di cronaca spinge lo scrittore in crisi quasi cinquantenne Enrico a fare i conti con il passato, ritrovando frammenti di memoria che credeva ormai perduti, scoprendo che nessuno può davvero ignorare le proprie radici. C’è qualcosa che 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 93 I LIBRI DI ELENA COLOMBO spezzando il flusso della matita che sottolinea. IL GIOCO DI RIPPER Isabel Allende Feltrinelli, 465 pp., 18,50 € Il Gioco di Ripper presenta Isabel Allende nell’inedita veste di giallista e conferma la sua capacità di innovarsi senza mai snaturarsi, nemmeno in questo nuovo contesto totalmente statunitense, che sembra prendere spunto dalla narrativa visuale delle serie televisive. La scrittura cinematografica e gli incastri logici della trama cercano una via alternativa per affrancarsi dalla’etichetta del “realismo magico” , che continua ad accompagnare gli autori ispanoamericani come una scomoda pietra di paragone. Il risultato è un romanzo di ottima levatura stilistica (difficile da trovare in questo tipo di libri), che si nutre dell’influenza del marito Will Gordon, discepolo dichiarato di Maugham, ma avvicinandosi alla penna di Claudia Piñero, aggiunge sensibilità femminile agli schemi del genere. Indiana si occupa di aromaterapia in un clinica olistica e, dato che lo scenario è una San Francisco cosmopolita, il primo riferimento che salta in mente è forse quello più ellittico, ossia “La Maga delle Spezie” di Divakaruni. Nel panorama mutevole della baia si muove una carrellata di personaggi con una buona definizione psicologica: i pazienti della dottoressa, la sua famiglia, gli uomini della sua vita, descritti con freschezza e attenzione ai dettagli. La maestria si nota nello studio dei particolari paesaggistici e sociali, inseriti per dare verosimiglianza all’ambientazione, mentre le citazioni colte sono usate con leggerezza parsimoniosa, senza appesantire mai il testo che resta teso in un viluppo fino alle ultimissime pagine. La figlia di Indiana, Amanda indaga su una serie di macabri omicidi insieme ai suoi amici, in un gioco di ruolo virtuale che, partendo dal celebre caso dello Squartatore, applica le regole della deduzione all’urgenza del presente. Altro elemento interessante, nato dalla tradizione letteraria, è la struttura compositiva pensata come una cronaca scandita giorno per giorno, parte integrante di un testo ancora in divenire ideato dal nonno di Amanda, Blake Jackson. Da gennaio ad aprile, le morti si susseguono senza che la polizia riesca a mettere insieme i tasselli di un quadro d’insieme complesso che svelerà l’identità di un unico (?) assassino. I libri di Elena Colombo rievoca la malinconia di Sandro Veronesi o addirittura lo scenario emotivo di “I Ragazzi Burgess” di Elizabeth Strout: è necessario riconsiderare le origini per vincere i traumi che forgiano il carattere. La ricerca e la rielaborazione dei fatti non hanno solo una corrispondenza spaziale nello spostamento topografico in giro per la città, attraverso i luoghi che erano stati familiari e che si sono trasformati negli anni, ma anche un valore simbolico, dato che ritornando sui propri passi non si ricavano mai le stesse sensazioni. Questo nuovo anti-eroe è vicinissimo a Roberto di “Il Silenzio dell’Onda”, ma qui c’è una maggior profondità, una nostalgia evidenziata dalla puntualità della colonna sonora. Man mano che la trama s’infittisce, i tasselli s’incastrano mostrando – o meglio, suggerendo – vari livelli di complessità: da un lato l’universo soggettivo, e dall’altro una situazione sociale pervasa da una violenza collettiva, non banalizzata, connaturata al quotidiano, che richiama certe pagine di Saviano o di Ammaniti. Si procede per epifanie, con un’attenzione al linguaggio che produce piccoli finali fulminanti, fino all’accettazione del rimosso che forse porterà il ghost writer ad abbandonare l’anonimato per rispondere all’urgenza di raccontare una storia ma, come Muriel Barbery, l’autore cede alla tentazione didascalica della spiegazione filosofica e a volte scivola leggermente proprio sulle parole 93 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 94 I libri di Elena Colombo 94 I LIBRI DI ELENA COLOMBO LA NOSTRA GANG Philip Roth Einaudi, 173 pp., 18 € “La Nostra Gang” è un pamphlet satirico, scritto da Philip Roth già nel 1971 – prima dello scandalo Watergate che pose fine all’era Nixon – ed è quindi stato considerato profetico per i suoi tratti dissacranti. In realtà, al di là del suo valore documentale, esso può essere letto a due livelli: da un lato c’è il suo valore contingente, che lo colloca all’interno di un contesto definito e riconoscibile; ma abbiamo anche un piano universale, che mostra in maniera inclemente i meccanismi occulti del linguaggio politico. È la messa inscena di uno svelamento antropologico, la spettacolarizzazione dei processi studiati da Weatherford nel suo saggio sui “clan” di Capitol Hill. Tuttavia, per giungere all’eccellenza letteraria della “Animal Farm” di George Orwell, manca quello scatto che eleva i concetti oltre il particolarismo storico. Non c’è una storia di fondo che costruisca umanamente i personaggi e quindi rimane solo la difficoltà di orientamento, senza il coinvolgimento emotivo che si ha ad esempio guardando l’ottima serie televisiva “The Newsroom” di Aaron Sorkin, incentrata su un gruppo di giornalisti. In altre parole, questo testo resta sempre troppo legato alle questioni statunitensi perché possa arrivare a un pubblico più vasto. È un handicap che limita tutta la prolifica produzione dello scrittore, spesso focalizzato sulla borghesia americana e soprattutto sulla comunità ebrea, però qui – a differenza di quanto avviene nei romanzi – non c’è il supporto di una vera e propria trama e l’abbondante chiosa delle note rallenta il ritmo dello stile volutamente teatrale. LA REGINA SCALZA Ildefonso Falcones Longanesi, 704 pp., 19.90 € Ildefonso Falcones ci ha abituato ai grandi affreschi storici in cui le storie dei singoli s’intrecciano con la Storia ufficiale. Attraverso i secoli, gli scenari si spostano sulle strade di Spagna, reinventando i canoni del romanzo picaresco. Ogni opera getta un fascio di luce sulla molteplicità di un’anima nazionale che si è sempre considerata unitaria. “Nessuna cultura è un monolite” dicono gli antropologi. Così i personaggi dell’autore catalano sono figure apparentemente marginali, sono gli umili che si rivelano essenziali nel tessuto del quotidiano: dai lavoratori di fatica di Barcellona fino ai mori cacciati nel XV secolo, il nuovo tassello del mosaico descrive la comunità dei gitani e la lunga persecuzione subita da questo popolo. Sullo sfondo dei cambiamenti sociali del Settecento, sono le donne a possedere la chiave per risolvere le situazioni più intricate, dispiegando un grande canto sulla libertà. Ciascun dettaglio è stato verificato con attenzione didascalica, sfruttando la polifonia delle fonti. Le trame, costruite con una sapienza e un ritmo cinematografico, sono ispirate ai fatti delle antiche cronache andaluse ma riecheggiano la sensualità della Carmen di Mérimée. La ricchezza delle pagine evidenzia due elementi contrastanti: da un lato abbiamo la violenza che regola i rapporti tra i sessi e le antiche leggi mostrate anche dai film di Gatlif; dall’altro la repressione morale diffusa a tutti i livelli del vivere comune. La parabola di Milagros la 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 95 I LIBRI DI ELENA COLOMBO 95 QUASI MAI Daniel Sada Del Vecchio Editore, 437 pp., 16 € Daniel Sada è una rivelazione o una maledizione per il lettore. È un labirinto d’invenzioni linguistica dal gusto barocco e modernista, paragonato allo stile fiorito di José Lezama Lima o Severo Sarduy ma i commentatori hanno notato una sostanziale differenza geografico-paesaggistica: mentre la ricchezza degli scrittori cubani si nutre dell’esuberanza dei Caraibi, i personaggi di “Quasi mai” si muovono nella polvere del Messico anni Quaranta. Le digressioni erotiche servono a tracciare un complesso affresco sociale che mostra un Paese in corsa verso la nuova industrializzazione. Demetrio è un agronomo – figura volutamente arcaica e fuori contesto – che cerca l’appagamento personale nell’esperienza sessuale, senza però trovare sbocchi per il futuro: il suo percorso è fatto di occasioni mancate e di contrapposizioni fittizie. Da un lato l’amore libero e disinibito dei postriboli – eco delle molte storie di mitiche prostitute letterarie – dall’altro la visione angelicata del pudore, rappresentato dal matrimonio con la bella e immacolata Renata. Sullo sfondo dei cambiamenti culturali di un’intera nazione, le vicende private di un uomo sono lo specchio della collettività e i rapporti di coppia distorti dal desiderio sembrano derivare direttamente dall’attaccamento morboso delle relazioni madre/figlio. Mamma, zia, suocera sono una sacra triade che deforma lo sguardo verso l’esterno e costringe il protagonista a una continua fuga da se stesso, sulle strade aride dello Stato di confine di Coahuila. L’inadeguatezza di Demetrio lo spinge a volere l’isolamento e poi a rifiutarlo perché, come lo Zeno di Italo Svevo, non può venir a patti con la propria debolezza. Parlando di America Latina, è quasi inevitabile tentare il parallelo con il realismo mágico di Gabriel García Márquez, ma qui la costruzione poetica è ancora più estrema, levigata con il cesello di un lessico inventato ad hoc, secondo un progetto ambizioso che è valso all’autore il Premio Herralde de Novela e addirittura il Premio Nazionale del Messico per le Arti e le Scienze. Un plauso particolare, quindi, va al traduttore Carlo Alberto Montalto che si destreggia abilmente tra ispanismi, messianismi e “sadismi”. I libri di Elena Colombo Scalza, acclamata nei teatri della capitale e vessata dal marito, sono lo specchio pubblico delle ingiustizie sopportate da un’etnia che ha rifiutato con fierezza la condizione di degrado della schiavitù. Come simbolo di quest’orgoglio che non si piega di fronte alle avversità, Ana Vega e suo padre Melchor trovano un completamento nella figura di Caridad, una negra giunta dalle piantagioni di tabacco di Cuba per imparare come gestire una femminilità gioiosa – che non conosceva – e una nuova indipendenza. Si crea una continuità tra la tradizione e l’attualità osservata Caterina Pasqualino tra i “flamencos” del sud e, grazie all’universalità delle emozioni, la lettura è coinvolgente e appassionante. 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 96 Andando per mostre 96 ANDANDO PER MOSTRE ANDANDO PER MOSTRE GIANNI BERENGO GARDIN Storie di un fotografo G. Berengo Gardin, Porto di Genova con la Lanterna A un passo dal luogo natio, in versione rinnovata e arricchita rispetto alle precedenti mostre, un’affascinante retrospettiva, a cura di Denis Curti, dedicata a Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure/GE 1930) noto in Italia e all’estero come un poeta che tramite la fotografia coglie con occhio sagacemente benevolo i migliori frammenti d’Italia (Milano, Venezia, Liguria, la Biennale di Venezia, i manicomi con la legge Basaglia…) e del mondo (Gran Bretagna,Vienna…). 200 splendide stampe analogiche in bianco e nero - perché “sono due bei colori, per non dire del grigio che è un colore bellissimo” e ancora “il colore distrae il fotografo e chi guarda” come sostiene il Maestro-scattate dal 1969 al 2002, appositamente selezionate per questa mostra e comprensive di alcuni inediti ripercorrono il cammino umano e professionale di questo artista alla ricerca di un racconto obiettivo e veritiero che restituisca l’immediatezza del vivere e la sintonia con gli altri nella ricerca di emozioni indimenticabili da portare nella memoria e nel cuore. Indirizzatosi alla fotografia dal 1954, dopo avere vissuto a Roma, Venezia, Lugano e Parigi, nel 1965 si stabilisce a Milano e fa di quest’arte la propria professione dedicandosi a reportage, documentazioni di architettura e ambiente, indagini di Wanda Castelnuovo sociali… pubblicati sulle più importanti testate della stampa nazionale e internazionale e realizzando più di 200 libri fotografici, ricevendo numerosi premi e riconoscimenti di prestigio in ogni dove. Senza trascurare le foto note e meno note come quella che coglie l’intima tranquillità di un pastore al pascolo (Vercelli 2009) mentre cura il fuoco sotto lo sguardo vigile di uno dei cani, respiriamo l’anima di Genova secondo Gardin: un omaggio affettuoso con una spruzzata di nostalgia all’operosità del porto, che ha fatto la fortuna della città, con navi e lavoratori, alle strade, alle case e alla Lanterna, simbolo pulsante di una popolazione che vuole stare al passo con i tempi. ↪ Genova: Sottoporticato di Palazzo Ducale, Piazza Matteotti 9 10:00-19:00 da martedì a domenica; 14:00-19:00 lunedì; biglietteria chiude un’ora prima Fino all’8 giugno 2014 Biglietto mostra: intero € 11.00, ridotto € 9.00/4.00 Info e prenotazioni: 199 15 11 15, www.mostraberengogardin.it Catalogo: Marsilio Editore CAMPIGLI Il Novecento antico La splendida Villa dei Capolavori, sede della Fondazione Magnani Rocca, presenta articolate in cinque sezioni più di 80 opere (oltre ai mosaici allestiti in giardino) realizzate tra gli anni ’20 e ’60 da Massimo Campigli (Berlino 1895 – Saint Tropez 1971) il cui vero nome era Max Ihlenfeld. Tale notizia di carattere biografico emersa recentemente è essenziale per la comprensione della sua poetica rivelando un mistero celato per anni: figlio di una berlinese diciottenne non sposata, è portato in Italia per evitare lo scandalo e ripreso dalla madre quando nel 1899 questa si sposa con un commerciante inglese, ma si finge sua zia, segreto che il giovane scopre casualmente a 14 anni. Di carattere solitario, formatosi un’ampia e profonda cultura (conosce cinque lingue), può essere definito un europeo nel senso moderno 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 97 ANDANDO PER MOSTRE Massimo Campigli, Scalinata ↪ Mamiano di Traversetolo/PR, Fondazione Magnani Rocca, Via Fondazione Magnani Rocca 4 10:00-18:00 da martedì a venerdì; 10:0019:00 sabato, domenica e festivi; la biglietteria chiude 1 ora prima Fino al 29 giugno 2014 Biglietto mostra: € 9.00 comprensivo delle Raccolte permanenti, scuole € 5.00 Info e prenotazioni: tel. 0521 848327/848148, www.magnanirocca.it Catalogo: Silvana Editoriale COME ESSERE uN uOMO? Il ‘sesso forte’ nell’antichità Un episodio della vita degli eroi, la cerimonia della vestizione L’intrigante mostra organizzata dal Museo delle Antichità di Basilea (unico in Svizzera dedicato solo all’antichità classica) non si limita a presentare una serie di testimonianze, in questo caso dell’Antica Grecia, come memoria di un passato, ma opera un interessante paragone con un presente mutevole per quanto riguarda l’idea di virilità, nell’immaginario collettivo legata a forza, razionalità, coraggio, libera sessualità e soprattutto nessuna indulgenza verso alcuni atteggiamenti ‘deboli’ come piangere o fare lavori domestici. Oggi qualcosa è cambiato e il dedicarsi alla casa e alla prole non pare almeno per alcuni essere una deminutio così come non lo era piangere e mostrare dolore nell’Ellade e in particolare nell’Atene dal 550 al 330 a. C. Attingendo una serie di testimonianze dal ricco patrimonio del museo, l’esposizione racconta il dipanarsi della vita dell’uomo dall’infanzia e lungo il periodo delicato della formazione adolescenziale fino al passaggio rituale all’età adulta con gli impegni della vita pubblica e di quella militare, della religione, dello sport e della sessualità fino alla vecchiaia e all’epilogo della vita, il tutto illustrato tramite statue, vasi dipinti e rilievi in cui il modello si rifà spesso al Canone di Policleto. Andando per mostre del termine e, dopo essere stato reporter a Parigi per il ‘Corriere della sera’, diviene non solo pittore connotato da mistero, magia, geometria, memoria e simboli, ma anche scrittore raffinato e riservato. Fondamentale nel suo percorso il 1928 quando a Roma è affascinato dai reperti etruschi del Museo di Villa Giulia e dai ritratti romani del basso impero delle Terme di Diocleziano: influenze determinanti nella sua analisi anche dell’archetipo materno e dell’eterno femminino di cui elabora uno stereotipo con il busto stretto, a clessidra quasi a indicare lo scorrere del tempo. Elemento centrale della sua poetica è quindi la donna o meglio tante donne raffinate, signore eleganti, belle, famose, decorate da gioielli e inserite in un’architettura precisa, ma misteriosamente prigioniere, immobili, sconosciute, distanti e sfuggenti come quelle che salgono silenziose la Scalinata. Noto ritrattista dallo stile particolare come nel Ritratto di Olga Capogrossi, icona della mostra, Campigli diventa famoso in tutto il mondo anche grazie a committenze private e pubbliche tra cui i quattro splendidi affreschi realizzati tra il 1933 e il 1940 per la Triennale di Milano. 97 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 98 Andando per mostre 98 ANDANDO PER MOSTRE Tappe scandite da considerazioni che inducono a riflettere a cominciare dalla statua del Dio Ermafrodita con caratteristiche fisiche maschili e femminili fino alle abitudini erotiche come la pederastia assolutamente normale (condannata invece l’omosessualità tra uomini) in una cultura in cui l’adulto ha la funzione di trasmettere valori al giovane. A livello pubblico la donna salvo sacerdotesse ed ‘etère’ è inesistente a vantaggio del maschio, protagonista vezzeggiato anche quando si prepara al combattimento come racconta Un episodio della vita degli eroi: la cerimonia della vestizione (550/540 a.C.) raffigurato su un’anfora da vino proveniente da Atene. Un percorso avvincente per comprendere il presente attraverso il passato. ↪ Basilea: Antikenmuseum Basel, St. Alban-Graben 5 10:00-17:00 da martedì a domenica Fino al 21 aprile 2014 Biglietto mostra: intero frs 20, ridotti frs 18/5 Informazioni e prenotazioni: 0041 (0) 612011212, www.antikenmuseumbasel.ch Catalogo: Antikenmuseum Basel e Sammlung Ludwig Editori Le maschere sorprendenti JAMES ENSOR Un’appassionante scoperta James Ensor (Ostenda 1860 -1949), visionario artista belga - di padre inglese e madre fiamminga formatosi prima nella città natia, cui rimane sempre profondamente legato vivendoci solitario e introverso e trasformando la mansarda in studio, e poi a Bruxelles - che con il suo stile ironico, fantastico, stravagante e provocatorio a volte fino all’aggressività ha influenzato artisti del XX secolo quali Alfred Kubin, Paul Klee, gli impressionisti tedeschi e i surrealisti che lo hanno considerato un precursore per le tematiche relative all’assurdità della nostra esistenza. La mostra di Basilea con un centinaio di opere tra dipinti (circa la metà), disegni e grafica provenienti dal Museo Reale delle Belle Arti di Anversa (attualmente in ristrutturazione) e da collezioni private svizzere offre un’esaustiva panoramica sull’attività di Ensor dagli inizi quando soggetti preferiti sono stupende marine, la stagione balneare con l’incantevole Badenwagen, solitaria ‘cabina da mare’ (ancora in uso oggi sulle estese spiagge del Mare del Nord), fino agli interni, alle nature morte e alla celebre fase del grottesco con bizzarre maschere carnevalesche (pertinente tale esposizione proprio nella città che vanta uno dei carnevali più celebri, singolari e affascinanti al mondo) e agli ultimi lavori. Le maschere appartenenti alla tradizione europea e asiatica sondano gli abissi dell’animo smascherando l’inutile vanità, la stridente assurdità della vita umana e i supposti intrighi del mondo artistico contro di lui come nello spettacolare e colorato L’intrigo, evidenziando una critica sociale non avulsa da comicità e insieme una notevole raffinatezza compositiva. Dopo notevoli difficoltà, Ensor, ondeggiante tra narcisismo come testimoniano i numerosi Autoritratti e frustrazione, riesce a vedere l’agognato successo con le sue opere acquistate anche da Istituzioni pubbliche e ad assistere all’inaugurazione a Ostenda di un monumento in suo onore. James Ensor, L’intrigo ↪ Basilea: Kunstmuseum, St. Alban-Graben 16 10:00-18:00 da martedì a domenica. Biglietto mostra: intero Fr. 21, ridotto Fr. 16, ridotto scuole Fr. 8 Fino al 25 maggio 2014 Informazioni: 0041 (0)61 2066262, www.kunstmuseumbasel.ch Catalogo: Hatje Cantz Editore 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 99 ANDANDO PER MOSTRE Lorenzo De Simone, Italia in bicicletta In occasione del 120° anno di fondazione del Touring Club Italiano gli affascinanti ambienti del Palazzo della Ragione (il secondo dei tre broletti milanesi, quello ‘nuovo’, centro della vita cittadina dal secondo quarto del XIII secolo al XVIII quando cambia destinazione d’uso ed è soggetto a numerose trasformazioni) presentano un suggestivo percorso interattivo sonoro e visivo - organizzato dal prestigioso Studio Azzurro - della Storia d’Italia attraverso l’evoluzione dell’esperienza del viaggio protagonista proprio negli ultimi 120 anni della più veloce trasformazione mai sperimentata dall’uomo. Oltre un secolo di eventi e progresso documentato tramite immagini e testimonianze a cominciare dalla mitica bicicletta - emblema di sviluppo a fine ‘800 e ancor di più oggi se si organizzasse a Milano e non solo una razionale rete ciclabile adatta alla sua natura pianeggiante - fino al nascere degli altri mezzi di locomozione e al loro evolversi. Una storia del turismo, prima riservato a pochi e oggi esperienza collettiva comunque sempre foriera di arricchimento e crescita, che inizia con una strada sterrata, si trasforma in asfaltata, in ferrata (lente o veloci) e poi in acqua e infine nell’aria solcata da aerei sempre più tecnologici e complessi. Una scoperta anche tramite una ‘cartellonistica’ in fieri di località illustrate da guide: è di 100 anni fa la prima voluta e curata da Luigi Vittorio Bertarelli, fondatore del Touring Club Italiano, che ha ideato la collana delle gloriose Guide Rosse con cui il ricco e variegato patrimonio del made in Italy è stato disvelato a un largo pubblico. Una ricchezza dinamica fatta di un capitale naturale, artistico, culturale ed enogastronomico assai sfaccettato e dai multiformi aspetti: dall’artigiano alla piccola realtà produttiva che hanno profondamente trasformato la nostra Penisola, un tesoro che deve essere fatto conoscere all’interno e all’estero in modo che l’Italia ritorni a essere meta primaria del turismo. ↪ Milano, Palazzo della Ragione, Piazza Mercanti 1 14:30-19:30 lunedì, 9:30-19:30 martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica, 9:30-22:30 giovedì Fino al 25 maggio 2014 Ingresso gratuito Info: 840 888802, www.touringclub.it Catalogo: Silvana Editoriale LA RAGAzzA CON L’ORECChINO DI PERLA Vermeer, La ragazza con l'orecchino di perla L’ampliamento a L’Aia del Museo Mauritshuis - maestosa dimora classicheggiante secentesca, ricostruita ex novo salvo le mura esterne dopo l’incendio del 1704 e trasformata nel 1822 in sede dei “Gabinetti reali dei dipinti e curiosità” chiuso fino al prossimo 27 giugno ha Andando per mostre IN vIAGGIO CON L’ItALIA 99 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 100 Andando per mostre 100 ANDANDO PER MOSTRE permesso il prestito alla dotta Bologna, culla della cultura universitaria mondiale, di 37 opere “Da Vermeer a Rembrandt” (come recita parte del sottotitolo), appartenenti al ‘600, definito il ‘secolo d’oro’ olandese grazie all’eccezionale sviluppo di scienze, arti e commerci internazionali. Palazzo Fava, scrigno prezioso, permette di conoscere lavori di straordinaria qualità messi un po’ in ombra dalla presenza de La ragazza con l’orecchino di perla, uno dei capolavori di Johannes Vermeer (Delft 1632 -1675), assurta a icona mondiale per il fascino della fanciulla che guarda chi la ammira con i suoi lucenti occhi grigio azzurri. Di questo splendido primo piano (tronie come si chiamano questi modelli immaginari e anonimi anche se partono dalla realtà) stupiscono il serico incarnato, le labbra socchiuse e lucide, l’esotico turbante orientaleggiante (non di moda all’epoca in Olanda) e la perla piuttosto grande, in uso allora, preziosa e rara se vera o di vetro di Venezia verniciato se finta e comunque affascinante per la luce raffinata che esalta la luminosità del volto. Meritano, però, attenzione tutte le tele presenti come Diana e le sue ninfe, forse la prima di Vermeer (di cui rimangono solo 36 opere), di grandi dimensioni e dalla tematica storica a dimostrare l’ambizione dell’artista, e inoltre interni con figura, nature morte e ritratti tra cui affascinante per il suo realismo il Ritratto di uomo anziano (di Rembrandt van Rijn: Leida 1606 - Amsterdam 1669) sereno e rilassato e dagli abiti trasandati così diversi da quelli eleganti e di moda dipinti da Anthony van Dyck e La vecchia merlettaia, rappresentata con rispettosa dignità da Nicolaes Maes, valido allievo di Rembrandt. ↪ Bologna, Palazzo Fava Palazzo delle Esposizioni, Via Manzoni 2 9:00-20:00 da lunedì a giovedì; 9:00-22:00 venerdì e domenica, 9:00-23:00 sabato Fino al 25 maggio 2014 Biglietto mostra senza prenotazione: intero € 12.00, ridotto € 9.00/6.00 Info: tel. 051 19936305, www.genusbononiae.it Catalogo: Linea d’ombra Editore LIONE, CENtRO DEL MONDO! L’esposizione internazionale urbana del 1914 Un affascinante tuffo nel passato per rivivere i fasti dell’Esposizione Internazionale Urbana organizzata a Lione da maggio a novembre 1914 su una superficie di circa 75 ettari con 27.000 m² dedicati ai pomposi padiglioni delle Nazioni - esteso e notevole il Padiglione della Germania - che espongono il meglio di quanto prodotto da oltre 17.000 aziende per rispondere al tema sull’igiene e sul necessario progresso sociale. Il sogno è nelle mani di quattro personaggi illuminati: Edouard Herriot (senatoresindaco di Lione), Jules Courmont (Professore di igiene alla facoltà di medicina), Louis Pradel (Vicepresidente della Camera di Commercio di Lione) e Tony Garnier, architetto che aspira a realizzare una città industriale, espressione in quell’epoca di modernità. La mostra racconta ambizioni, obiettivi, finanziamenti, organizzazione e modelli dell’Expo rivelandone anche il carattere politico e internazionale e mettendo in luce la genialità entusiasta di Tony Garnier oltreché i grandi festeggiamenti per l’inaugurazione e per la visita ufficiale del Padiglione Germania, Expo 1914 Presidente Poincarè fino alla dichiarazione ufficiale di guerra del 3 agosto 2014 e alla partenza delle nazioni nemiche. Se importanti sono imprese, industrie, turismo con la ricostruzione di un villaggio alpino e gastronomia con il Palazzo dell’Alimentazione, una moderna azienda agricola e una sezione di orticoltura, il fulcro dell’attenzione è rappresentato da salute pubblica, lotta contro le malattie, 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 101 ANDANDO PER MOSTRE LuPO ALBERtO 40 ANNI I 40 anni di Lupo Alberto di Silver 40 anni e non li dimostra Lupo Alberto (e tutta la Fattoria McKenzie) - simpatico e dolcissimo amico uscito dalla fertile fantasia e dall’abile mano artistica di Silver, pseudonimo del bravo Guido Silvestri (Modena 1952) - di cui nel 2014 ricorre l’importante compleanno che oltre a Genova sarà celebrato anche in altre città italiane. Lo straordinario lupotto azzurro compare sul Corriere dei Ragazzi nel 1974 e da quel momento le sue storie costituiscono una compagnia fidata per generazioni attraverso strisce, libri, il Mensile di Lupo Alberto (pubblicato dal 1985), diari scolastici con cui consolarsi di tediose lezioni… insomma un mondo che diverte in modo intelligente e controcorrente. L’entusiasmante e spassosa mostra con originali e memorabilia racconta le gesta del bizzarro anti-eroe, imperfetto come ciascuno degli individui che indipendentemente dall’età si identificano con lui, modello da seguire per la bontà di fondo, l’altruismo e il coraggio con cui si rialza con entusiasmo dopo essere stato malmenato fisicamente dal coriaceo cane Mosè e dialetticamente dalla logica stravagante, ma ferrea di Enrico la Talpa, anche se il suo creatore sostiene che il nostro amabile alter ego è cambiato non solo nell’aspetto, ma anche nel carattere. Come potrebbe perdere fascino un lupo che invece di mangiarsi le galline, come succede a tutti i suoi simili, s’innamora, contrastato da Mosè, della gallina Marta, di buona famiglia, di indole amabile e con la testa sulle spalle - una vera “gallina d’oro” che lo contraccambia? Un mondo senza pregiudizi in cui non conta l’aspetto, ma quello che si è e la fattoria è popolata da esseri diversi e contradditori (esattamente come il pianeta umano) dove il maiale Alcide può essere l’intellettuale e il filosofo del gruppo che ne accetta i sermoni anche se Glicerina, papero ignorante e privo di morale, gode nel ferirlo, ma è suo inseparabile compagno, e nel quale tutti vorremmo entrare per partecipare alla Festa per i 40 anni! ↪ Genova: Museo Luzzati, Porta Siberia, Area Porto Antico 6 10:00-13:00 e 14:00-18:00 da martedì a venerdì; 10:00-18:00 sabato e domenica Fino al 21 settembre 2014 Biglietto mostra: € 5.00, gratis fino a 6 anni Informazioni e prenotazioni: 010 2530328, www.museoluzzati.it Catalogo: Sagep Editore MAtISSE, LA FIGuRA La forza della linea, l’emozione del colore Henri Matisse (Le Cateau-Cambrésis 1869 – Nizza 1954), incisore, illustratore, scultore e pittore inizia verso il 1890 il suo percorso artistico a Parigi studiando pittura e legandosi con Albert Marquet, André Derain e Maurice de Vlaminck dalla cui Andando per mostre ospedali, trattamento delle acque, protezione dei minori… Determinante l’aspetto artistico: dai mobili (nell’occasione è mostrato per la prima volta dal 1830 il letto di Luigi XVIII, ora al Louvre) alle eccezionali sete di Lione, alle ceramiche di Sèvres e se il Salon dei pittori mette in evidenza la produzione di Lione, quello dei pittori moderni dà la possibilità agli abitanti della città di conoscere artisti contemporanei come Braque e Picasso. Un crogiuolo di stimoli per organizzare il futuro attraverso il passato. ↪ Lione: Gadagne Musées, 1 Place du petit Collège 11:00-18:30 da mercoledì a domenica; la biglietteria chiude 30 minuti prima Fino al 27 aprile 2014 Biglietto mostra: intero € 7.00, intero € 5.00 Informazioni: tel. 033 4 78420361, www.gadagne.musees.lyon.fr Catalogo: Fage Editions 101 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 102 Andando per mostre 102 ANDANDO PER MOSTRE amicizia nascono i Fauves presenti per la prima volta al Salon d’Automne del 1905. Pur non trattandosi di un movimento organico, costoro si riconoscono nella forza espressiva del colore che, connotato da vivace e mediterranea solarità e da ‘gioia di vivere’ e svincolato dalla realtà, esprime le sensazioni dell’artista. Un centinaio tra dipinti, sculture e opere su carta, incentrate sul tema della figura soprattutto femminile rivelatrice del suo sentimento religioso della vita, racconta l’iter di Matisse che partendo dai temi della classicità ne modifica la rappresentazione tradizionale non solo nelle prime opere fauve, ma anche nelle celebri odalische fino alle creazioni della maturità. Matisse, Odalisca in piedi con piatto di frutta Un intrigante percorso che va dall’Autoritratto del 1900, minaccioso e minacciato tanto da incutere sconcerto nei contemporanei agli Acrobati e che comprende tra gli altri il Ritratto di André Derain, serio, vivace e forte, e il bronzo La serpentina, una delle sculture più singolari tratta da una foto di una donna procace cui l’artista riduce le forme nel modello in creta fino a farne una figura sinuosamente slanciata in un gioco sapiente di pieni e vuoti. Rinato a seconda vita dopo un’operazione chirurgica nel 1941, inventa prima in formato ridotto per un libro dal titolo Jazz il metodo della gouache découpée, ritagliando direttamente in fogli colorati con tempere dalle sue assistenti forme che poi accosta con estro creativo come lo splendido Icaro. Importante il rapporto di intimità quasi ossessiva dell’artista con le modelle come Camille Joblaud da cui nasce la figlia Marguerite nel 1894, Lorette dipinta 50 volte in un anno per esempio ne Le due sorelle e altre nel dopoguerra illuminate dalla luce della Costa azzurra e dall’esotismo. ↪ Ferrara: Palazzo dei Diamanti, Corso Ercole I d’Este, 21 9:00 – 19:00 tutti i giorni festività comprese. La biglietteria chiude 30 minuti prima Fino al 15 giugno 2014 Biglietto mostra: intero € 8.00, ridotto € 6.00, ridotto scuole € 4.00 Info e prenotazioni: tel. 0532 244949, [email protected], www.palazzodiamanti.it Catalogo: Ferrara Arte Editore PIStOLEttO Forests for Fashion - Fashion for Forests L’artista Michelangelo Pistoletto (Biella 1933), Maestro dell’Arte Povera, ha portato la sua poetica artistica e sociale nell’imponente Salle des Pas Perdus del Palazzo delle Nazioni - costruito ispirandosi all’Architettura Beaux Arts da Henri Paul Nénot negli anni ’30 al centro del Parco dell’Ariana sulla sponda del Lago Lemano - sede della Società delle Nazioni fino al 1946 e oggi principale sede europea dell’ONU. Occasione ineludibile, ma sfuggita a molti la celebrazione il 21 marzo della Giornata Internazionale delle Foreste (coincidente con l’inizio della primavera nel nostro emisfero) con l’evento dal significativo titolo Forests for Fashion - Fashion for Forests finalizzato a ricordarne il ruolo fondamentale nella vita del pianeta dipendente anche dalle opzioni della moda che può contribuire alla conservazione dell’ambiente perfino con 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 103 ANDANDO PER MOSTRE Ginevra, Pistoletto, installazione e performance la scelta degli abiti. Fulcro portante il Terzo Paradiso, affascinante emblema (mimato in mattinata da più di 500 studenti ginevrini a Plainpalais) creato dall’artista che ha rielaborato il simbolo matematico di infinito aggiungendovi un cerchio centrale cosicché quelli laterali rappresentano uno il Paradiso naturale in cui l’uomo è in armonia con la natura, l’altro quello artificiale ‘affetto’ da globalizzazione, uniti tramite un cerchio più grande, il Terzo Paradiso, grembo di una rinascita globale in equilibrio con il pianeta. Sotto l’iconica installazione di ca. 20 m. decorata con stoffe dei vari colori della foresta dal marrone della corteccia, al verde e al giallo delle foglie e dei fiori… di tale simbolo e in mezzo a pini, betulle, magnolie e peschi, oltre alla mostra di abiti e oggetti ecosostenibili, si sono svolti una sfilata di moda con modelli di giovani stilisti che utilizzano fibre di aziende ecosostenibili della piattaforma Fashion B.E.S.T. e un balletto con i PRIMA MAtERIA Negli affascinanti ambienti di Punta della Dogana - luogo magico ristrutturato dall’architetto Tadao Ando con una razionalità rigorosamente essenziale che ne esalta l’antico incanto - “Prima Materia” in un momento di pluralismo globale in cui il centro di gravità internazionale si sposta verso Oriente evidenzia il valore cosmopolita dell’arte, linguaggio universale che trascende le diversità. 80 opere realizzate dal 1960 a oggi da artisti della Collezione Pinault raccontano tale periodo caratterizzato da guerre, proteste e rivolte sociali attraverso un ‘dialogo’ tra artisti di aree geografiche e culturali differenti, ‘dialogo’ che accosta e paragona l’Arte Povera con il movimento Mono-Ha (in cui si utilizzano legno e corda) sorto in Giappone nei medesimi anni e Mark Grotjahn, Turkish Forest questi con lavori monografici di Llyn Foulkes, Mark Grotjahn e Marlene Dumas. Numerose installazioni sono state ridefinite per gli spazi che le accolgono mentre in situ sono state create ex novo alcune opere come quelle di Loris Gréaud, Philippe Parreno e Theaster Gates che prendono così parte alla Andando per mostre danzatori vestiti da tessuti ricavati dalle piante nel segno della libertà, della sostenibilità delle diverse attività e del consumo responsabile. ↪ Ginevra: Palazzo delle Nazioni, Salle des Pas Perdus, Avenue de la Paix 14 10:-12:00 e 14:00-16:00 da lunedì a sabato (visite guidate) Fino al 15 aprile 2014 Ingresso Onu: visite guidate a pagamento Info: tel. 0041 229174896, www.unece.org, www.cittadellarte.it 103 25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 104 Andando per mostre 104 ANDANDO PER MOSTRE progettazione dell’esposizione secondo la filosofia di François Pinault che ama far sbocciare le mostre attraverso il lavoro diretto degli artisti. Per esplicitare tale intento il mecenate francese da questa esposizione inaugura con l’artista cinese Zeng Fanzhi, seguito nell’aprile 2014 dall’americano Wade Guytonn, un ciclo di commissioni ad hoc per il ‘Cubo’ - spazio centrale di Punta della Dogana di cui è baricentro architettonico e cuore simbolico - affidando ogni anno a un artista il compito di un progetto finalizzato. Una mostra da guardare con calma per riuscire a cogliere i molti input di varia intensità e stabilire empatie come quella affascinante con lo statunitense Mark Grotjahn, fin da giovane attratto dall’astrazione, che vive e lavora a Los Angeles e nella serie Turkish Forest (costituita da 9 opere) traduce metaforicamente la situazione esistenziale umana nella foresta del mondo e della vita. ↪ Venezia, Punta della Dogana, Dorsoduro 2 10:00-19 :00 da mercoledì a lunedì; la biglietteria chiude 1 ora prima Fino al 31 dicembre 2014 Biglietto mostra: intero € 15.00, ridotto € 10.00, scuole € 6.00 Info e prenotazioni: tel. 199 112 112 (a pagamento), www.palazzograssi.it Catalogo: Electa Editore YEAR AFtER YEAR Opere su carta dalla uBS Art Collection Nelle affascinanti sale del primo piano di Villa Reale (di stile neoclassico, opera dell’architetto Leopoldo Pollack, allievo di Giuseppe Piermarini, e dal 1921 sede della Galleria d’Arte Moderna), la mostra sancisce una costruttiva partnership tra la GAM e UBS Art Collection - una delle raccolte più importanti al mondo con più di 35.000 tra disegni, fotografie, sculture e lavori di videoarte realizzati dagli anni ‘60 a oggi dai più importanti artisti contemporanei a livello internazionale - che con vari interventi si prefigge di valorizzare la Galleria attraverso il restauro delle collezioni esistenti e del percorso espositivo permanente. 50 le opere esposte di 35 artisti: Frank Auerbach, Charles Avery, Georg Baselitz, Troy Brauntuch, Chuck Close, John Currin, Charles Avery, Hunter's Cabin Lucian Freud, Robert Gober, Jenny Holzer, Roy Lichtenstein, Robert Longo, Sigmar Polke, Ed Ruscha, Jim Shaw, Cy Twombly, Robin Winters... Organizzate per tematiche e realizzate su carta proprio in un periodo in cui questa sembra destinata alla scomparsa soverchiata da numerosi strumenti tecnologici, conservano un notevole fascino proprio in virtù di tale materiale apparentemente dal ruolo meno visibile nella formazione della poetica di un artista, ma non per questo meno essenziale Opere raffinate come di Charles Avery Hunter’s Cabin dalla straordinaria capacità di esprimere attraverso linee filiformi alternate a pennellate corpose l’anima complessa di un cacciatore che rientra in una casa stracolma di oggetti in cui ciascuno ha un suo posto nel rigore logico maschile che così li ha organizzati comprendendovi un cane, ineludibile compagno, e un prudente gatto che non ostenta la sua presenza. Non mancano nomi più famosi come Bonnie Camolin che in A Mermaid descrive gli atteggiamenti psicologici tipici di chi si mangia le unghie o ancora il celebre artista della Pop Art Roy Lichtenstein che in Crying Girl, disegno a inchiostro dalle linee essenziali e sintetiche, raffigura una giovane fanciulla in lacrime. ↪ Milano, GAM Galleria d’Arte Moderna, Via Palestro 16 9:00-13:00 e 14:00-19:30 martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica; giovedì fino alle 22:30 Fino al 21 giugno 2014 Ingresso gratuito Info: tel. 02 88445947, www.gam-milano.com Catalogo: UBS Editore