3 - SATURA art gallery

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SaTuRa
Trimestrale
di arte letteratura e spettacolo
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Anno 7 n° 25
primo trimestre
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di Genova n° 8/2008
in copertina
Luigi Grande,
Colpo di vento, 2011,
olio su tela, 60x50
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sommario
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Per ricordare Elena Bono
Introduzione di Rosa Elisa Giangoia
80
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In ricordo di Elena Bono
Francesco De Nicola
82
13
Riflessioni sul teatro di Elena Bono
Roberto Trovato
84
22
Elena Bono accolta in Spagna
Letizia Casella
29
DUE POESIE
Aldo Forbice
30
Spunti dagli scritti
sulla Grande Guerra
Giuliana Rovetta
42
DUE POESIE
Banderuola
La tessitrice
Giovanni Chiellino
43
La bacheca
Milena Buzzoni
46
UNA POESIA
Sotto la specie del nulla
Silviano Fiorato
47
Tra antichità e postmodernità:
i peplum e i loro eroi
Emilia Michelazzi
55
UNA POESIA
Piazzetta di Santa Croce
Mario Pepe
56
PROSPEZIONI
L’ESORDIO DI STEFANIA PAGLIERO
ALLA LUCE DELL’ELLEBORO
Milena Buzzoni
L’AMORE NELLA VITA
Rosa Elisa Giangoia
TRA PUBBLICO E PRIVATO
IN TEMPI RECENTI
Rosa Elisa Giangoia
DONNE GENOVESI
Rosa Elisa Giangoia
FALSE MEMORIE
DI UN BRILLANTE IMPOSTORE
Giuliana Rovetta
LE LUNGHE ORE DI COLETTE,
REPORTER
di Giuliana Rovetta
ERIK FERRARI ORTELLI:
L’ARTE DELLA TRASPARENZA
E DELLA LUCE
Milena Buzzoni
65
76
78
CRITICA
I COLORI CHE SERVONO
LUIGI GRANDE
Giorgio Getto Viarengo
VETRINA
UGO CARMENI
AL DI LÀ DELL’IMMAGINE
Andrea Rossetti
DRINA A12
DUE PERCORSI
PER LA VIA DELL’ARTE
Marco Piva
EMANUELA PASOLINI
LA MISURA DELL’INFINITO
Flavia Motolese
GISELLA PENNA
UN VIAGGIO
Flavia Motolese
MATTIA SCAPPINI
SOSPESI INCANTI
Flavia Motolese
86
SATURA INTERNATIONAL
CONTEST
1ST CONTEMPORARY
ART CONTEST
Mario Napoli
90
I LIBRI DI ELENA COLOMBO
Elena Colombo
96
ANDANDO PER MOSTRE
Wanda Castelnuovo
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PER RICORDARE ELENA BONO
Introduzione di Rosa Elisa Giangoia
Anche se era nata a Sonnino, nel Lazio, il 29 ottobre 1921, Elena Bono
si può considerare una scrittrice ligure, dato che si trasferì nella nostra regione all’età di dieci anni, insieme alla sua famiglia, quando il padre, Francesco,
valente studioso del mondo classico, fu nominato preside del liceo di Chiavari. In questa città Elena studiò e visse tutta la vita, fino alla morte, avvenuta all’ospedale di Lavagna, dopo un brevissimo ricovero, il 26 febbraio 2014.
Come scrittrice esordì con Garzanti nel 1952 con la pubblicazione di una
raccolta di poesie, I galli notturni, proseguendo nel 1956 con i racconti di Morte di Adamo (Garzanti, seconda edizione nel 1969, ora anche in e-book con la
prefazione di Andrea Monda).
La sua produzione letteraria è vastissima e comprende sia opere in poesia, raccolte nel 2007 in Poesie Opera omnia, sia di narrativa, oltre i racconti
di Morte di Adamo, la trilogia Uomo e Superuomo, sia moltissimi testi teatrali, tra cui La testa del profeta, Ippolito, I templari, Ritratto di principe con gatto, Storia di un padre e di due figli, Sera di Emmaus.
Dopo gli iniziali successi editoriali e gli apprezzamenti di noti critici letterari (Cecchi, Fabbretti, Pedrina) l’opera di Elena Bono ha subito, a livello nazionale, una stagione di parziale eclisse, anche se i suoi testi teatrali sono stati messi in scena da registi importanti (Ugo Gregoretti, Orazio Costa Giovangigli) ed interpretati da attori di successo (Giorgio Albertazzi, Emma Gramatica, Irene Papas, Eros Pagni, Claudia Koll). La minore attenzione della critica
nei suoi confronti è stata certo anche determinata, in anni di imperante ideologia marxista nella cultura, dalla sua sempre dichiarata fede cattolica che l’ha
portata a scrivere opere di forte tempra morale con netta contrapposizione tra
il male ed il bene e sapiente perseguimento di quest’ultimo, nella prospettiva
di un’apertura alla dimensione ultraterrena.
Fondamentale per la formazione della scrittrice è stata l’esperienza della
Resistenza, a cui ha dato in gioventù un contributo attivo, durante il periodo dello sfollamento con la famiglia sull’Appennino Ligure, come informatrice e staffetta, e di cui ha poi cantato gli eroi in molti testi poetici di alta risonanza lirica.
Accanto alla tematica resistenziale ad ispirare la sua poesia è stata soprattutto la fede religiosa, oltre agli affetti familiari, al mondo classico e a quello orientale.
Negli anni Novanta, grazie a critici letterari più liberi ed attenti (Giovanni Casoli), ad autori televisivi (Stas’ Gawronski), ad esponenti della cultura cattolica (Ferdinando Castelli s.j.), ad alcuni studiosi dell’ateneo genovese (Francesco De Nicola, Elio Gioanola, Roberto Trovato, Stefano Verdino), nonché all’intelligente messa in scena della maggior parte delle sue opere da parte di Daniela Ardini, è iniziata una stagione di rinnovata attenzione nei confronti della scrittrice, a cui, proprio nel giorno della scomparsa è stata dedicata un’intera pagina dall’“Osservatore Romano”.
Rosa Elisa Giangoia Introduzione
PER RICORDARE ELENA BONO
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Elena Bono Fenicotteri
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PER RICORDARE ELENA BONO
Ci auguriamo che quest’interesse cresca e si consolidi la presenza della Bono nel canone della letteratura italiana del Novecento, in cui merita senz’altro di occupare un posto di rilievo. Speriamo anche che molti leggano le sue
opere, tutte attualmente disponibili presso l’editore Le Mani, in quanto esse possono utilmente contribuire alla formazione morale ed intellettuale, soprattutto dei giovani.
Per promuovere la lettura e la conoscenza della scrittrice proponiamo
alcune sue poesie e alcuni contributi critici presentati alla giornata a lei dedicata nel salone del Consiglio Provinciale di Genova l’8 aprile 2014.
Fenicotteri
Viene la sera e accende, quasi richiamo, i suoi fuochi
su tutte le vette dei monti:
fiammeggiano,
a picco su nere valli,
castelli di corallo.
Giù nelle valli nere stagni invisibili mandano
gelidi lampi d’argento,
splendono qua e là luci vive:
i fenicotteri bianchi.
Bevono lungamente le gelide acque,
lungamente si chiamano,
o chiama forse ognuno la sua eco.
E l’ascolta stupito,
guardano altri
quel magico cerchio di fuochi
sulle montagne.
Ma il loro non è che un passare:
né alla roccia mai apparterranno,
né alla palude,
né a cosa alcuna di terra.
Attendono solo la notte
e i grandi cieli pieni di vento,
sognano il volo soltanto
altissimo quieto
e il lento migrare con gli astri
in sciami lucenti.
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PER RICORDARE ELENA BONO
Tu mi percuoti col tuo amore
tu sei come il mare.
Immensamente il mare
corre verso la terra.
Sulla terra si abbatte
e grida
e si frantuma.
Fugge per ritornare
più violento,
un desiderio lo sospinge
di dar morte
e morire.
Mutamente la terra
lo attende
lo chiama,
protesa nera disperata
sulle acque:
sulla sua morte.
Ogni giorno lasciandoti
Ogni giorno lasciandoti
ogni giorno dicendo addio
la morte imparo, amore,
e l’angoscia dell’ultimo distacco.
In te la morte imparo
ed ogni angoscia
e tremore.
In te mi perdo
come in immensa terra sconosciuta
e quando tutto ti ho percorso
ancora
tutto ignoro di te,
e non so mai
ai tuoi occhi chi io sia
e di me stessa che mi resti, amore,
quando tu ti allontani
se non morte e dolore.
Elena Bono Tempesta / Ogni giorno lasciandoti
Tempesta
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Elena Bono Ad Alessio / In esta vita brieve - Alla maniera di Federico II
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PER RICORDARE ELENA BONO
Ad Alessio*
Per le tue rose rosse
e quella rosa bianca
non potrei darti ormai
che le rose del buio
e della notte.
Ma fioriscono esse al di là dei cancelli.
I cancelli da cui
le tue sbiancate mani
mi fanno addio.
Ti prego, vieni anche tu
col giardiniere un giorno
ad aprirmi i cancelli.
Saprò riconoscere il viso
non conosciuto.
In esta vita brieve – Alla maniera di Federico II
In esta vita brieve
che alla morte diclìna
de vui me dolgo, Amuri,
e ve movo lagnanza
che mai non me feciste comparire
se non in sogno et in delìro
chello fino splenduri,
chella perla nascosa
che m’assale la mente
e notte e dìa.
Eo chella cerco, Amuri,
la sola amata e disiata
la non mai comparìta
in esta vita brieve
che allo niente declìna.
(da Elena Bono, Poesie. Opera omnia, Le Mani Editore, Recco (Genova) 2007)
*Alessio P., amico non conosciuto mai personalmente, fece pervenire all’a. delle rose per la
“prima” di Ippolito. De I galli notturni egli amava in particolare la lirica “Alla morte” da cui con lieve
modifica è riportato qui un verso. Quella lirica gli fu letta dagli amici durante la veglia funebre.
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PER RICORDARE ELENA BONO
di Francesco De Nicola
La notizia della scomparsa di Elena Bono, avvenuta lo scorso 26 febbraio nell’ospedale di Lavagna, è passata quasi inosservata sulla stampa quotidiana del capoluogo ligure, pur essendo vissuta la scrittrice – laziale di Sonnino
di nascita – oltre mezzo secolo a Chiavari e avendo compiuto i suoi studi nell’università di Genova; e probabilmente nessuno in città le avrebbe dedicato un
non frettoloso ricordo se Maria Cristina Castellani e Rosa Elisa Giangoia non
avessero organizzato il meritorio incontro di testimonianza svoltosi a Palazzo Spinola martedì 8 aprile. Eppure appena il giorno prima della sua scomparsa un quotidiano di larga diffusione e di solido prestigio, come l’“Osservatore Romano”, aveva pubblicato un ampio servizio su Elena Bono e qualche mese
prima, nel maggio del 2013, l’università di Siviglia le aveva dedicato un convegno di studi di due giorni, organizzato da un gruppo di ricerca che da tempo si occupa di lei e che ha pure pubblicato un pregevole volume di saggi sulla sua opera, Le nevi del Fujiyama, a cura di Daniele Cerrato e Letizia Casella
(Roma, Aracne). Del resto questa vicenda postuma tra oblio e celebrazione è
perfettamente coerente con la sorte che in vita accompagnò la carriera di scrittrice di Elena Bono, per lo più ignorata e tuttavia da altri, forse non troppi, addirittura esaltata: chi aveva e ha ragione?
È indubbio che la sua scelta, che risale agli anni Sessanta, di lasciare l’editoria a diffusione nazionale, nel caso specifico la casa editrice Garzanti, per pubblicare da allora in poi tutti i suoi numerosi e varii libri presso una piccola, ancorché pregevole e meritoria, casa editrice di Recco –denominata prima Emmee
e poi Le Mani – non le ha certo giovato, ma ha contribuito a collocarla in una nicchia nella quale è comprensibile che non molti volessero/dovessero andare a cercarla. Né le ha giovato, per avere un’attenzione più vasta e meno fortemente connotata, la sua collocazione – da lei stessa rivendicata in più occasioni con molta
energia – all’interno di una letteratura che, pur con tutte le approssimazioni che
la definizione comporta, si dovrà definire di forte ispirazione religiosa; questo non
è certo un limite, anzi, e tuttavia è un’indicazione che ha finito per collocarla in
una categoria ben segnata che può aver fatto cadere a priori possibili attenzioni
di critici e lettori rivolti a lei. Ben inteso, con queste osservazioni non desidero affatto sminuire il valore letterario dell’opera di Elena Bono, ma solo trovare una
spiegazione del (troppo) silenzio che ha accompagnato la sua lunga carriera letteraria, peraltro cominciata sotto i migliori auspici.
Il suo esordio, infatti, risale alla fine del 1946, quando il suo racconto
Morte d’Adamo apparve sul numero del 15 dicembre dell’ “Illustrazione italiana”, uno dei maggiori e allora più letti rotocalchi del dopoguerra, del quale era
editore Garzanti che, non a caso, sei anni più tardi le pubblicherà il suo libro
d’esordio, la raccolta di poesie I galli notturni, scelta editoriale coraggiosa perché il libro conteneva numerose poesie a tema resistenziale, quando ormai si
era esaurita la pienezza della stagione neorealista e già era stato abbastanza
Francesco De Nicola In ricordo di Elena Bono
IN RICORDO DI ELENA BONO
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Francesco De Nicola In ricordo di Elena Bono
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PER RICORDARE ELENA BONO
accantonato il tema della guerra civile, semmai rivisitato anche in chiave critica proprio da due libri in prosa usciti in quello stesso anno, I ventitré giorni
della città di Alba di Fenoglio e Fausto e Anna di Cassola. E il rapporto con Garzanti si rinsaldava quando nel 1956 pubblicava una raccolta di racconti di Elena Bono sotto il titolo di Morte di Adamo quando ancora le donne occupavano nell’Italia letteraria (e non solo) un ruolo di secondo piano: appena conosciute erano, ma solo presso il pubblico ristretto dei lettori dei “Gettoni” (uniche donne nella collana di Vittorini) Anna Maria Ortese e Lalla Romano e un
po’ più note Gianna Manzini, Elsa Morante, comunque sempre lontanissime dai
Cassola, Bassani e Tomasi di Lampedusa che avevano dato vita al best-seller
in Italia. Ma proprio in quegli anni Garzanti tentava la strada dello sperimentalismo, tanto lontana dal mondo creativo di Elena Bono: nel 1955 pubblicava
Ragazzi di vita di Pasolini, nel 1957 Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda e nel 1959 Primavera di bellezza di Fenoglio e Una vita violenta
ancora di Pasolini; il divorzio era inevitabile e di qui comincia il lavoro in penombra di Elena Bono, proprio quando critica e lettori cominciano a considerare con maggiore attenzione le nostre scrittrici, ma soprattutto quelle come
Dacia Maraini, espressione di un femminismo dichiarato e provocatorio come
risulta, ad esempio, dal romanzo L’età del malessere (1963) o quelle come Natalia Ginzburg, che con Lessico familiare, anch’esso uscito nel 1963, praticavano il genere più leggero della memorialistica familiare.
Sia dalla scrittura sperimentale della nuova stagione garzantiana, sia dai
temi politici visti da sinistra e sia infine dai tuffi consolatori nella memoria Elena Bono era sideralmente lontana ed ecco allora che questa scrittrice decideva di continuare il suo lavoro nella consapevolezza di essere fuori moda e anzi
perfino di battere sentieri apertamente controcorrente, come il recupero dei
miti classici o di personaggi della storia lontana (Il nome della rosa sarebbe arrivato vent’anni più tardi, nel 1980, a ridestare l’interesse per il Medio Evo che
però Elena Bono aveva scoperto assai prima). Ovvio però che questa libertà avrebbe avuto un prezzo: la disattenzione editoriale e critica, ma non le avrebbe precluso la possibilità di scegliere, di volta in volta, che cosa e come scrivere.
Certo, pochi scrittori italiani del secondo Novecento si sono cimentati come
Elena Bono in generi letterari tanto diversi tra loro e in generi di scrittura così
variegati, tuttavia accomunati da alcuni tratti comuni assai evidenti: ad esempio dalla forte presenza del mondo classico (ereditato dalla sua formazione)
e dal costante vincolo con la storia, l’una e l’altro occasione di riflessione attualizzata e oggetto di personale interpretazione. E così Elena Bono ha spaziato dalla poesia al racconto, dal romanzo al ritratto storico, dal testo scritto per
il teatro – al quale tanto e tanto generosamente ha dato – alla traduzione delle tragedie greche di Sofocle. Davanti a una mole così ingente di opere e di opere tra loro tanto differenti, volendo cercarne una che in qualche misura compendi l’importanza e l’originalità dell’opera di Elena Bono, riterrei di dover indicare quello che considero non solo il suo capolavoro, ma uno dei romanzi
italiani più importanti del secondo Novecento: Come un fiume, come un sogno,
nato da una gestazione lunga e faticosa e approdato alla pubblicazione nel 1985
(e poi ristampato nel 1999), un romanzo ambientato al tempo della Resistenza, quando quel tema ormai da almeno vent’anni quasi più nessuno scrittore
italiano aveva affrontato; e dunque con questa scelta, ancora una volta, Elena
Bono si era posta in una condizione atipica e dunque non facile. Occorre an-
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PER RICORDARE ELENA BONO
Francesco De Nicola In ricordo di Elena Bono
che aggiungere che l’angolazione della sua narrazione non era quella ideologica che, ovviamente, aveva predominato nelle opere resistenziali almeno per
un quindicennio, anche se in verità con le pagine postume di Fenoglio, da Una
questione privata (1963) al grande Partigiano Johnny (1968), la dimensione politica dei fatti si era già spostata verso un piano etico e privato (per riprendere appunto l’aggettivo del titolo del più fortunato romanzo fenogliano).
Anche Come un fiume, come un sogno, che pure dallo scenario militare si eleva verso altri e più lontani orizzonti, nasce da un’esperienza autobiografica dell’autrice, che trascorse venti mesi, tra il ’43 e il ’45, sfollata con la
famiglia nell’entroterra di Chiavari, uno degli epicentri della lotta partigiana,
della quale furono protagonisti e purtroppo vittime alcuni suoi amici coetanei
e compagni di studi. Quella drammatica esperienza ha sedimentato a lungo in
lei e si è trasformata un po’ alla volta in emozioni, pensieri, parole, arte: prima, quasi a caldo, sotto forma di poesia nei versi dei già ricordati Galli notturni e poi nel poderoso romanzo Come un fiume, come un sogno, che peraltro
già nel titolo si collega saldamente al mondo poetico-religioso di Elena Bono,
titolo desunto dal salmo 90, versetto 5 della traduzione di Lutero (con la sostituzione dell’originale “sonno” di Schlaf in “sogno” che sarebbe Traum) che
richiama due parole-chiave dell’intera sua opera: “fiume”, come allegoria di quanto scorre e quindi degli eventi della storia che potrebbero essere dimenticati,
proprio per la loro successione incalzante, ma che invece devono offrire capitali insegnamenti; e “sogno”, come non meno trasparente allegoria di una realtà “altra”, spesso racchiusa in noi e non definibile con le consuete coordinate della realtà e ancora “sogno” inteso come non come consolante rifugio nel
torpore del sonno, bensì come occasione privilegiata di conoscenza più profonda, depurata dai fuorvianti e inessenziali dati contingenti del fenomenico.
Insomma se il “fiume” rappresenta la quotidianità nelle sue forme più immediate, il “sogno” costituisce il successivo momento dell’interpretazione di quella realtà e della sua proiezione futura.
Del resto l’attività letteraria di Elena Bono, per sua stessa ammissione,
appare sostenuta da una consuetudine con questo tipo di ideale e costruttivo
sogno, a tener conto di quanto la scrittrice aveva affermato in un’intervista a
Paola Tiscornia uscita sul “Secolo XIX” del 25 gennaio 1986:
“Penso che lo scrivere sia una forma di visitazione, una dettatura… Ho
sempre detto che meno v’è dello scrittore-persona nella pagina e meglio è. Perché se lo scrittore si confessa può venirne fuori anche un bel documento umano. Ma se lo scrittore ascolta, trascrive ciò che vede, ecco, queste sono visioni; è un altro discorso che ci interessa tutti e che diventa un fatto universale”.
Insomma Elena Bono, che con l’immagine della “dettatura” si richiama
esplicitamente alla teoria dantesca del «quando amor mi spira noto /e a quel
modo che ditta dentro vo significando», in Come un fiume, come un sogno ritrova proprio questa dimensione di opera intesa come trascrizione di quanto
l’autrice, assecondando la sua vocazione creativa, ha veduto – in un passo del
romanzo si legge l’espressione «vedere le parole» –, autrice che si propone così
in una funzione vaticinante anche se, nella finzione narrativa, viene ammorbidita dall’espediente del ritrovamento del diario di un soldato, da lui diligentemente redatto nella previsione che in futuro esso potesse cadere sotto gli occhi di qualcuno. E così, pur con un rapporto saldissimo con la storia raccontata nella sua dimensione più crudele e feroce, nel romanzo Elena Bono parla
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PER RICORDARE ELENA BONO
dell’uomo e dell’umanità intera e rivela ciò che la quotidianità di guerra (ma
non solo) tiene nascosto: e perché questo alto disegno si realizzi è necessaria
all’autore una visione ispirata, è necessario che sappia staccarsi da una realtà
pur attentamente seguita e conosciuta: «Così semplice era tutto: chiudere gli
occhi e guardare» aveva scritto in una sua poesia dei Galli notturni (Dalla betulla si effonde) composta la sera «della più oltraggiosa e lacerante giornata
della nostra storia patria, l’ 8 settembre 1943».
Il legame tra la prima raccolta di versi resistenziali e il grande romanzo
non si limita però a questo distico, che peraltro esprime un’implicita dichiarazione di poetica, poiché i già sottolineati motivi centrali del “sogno” e del “fiume” erano già più volte presenti nei Galli notturni – dalla già citata lirica iniziale Dalla betulla si effonde (dove il rombo sconosciuto nella sera può essere appunto «la voce del fiume» e infine «il tempo che lacerava il suo cuore è ora un
immobile sogno») alla lirica eponima («fluisca il sonno sulle cose/quale fiumana tacita») e ai versi di Terra lunare («uno struggente e vago desiderio di approdo / per il tutto fluente, / quasi corrente / che sospinga verso / quella riva remota all’orizzonte, / lunare terra uscita / dalle acque del sogno e della notte»).
Il richiamo frequente e assai significativo alle parole chiave “fiume” e “sogno” non è tuttavia il solo evidente collegamento che dal romanzo rinvia a precedenti opere di Elena Bono; oltre al ritorno più o meno accentuato ai miti di
Antigone e Orfeo (la tragedia sofoclea è stata da lei tradotta nel 1977 e Alzati Orfeo è il titolo della sua raccolta di versi del 1958), lo spunto storico più
drammatico e di maggior rilievo del romanzo, la fucilazione di dieci partigiani avvenuta il 15 febbraio 1945 alla Squazza e il divieto del seppellimento dei
loro corpi, rinvia ad un’altra intensa lirica dei Galli notturni, intitolata emblematicamente Rappresaglia. Come un fiume, come un sogno, pubblicato dopo
una lunga gestazione con significativi recuperi da precedenti scritti di Elena
Bono, può dunque essere letto come una summa dei motivi più profondi e frequenti del suo impegno letterario, collocata sullo scenario a lei più congeniale anche perché coincidente con la sua esperienza umana che per sempre l’ha
segnata e cioè gli ultimi mesi della seconda guerra mondiale.
Proprio la precisa e circostanziata ambientazione storica ha favorito
alcune interpretazioni critiche frettolose del romanzo, un po’ approssimativamente inserito tra quelli della o sulla Resistenza; più correttamente si dovrebbe parlare, stando almeno alla cornice esterna, di romanzo certo ambientato nel periodo resistenziale ma centrato sul tema delle contraddizioni ideologiche e morali dei soldati tedeschi all’interno di quel dualismo “uomo/superuomo” che dà il titolo alla trilogia, della quale Come un fiume, come un
sogno è il primo titolo. A ben guardare, infatti, i partigiani hanno nel libro
presenze alquanto ridotte e per lo più funzionali a rappresentare soprattutto la loro costante minaccia sul destino dei nemici occupanti, ora sprezzanti e ora inquieti e timorosi. E infatti i protagonisti del romanzo non sono i
partigiani bensì i tedeschi (in realtà già altri scrittori nostri avevano raccontato la Resistenza vista dalla parte nazista: ad esempio Fenoglio nel racconto Golia e Venturi in Vacanza tedesca), ma tra i personaggi figura una ragazza italiana, Vannella, che rappresenta in pieno il senso morale e civile della
Resistenza, spesso presente nelle parole e nei pensieri dei tedeschi per il suo
ruolo di avversaria fragile e tuttavia moralmente invincibile, ma di fatto presente nell’azione del libro solo in un paio di occasioni.
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PER RICORDARE ELENA BONO
Francesco De Nicola In ricordo di Elena Bono
Cronologicamente compreso tra il 4 dicembre 1944 e il 4 marzo 1945,
Come un fiume, come un sogno non affronta quello che era il problema militare più importante nella prima parte di quel periodo per i partigiani: il loro
sbandamento dopo il proclama Alexander di metà novembre 1944 con il conseguente rischio di esporsi alle delazioni delle spie e la necessità di girovagare in cerca di occasionali rifugi contro il freddo e il gelo; questi argomenti, storicamente decisivi, non rientravano evidentemente tra quelli attorno ai quali
Elena Bono intendeva far ruotare le vicende del romanzo, che dunque non affronta l’epopea resistenziale ma piuttosto, sullo scenario di quegli avvenimenti, racconta il tarlo che divora lentamente e inesorabilmente l’esercito tedesco
rappresentato in queste pagine, nelle sue estreme contraddizioni, dai due emblematici personaggi dello scritturale telefonista Werner Kaltenbrunner, ostile alla guerra (stesso cognome del capo del SD, il servizio di sicurezza incaricato dell’ eliminazione degli ebrei che sarà impiccato a Norimberga) e del comandante del presidio Henry von L. Il romanzo tuttavia, più che sull’azione (gli
episodi narrati non sono più di una decina nelle oltre 350 pagine del libro) si
articola e prende linfa in particolare dai dialoghi, dalle riflessioni e dalla psicologia dei due protagonisti, i quali – ed è qui soprattutto che il romanzo si
allontana dal contesto storico – al di là delle loro divise di soldati tedeschi, divengono emblemi della condizione dell’uomo chiamato alle prove della vita in
un momento tremendo della storia ed entrambi, sia pure in modi opposti, finiscono schiacciati e travolti dal “fiume”, cioè il corso degli eventi, perché insufficiente risulta la forza del loro “sogno”: velleitario, tormentato ma privo
di risoluti slanci vitali quello del pur rigoroso soldato protestante, avverso alla
guerra e tuttavia fedele fino in fondo al suo ruolo odioso di confidente delle
spie e zelante trascrittore delle loro informazioni, tanto da determinare con
una sua inopportuna frase ambigua i sospetti su Vannella; “sogno” invece nihilistico e superoministico quello del superbo e tracotante Henry, la cui ubris
lo porta, con inutile esibizionismo e spregio della sorte tanto a passeggiare tra
le mine in segno di sfida alla sorte, quanto a violare le consegne di una fantomatica Kommandantur solo per il gusto di compiere verso gli uncinati uno sgarbo «che non è stato il primo ed escludo sia l’ultimo».
Se questo romanzo, ambientato nella Resistenza, di fatto si sottrae ad
una lettura storica e politica e pure presenta più motivi che ne possono rivelare una connotazione di tipo religioso, viene da domandarsi perché mai Elena Bono negli anni Ottanta ha scritto e pubblicato un romanzo su quelle vicende ormai tanto lontane (rimosse o dimenticate?) dalla coscienza nazionale. Una
risposta a questo interrogativo può essere data tenendo conto di un altro suo
libro uscito all’inizio di quel decennio (1981), un libro di poesie ancora, con il
titolo Piccola Italia, cioè l’Italia dei tanti eroi senza nome – un po’, ma solo un
po’, come i personaggi minimi di La storia (1974) di Elsa Morante – e tuttavia
senza i quali non ci sarebbe stato un 25 aprile e la piccola Italia non avrebbe
recuperato la libertà; sono poesie sui suoi compagni di scuola caduti combattendo tra i partigiani o su ragazzi che han preferito la fucilazione alla delazione, storie spesso poco note di personaggi poco noti che i versi di Elena Bono
hanno saputo scolpire nel tempo. Ma al di là di tante storie di questa gigantesca Piccola Italia la scrittrice non ha mancato con i suoi versi di gettare dei semi
per il futuro, scrivendo alcune poesie che sono un monito ed un’esortazione
ad apprendere dalla storia recente una lezione di etica e di civiltà fondamen-
11
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Francesco De Nicola In ricordo di Elena Bono
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PER RICORDARE ELENA BONO
tale per le nuove generazioni. E così, nella lirica Su una piccola armonica a bocca nell’ultima strofa (p. 48) leggiamo:
Dicono ch’era un sogno
e che per nulla più di un sogno
siete morti. E sia.
Sogno per sogno in terra di dormienti
scegliamo il sogno da sognare.
Chi di bruto
chi d’uomo.
In questi versi essenziali e assoluti, Elena Bono sottolinea la necessità di
scegliere, di sottrarsi alle masse dormienti ma non per questo non responsabili (come non ripensare ai “miti carnefici” fiorentini della Primavera hitleriana di
Montale, dei quali «nessuno è incolpevole»); e al contrario è necessario avere degli obiettivi, dei sogni – ritorna dunque una delle parole chiave del romanzo – e
per questi vivere e lottare, fino al sacrificio estremo. E ancora, nel breve epitaffio Per i compagni caduti nella Resistenza (p. 3), Elena Bono scrive:
Morirono per la libertà,
essi, a cui i padri non avevano insegnato
a vivere liberi.
Ecco, forse le migliaia di pagine scritte da Elena Bono – dalle poesie ai
romanzi, dai testi teatrali alle rievocazioni storiche - non sono che le tante facce di un suo unico e ricorrente impegno centrale: insegnare a chi verrà dopo
di lei il privilegio della libertà, quella libertà che lei stessa scelse per svolgere
senza condizionamenti il suo lavoro di scrittrice, ben sapendo che così si sarebbe per gran parte precluso il raggiungimento delle attenzioni e degli onori che il suo importante impegno letterario avrebbero meritato.
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PER RICORDARE ELENA BONO
Di Roberto Trovato
Nella presentazione di un volume che raccoglieva tre racconti e dieci testi teatrali della scrittrice chiavarese (1921-2014), oggetto dell’attenzione di alcuni critici italiani1 e più di recente di studiosi spagnoli2, scrivevo “Elena Bono
non finirà mai di stupirmi”3 .
La stessa sorpresa ho avuto nel leggere due suoi nuovi testi: Requiem per
Francesco Burlamacchi, uno degli ultimi difensori dei Comuni italiani e La testa del brigante ovvero Un malo indulto, che usciranno a breve in un volume
miscellaneo assieme a saggi di altri studiosi4.
A quanto mi ha precisato Stefania Venturino, la Bono ha scritto la prima pièce sopra citata nel 2010
“per rievocare ed indicare ai giovani questo esempio di civismo e
spirito cristiano, quale altissima testimonianza di virtù morali e
civili. È il contributo che Elena ha voluto lasciare all’Italia nel 150°
anniversario della sua unità”.
1
Oltre agli studi pioneristici di Elio Gioanola l’hanno studiata a più riprese, Francesco De Nicola, Elio
Andriuoli, Liliana Porro Andriuoli, Giovanni Casoli e il sottoscritto. La scrittrice è stata indagata in un
volume ideato e curato da Stefania Venturino, Il castello in fiamme e l’unguento della parola. Elena Bono
e la sua opera, Recco, Le Mani 2007. Nel volume sono raccolte testimonianze di sette autori: Capuano,
Casoli, la Giangoia, Gioanola, Monda, Trovato e Verdino e ritratti dell’autrice della Ardini, monsignor
Careggio, De Nicola, la Elert, Gawronsky, Gregoretti, la Landò, Manzari, Martini, Musso, la Novaro, la
Prodi e la Roda.
2
La scrittrice è stata scandagliata in molte delle sfaccettature della sua poliedrica produzione in
un volume, curato da Daniele Cerrato e da Letizia Casella, uscito nel Roma per i tipi di Aracne, intitolato Le nevi del Fujiama. La via della catarsi. Studi critici su Elena Bono. Inserito nella collana
Donne del Novecento, diretta da Antonella Cagnolati, il libro è preceduto da una lucida premessa
di Mercedes Arriaga Florez, Elena Bono, una scrittrice che parla alla coscienza del mondo, e da una
acuta introduzione di Daniele Cerrato. Nel volume sono raccolti contributi di Pociña Pérez, della
López López, Sciffo, De Nicola, la Segatori, la Casella, la Martin Clavijo, Trovato, la Pitto e Ciulla. Il
libro curato dalla Venturino e questo riportano la bibliografia di quanti si sono occupati della Bono.
Segnalo un nuovo intervento sulla scrittrice di P. Bruno in Poetesse liguri dallo scrittoio alla pagina, Genova, De Ferrari 2011, pp. 87-95. Sulla ricezione spagnola dell’opera della Bono già a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso e negli anni successivi, nonché ai progetti in cantiere rimando alle notazioni puntuali contenute nel saggio di Letizia Casella.
3
E. Bono, L’erba e le stelle. Tra mito e storia. Racconti e pièces per teatro da camera, Recco, Le Mani
2011. La presentazione, dal titolo Una donna all’apparenza fragile, amante della vita, si trova tra
le pp.11-18.
4
La loro conoscenza è un atto di cortesia che devo a Stefania Venturino, grande estimatrice e conoscitrice della Bono e da alcuni anni sua press-agent. La prima pièce, più ampia, e la seconda, molto breve, sono state depositate alla Siae, sezione DOR, il 28 dicembre 2011. Il primo testo è interessante anche in relazione ad altri lavori teatrali della commediografa che riguardano le figure dell’imperatore Carlo V e di Andrea Doria, più volte ricorrenti nei suoi testi. In un testo teatrale in particolare, Ultima estate dei Fieschi, seconda parte di un dittico raccolto in volume col titolo complessivo Gatto di sangue, sono drammatizzati eventi accaduti tra il 1546 e il 1548. Quei tre anni furono caratterizzati non solo da profonde trasformazioni della geografia politica delle penisola che
porteranno all’affermazione dell’egemonia spagnola, e da mutamenti interni a molti stati italiani.
Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono
RIFLESSIONI SUL TEATRO DI ELENA BONO
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Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono
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PER RICORDARE ELENA BONO
I personaggi di questo testo sono rigorosamente storici, con la sola eccezione di un sacerdote e della moglie del protagonista indicato nel titolo, appartengono, per sua esplicita dichiarazione, “ai ricordi e alla cronaca famigliare” della sceneggiatrice dell’opera. Il secondo componimento si rifà invece ad un episodio che l’autrice aveva sentito raccontare quando era bambina dal nonno paterno Nicomede. In questo testo, ambientato nella prima metà del secolo XIX a Sonnino, città in cui l’autrice era nata, è espresso “lo sdegnoso rifiuto morale dei cosiddetti confidenti di giustizia” che, a quanto osserva la Bono alla nota prima, “si
procurano il perdono denunciando, e spesso inventando e calunniando”. Poco oltre, in quella stessa nota, l'autrice richiama ciò che è accaduto per l’uccisione del
bandito Giuliano, di Calvi e di Sindona
“Chi ha fatto la Resistenza, come me, deplora tutto questo, come
deplora piazzale Loreto… non si fa giustizia così. Così fanno i fascisti… Così fanno i nazisti… Queste cose ce le buttiamo alle spalle, invece no, sono davanti a noi!”.
I riferimenti a Giuliano, Calvi e Sindona spostano l’attenzione della Bono
dai drammatici accadimenti della seconda guerra mondiale, che permeano e
sostanziano tanta parte della sua opera poetica, narrativa e teatrale, verso altri più vicini a noi, dimostrando la sua attenzione per il presente. A differenza del testo precedente pertanto l’autobiografia, unita ai rinvii al presente, appaiono centrali.
A dispetto della loro brevità, dovuta alla malattia e all’età avanzata, che
pure non ne hanno mai arrestato la creatività, le due pièces cui sopra ho fatto riferimento dimostrano ancora una volta la singolare capacità della scrittrice di far rivivere eventi e personaggi che hanno inciso sulla micro e la macro
storia. Le pagine della Bono hanno alcuni temi ricorrenti: la critica al potere,
elemento nullificante del singolo; il sarcasmo verso la “eterna, rancida, rognosa politica”5 degli uomini; il conflitto fra imperativi morali e scelte dettate da
necessità contingenti; il confronto con la Storia, luogo in cui siamo chiamati a
batterci per cambiare il mondo; la denuncia dell’assurdità della guerra; il senso di pietà che unisce sconfitti e vincitori; la sacralità della sofferenza quotidiana; il biasimo per quanti non fanno tesoro del sacrificio degli altri; l’esaltazione della libertà; e infine il rispetto della dignità dell’uomo. Sebbene tutti, umili e grandi, patiscano le ferite della storia, i dolori di quanti vivono appartati sono “lievito trasformatore”, “possibilità e speranza di modificazione”6
della società. Le premesse di un domani più giusto sono poste da coloro che
operano, nonostante tutto. Emblematico è a tale proposito il botta e risposta
fra Catullo e Cesare in Cuore senza fine:
“CATULLO Ma non c’è niente … niente da fare … vero, Cesare?
CESARE Sopportare con coraggio. E agire. Agire fin all’estremo limite di quel che è consentito e un po’ più in là, Catullo. Tu hai la
5
La definizione è tratta da una battuta detta da Erodiade in La testa del Profeta, Milano, Garzanti
1965, p. 29.
6
E. Gioanola, Ritorno sotto l’albero del bene e del male: lo Zar delle farfalle nere, Recco, Le Mani
1995, p. 7.
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PER RICORDARE ELENA BONO
Va aggiunto che il tema caratterizzante della sua intera produzione è rappresentato dal riconoscimento che ogni forma di vita attesta la grandezza di
Dio, disposto a perdonare gli errori compiuti. Come del resto era già avvenuto nel trittico Uomo e Superuomo, la Bono presenta dunque la Passione di Cristo calata nella storia, incarnandola in individui reali o verisimili.
Per oltre sessant’anni nella Bono il teatro8 e la letteratura sono state intese come memoria e fedeltà, al servizio dell’uomo, del suo vivere come del suo
morire. In effetti il senso della morte assume per lei il significato di pienezza,
ma nel contempo anche di riscatto dell’esistenza. I suoi personaggi agiscono
nella Storia9, luogo primario di responsabilità morale e civile. Il suo, va sottolineato, è un Cristianesimo del tutto personale: disarmato ancorché consapevole ed umile, che è una risposta forte al nichilismo, teorico o di fatto, diffuso nel nostro presente. Significativamente la scrittrice ha affermato:
“Ciò che nel mio lavoro più mi conforta è il risultato degli spiriti:
il fatto che qualcuno, a suo dire, ne abbia ricavato un po’ di coraggio per vivere e qualcuno, perfino per morire”10.
La Bono avverte poi il
“dovere per ognuno di noi di essere presente e facitore (non semplice spettatore) della Storia”11.
Un critico a cui si deve il merito di aver individuato nella “potenza, finezza e profondità psicologica”12 gli elementi peculiari della scrittura dell’arE. Bono, Odio e amo. Tu forse mi chiedi … , Recco, EmmeE 1991, p. 33.
La Bono si era già cimentata, con eccellenti esiti, col teatro a partire dal 1951 con il dramma in
tre atti Ippolito. Dopo l’esordio aveva composto altri lavori: il dialogo Cesare e Bruto (1956); il dramma in tre atti La testa del profeta (1965); gli atti unici La grande e la piccola morte (1970); El entierro del Rey (1971); Ritratto di principe con gatto (1985); Ultima estate dei Fieschi o Il peso dell’armatura (1993); L’ombra di Lepanto e i sei quadri de Le spade e le ferite (1995); i drammi in due
tempi I Templari (1975) e Odio e amo, tu forse mi chiedi (1991); i drammi in tre atti Lo zar delle
farfalle nere (1994); Flamenco matto. Cena a metà quaresima in casa di don Giovanni (1996) e il dramma in sette scene, Saga di Carlo V e di Francesco I (2005). A questi titoli vanno aggiunti i dieci brevi atti unici usciti nel 2011 nel già ricordato L’erba e le stelle. Alcune di queste pièces sono state
rappresentate in Italia e in Francia. A questo robusto corpus drammaturgico vanno aggiunte la pregevole traduzione di una trilogia di Sofocle, Edipo Re, Edipo a Colono e Antigone, uscita nel 1977
e più volte riedita, nonché due azioni teatrali pubblicate nel 2008, Storia di un padre e di due figli
e Sera di Emmaus, suddivise rispettivamente in sette e in cinque scene.
9
. Per altre considerazione rinvio al mio saggio La fiducia ostinata della Bono nel far rivivere la storia, pubblicato in Teatro in Liguria alle soglie del Duemila (a cura di R. Trovato e L. Venzano), Erga,
Genova 1997.
10
L. Tagliaferro, La poesia dell’anti-alibi di Elena Bono, su “La nuova Campania”, 8 marzo 1975. La
definizione per di “letteratura dell’anti-alibi” era già stata espressa da N: Palumbo in un articolo pubblicato su “Corriere Mercantile”, il 19 dicembre 1970.
11
L. Porro Andriuoli, Intervista a Elena Bono, su http://www.ilportoritrovato.net. La studiosa è autrice del libro Valori umani e cristiani nella poesia di Elena Bono (Recco, Le Mani 1999).
12
G. Casoli, Novecento letterario italiano ed europeo, Città Nuova, Roma 2002, vol. 2, p. 67.
7
8
Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono
poesia. Io lo Stato. E qualunque cosa … dal falegname che fa una
sedia, a chi scrive un verso o una legge, farla per i secoli. Farla come
se ne dipendesse il destino del mondo”7.
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Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono
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tista chiavarese, ha evidenziato le radici profonde di un’operosità caratterizzata, come aveva già evidenziato alcuni anni prima Gioanola,
“dall’obbedienza all’imperativo di fare della scrittura, lo spazio dell’Altro, non del Sé. É questo rispetto radicale dell’Altro, cioè della realtà, a fare della letteratura e dell’arte il luogo primario della
verità”.
Autrice di libri che, come si legge13 nell’antologia di Casoli, sono un ex
lege nell’industria culturale, prosegue anche nei due ultimi componimenti la
ricerca avviata nella precedente produzione, indicando forme di resistenza contro quanti cercano di distruggere l’individuo. A giudizio della scrittrice, anche
con piccoli gesti è possibile combattere il Male. Quasi tutti i suoi personaggi,
storici e inventati, vengono colti nel momento del congedo dall’esistenza, nel
momento in cui passano in rassegna quanto hanno compiuto, dialogando anche in maniera non di rado aspra “con la propria anima e i propri ricordi”14. Burlamacchi, come altri protagonisti della drammaturgia della Bono, viene colto
in limine mortis. A tale proposito uno studioso spagnolo ha osservato acutamentepoco tempo fa:
“Determinadas obras teatrales de Elena Bono presentan como leitmotiv común el tema de la Meditatio mortis. Tema expuesto con
diferentes modulaciones ya que los espejos en los que se reflejan
sono diferentes pero con unas constances comunes. Se trata por
lo general de obras cuyos protagonistas son personajes históricos
pero pasados por el tamiz de la interpretación creadora de la autora. Son figuras históricas que en buena parte de sus vidas detentaron un gran poder, que sirven a Elena Bono de contrapunto a la
fugacidad del tiempo y a la nulidad del ser humano ante el momento decisivo de la muerte, o sea al momento de la rendición de cuenta ante el Creador, pues entonces nada importa sino salvar el alma”15.
(Determinate opere teatrali di Elena Bono presentano come leit-motiv comune il tema della Meditatio mortis. Tema esposto con diverse modulazioni
giacché gli specchi nei quali si riflettono sono differenti ma con delle costanti comuni. Si tratta in generale di opere i cui protagonisti sono personaggi storici ma passati attraverso il setaccio dell’interpretazione creativa dell’autrice.
Sono figure storiche che in buona parte della loro vita detennero un grande potere, che servono a Elena Bono da contrappunto alla fugacità del tempo ed alla
13
Il già ricordato Casoli, è stato tra i pochi- così si legge nell’ articolo, a firma di S. Guidi e F. Marchitti, Perché il Nobel non serve, uscito alla pagina 4 dell’”Osservatore Romano” la mattina del 26
febbraio 2014, che dopo Emilio Cecchi “hanno saputo scrivere con penna e giudizio raffinati quale fenomeno avessimo di fronte. Esemplare è la sua denuncia: “ È un fatto che quella che riteniamo la scrittrice italiana più importante della seconda metà del XX secolo sia da quasi quarantanni
emarginata dalla cosiddetta grande editoria”.
14
Così recita la didascalia del quarto componimento, Ultima conversazione di Michelangelo con la
morte. Anno 1564 inserito nel volume L’erba e le stelle, cit.
15
F. Diaz Padilla, Ante el espejo de la muerte en el teatro de Elena Bono, articolo che verrà pubblicato in un nuovo volume di saggi dedicato alla Bono.
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PER RICORDARE ELENA BONO
Un altro saggista ha scritto che la sua ispirazione
“spesso la guida verso il genere storico, dentro cui riplasma costantemente la divaricazione tra imperativi morali e necessità contingenti, tra cielo e mondo. Il passato, allora, al di là delle apparenze esteriori, sotto la sollecitazione di quel sofferto anelito spirituale, si smaterializza in un tempo e in uno spazio astratti, che sono
il tempo e lo spazio dei Valori modulati dall’etica cristiana”17.
Avvalendosi di un linguaggio originale, nei suoi testi ha saputo delineare personaggi duramente critici nei confronti del potere, che tende ad annullare il singolo. Nel contempo essi si oppongono con fermezza al nulla, proponendo, come rilevava tempestivamente e autorevolmente il sopracitato Gioanola, una forma di resistenza al dissolvimento dell’uomo, nella certezza che
qualcosa gli sopravviverà oltre la morte.
A quanto scrivevo nel 1995, la definizione che le è stata attribuita di scrittrice appiattita sui principi della Chiesa di Roma è fuorviante, o quantomeno
limitativa, per la corretta comprensione di testi che, come aveva intuito Dario
G. Martini in un saggio dedicatole nei primi anni ’50 del secolo scorso18, conducono un’ostinata e puntigliosa polemica contro il nulla. La Bono è intimamente cattolica, anche se il suo cattolicesimo ha evidenziato col tempo qualche venatura di maggiore asprezza. Il suo cristianesimo ama certo la croce, ma
non disdegna, quando sia necessaria, la spada19. Sono sempre più convinto che,
come alcuni laici, la scrittrice sia giunta a riconoscere che il nulla può essere
vinto anche da chi non crede in Dio ma nell’umanità. Anche se ognuno di noi
fosse destinato a dissolversi dopo la morte non per questo sarebbe condannata l’umanità. Significativamente i suoi testi si oppongono al nichilismo dell’arte e del pensiero, responsabile per tanta parte della disperazione di questa
epoca segnata da sconvolgimenti politici, sociali e ideologici. A quanto scrivevo in un breve saggio, il suo cristianesimo, inizialmente percorso da accenti di
un francescanesimo non edulcorato e progressivamente sempre più sostanziato di cose che di parole, si esplicita in componimenti”20 che invitano con fermezza alla battaglia “contro la distruzione dell’uomo”21. Secondo la scrittrice
La traduzione italiana è di Letizia Casella.
E. Buonaccorsi, Il teatro in Liguria dal 1945 al G. Ponte, a cura di, Bilancio della letteratura del Novecento in Liguria, Atti del Convegno, Genova, 4-5 maggio 2001, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova 2002, p. 133.
18
Dario G. Martini, Poesia e teatro di Elena Bono, Savona, “I quaderni del Raccoglitore”, n. 2, 1953.
19
Tale tesi è sostenuta anche da G. Cassinelli, nel volume Non la pace ma la spada, edito nel ’68
per i tipi della savonese Sabatelli. La tesi è fondata su quanto la Bono scriveva nell’exergo di Morte di Adamo, il suo primo libro, che faceva riferimento ad un passo del Vangelo di Matteo, X, 34:
“Non pensate che io sia venuto a portare pace nel mondo: io sono venuto a portare non la pace ma
la spada”.
20
R. Trovato, Un oltre senza vuoto. Riflessioni sul teatro di Elena Bono, su “ La Riviera Ligure”, n.
32, maggio-settembre 2000, p.29.
21
E. Gioanola, Ritorno sotto l’albero del bene e del male, cit., p. 20.
16
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nullità dell’essere umano nel momento decisivo della morte, ossia nel momento della resa dei conti davanti al Creatore, poiché allora nulla importa se non
salvare l’anima”)16.
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anche con piccoli gesti è possibile combattere il Male, che nei suoi testi si identifica molte volte con la ragion di stato. Di qui l’“ossessione del potere”22 da cui
sono nati, per limitarmi ai testi maggiori, personaggi come Catullo, Cesare, Erode, Federico II, papa Innocenzo IV, il precettore dei Templari, Giovanna d’Arco, Carlo V, Andrea e Gian Andrea Doria, lo zar Paolo I e Garibaldi. La Bono li
sa cogliere “sul discrimine tra il Nulla e l’Eternità”, vale a dire nel momento in
cui “si aprono ad una rivisitazione di sé e del proprio vissuto, in tutto il loro
splendore e la loro miseria”23. Nella sua corposa produzione, costituita da quattordici testi scritti fra il ’51 e il ’97, e negli anni successivi da poche ma interessanti prove, la Bono fa rivivere gli eventi storici nella prospettiva di un’educazione alla coscienza. Si vogliono capire le cause che hanno inciso sulla storia, senza tralasciare peraltro l’approfondimento della psicologia dei personaggi. Esemplare in questo senso è il monologo di Andrea Doria in Ritratto di principe con gatto, una delle sue pièces più belle per la sobrietà della costruzione
e la limpidezza del linguaggio. Davanti all’eternità, l’uomo più potente della
Genova della prima metà del Cinquecento fa un bilancio disincantato della propria esistenza, prendendo coscienza di avere desiderato il bene, ma di avere
anche compiuto il male. Tale consapevolezza fa sì che il congedo dalla vita gli
sia meno doloroso. Del resto per stare meglio – lo afferma Giobatta, il capo del
villaggio devastato dai Saraceni in Le spade e le ferite. “Basta un peu de carité”24 e tanta solidarietà nei confronti di tutti. Lo stesso personaggio poco oltre aggiunge con tono paterno ma fermo:
“A peggio cossa è fa’ dô mâ. […] A ‘sto mondo, figgê, gh’è poco da
sta’ allegri: terremoti, balzelli, e peste e fame e cavallette. E gh’è
pure a guerra, no capìmo perché. Forse manco o capisce chi a scadena. Ma de tutto, pazienza. Diè ne compensià”25.
L’originale scrittura teatrale della Bono si caratterizza, come hanno rilevato due studiosi intelligenti, Elio Andriuoli e Graziella Corsinovi, nella “lucidità di un pensiero sempre pronto a cogliere i problemi politici e sociali, anche meno noti, dell’epoca in cui il dramma viene ambientato”26, nel recupero
di “personaggi e sfondi storici rigorosamente documentati” e nell’intensità dei
messaggi affidati “ai nudi momenti di verità dell’anima, spalancata sull’abisso dell’oltre” 27. E ancora Andriuoli osserva che il teatro della Bono si caratterizza per la “lucidità di un pensiero sempre pronto a cogliere i problemi politici e sociali, anche meno noti, dell’epoca in cui il dramma viene ambientato”28.
La Bono sa rendere bene le sfumature del cuore umano. Detto in altri termini
i suoi personaggi, piccoli e grandi, sono vivi sulle scene. Nel sopra segnalato
E. Gioanola, Storia della letteratura italiana, Librex Scuola, , Milano 1996, p. 946.
G. Corsinovi, Lo Zar delle farfalle nere, nel fascicolo “LiguriaSpettacoli” supplemento a “Liguria”,
marzo-aprile 1995, p. VII.
24
E. Bono, Le spade e le ferite, Le Mani, Recco 1995, p. 78.
25
E. Bono , Le spade e le ferite, cit., p. 79.
26
E. Andriuoli, Flamenco matto, nel fascicolo ‘’LiguriaSpettacoli”, supplemento a “Liguria”, maggiogiugno 1997, p. VIII.
27
G. Corsinovi, cit., p. VIII.
28
E. Andriuoli, Flamenco matto, nel fascicolo ‘’LiguriaSpettacoli”, supplemento a “Liguria”, maggiogiugno 1997, p. VIII.
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“Penso che lo scrivere sia una forma di visitazione, una dettatura. […] Meno v’è dello scrittore nella pagina e meglio è. Perché se
29
Nei testi maggiori l’impasto linguistico vede la sapiente commistione di italiano, antico e moderno, francese, provenzale, tedesco e spagnolo.
30
Le sotto riportate citazioni sono tratte dalla pagina 165 de Il teatro di Elena Bono, tesi discussa
con me presso l’Università di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia, nel dicembre 1998 “Dalle prime prove giovanili sino al recente, bellissimo Flamenco matto, sembra che Elena Bono non abbia
fatto altro che rimettere ogni volta in discussione se stessa e il suo lavoro rifuggendo da facili affermazioni commerciali e senza cristallizzarsi sui risultati (peraltro notevoli) ottenuti. Naturalmente la nostra autrice ha scontato un impegno e una coerenza di tal genere nell’indifferenza dell’ambiente letterario (le sue opere, pubblicate da un piccolo e coraggioso editore ligure hanno una circolazione assai limitata) e con la latitanza del mondo teatrale, evidentemente legato più a ragioni
di mercato che non attento alla vera cultura”. Subito dopo aggiungeva: “Recensendo Ritratto di principe con gatto, il già ricordato Dario G. Martini si convinceva ancora di più di quanto sia falsa la
dichiarazione che non esistono autori italiani viventi degni di veder rappresentati i loro testi. Di recente, proponendo il suo nome in un’antologia della letteratura italiana, Elio Gioanola ha parlato
di atto dovuto” nei confronti di un’artista difficile e controcorrente, apprezzata e tradotta all’estero negli anni ’50-’60”.
31
Per le realizzazioni dei suoi testi in palcoscenico e alla radio rinvio all’Appendice bibliografica
con cui si chiude il volume Il castello in fiamme e l’unguento della parola. Elena Bono e la sua opera, cit., pp.275-279.
32
È la storia dell’ultima giornata di Giovanna d’Arco nella prigione di Rouen, dove in un ultimo incontro sta per affrontare il suo giudice, il vescovo Cauchon. Questi le propone un accordo inaccettabile: uscire di prigione e sposarsi per farsi dimenticare politicamente, a patto che una strega prenda il suo posto sul patibolo.
33
Testimonianza dell’autrice in Atti delle giornate di studio su Edipo, convegno tenuto a Torino fra
l’11 e il 13 aprile 1983, p. 58.
Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono
Requiem per Francesco Burlamacchi è presente il singolare impasto linguistico, caratterizzato in questo caso dalla felice commistione di italiano, latino e
spagnolo29. Ne La testa del brigante troviamo la citazione dei primi cinque versi dell’Iliade di Omero nell’ostica versione di Vincenzo Monti (1754-1828), con
cui per decenni si sono trovati a fare i conti gli studenti delle nostre scuole medie. Mancano invece, come nei testi maggiori l’alternanza di registri alti e bassi, arcaici e moderni.
A quanto annotava una mia allieva, Patrizia Pitto, nella sua tesi di laurea, la scrittrice ha rivelato una straordinaria capacità di rinnovarsi30.
Le battute dei personaggi della Bono, in equilibrio fra aulico e familiare, sgorgano naturalmente, rendendo la parola ferma e incisiva, in grado di rendere tutte le sfaccettature dell’anima umana. Anche per questo arriva in maniera diretta al pubblico, come hanno dimostrato le quattro regie firmate, fra
il ’94 e il ’97, da Daniela Ardini, e quelle di Ugo Gregoretti e Pino Manzari de
Le spade e le ferite e I templari, nell’estate del 2000 e del 2002, alla Festa del
teatro a San Miniato, e prima ancora l’allestimento in Francia nell’aprile 1999
de La grande e la piccola morte31 col titolo Jeanne ou la mort volée32, per la regia di Sophie Elert.
Fin dall’esordio la Bono ha avuto ben presente la questione della lingua,
nodale a teatro. In effetti già nei primi anni ’80 aveva riconosciuto che il problema non era astratto ma “un fatto istituzionale […], grazie al quale i singoli personaggi” gli si rivelavano “attraverso stilemi connotativi propri, non interscambiabili”33. Nell’86 precisava:
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lo scrittore ascolta, trascrive ciò che vede, ecco, queste sono visioni; è un altro discorso che ci interessa e che diventa un fatto universale”34.
Parlando nel 1999 ai miei allievi di Flamenco matto. Cena a metà quaresima in casa di don Giovanni Tenorio 35, una sorta di auto sacramental, articolato in tre tempi di robusta teatralità, in cui era proposta la versione di Don
Giovanni redento, che trova il precedente nel Don Giovanni Tenorio composto
da Zorrilla nel 1844, così illustrava il suo personale input creativo:
“I miei personaggi mi si presentano spontaneamente. In una prima fase mi limito a osservarli e ad ascoltarli, trascrivendo come
meglio mi riesce le loro parole. In un secondo tempo però il mio
compito si fa più arduo in quanto devo restituire accanto alle battute realmente pronunciate, la tonalità e il timbro inconfondibile
delle loro voci, l’abbigliamento con cui mi si sono presentati, i movimenti e i gesti compiuti, i colori visti e i suoni uditi”.
Si tratta di un procedimento che, per sua esplicita affermazione, richiede per un verso l’identificazione e per l’altro il distacco dalle sue creazioni. A
quanto si legge alla pagina 92 del volume di Piera Bruno segnalato nella seconda nota, la stessa commediografa è consapevole che la sua è
“una scrittura attiva, dove io sono presente come una radio ricevente o un nastro magnetico che registra eventi e voci diverse”.
Negli ultimi tempi i già ricordati allestimenti francesi de La grande e la
piccola morte e alla Festa e quelli italiani del Teatro di San Miniato de Le spade e le ferite e in piazza San Matteo a Genova della Ardini, hanno favorito una
ripresa di interesse per una scrittrice complessa e sfuggente che al debutto aveva suscitato per un verso l’interesse del critico Emilio Cecchi e dell’editore Garzanti, e per l’altro l’attenzione del regista Orazio Costa Giovangigli e di due interpreti della levatura di Emma Grammatica e di Gualtiero Tumiati. Autrice mai
ripetitiva, capace di una straordinaria evoluzione di contenuti e linguaggi, la
Bono parla al pubblico con semplicità, comunicando la speranza che l’uomo
possa finalmente raggiungere e una nuova e più equilibrata dimensione. La sensibilità poi con la quale sa cogliere i dubbi e gli interrogativi dell’uomo di tutti i tempi fa sì che essa sappia reinterpretare con sensibilità moderna drammi della passione sotterranea che alla fine affiorano con grande forza, e altri
dell’intrigo politico condotto lucidamente e dai quali emerge la tragica doppiezza della natura umana.
Intervista pubblicata su “Il Lavoro”, 25 gennaio 1986.
Nel ricevere questo testo, uscito nel 1996, l’anno stesso della stesura, mi aveva colpito la seconda parte della dedica autografa in cui la Bono definiva il suo un “don Giovanni redento e purificato, forse perché venuto a visitarmi quando ero, giusto un anno fa, tra la vita e la morte, tra questo
triste mondo e Dio”.
34
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PER RICORDARE ELENA BONO
Roberto Trovato Riflessioni sul teatro di Elena Bono
In ogni caso la Bono, di fronte alla crisi dei valori che ha travolto l’umanità ad un certo punto della storia, che persiste tuttora, afferma la propria fede
in Dio, considerato da lei un punto di riferimento importante, dal quale muoversi per ritrovare noi stessi e per ricostruire (parafrasando una riflessione di
Kaltenbrunner, soldato tedesco protagonista del romanzo Come un fiume, come
un sogno) “l’uomo dentro di sé”, rifiutando di continuare come se nulla fosse
accaduto:
I testi della Bono evitano le secche dell’ ideologismo per la forte passione civile da cui sono sostanziati e innervati. Per questi motivi le sue pièces, sostenute da un grande rigore artigianale, dal pieno dominio della materia e da
un talento indubbio, segnano profondamente.
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Letizia Casella Elena Bono accolta in Spagna
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PER RICORDARE ELENA BONO
ELENA BONO ACCOLTA IN SPAGNA
di Letizia Casella
Nel settembre 2009 ho incontrato per la prima volta Elena Bono. Conoscerla è stata per me un’esperienza indimenticabile. Lei mi conquistò immediatamente. La magia delle sue parole e della sua grazia si è ripetuta ad ogni
successivo incontro. Non avrebbe potuto essere diversamente, come sa bene
chiunque abbia avuto il piacere di frequentarla. Questa donna minuta mi emozionava ogni volta per una forza di volontà non comune, la cultura vastissima,
un garbo d’altri tempi e una delicatezza che faceva sembrare la sua casa un’oasi sospesa sul mondo.
Ho il privilegio di far parte da alcuni anni di un gruppo di ricerca, Escritoras & Escrituras, diretto magistralmente da Mercedes Arriaga, docente di Filologia Italiana presso l’Università di Siviglia. È stata la Arriaga a volere con determinazione e a curare con passione un convegno internazionale dedicato alla
scrittrice italiana, che ha avuto luogo a Siviglia il 7 e l’8 giugno 2013. Il gruppo svolge da anni ricerche per dare visibilità a autrici che hanno contribuito
in modo determinante allo sviluppo della letteratura, ma che sono state spesso poco apprezzate o ignorate.
Il titolo della manifestazione era Ausencias: para la reconstrucción del
canon en la literatura italiana contemporánea. El caso de Elena Bono (Assenze: per la ricostruzione del canone nella letteratura italiana contemporanea.
Il caso di Elena Bono). Pur essendo una figura di grande spessore culturale, morale, umano, in Italia è poco conosciuta. Sebbene i suoi testi siano stati tradotti in diverse lingue straniere, nel nostro paese su di lei grava un silenzio che
dura da molti anni. Poche, anche se autorevoli, sono stati le persone che l’hanno sostenuta. Tra queste segnalo Francesco De Nicola e Roberto Trovato che
hanno partecipato al convegno andaluso con due relazioni accurate. Durante
l'incontro sivigliano sono stati presentati due importanti libri, freschi di stampa: il primo è Le nevi del Fujiyama. La via della catarsi. Studi critici su Elena
Bono 1, raccolta di saggi di studiosi italiani e spagnoli, per il quale mi pare doveroso ringraziare Antonella Cagnolati, direttrice della Collana Donne nel Novecento che esce per i tipi della romana Aracne. Il libro è impreziosito dalla copertina della pittrice e scrittrice Adriana Assini.
Nella premessa del volume la Arriaga definisce la Bono:
“una scrittrice che parla alla coscienza del mondo”, perché “ci mette davanti a verità scomode. Verità che non vogliono essere ascoltate e che soltanto il fatto che siano state annunciate ed enunciate suppone in sé un atto di sovversione e di ribellione.[...] Molti dei
testi di Elena Bono girano, appunto, intorno al tema del non dimen1
D. Cerrato - L. Casella, a cura di, Le nevi del Fujiyama. La via della catarsi. Studi critici su Elena
Bono, Aracne, Roma, maggio 2013.
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Daniele Cerrato, che ha avuto un ruolo importante nella cura del volume, dopo avere spiegato nella sua lucida introduzione il titolo, indicato dalla
stessa Elena in ricordo da una sua lirica che porta lo stesso titolo, in cui aveva scritto che le nevi del Fujiyama erano per lei un simbolo di purificazione,
osserva che la voce della scrittrice italiana
“è tenue come quella di una profetessa, ma sa arrivare nella profondità dell’animo umano, descrivere il dolore e la sofferenza, come
solo chi l’ha conosciuta da vicino, sa accarezzare il cuore e lo sa
guidare su e giù per i tornanti della vita. Le Nevi del Fujiyama sono
il viaggio e insieme la meta, crocevia di cammini e di destini, la via
della catarsi che, ognuno a suo modo, ha percorso e vissuto”3.
Andrés Pociña Peréz, docente presso l’Università di Granada, da profondo conoscitore di Elena Bono qual è, nel suo contributo ripercorre i momenti
dell’accoglienza in terra iberica delle opere della scrittrice4. Lo studioso puntualizza che già nel 1954 venne pubblicata la poesia Negro Blue5, tradotta in
gallego da Dictinio de Castillo Elejabeytia. L’anno dopo fu Eduardo Moreiras a
tradurre in gallego tredici poesie tratte dalla silloge I galli notturni6. La traduzione venne salutata con entusiasmo ed ammirazione da un altro illustre scrittore, Álvaro Cunquerio. Nel 1961 uscì a Barcellona la traduzione di Morte di
Adamo (Muerte de Adán7), ad opera di Jaime Berenguer Amenós. Nel 1965, a
Malaga, sulla rivista “Caracola. Revista malagueña de poesía”, apparve la traduzione di María Antonia Sanz Cuadrado della poesia Ora conosco le strade.
2
M. Arriaga Flórez, Elena Bono, una scrittrice che parla alla coscienza del mondo in, D. Cerrato-L.
Casella, cit., 9.
3
D. Cerrato, cit., p.21.
4
A. Pociña Perez, Tracce poco note della ricezione di Elena Bono in Spagna, in, D. Cerrato-L. Casella, cit., 19.
5
E. Bono, Poesie, Opera omnia, Le Mani, Genova 2007, p. 166.
6
E. Bono, Xardín dos cabaleiros de Malta, Traducción do italiano de Eduardo Moreiras, Poetas de
Hoxe, Buenos Aires, 1955.
7
E. Bono, Muerte de Adán, Versión del italiano por J. Berenguer Amenós, Editorial Vergara, Barcelona, 1961.
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ticare, perché l’oblio è una malattia dei popoli, e una morte molto più dura della morte stessa. Elena Bono è una delle poche scrittrici italiane contemporanee che ha intravisto nella Storia recente un contributo prezioso per la crescita civile ed etica, non solo
per il suo paese, ma di tutta l’umanità che deve far tesoro dei tempi bui per far sì che la barbarie non possa ripetersi. Elena Bono tratta allo stesso modo, con la stessa dignità, sia gli eroi della Resistenza sia le figure mitiche o bibliche per sottolineare che la Storia, cioè la vita di tutti i giorni, può diventare archetipica, coscienza collettiva, modello da imitare o da evitare.
Aldilà delle ferite che la vita procura, Elena Bono mantiene salda
la fede nella parola, la parola che ci sana e ci salva, e ci rende migliori nell’incontro con gli altri ai quali va destinata”2.
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Il mio contributo è dedicato al testo Una valigia di cuoio nero 8 , il secondo volume della trilogia Uomo e superuomo. A mio avviso, è un testo che ben
rappresenta quello che è stato per Elena una sorta di missione, ossia arrivare
“al cuore del lettore, senza mai ferirlo, cercando di non scrivere mai una sola
parola inutile”. La scrittrice ci dimostra come in una guerra non ci siano vincitori, ma soltanto vinti, da qualunque parte la si guardi, perché il dolore è lo
stesso, non ha nazionalità né religione né ideologia; lei dà voce a ebrei, a soldati fascisti, a padri tedeschi e ne racconta le sofferenze e le lotte per sconfiggere il Male.
Stas’ Gawronski, così ha annotato a proposito de La valigia di cuoio nero:
“questo capolavoro della letteratura italiana del dopoguerra è indirettamente una lente d’ingrandimento sui nostri giorni e sul Grande Fumo di oggi, non più quello dei forni crematori, ma quello dell’individualismo più esasperato, del successo a tutti i costi, della
minimizzazione dell’umano e di qualsiasi dimensione religiosa”9.
Proprio per questo motivo lo ritengo un testo attualissimo, che fa molto riflettere sulla necessità di perdonare se stessi, per potersi amare ed amare gli altri, pensieri espressi magistralmente da Elena anche con una delle sue
poesie, Il magrissimo asceta fece un interminabile cammino:
Il magrissimo asceta
fece un interminabile cammino
per arrivare all’altopiano
dove sedeva il sorridente Illuminato
e gli stette davanti
con la sua ombra lunga contro il sole.
- Spiegami, - disse – come accade questo:
dopo digiuni e veglie
e tormenti e preghiere
ed infinite ed infinite
meditazioni,
io non ho che il deserto dentro di me. –
- Iddio ama se stesso, rispose il sorridente Illuminato,
- va’ ed aggiungi anche questa
alle infinite tue meditazioni. –
Dopo aver meditato tutta la notte
Tornò l’asceta e disse:
- Iddio è perfetto:
Come potrebbe non amare la Perfezione? –
- E come tu potresti amar te stesso
vedendo in te l’imperfezione?
Nessun uomo si ama veramente,
8
9
E. Bono, Una valigia di cuoio nero, Le Mani, Genova 1998.
S. Gawronski, Elena Bono, Il classico nascosto, in http:// www.railibro.rai.it/articoli.
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Elena Bono, che è stata testimone degli orrori della seconda guerra mondiale, ha impiegato gran parte della sua vita a parlare di quell’esperienza sconvolgente, come atto di fedeltà verso chi è morto. Ecco cosa scriveva in un brano dedicato al ricordo delle vittime di Sant’Anna di Stazzema:
“Anch’io ho visto dieci uomini andare alla fucilazione e mi è giunto a distanza il loro grido. […] Non c’è vita senza libertà. Senza libertà sarebbe come vivere senza l’aria e la lotta per la libertà non
finisce mai, perché non è soltanto una lotta contro altri. Ma una
lotta interiore per liberarci di quello che Max Picard chiamava “Hitler in noi” cioè lo spirito di sopraffazione, di intolleranza. In questa fraternità vi abbraccio e vi sento vicini e sempre presenti nel
lavoro che continuo considerandolo una battaglia, un atto di fedeltà verso quelli che sono morti per restituirci quella libertà che
è la dignità e il senso stesso della vita umana”11.
I contributi degli altri partecipanti al volume sopra ricordato sono Aurora López López, Andrea Sciffo, Francesco De Nicola, Stefania Segatori, Milagro Martín Clavijo, Roberto Trovato, Patrizia Pitto e Salvatore Ciulla.
Il secondo testo presentato alla conclusione del convegno di Siviglia è stato Cerrar los ojos y mirar12, scelta di poesie della Bono, tradotte in castigliano da
Mercedes Arriaga. La traduttrice spiega che l’antologia è il frutto di due circostanze che potrebbero considerarsi parte dei misteriosi percorsi che traccia il destino. La prima è legata ad un viaggio in Liguria, in cui ha incontrato, assieme a Trovato e Cerrato, la scrittrice ammalata. L’incontro viene così ricordato:
“A sus noventa y un años, mantiene intacto su espíritu de muchacha, su conversación lúcida, su interés por el mundo y las personas,
aún sin poder ver. Nosotros, los visitantes, nos convertimos a su ceguera de inmediato, “cerramos los ojos para poder mirar” a través
de sus palabras, y ella nos llevaba. Su voz nos guiaba de un argumento a otro, su voz nos hacía entrar y salir de libros, su voz nos
traía y nos llevaba de página en página, recitando poesías suyas o
citando de memoria lecturas. Su presencia prodigiosa me conquiE. Bono, Poesie, Opera omnia, op. cit.,, p. 408.
E. Bono, Non c’è vita senza libertà (18/7/2007), in Poesie e brani dedicati a Sant’Anna e alla Resistenza, www.santannadistazzema.org, consultazione del 25/11/2012.
12
M. Arriaga Flórez, traducción de, Cerrar los ojos y mirar. Elena Bono, ed. Benilde S.L., Sevilla 2013.
10
11
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poiché nessuno
ama le cose verminose.
Di qui nasce il deserto
dentro e fuori di voi.
Ma tu imita Iddio
nella misericordia
che è la suprema Perfezione.
Va’ e perdona te stesso, sorrise a lui l’Illuminato10 .
25
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stó, me rendí a la clarividencia de sus versos, a su desvelamiento profundo de las cosas y, cuando salí de allí, me propuse hacer esta antología para que otros pudieran gozar de este encuentro”13.
(“Con i suoi novantun anni, conserva intatto il suo spirito di ragazza, la
sua conversazione lucida, il suo interesse per il mondo e le persone, anche senza poter vedere. Noi, i visitanti, ci convertimmo alla sua cecità immediatamente, chiudemmo gli occhi per poter guardare attraverso le sue parole, e lei ci conduceva. La sua voce ci guidava da un argomento all’altro, la sua voce ci faceva entrare e uscire dai libri, la sua voce ci trasportava di pagina in pagina, recitando poesie sue o citando letture a memoria. La sua presenza prodigiosa mi
conquistò, mi arresi alla chiaroveggenza dei suoi versi, alla sua rivelazione profonda delle cose e, quando uscii da lì, mi proposi di fare questa antologia affinché altri potessero godere di quell’incontro”) (traduzione mia).
Nel volume la Arriaga ha scelto alcune liriche che rivelano le impronte
della personalità della scrittrice: figure femminili, versi autobiografici o personaggi mitici presentati in modo insolito, attraverso “quello sguardo interiore” che permette di sentirne vicinissime le voci.
La seconda circostanza, legata alla scelta di alcuni poemi sulla Resistenza, è relativa alla casa della famiglia Cerrato, a Vado Ligure, dove la docente
spagnola ha visto la fotografia del nonno di Daniele, Guido, un partigiano soprannominato Tarzan. La scelta delle poesie della Bono, afferma la Arriaga, non
è stata sua, perché sono state le parole della Bono a scegliere lei, attraverso il
ritratto di Guido. Non a caso la valente studiosa spagnola scrive:
“Se trata de una épica en la que los héroes no se sienten vencedores, sino vencidos por el peso del dolor y de la muerte de otros,
derrotados por la absurdez de un mundo enloquecido”14.
(Si tratta di un’epica nella quale gli eroi non si sentono vincitori,
ma vinti dal peso del dolore e della morte di altri, distrutti dall’assurdità di un mondo impazzito).
Una delle liriche più significative inserite nella silloge è Lamento di David sul gigante ucciso 15:
La notte è troppo pesante sopra il mio capo,
la luna non s’alza
non s’alza dalle colline,
io grido
e non mi risponde la terra di bronzo.
Ma ieri chiamavo la luna su quelle colline
e il giovane vento a giuocare
13
14
15
M. Arriaga Flórez, cit., p. 15.
M. Arriaga Florez, cit., p. 18.
E. Bono, Poesie, Opera omnia, cit., p. 295; in M. Arriaga Flórez,. cit., p. 118.
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Nella conclusione la Arriaga osserva acutamente:
“Quizàs traducir es una la ùnica foma que se conoce de permanecer cerca de la persona y de las palabras que nos impresionan y nos
conforman y, al mismo tiempo de compartirlas con la personas que
las van a leer quando se termine el libro. Estas pàginas se proponen
transportar idealmente, a quien se aome a ellas, a esa habitaciòn de
Chiavari, en la que Elena Bono sigue recitando sus versos”16.
16
Ibidem.
Letizia Casella Elena Bono accolta in Spagna
nella foresta
e i cani e le nuvole
l’acqua del fiume
ed il sonno.
Docile sonno, o mio agnello perduto
io non so dove.
Giuochi che David
non giuocherà mai più.
Se io fossi morto, mia madre
piangerebbe su me,
s’io fossi ferito, qualcuno
laverebbe il mio sangue.
Non piange nessuno
se in qualche parte ho perduto
il mio vergine cuore;
se grondo del sangue di un altro
nessuno mi lava.
Tutti laggiù fanno festa,
io sono qui solo
con quello che ho ucciso.
Alzati, rosso gigante
ammucchiato ai miei piedi,
riprenditi il tuo respiro
le cento teste
e l’ira
e le armi di bronzo.
Ridammi la semplice fionda
e il mio cuore
il mio veloce cuore
in corsa sulle colline.
Tu non rispondi, gigante di bronzo.
Terra, tu non rispondi.
E sia pure così.
È inutile gridare.
Dunque la luna ieri
non si alzava per me.
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(Forse tradurre è l’unica forma che si conosce per rimanere vicini alle persone ed alle parole che ci impressionano e ci conformano e, al tempo stesso, di condividerle con le persone che le leggeranno quando si finisca il libro. Queste pagine si propongono di
trasportare idealmente, chi si affacci ad esse, a quella stanza di Chiavari, nella quale Elena Bono continua recitando i suoi versi).
Altri studiosi, che hanno preso parte al convegno o che sono stati impossibilitati a farlo, hanno espresso comunque il desiderio di testimoniare il
loro apprezzamento per la scrittrice. Come accennavo in precedenza, a Siviglia si sta lavorando per raccogliere i saggi pervenuti, e che perverranno, in un’altra raccolta che verrà pubblicata il prossimo anno.
Mi piace segnalare un saggio recente di Fausto Díaz Padilla, Poder religioso y poder civil en el teatro de Elena Bono 17, presentato durante il convegno
Scrittrici ai margini della cultura, svoltosi presso l’Università UNED di Madrid
nell’ottobre 2013. Un altro saggio dello stesso studioso, già segnalato nell'intervento di Roberto Trovato, verrà forse edito il prossimo anno.
In Spagna, docenti di Granada, Madrid, Oviedo, Salamanca, Siviglia, parlano di Elena Bono, a differenza di quanto non si faccia nelle nostre Università.
Nell’avviarmi al termine del mio intervento ricordo che, a parte le numerose battute in spagnolo ricorrenti nei suoi testi teatrali, un suo lavoro destinato al palcoscenico, Flamenco matto, è ambientato a Siviglia. Di altre due pièces poi, El entierro del Rey e della prima parte di Saga di Carlo V e di Francesco I, il protagonista è l’imperatore Carlo V.
Concludo con una lirica della Bono tradotta con molta finezza da Mercedes Arriaga:
Despedida
A todos, a todo adiós.
Dejadme marchar.
Al final de esta dura jornada
he descubierto que se puede llorar mucho
sin derramar ni una sola lágrima.
Congedo
A tutti, a tutto addio.
Lasciatemi andare.
Al termine della dura giornata
ho scoperto che si può piangere tanto
e non versare una lacrima sola)18.
17
F. Díaz Padilla Poder religioso y poder civil en el teatro de Elena Bono, in Actas: Ausencias, Escritoras en los márge de la cultura, Arcibel Editores, Sevilla 2013.
18
E. Bono, Poesie, Opera omnia, cit., p. 428; in M. Arriaga Flórez, cit., p. 122.
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DUE POESIE
Di Aldo Forbice
Si affollano nella mia mente
i tuoi stimoli pungenti,
le tua amarezze lascive,
i tuoi tormenti rituali.
le tue ricorrenti litanie infantili,
Che cosa dire ora, di fronte al deserto,
delle idee, delle riflessioni colte,
dei sottili ragionamenti che rinviano,
sempre, ogni decisione?
Nulla che possa veramente
cambiare le cose, che renda la palude
una foresta lussureggiante, abitata
da uccelli variopinti, volpi, lepri
e cavalli bianchi che corrono
senza mai fermarsi .
Quando i pianeti si scontrano
provocano apocalissi, quando
due esseri umani si scompongono,
si sovrappongono, si feriscono,
si annullano, l’esplosione
è imprevedibile, anche se
tutto era già previsto.
Ho parlato di uomini, donne, bambini
che subiscono soprusi, violenze, stupri…
Quegli orrori rimangono sospesi,
nella coscienza, non lasciano indifferenti,
non increduli, non “assenti”, ma quel masso
si tende a rimuoverlo e polverizzarlo,
sino a farlo scomparire dalla nostra vista.
Ho parlato di diritti umani violati e gli occhi
degli ascoltatori sembravano impietriti, anche
illanguiditi da qualche lacrima.
Poi però qualcuno ha pensato
che “era meglio passare ad altro” perché
quel vero declino della violenza
non ci sarà mai e che la rivoluzione umanitaria
appare sempre più lontana.
E un altro ha aggiunto:
e allora perché intristirsi?
Aldo forbice Due poesie
DUE POESIE
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Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra
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SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA
SPUNTI DAGLI SCRITTI
SULLA GRANDE GUERRA
di Giuliana Rovetta
Nessuno infatti, è così stolto da preferire
la guerra alla pace,
poiché in tempo di pace sono i figli che seppelliscono i padri,
mentre in tempo di guerra sono i padri che seppelliscono i figli.
Erodoto, Storie, I, 87
Proporsi di raccontare “la guerra” come se fosse un soggetto fra tanti è quasi impossibile. Ogni guerra porta avanti la propria storia e nessuna
somiglia a un’altra, così come dissimili sono i luoghi, i tempi, le circostanze, gli antefatti: tanto più gli individui. Osservandola da vicino, come evento vissuto in prima persona, la guerra in sé è così frantumata, mimetizzata
e sfuggente che in pratica non diventa mai un vero oggetto d’indagine. Incomprensibile, fantomatica è solo il nome generico di un immane disastro che i
suoi narratori-protagonisti, soldati e civili, testimoni e scrittori, poeti e cronisti, attraversano per un tempo e uno spazio circoscritto. Abbracciarne, in
un tentativo di descrizione sistematica, le infinite componenti è un progetto utopico. E il segno che lascia nell’animo dell’uomo, si fa ora profondo ora
sbiadito col mutare dello sguardo, che non resta lo stesso mentre gli eventi
incalzano rispetto a quando, alla fine, ci si ferma a costatare le perdite e a
contare i morti. E tuttavia la Grande Guerra, con la raffigurazione inedita della morte di massa e della distruzione a ritmi industriali, mette in scena una
produzione letteraria e figurativa che occupa un posto di grande rilievo nell’esperienza artistica del Novecento.
Approdati o catapultati da giovani nel conflitto armato (ma alcuni volontari come Renato Serra, Henri Barbusse e lo stesso Bissolati avevano superato largamente l’età dell’arruolamento), coloro che avevano capacità e volontà di scrivere, hanno portato in quel contesto la propria baldanza, l’impronta di una personale sensibilità e l’eco del loro tempo, ma hanno anche
subito traumi che li cambieranno per sempre. La molteplicità delle voci, discontinue e anche in intima contraddizione, compone un mosaico che, fra grandi linee o minimi e sconcertanti dettagli, ben lungi dall’esaurire ogni dubbio
rende invece inquieti, quanto più le esperienze conosciute si coagulano in un
eccesso d’impressioni, ricordi, turbamenti, enunciazioni che, sebbene affrontati in gruppo saranno poi elaborati singolarmente. Per chi scrive sulla scorta di competenze letterarie specifiche, confrontarsi con la guerra significa innanzitutto interrogarsi sul proprio ruolo d’intellettuale, cioè sulla capacità
di incidere nelle menti di altri, usando il linguaggio come mezzo di convincimento o straniamento. In secondo luogo la domanda riguarderà quale sia
la funzione (posto che ve ne sia una ammissibile e identificabile) della lette-
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SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA
1
Ricordiamo alcuni testi base sullo studio e l’interpretazione della Grande Guerra attraverso le testimonianze scritte di poeti e scrittori: Mario Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, Laterza, Bari,
1970; Paul Fussel, La Grande Guerra e la memoria moderna, Il Mulino, Bologna, 1984; Antonio Gibelli, La grande guerra degli italiani (1915-1918), Rizzoli, Milano, 1998; Andrea Cortellessa, Le notti chiare erano tutte un’alba, Bruno Mondadori, Milano, 1998; AA.VV., Écrire la guerre, Nouveau Regards, Magazine Littéraire, Parigi, 2013, sotto la direzione di Laurent Nunez.
2
Abbreviazione di la dernière des dernières, vale a dire l’ultimissima (guerra).
3
Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano, Einaudi, Torino, 1945.
4
Henri de Montherlant, Chant funèbre pour les morts de Verdun, Grasset, Parigi, 1925.
Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra
ratura rispetto alla società e all’individuo nelle condizioni estreme e irrituali di un conflitto armato1.
La Grande Guerra, evento catalizzatore della “modernità”, è nuova anche nel nome, originato dal basso come espressione adatta a suggerire una dimensione terrorizzante, assunta subito come irripetibile: auspicio condiviso
Oltralpe dove la Guerre de Quatorze viene indicata ultimativamente “la der des
ders”2. In effetti l’evento bellico 1915-18, sconsideratamente immaginato breve nella sua evoluzione, è reputato un’occasione unica rispetto al futuro, ma
che rompe anche in modo netto col pur vicino passato, costringendo tutti gli
individui coinvolti (insolitamente riuniti in modo eterogeneo: studenti, operai,
contadini, intellettuali, abitanti del nord e del sud) a fronteggiare problemi inediti e a superare soglie fino a quel momento inaspettate: l’ampia mobilitazione generale, il peso del cosiddetto fronte interno, l’erosione progressiva dei margini di quotidianità, la finalizzazione di ogni sforzo all’obbiettivo bellico, mentre l’adozione di nuove tecniche e strumentazioni “a distanza” induceva a disumanizzare il rapporto col nemico (entità senza volto, senz’anima), ma anche a spersonalizzare i contatti fra la truppa e gli alti gradi.
La sensazione falsante che fa percepire il nemico come un essere alieno è attentamente elaborata da Emilio Lussu che nel suo Un anno sull’Altipiano racconta il turbamento nell’aver assistito, da un nascondiglio fra i cespugli, al “rito del caffè” officiato nella trincea nemica: “Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli come i passanti su un marciapiedi di città. Ne provai una sensazione strana. Uomini e soldati come noi, fatti come noi…”3.
Ma oltre allo sbigottimento per l’attestata normalità di chi veniva immaginato pregiudizialmente diverso, risulta alterata anche la percezione di ciò che è
indispensabile alla sopravvivenza, come pure si verifica un sovvertimento nei
criteri di valutazione di determinate attitudini, per nulla o poco funzionali alle
necessità di quella guerra. A chi, a che cosa serve un poeta, uno scrittore nell’ora dell’attacco alle postazioni nemiche o a fronte delle privazioni e sofferenze imposte dalla disorganizzata ed estenuante guerra di posizione? Henry de
Montherlant, a distanza di molti anni dagli eventi vissuti, così si esprimerà: “La
gente deve sapere che un grande scrittore serve la patria con le sue opere, meglio e più che con l’azione a cui può prendere parte…”. Giovanissimo volontario, ferito nel 1918, Montherlant percorre intera la strada che conduce dall’entusiasmo al rifiuto della guerra, rifiuto che espliciterà nel Chant funèbre pour
les morts de Verdun: “La patria crea i doveri e con essi la loro tristezza. Ma la
patria è nata dalla guerra. È la guerra che ci sottrae alla felicità”4.
Se le guerre del passato avevano una localizzazione riconoscibile, lo spazio che la Grande Guerra occupa dal fronte alle retrovie diventa quello che oggi
si chiamerebbe un vasto non luogo: un’area imprecisa, dove l’atto violento da
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eccezione diventa regola e addirittura obbligo, le norme usuali sono accantonate e con esse i diritti elementari. In senso più ampio le stesse leggi naturali non corrispondono più allo schema in cui l’uomo si è fino ad allora riconosciuto: il terreno agricolo abbandonato e martoriato non produce più al ritmo
stagionale, le esplosioni e gli scavi trasformano orribilmente il profilo del paesaggio, quasi indistinguibili sono le ore del giorno trascorse tra fumi, polveri,
ceneri o nel buio delle trincee, da quelle notturne illuminate dai riflettori e dai
bengala. Così Eugenio Montale in Valmorbia, ritornando col pensiero all’esperienza militare sul Corno del Pasubio, non certo congeniale al suo atteggiamento di pensoso distacco dai fatti bellici, ricorda l’incongrua e straniante luminescenza delle ore notturne: “Sbocciava un razzo su lo stelo, fioco/ lacrimava nell’aria.// Le notti chiare erano tutte un’alba/ e portavano volpi alla mia
grotta./ Valmorbia, un nome –e ora nella scialba/ memoria, terra dove non annotta//”5. Diversa dalla montaliana evocazione di una veglia silenziosa è la rappresentazione di una natura quasi umanizzata fatta da Apollinaire, che in una
commistione di percezioni diverse la vede popolata di fantasmi, mentre i sensi sono variamente sollecitati a rispondere nel segno del pianto: “Cimetières
de soldats croix où le képi pleure/ L’ombre est de chair putréfiée les arbres si
rares sont des morts restés debout./ Ouïs pleurer l’obus qui passe sur ta tête/”6.
E nel quadro di un simile stato d’eccezione De Roberto rappresenta in tutta la
sua crudezza la condizione dell’uomo al cospetto dell’ambiente attraverso il
ricorso a precisi dati geografici introdotti nel clima vibrante del racconto La
paura: “Nell’orrore della guerra, l’orrore della natura: la desolazione della Valgrebbana, le ferree scaglie del Montemolon, le cuti delle due Grise, la forca del
Palato e del Palbasso, i precipizi della Fòlpola”7.
Il carattere dirompente dello scenario bellico è rappresentato da Palazzeschi, una volta maturato il distacco dai futuristi inneggianti alla guerra sola
igiene del mondo, in un libro dedicato alla seconda guerra mondiale, dove accenna con sbigottimento all’annuncio della prima: “Noi che eravamo adulti in
quella fine di Luglio del 1914, fummo sorpresi dalla notizia più inaspettata e
incredibile: la guerra, la guerra di cui avevamo solo letto nella storia e nelle cronache, che ci era apparsa una cosa irreale e irrealizzabile, una cosa d’altri uomini e d’altri tempi, una fiaba…”. L’improvviso attuarsi di un’ipotesi su cui “leggenda e fantasia avevano lavorato la loro parte” dà la misura di quanto rapidamente le coordinate utili a interpretare il mondo circostante non abbiano più
valore alla luce di un avvenimento destinato per sempre a cambiarle8.
L’arco di tempo in cui si situano le principali testimonianze sulla Grande Guerra va dal 1915, anno in cui Renato Serra compila il suo brevissimo Diario di Trincea, al 1961 data di pubblicazione di Baracca 15 C, narrazione di Bonaventura Tecchi della dura realtà della prigionia a Cellelager vicino ad HanEugenio Montale, Ossi di seppia, Gobetti, Torino, 1925.
“Cimiteri di soldati in croce ove piange il chepì/l’ombra è di carne putrefatta i radi alberi sono dei
morti rimasti in piedi./Odi piangere l’obice che ti passa sulla testa./” Da Côte 146, Poèmes à Madeleine, in Oeuvres Complètes, Gallimard, Parigi, 1956.
7
Federico De Roberto, La paura, e/o, Roma, 2008; questo racconto lungo, rifiutato da La Lettura del
Corriere della Sera per il suo realismo e il contenuto di denuncia, fu poi pubblicato nell’agosto 1921
su Novella.
8
Aldo Palazzeschi, I due imperi…mancati, Vallecchi, Firenze, 1920.
5
6
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Tocca in sorte a Charles Péguy di aprire nell’agosto 1914 la lunga serie
degli scrittori francesi caduti in guerra11, mentre Apollinaire, ferito gravemente nella battaglia dell’Aisne ai piedi dello Chemin des Dames e poi stroncato
9
10
Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato, Sellerio, Palermo, 1994.
Carlo E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Garzanti, Milano, 1999.
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nover. All’interno di questa lunga stagione è possibile circoscrivere una fase
in cui affluiscono diverse opere tra il 1918 e il 1924, a cui fa seguito un periodo di sospensione che sarà interrotto, all’inizio degli anni trenta, da una seconda ondata di scritti sullo stesso tema, in progressivo rallentamento fino all’uscita di nuove opere distanziate ormai dall’evento e prossime alla guerra successiva (la principale testimonianza di Lussu esce a Parigi nel 1938). Acquista visibilità e importanza anche l’apporto delle letterature straniere: in quella tedesca la guerra è protagonista a partire dal 1916, ma solo negli anni Venti, rispettivamente all’inizio e alla fine, arrivano sul mercato due testi diversi ma
ugualmente basilari come Nelle tempeste di acciaio di Erns Jünger e il romanzo notissimo di Remarque Niente di nuovo sul fronte occidentale. Il contributo degli scrittori americani (in alcuni casi già residenti a Parigi allo scoppio della guerra) arruolatisi volontari sullo slancio di un ideale umanitario, ruota intorno a romanzi databili nel decennio 1921-31 che, oltre ad avere lo scenario
bellico come sfondo e pretesto, denotano un proprio e riconoscibile impianto
narrativo.
Naturalmente la datazione è solo uno degli elementi discriminanti, in quanto anche lo sfasamento tra atto della scrittura e epoca della pubblicazione offre spunti di riflessione sulle motivazioni a cui questo scarto va addebitato. Serra, intellettuale formatosi nell’ambiente vociano, redige il testo che varrà come
suo testamento spirituale (ma anche come specchio del travaglio di gran parte della generazione chiamata alle armi) addirittura in anticipo sui fatti: il suo
Esame di coscienza di un letterato, scritto nel marzo 1915 e subito pubblicato sulla Voce, mostra il tragitto da una posizione decisamente favorevole all’intervento a una più intensa riflessione sul valore della cultura come argine
alla barbarie, per poi approdare a un sentimento accorato di angoscia: tutto è
vano se dall’occasione bellica l’umanità non riuscirà a trarre stimolo per recuperare il senso della solidarietà9. Nel caso di Carlo Emilio Gadda il tema della
guerra viene inizialmente adombrato in testi non diaristici, in cui è consentito all’autore esprimersi con maggiore libertà, rivendicando la propria scelta interventista ma ammettendo che “molte sofferenze si sarebbero potute evitare con più acuta intelligenza, con più decisa volontà, con più alto disinteresse, con maggiore spirito di socialità e meno torri d’avorio”. Al di là della denuncia d’incompetenza delle gerarchie, il concetto base espresso nel suo Giornale di guerra e di prigionia è che la guerra, lungi dal rappresentare un grande evento liberatore delle forze represse, è invece l’occasione per sottoporsi
a una disciplina necessaria (“la sola degna d’essere vissuta”). L’interventismo
gaddiano si esprime dunque in termini opposti a quello di Marinetti in quanto è centrato non sull’eroe che aspira ad affermare le proprie pulsioni istintive, ma sul concetto di abnegazione in nome di un “motivato obbligo individuale e sociale”10 .
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dalla febbre spagnola nel novembre 1918, ne suggella la chiusura. Il poeta cristiano e il poeta dell’avanguardia contrassegnano così inizio e fine della guerra, entrambi destinati a diventare figure emblematiche di un destino perseguito e voluto da molti intellettuali, ai quali l’offesa portata con le armi proprio
alla testa, sede del pensiero (un destino che li accomuna fra gli altri anche a
Serra e a Céline) conferisce un’aura dal forte valore simbolico. Apollinaire, arruolatosi nel 1914 nel solco dell’entusiasmo marinettiano, è certamente in antitesi (al pari di Blaise Cendrars12, proprio per la realistica rappresentazione della tragica condizione di vita in trincea che accomuna i loro scritti) con altri convinti interventisti dalla vena patriottica e bellicistica come Anatole France o Maurice Barrès, i quali non esitano ad esaltare “la belle blessure” descrivendo idilliaci ospedali in cui si prodigano graziose crocerossine. Se Cendrars, ferito nell’offensiva delle Ardenne e privato del braccio destro (menomazione anche questa altamente simbolica confrontata all’atto di scrivere), testimonia con lucidità la trasmutazione dei valori civili europei in carburante brutalmente fornito al funzionamento della macchina da guerra, Apollinaire articola in un gioco di specchi la sua personale partecipazione agli eventi con un linguaggio insieme straordinario e banale, tragico e sarcastico (“J’ai tant aimé les Arts que
je suis artilleur” scrive ironicamente nelle sue lettere dal fronte) regalando un’immagine del conflitto esente da retorica ma anche dalla semplice pratica memorialistica: “Je t’écris de dessous la tente/ Tandis que meurt ce jour d’été/ Où
floraison éblouissante/ Dans le ciel à peine bleuté/ Une canonnade éclatante/
Se fane avant d’avoir été”13.
Il dibattito culturale che ha preceduto l’entrata in guerra dell’Italia condiziona tutti gli intellettuali, da Marinetti a Soffici, da Jahier a Stuparich e Prezzolini. Le riviste impegnate quali Lacerba e La Voce, maturano idee ed indicazioni. Nella ricerca di una linea stilistica, la ramificazione va dalla lingua poetica classicheggiante di un D’Annunzio, allo sperimentalismo marinettiano, all’intimismo e autobiografismo dei vociani. Lungo questa linea i dati di partenza si modificano a contatto con l’esperienza incandescente della guerra e all’intellettualismo introspettivo si sostituisce una narrazione legata più strettamente ai luoghi, alle funzioni, agli eventi imminenti. La posizione di Giani Stuparich è quella di un interventista sfuggito all’Austria e imbevuto di ideali risorgimentali con l’aggiunta della motivazione irredentista che gli proviene dallo “stato di disagio sentimentale” della sua origine triestina14. Nel rappresentare lo slancio emotivo del 25 maggio (“C’era un gran palpito eroico nell’aria.
Lo so che tali impressioni sono soggettive, ma io sentivo così quella mattina
a Firenze”) il giovane soldato, inesperto di azioni militari ma fornito di strumenti critici, mentre registra con sobrietà, solo a tratti interrotta da un affla11
L’Anthologie des écrivains morts à la guerre, pubblicata in 5 volumi da Edgar Malfère, Amiens,1924,
ne elenca 525.
12
Blaise Cendrars, La main coupée, Denoël, Parigi, 1946. Non essendo cittadini francesi né Apollinaire né Cendrars erano di fatto tenuti ad arruolarsi.
13
Guillaume Apollinaire, La tête étoilée- Carte postale, in Calligrammes, Mercure de France, Parigi, 1918:
“Ti scrivo da sotto la tenda/ Mentre si spegne questo giorno d’estate/ In cui come una splendida fioritura/ Nel cielo appena azzurrino/ Una potente cannonata/ Svanisce prima di essere stata./”
14
L’espressione è di Gaetano Salvemini, in Come siamo andati in Libia e altri scritti, Feltrinelli, Milano, 1963.
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Si può leggere la stagione prebellica come il progressivo coagularsi di criticità e inquietudini, diffuse in vari strati sociali, attorno al malessere di una generazione che, ansiosa di cambiamenti, arricchisce il progetto di valenze rivendicatrici: la guerra, unica soluzione rimasta, funge da terapia collettiva per un
In Colloqui con mio fratello (1925), Guerra del ‘15 (1931) e Ritorneranno (1941), trilogia sulla guerra, Giani Stuparich ricorda il fratello morto e illustra sobriamente la vita di trincea; Piero Jahier, Con
me e con gli alpini, Editrice La Voce, Roma, 1919.
16
Giovanni Boine, Carteggio G.Boine-E.Cecchi (1911-1917), lettera 5 agosto 1914, Edizioni di Storia
e Letteratura, Roma, 1983. Clemente Rebora, Tra melma e sangue, lettera 7 dicembre 1915, Interlinea, Novara, 2008.
15
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to celebrativo, gli avvenimenti circostanti, gradualmente si lascia invadere da
un senso di virile compassione verso persone e cose, persino verso l’odiato nemico. Dallo stesso ambiente vociano ma con una tensione interiore ancora più
profonda, dovuta al contesto familiare e alla specifica formazione (il padre pastore evangelico, gli studi teologici) Pietro Jahier colorerà il suo interventismo
con riflessioni di carattere esistenziale, perseguendo il sogno di una palingenesi collettiva: il ritorno a una moralità originaria potrà avvenire solo se i valori saranno condivisi tra i graduati più acculturati e la massa illetterata, in uno
scambio reciproco che forse salverà la società in crisi. La “lezione di cose” impartita dalla guerra è ben rappresentata dai versi che aprono Con me e con gli
alpini, testo degli anni 1916-17 pubblicato nel 1919 (contemporaneamente a
Il mio Carso di Slataper): “Altri morrà per la Storia d’Italia volentieri/ e forse
qualcuno per risolvere in qualche modo la vita./ Ma io per far compagnia a questo popolo digiuno/ che non sa perché va a morire/”15.
Si intuisce che l’animo di Jahier, al di là dei toni predicatori, non è più
in pace di quello di un Boine o di un Rebora. Ed è proprio Boine a rappresentare con forza l’inutilità e la disumanità della guerra in una lettera scritta a Emilio Cecchi: “Il primo risultato ideale di questa guerra è un’insopportabile miseria (…). Il secondo sarà che per venti anni la patria empirà di sé tutte le rettoriche”. E Clemente Rebora dalla zona di guerra ad Antonio Banfi: “Ma non chiedermi notizie - la vita (sono come un Ugolino anonimo, fra lezzo di vivi e morti, imbestiato e paralizzato per la colpa e la pietà, e l’orrendezza degli uomini - di fronte a Gorizia) ch’io lordo nella gora del tempo, è quella di un troglodita che chiude un cuore” 16.
Come Rebora anche Ungaretti risponde al richiamo interventista in risposta a una situazione interiore di vuoto, tensione, inquietudine e ansia di cambiamento. Il Porto sepolto prende forma nel 1916, durante le ore di riposo e di attesa, sul fronte del Carso e poi dello Champagne. Questo testo basilare quanto a potere evocativo e novità di stile, sottoposto in seguito a un’intensa attività variantistica, è frutto del contatto del poeta non solo col mondo militare ma con un’umanità ferita. La sua ispirazione si nutre di impressioni: la trincea, i compagni in armi,
ombre e coloriture che accennano a una stagione fondativa di dolore fisico e trauma psicologico. L’atteggiamento del soldato Ungaretti non risponde ai canoni convenzionali del militarismo, essendo i sentimenti sollecitati dall’umana sofferenza
in lui più pregnanti rispetto alle bellicose aspirazioni di vittoria. Alla radice c’è la
consapevolezza che la condizione umana è fatta di precarietà, mentre il dolore è
muto: “Come questa pietra/ è il mio pianto/ che non si vede”.
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disagio giunto al culmine. In questo quadro di vocazione all’intervento, pur con
diverse sfumature d’intensità, gli intellettuali in “inquïeta brigata”17, vedono condivise le loro aspirazioni da un poeta appartato e reticente come Umberto Saba.
Dell’autore del Canzoniere conosciamo sia la disomogeneità rispetto all’ambiente vociano, candidamente ammessa nel decimo sonetto di Autobiografia (“Ero fra
lor di un’altra spece”), sia l’intima difficoltà di vita dovuta a una sensibilità bruciante e all’ambizione di voler produrre una poesia onesta18. Allo scoppio della
guerra Saba, animato da una foga interventista di cui poi si pentirà, è indeciso
fra l’osservanza del dovere fino all’eventuale sacrificio (“Io ti saluto amica; e dal
mio cuore/ che non chiede il ritorno,/ tutto affluisce il nostro vecchio amore/
come nel primo giorno”) e una totale incapacità a far sua la logica bellica: per lui
il pendolo oscilla tra “aver paura e non fuggire” e “saper uccidere, saper morire”. Assegnato a ruoli amministrativi lontano dal fronte, il poeta triestino coltiva il suo ineliminabile senso di esclusione (di cui commovente espressione è Addio ai compagni: “Voi quasi m’odiavate ed io v’amavo/ cari compagni/”) e rimpiange assurdamente di non essere stato messo alla prova (“Le mani non sono
ancora rosse/ di sangue…son d’inchiostro ancora nere/ la baionetta è nel fodero ancora”). Assurdamente perché Saba difficilmente avrebbe imparato a uccidere e avrebbe invece corso il rischio malaugurato di aggiungere il suo nome alla
già lunga lista dei vari Slataper, Serra e Carlo Stuparich caduti nel massacro. Ma
la sua testimonianza dell’esperienza bellica, proprio perché nata dalla riflessione e non dall’azione apre, tra momento storico collettivo e presa di coscienza individuale, squarci di toccante umanità sul dramma consumato in quegli anni.
Nell’insieme di scritti a carattere autobiografico e memorialistico sulla
Grande Guerra scarseggia in Italia la produzione del genere breve e quasi del
tutto mancano testi elaborati in forma di romanzo. Tra i romanzi d’autore italiano che propongono un affresco della società italiana e insieme il ritratto di
una figura complessa, stretta nelle contraddizioni che caratterizzano la crisi
di quest’arco del Novecento, il riferimento è a due autori di estrazione e stile
diverso ma ugualmente impegnati nel produrre una narrazione che intreccia
alla testimonianza dei fatti bellici le linee portanti del romanzo di formazione. Se in Rubé, Borgese, siciliano delle Madonie, illustra le motivazioni psicologiche e politiche, ben calibrate tra neutralismo e interventismo, proprie di un
intellettuale ambizioso e inquieto negli anni destabilizzanti della guerra e del
fascismo, Corrado Alvaro con maggior distacco temporale offre con Luca Fabio, protagonista di Vent’anni, un personaggio che cerca se stesso nel turbine
della guerra, passando dall’illusione alla cocente delusione: “L’età non contava più. È vero, pensava Fabio avviandosi lungo il margine della strada battuta
dal viavai degli autocarri: ho vent’anni; ma era i vent’anni di un mondo e d’una
generazione vissuti, i vent’anni di un vecchio ritratto sbiadito”.19
L’espressione è di Rebora in Fantasia di Carnevale, pubblicata da Prezzolini sulla Voce, 28 febbraio 1915.
Saba espresse questa poetica nel famoso scritto del 1911 Quello che resta da fare ai poeti, che
La Voce, nella persona di Slataper, preferì non pubblicare; i versi citati sono tratti rispettivamente
da Decembre 1914 e Vita di guarnigione, in Canzoniere, 1900-1921, La Libreria Antica e Moderna,
Trieste 1921.
19
Giuseppe Antonio Borgese, Rubè, Treves, Milano, 1821; Corrado Alvaro, Vent’anni, Treves, Milano, 1930.
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20
Jules Hervier, Deux individus contre l’histoire : Drieu La Rochelle et Ernst Jünger, Klincksieck, Parigi, 1978.
21
Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Mondadori, Milano, 1931 (versione originale 1929); Ernst Jünger, Nelle tempeste d’acciaio (versione originale 1920), viene tradotto
in francese nel 1942 (accolto da un commento fortemente elogiativo di Gide sul Journal) e in italiano nel 1961, Guanda, Milano.
Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra
Sul tema della guerra il romanzo più celebre e diffuso (oltre un milione di copie nell’anno della pubblicazione, 1929) è Niente di nuovo sul fronte
occidentale, uscito in Germania prima come feuilleton e poi in volume, dando
l’avvio a una serie di opere dedicate non solo allo scontro bellico ma anche a
una lotta diversa, quella economica, pesantemente segnata dalla disoccupazione. Remarque, arruolatosi giovanissimo dalla Bassa Sassonia, prende spunto
dalla sua breve (due mesi) esperienza sul fronte Ovest per elaborare un testo
che sotto l’apparenza di una testimonianza è invece opera d’immaginazione,
ma così verosimile da suscitare la reazione degli ambienti militari contro una
ricostruzione considerata lesiva dell’onore dell’esercito e del concetto stesso
di guerra. La sua penna è quella di un ottimo giornalista (sportivo) abituato a
captare il ritmo di eventi ripetitivi senza cadere nella monotonia finché, convertito alla letteratura, trova una cifra di scrittura narrativa molto accattivante. Magicamente evasivo, in bilico fra linguaggio popolare e argot militare, sentimentale quanto basta, Remarque evoca un mondo unito e senza distinzioni
in cui lo scontro non è fra tedeschi e alleati ma dell’individuo contro la guerra. Il suo soldato-tipo, Bäumer, è vivo, ma già prima di essere morto è praticamente inesistente, invischiato in una serie di gesti assurdi e di obblighi immotivati che rendono vana, in mancanza di una possibilità di scelta, la dimensione eroica del sacrificio.
Antitetica rispetto a quella di Remarque è la visione riconducibile a Ernst
Jünger, che lo studioso Hervier definisce “apocalittica”20, quanto meno nella prima fase di ardente nazionalismo e bellicismo, ben illustrata in Nelle tempeste
d’acciaio. Questa testimonianza di un coraggioso e pluridecorato eroe di prima
linea, a differenza di altre relative alla guerra di trincea, lascia trasparire solo brevemente sentimenti di paura e di orrore, puntando invece su una descrizione,
di fatti anche estremamente tragici, sempre distaccata e oggettiva mentre la partecipazione più viva è riservata al racconto delle emozioni in combattimento, della foga nell’assalto, della soddisfazione crudele nell’eliminare l’avversario. Le caratteristiche del conflitto “industrializzato” finiranno tuttavia per convincere Jünger che il suo concetto di guerra come agon, ovvero competizione fra parti messe in condizione di giocarsi la vittoria con lealtà, non ha più spazio. Di questo
ripensamento sono prova le successive opere come pure le diverse (ben sette)
versioni revisionate di Tempeste d’acciaio, da cui vengono espunte espressioni
inneggianti alla “gioia demoniaca” di uccidere e alla mistica del sangue versato.
Un percorso, quello di Jünger, simile al cambiamento di prospettiva che abbiamo riscontrato in Montherlant: dall’entusiasmo dell’eroe protagonista di Le Songe (“Nel pericolo, cercato per un atto di volontà, cresceva in lui una meravigliosa esaltazione della vita...”, 1922) all’esaltazione, solo due anni dopo, non più della guerra in sé, ma piuttosto delle virtù eroiche che l’accompagnano21.
L’esperienza della Grande Guerra è stata invece per il medico volontario
Céline l’occasione di vedere rappresentato nel suo contesto ideale l’istinto di morte, tema freudiano per eccellenza, sottinteso nel corso di tutta la sua opera con
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emersioni via via più evidenti. L’affermazione esplicitata in una lettera diretta al
critico Faure nel 1935, un’ammissione di sfiducia nel genere umano (“Je ne crois
pas aux hommes”), è già tutta presente nel Viaggio al termine della notte, l’opera che nel 1929 causerà grande scandalo consacrando per sempre la fama di questo autore scomodo e controcorrente. All’origine del Viaggio c’è l’ammirazione
per Henri Barbusse, già famoso homme de lettres: arruolatosi a più di quarant’anni, malfermo in salute l’autore di Il Fuoco elabora in occasione di un forzato riposo le note raccolte nei ventidue mesi passati al fronte. La sua scrittura che
illumina realisticamente la vita quotidiana e il quotidiano orrore di una piccola
collettività di soldati colpisce enormemente Céline: lo scrittore fa sua quella visione della guerra, tragico evento contrario ad ogni logica, che svilisce i grandi
ideali e spinge ai peggiori crimini, e ancor peggio sviluppa intorno e dentro all’uomo gli istinti più bestiali: malvagità fino al sadismo, egoismo fino alla ferocia. Di Barbusse e della sua violenza verbale (“L’umanità mi mostra le sue budella”) l’autore del Viaggio condivide l’attrazione morbosa per la verità nelle sue forme più atroci. Disilluso, acutamente ironico, Céline nel suo romanzo largamente autobiografico lascia trasparire senza reticenze il risentimento rabbioso verso le regole e gli ideali collettivi: patriottismo, colonialismo, progressismo borghese. Attraverso il personaggio di Bardamu, anarchico convinto che si lascia prendere al gioco di arruolarsi “per vedere le cose come sono”, il vero Louis-Férdinand
entra nell’inferno della guerra e ne parlerà, sconvolto dal rancore, sempre col sentimento di paura che l’ha aggredito fin dal primo giorno: “Ogni metro d’ombra
davanti a noi era una nuova promessa di finirla o di crepare, ma in che modo?
D’imprevisto, in questa storia, c’era solo la divisa di chi ci avrebbe colpito. Uno
dei nostri? O uno di fronte?”. La paura cresce con l’insicurezza perché nel disordine, o eseguendo comandi insensati, i soldati corrono il rischio di essere “inquadrati, sorvegliati da guardie che passano rapidamente alle vie di fatto”. Céline parla (e di qui lo scandalo) di un sadismo doppiamente articolato: da una parte, nelle retrovie, i civili premono sui soldati in licenza per farli tornare al fronte, dall’altra gli ufficiali “pazzi, viziosi, diventati improvvisamente capaci soltanto di
uccidere” mandano i fanti allo sbaraglio in operazioni senza possibilità di salvezza. Il linguaggio singolarissimo, erudito e brutale, ricco di ellissi e di iperboli, veicola la tesi dell’autore secondo cui il patriottismo non autorizza la violenza e l’origine del massacro è da ricondursi alla barbarie insita nella natura umana. Non c’è posto per gli eroi nel panthéon céliniano: “Era come se, rimproverandomi violentemente, mi avessero spinto a desiderare di suicidarmi”. E ancora,
descrivendo la mattanza di maiali per sfamare i soldati, evocativa di ben altro
massacro: “E poi sangue ancora e dappertutto, per l’erba, in pozze molli e confluenti che cercavano la pendenza giusta. […] Ho fatto ancora in tempo a gettare due o tre occhiate su quella controversia alimentare, mentre mi appoggiavo
contro un albero, e ho dovuto cedere a un’immensa voglia di vomitare e mica un
po’, fino a svenire”. Da quel momento la nausea non gli dà tregua, inquina i sentimenti, svilisce ogni rapporto, si trasforma in presentimento di morte22.
22
Henri Barbusse, Il fuoco, Sonzogno, Milano, 1917 (versione originale 1916); Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, Enrico dall’Oglio editore, Milano, 1932 (versione originale 1931):
il nome del protagonista Bardamu è ispirato a tre scrittori molto ammirati da Céline: Barbusse, Dabit, Ramuz.
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William Faulkner, La paga del soldato, Garzanti, Milano, 1953 (versione originale 1926); Ernest Hemingway, Addio alle armi, Mondadori, Milano, 1948 (versione originale 1929); John Dos Passos, Tre
soldati, Editrice Casini, Roma 1967 (versione originale 1921).
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Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra
Alcuni scrittori provenienti dagli Stati Uniti, a volte già presenti in Europa per aver scelto di venire a condividere l’atmosfera culturale del Vecchio Continente, decideranno di situare parte dei loro romanzi nel contesto bellico, conosciuto di persona da posizioni più o meno esposte, facendone un background
letterario senza uguali per impatto sulle coscienze. Se in Faulkner il tema è ricorrente (circa un terzo della sua opera fa riferimento alla guerra: quella di Secessione, la Grande Guerra, la guerra civile spagnola, la seconda guerra mondiale) e sempre con interesse rivolto agli effetti prodotti più che allo svolgersi delle azioni militari, altri autori invece dopo l’esordio abbandoneranno lo scenario
bellico per addentrarsi in altri territori narrativi. In Addio alle armi, romanzo parzialmente basato su esperienze di vita vissuta (Hemingway, com’è noto, si arruolò come autista di ambulanza nella Croce Rossa e combatté sul fronte italiano)
il sentimento collettivo di partecipare a un’avventura mettendo alla prova le proprie risorse personali è collocato nel cuore di un evento epocale, ma anche gli
altri scenari prediletti da questo scrittore suggeriscono il tema della sfida, ora
nel contesto spagnolo (corrida, guerra civile), ora africano (il safari del 1933) e
soprattutto nel mare aperto, con la lotta estrema fra Santiago e il “suo” marlin.
Il famoso addio alla vita militare che la traduttrice Fernanda Pivano suggeriva di
interpretare anche come un addio all’amore, assumendo per “arms” il secondo
significato di braccia, è un manifesto contro la guerra che lascia poco spazio alle
illusioni sulla sacralità dell’evento e sull’eroismo dei protagonisti: “parole
astratte come gloria, onore, coraggio e dedizione erano oscene accanto ai nomi
concreti dei fiumi, dei monti, dei villaggi, dei reggimenti”. Non solo disilluso ma
ancor più pessimista è il musicista sazio della propria libertà che vuole cimentarsi con i rischi e le difficoltà invano cercati nella vita quotidiana, così come viene dipinto da John Dos Passos nel romanzo Tre soldati. Impegnato come Hemingway nel trasporto dei feriti sul fronte italiano, Dos Passos esprime in un registro espressionista la cruda realtà: gli ideali di cameratismo e solidarietà non hanno spazio nel panorama senza luce e pieno d’orrore della guerra, a tal punto che
il protagonista, infinitamente turbato, si sentirà indotto a disertare. Mentre i due
scrittori americani avranno avuto modo di conoscere l’esperienza del fronte, Faulkner non riuscirà a entrare nella Royal Air Force, malgrado l’addestramento svolto a Toronto: l’armistizio sarà siglato prima. Il suo romanzo d’esordio, La paga
del soldato, 1926, segnala fin dalle prime parole (“They are stopped the war on
him”), come questo impedimento sia stato vissuto con senso di profonda frustrazione. Anche se il protagonista, il tenente aviatore Donald Mahon, non può essere considerato un alter ego dell’autore, in quanto la vicenda narrata lo vede,
orribilmente ferito in combattimento, sopportare una tormentosa convalescenza, anche sopra di lui aleggia la stessa colpa di omissione a cui non c’è rimedio:
il difficile ritorno del reduce al suo paese in Georgia, irriconoscibile in volto e con
gravi menomazioni alla vista e all’udito, è narrato attraverso una magistrale rappresentazione di stati d’animo e atmosfere che vanno dal lirismo all’asprezza di
un crudo realismo, utilizzando un linguaggio originale che mescola echi letterari europei ai modelli americani. Va ricordato che Faulkner rifiutò con forza ogni
tentativo editoriale di editing volto a normalizzare il suo testo.23
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SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA
In visita sul fronte italiano in Friuli nel settembre 1917 il poeta e filosofo di origine basca Miguel de Unamuno, voce tra le più rappresentative e innovative dell’ispanismo, si rallegrava in un articolo scritto per La Nacion della “perfetta macchina da guerra” messa in campo dall’Italia, aggiungendo queste elogiative parole riguardo ai quadri militari: “Quando mai avevo sentito un
colonnello in carriera, un professionista della milizia, citare i grandi classici in
greco e latino? Quando mai ci eravamo imbattuti in un militare che potesse leggere Omero in lingua originale)”. Quest’enfasi, trasmessa attraverso molte pagine dei quotidiani a grande diffusione, riproduceva il mito della guerra come
occasione valorizzante, con effetti di rigenerazione e coesione: un mito che molti scrittori e giornalisti avevano fatto propria, relegando di fatto neutralisti e
incerti nel ruolo di pavidi traditori della patria. E in effetti, tra propaganda e
censura, il giornalismo svolge un ruolo determinante per sostenere le tesi governative e mantenere vivo il consenso popolare: nel maggio 1915, poche ore
prima dell’entrata in guerra, un apposito decreto proibiva ai giornali di divulgare notizie raccolte fuori dei canali ufficiali (l’accesso al fronte fu ostacolato
ai cronisti per scelta di Cadorna) e anche quando le restrizioni si attenuarono
il racconto della guerra non per questo si trasformò in un resoconto veritiero, ma continuò nella prassi di minimizzare le perdite, demonizzare il nemico, evitare l’argomento del dubbio e del pessimismo di cui erano preda i soldati impegnati al fronte.
Ogni paese belligerante utilizza appositi mezzi per ottimizzare l’influenza della stampa sul cosiddetto “fronte interno”: in Francia la censura è introdotta alla vigilia della dichiarazione di guerra, nell’agosto 1914, con un decreto mirato a reprimere ogni affermazione di natura tale da “esercitare un’influenza negativa sullo spirito dell’ esercito e dei popoli”, negli Stati Uniti lo stesso
compito spetterà al Sedition Act istitutivo del reato di “attività antipatriottica”. È noto che lo scrittore e viaggiatore Albert Londres, corrispondente nel 191418 da diversi fronti di guerra fra cui quello italiano, fu allontanato dal Petit Journal su ordine diretto di Clemenceau a causa dei suoi reportages esplicitamente indirizzati “contre le bourrage de crâne”. Al “lavaggio del cervello” si ribella anche Curzio Malaparte quando decide di intitolare, sotto pseudonimo, il saggio narrativo dal provocatorio titolo Viva Caporetto!, due volte sequestrato dalla censura (nel 1921, poi anche nel 1923 col titolo La rivolta dei santi maledetti) e infine pubblicato integralmente da Mondadori nel 1981 a cura dello storico Mario Isnenghi. La tesi dello scrittore-giornalista di origine tedesca, arruolatosi volontario diciassettenne, consiste in pratica in una denuncia, del tutto
inaccettabile al momento della prima pubblicazione, secondo cui solo i santi
maledetti, cioè gli umili soldati di fanteria, e gli ufficiali subalterni meritano
onore avendo sacrificato tutto per la patria, mentre agli alti gradi è da imputare in blocco la colpa per incompetenza dell’“inutile strage” di Caporetto.
Questa pagina tragica e controversa dell’esperienza bellica è invece interpretata da Giovanni Comisso come l’episodio saliente di una “avventura esistenziale”, espressione di vitalismo e giovanile fervore che non è consentito o
possibile sfogare nella grigia quotidianità del tempo di pace. Comisso, più giovane degli altri interventisti, non porta con sé lo stesso bagaglio culturale e si
permette dunque, vivendo la vita di trincea fianco a fianco coi soldati semplici, un’interpretazione più diretta, meno ideologizzata degli eventi. Nel suo ricordo l’emozione del rischio e dell’imprevisto hanno la meglio sulla contestua-
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SPUNTI DAGLI SCRITTI SULLA GRANDE GUERRA
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Giovanni Comisso, Giorni di guerra, Mondadori, Milano, 1930.
Romain Rolland, Al di sopra della mischia, Fabbri, Milano, 1965 (versione originale 2015).
Giuliana Rovetta Spunti dagli scritti sulla Grande Guerra
lizzazione storica: “Presto gli alberi furono tutti meravigliosi ciliegi con frutta gonfia dolcissima non vendemmiata dalla popolazione che era fuggita. Ci
si arrampicava con tutto il nostro slancio e da sopra buttavamo giù ciocche di
ciliegie al nostro ufficiale che ci diceva: Su, su presto e sorrideva. Nessun colpo di cannone intorno, il sole ardente, il luogo deserto, quelle ciliegie straordinarie: eravamo beati”. Una sorta di spensieratezza quasi adolescenziale prevale sulla rappresentazione della figura retorica del giovane eroe in armi pronto al sacrificio24.
Si è potuto costatare che tra gli autori inizialmente schierati a favore dell’intervento, molti, dopo aver attraversato di persona l’esperienza della guerra, non hanno potuto evitare d’esprimere lo sgomento per un evento rivelatosi tanto contrario al senso d’umanità. Lo studioso e scrittore francese Romain
Rolland ebbe invece modo e capacità di dichiarare da subito il suo sentimento antimilitarista pubblicando diversi appelli ai belligeranti sul Journal de Genève, riuniti poi in un testo intitolato Au dessus de la mêlée, che fecero scandalo per la loro intonazione pacifista: “La guerra europea in corso è la più grande catastrofe della storia, è la rovina delle nostre speranze più sacre nella solidarietà umana”. Senza timore dell’effetto di emarginazione riservato ai non
fautori dello scontro, Rolland si rivolge ai suoi detrattori “thuriféraires de la
guerre”, che sono numerosissimi, mentre solo pochi (e fra questi il poeta Pierre-Jean Jouve) lo sostengono, affermando che le loro ingiurie sono per lui “un
onore da rivendicare davanti al futuro” 25.
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Giovanni Chiellino Banderuola / La tessitrice
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DUE POESIE
DUE POESIE
di Giovanni Chiellino
Banderuola
La tessitrice
Il vento, il vento,
un suono di campane.
Nello spazio vuoto corre
la spola, corre, si ferma,
riprende il suo cammino.
Sale e scende la calcola,
sicura è la spinta, abile
la caviglia, vigile l’idea.
Gira la banderuola,
gira.
Corrono voci.
Fanciulli nelle vie.
Il tuo abito bianco di sposa,
la tua camicetta verde
di sera sul molo.
Il mare.
Lontano è il gabbiano.
Vuoto il nido della rondine
sotto la grondaia.
Cadono foglie, cadono.
Il freddo, la neve sugli occhi.
Solitudine e silenzio.
L’anima si culla.
Si gioca. Si ama. Si muore.
Nel nodo del pensiero
trama e stame s’incontrano,
s’intrecciano:
il corpo e la sua anima,
lo spirito e la forma, colori,
colori che s’affollano
nell’ombra e nella luce,
nel lutto e nella gioia,
nel bianco della neve,
nel rosso dell’estate.
E la tela s’allunga,
il subbio la raccoglie
finché affilata forbice
falcia la tessitura e
tutto lascia cadere
nel cesto del finito,
abisso senza fondo:
il volto della morte.
Nel disegno del Sarto
è scritto il suo futuro e a noi
la taglia è sconosciuta,
ignota è la sostanza
dell’opera compiuta.
Caselette 2011
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LA BACHECA
di Milena Buzzoni
Paolo non ha voglia di scrivere niente stasera. Si guarda attorno dondolandosi sulle gambe posteriori della seggiola. La stanza nella quale, quasi ogni giorno, dopo le cinque, si ritira per lavorare, è molto piccola. C’è giusto lo spazio per
una vecchia scrivania da ufficio macchiata di inchiostro e un tavolo con computer e stampante. Una libreria chiusa da due ante di vetro custodisce giornali su
cui sono comparsi suoi articoli o che parlano dei suoi libri, riviste letterarie alle
quali collabora, gli appunti e “le brutte”, buttate giù a mano, dei suoi lavori. Ci
sono anche libri scolastici, di letteratura latina, letteratura italiana, critica letteraria, filosofia, storia, storia dell’arte. C’è una libreria a giorno con una collana
di volumi sulle civiltà, pubblicazioni geografiche, guide turistiche. Accanto è appesa una bacheca chiusa da uno sportello a vetro che lascia vedere sei stretti piani sui quali sono raccolti oggetti disparati. È la bacheca ad attirare la sua attenzione, per la varietà delle cose esposte, ognuna delle quali evoca qualcosa.
In alto, a partire da sinistra, sono allineate sei minuscole tazze con la forma e il colore di piccole ortensie. Azzurre, tondeggianti, con il manico dorato, erano state comprate molti anni prima in un mercatino dell’antiquariato in
Francia, quando lui e Sandra, non ancora separati, a volte trascorrevano i fine
settimana in giro per bric-à-brac, comprando le cose più strane che, in genere, entusiasmavano entrambe e di fronte alle quali provavano un simultaneo
impulso di possesso. Per le tazzine era capitato così. Erano originali per la forma a imitazione del fiore, belle nell’azzurro qua e là più intenso e nella sottigliezza della porcellana e, essendo sei, costituivano un servizio completo anche se inservibile per le dimensioni eccessivamente ridotte. Furono acquistate per pochi franchi e non fu neppure necessario contrattare il prezzo per ottenere uno sconto. La loro vista, nonostante il crollo del suo matrimonio, evoca in Paolo una sensazione piacevole: il sole che si frantuma tra le foglie dei
platani e lascia cadere i suoi specchi di luce sulle bancarelle allineate sulla piazza lunga e stretta di Arles, di Agde, di Antibes? Alcuni oggetti sfavillano, altri
restano in ombra. Su tutto, il tepore di una matura primavera provenzale, il profumo del gelsomino e della lavanda, la sensazione di un giorno di vacanza senza ore, tra una settimana di lavoro e l’altra, in una fuga breve e felice. E la nostalgia di quella fuga, di un’armonia finita, il magone per quella cosa fatta insieme. A fianco alle tazzine, una grossa penna di osso che si svita a un’estremità e contiene una matita, un righello e una penna a pennino. Anche questa
è legata a un mercatino dell’antiquariato, ma a un tempo posteriore rispetto
a quello delle tazze. Altri i sentimenti legati a questo acquisto.
La confessione di un primo tradimento di Sandra li aveva portati a tentare una vacanza di riconciliazione in Portogallo. Sulla via del ritorno, già attraversata la Spagna, si erano trovati una domenica mattina, quasi sul confine francese. Stavano attraversando Pera Tallada e avevano intravisto, tra il grigio delle case di pietra, le tende bianche di un mercato. Avevano parcheggia-
Milena Buzzoni La bacheca
LA BACHECA
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Milena Buzzoni La bacheca
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LA BACHECA
to ed erano andati a vedere. Paolo aveva girato tra i banchi, aveva guardato gli
oggetti esposti, aveva preso in mano qualcosa e lo aveva posato. Sandra aveva insistito per comprare quella penna, tentava di convincerlo che sarebbe stata bene su un piano della bacheca, nel suo studio. Paolo, alla fine, aveva acconsentito. Avevano cenato in un ristorante magrebino: lampadari a stella, ai muri
appliques semi-coniche di lamiera traforata diffondevano una luce dolciastra.
I tavoli erano di mosaico: un susseguirsi di esagoni schiacciati color senape e
triangoli blu accostati ai lati di ogni esagono. Mentre Sandra parlava e gli raccontava i dettagli della sua relazione, forse per salvare, nella mortificazione dell’amore, la solidarietà e l’amicizia, Paolo ascoltava ad occhi bassi, osservando
le geometrie del tavolo. Avrebbe voluto sistemare i suoi pensieri confusi nell’ordine dello schieramento delle piastrelle, allinearli uno accanto all’altro, blu
e senape, triangoli ed esagoni. Avrebbe voluto scivolare nel labirinto delle tessere del tavolo dove erano rimasti i loro piatti vuoti che sembravano pezzi di
banchisa polare alla deriva. I loro anni solidali stavano scomparendo sotto un
manto di ghiaccio che, come un peccato originale, avrebbe decretato la cacciata dall’Eden.
Paolo continua a guardare la bacheca. Accanto alla penna, tre vecchi sonagli d’argento. Uno con un manico e cinque bracci con altrettante palline all’estremità, un altro fatto a fiaschetto, lavorato sulla superficie e l’ultimo sferico, ammaccato qua e là e con evidenti segni di morsi, sostenuto da un manico d’avorio. I primi due erano stati comprati da Sandra quando avevano deciso di pensare a un figlio che in realtà non avevano avuto. L’altro era sempre
stato in casa, attribuito allo zio Bruto, direttore d’orchestra, difficile da immaginare bambino con un sonaglio da rosicchiare.
Il secondo piano della bacheca raccoglie oggetti di famiglia appartenuti ai nonni o ai bisnonni di Paolo. Sulla sinistra c’è una donnina di bisquit con
una cuffia in testa, uno scialle sulle spalle qua e là scolorito, una sottana bianca dalla quale spuntano due minuscoli piedi. Tra le mani raccolte in grembo
un foro è il punto in cui era inserita una bandierina. Un’antiquaria gli aveva detto che erano state fatte per l’inaugurazione della torre Eiffel.
“Chissà da dove viene? Però mi ricordo di averla sempre vista nella sala
da pranzo della nonna Maddalena dentro alla vetrina liberty sullo stesso scaffale sul quale erano appoggiati anche gli altri oggetti che ora sono qui sul piano della bacheca. Sono almeno quarant’anni che condividono lo stesso spazio:
devono odiarsi o essere diventati amici.”
Due piccole teste di porcellana con gli occhi di vetro, la fronte corrugata e le guance colorite sono quelle dei clown che saltavano fuori dalle scatole
magiche dei bambini. Tra queste un putto di bisquit, in piedi, sembra che stia
facendo la pipì tenendosi la veste sul petto. In testa ha un berretto celeste aperto in cima: da qui si può riempire d’acqua e vederla zampillare. Ai suoi piedi
infatti sono posati due minuscoli vasi da notte di porcellana con l’interno dorato che portano la stessa scritta: “ancor felici beviamo un goccetto da questo
santo e gentile vasetto.” Due soldatini con divisa, fucile e l’aria fiera, stanno
dritti, uno alla destra e uno alla sinistra, delle teste dei clown. A concludere la
fila è un porta stuzzicadenti di porcellana costituito da una ragazzina seduta
che porta una gerla sulle spalle.
Paolo guarda questo corteo e ricorda l’emozione che suscitavano in lui
quando erano chiuse, inaccessibili, nella cristalliera della nonna Maddalena. La
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LA BACHECA
Milena Buzzoni La bacheca
sala da pranzo gli era consentita solo qualche volta e con l’unico scopo di strimpellare il pianoforte che, sulla parete a destra della porta d’ingresso, odorava
d’incenso. Provava sulla tastiera qualche motivo che non usciva mai come quello che aveva in testa. Contemporaneamente era incuriosito da tutto quello che
c’era nella stanza, soprattutto dalle cose nella vetrina. Ma se interrompeva il
suono per avvicinarsi al mobile, dopo un minuto arrivava la nonna a controllare cosa stesse facendo. Così aveva escogitato un sistema per accontentarsi
senza attirare l’attenzione. Brandendo uno dei bastoni da passeggio riuniti in
una giara, poteva allontanarsi dal pianoforte e continuare a battere sui tasti provocando un suono sconnesso ma insospettabile. Con una sola mano libera non
si azzardava ad aprire le ante della vetrina ma poteva guardare tutto da vicino. Fissava gli occhi di vetro dei clown, il putto di bisquit con cui avrebbe voluto giocare: portarlo sul lavandino di cucina, riempirlo d’acqua e vederla zampillare nel vasino da notte; soprattutto avrebbe voluto portarsi a casa i soldatini: con quelli sì avrebbe potuto giocare alla guerra, metterli nel fortino di legno, farli combattere contro i cow boys.
Sul piano inferiore della bacheca sono in parte appoggiati e in parte appesi alcuni orologi da taschino. Tre hanno la cassa lavorata. Uno è sbeccato sullo smalto del quadrante. Il quinto ha le ore nere sbieche, come in prospettiva
e dietro ad ognuna di esse, in rosso, è indicato il numero corrispondente in dodicesimi. Nella parte alta del quadrante, in uno stemma ovale, è indicata la scritta “Roskops”, al di sopra di un animale alato. Il famoso orologio svizzero primi novecento, nonostante fosse nato per essere un oggetto economico alla portata di tutti, ha sempre goduto di prestigio in famiglia. “È un Roskops!” diceva sua madre. A parte un Longines fatto riparare da poco che ogni tanto carica, gli altri sono fermi da anni. Ognuno indica un’ora diversa e Paolo si chiede quale evento abbia sancito l’interruzione del tempo. Perché le 3 e 25 dell’
Henry, le 10 e 2 del Fiorenza, le 7 meno 5 dell’Eolo, le 4 e 10 del Rosskops? “Dovrei conoscere i dettagli di queste interruzioni. Mi riguardano. E invece, come
tutte le morti, restano senza destino. Forse qualcuno ha smesso di caricare il
suo perché è deceduto. Forse nessuno ha fatto più ruotare la rondella, così, senza un motivo. Qualcuno forse è stato abbandonato perché il suo proprietario
è passato all’orologio da polso. Chissà se li ha fermati un trauma o il caso”. Paolo si ricorda l’ora della morte dei suoi genitori, sul comodino l’orologio di suo
padre che nessuno aveva più caricato. Non saprebbe dire a che ora sia finito
il suo matrimonio; eppure è una precisa frazione di secondo a determinare un
cambiamento storico o privato: una dichiarazione di guerra, un incidente, un
colpo di stato, una nascita, un consenso o un rifiuto, un sì o un no.
“ E meno male che il meccanismo fa metabolizzare il tempo poco alla volta, momento per momento. Mi risparmia di vedere ammucchiati uno sull’altro
secondi, minuti, ore. Così, quando sarò vecchio, non mi spaventerò per la montagna di tempo accumulato, nessun orologio segnerà, come un contatore, il consumo degli anni né le perdite intermedie.”
Le 11 meno 10. Paolo carica il suo Jaeger le Coultre, il regalo di Sandra
per il loro matrimonio.
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Silviano Fiorato Sotto la specie del nulla
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UNA POESIA
UNA POESIA
di Silviano Fiorato
Sotto la specie del nulla
La presenza di Te
sotto la specie del nulla
tarla il legno della mia solitudine
dentro alla stalla dei porci,
dove sempre mi cerchi se pensassi al ritorno.
Quanto folto di boschi ho attraversato
dove Tu non vedevi il mio essere nudo
a suggere il sidro dei miei tradimenti;
quanti pavesi ho disteso
nel campo del vasaio
di lacrime e di gioie
che asciugano al tuo vento.
Solo gli uccelli di passo
mi scendono ancora d’attorno
con puntigliosi becchi
colgono il segno
dei semi delle assenze.
Sopra i bruciati asfalti
resta solo il silenzio.
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TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI
di Emilia Michelazzi
Moribus antiquis res stat romana virisque1
PREMESSA
Il consumo incessante di testi, suoni, immagini, attraverso l’utilizzo di
mezzi tecnologici sempre più avanzati, rappresenta una delle caratteristiche
delle società postmoderne. I media, infatti, formidabili strumenti di comunicazione, informazione, socializzazione, esercitano grande potere ed influenza sull’immaginario delle masse: grazie alla possibilità di invenzione di nuove esistenze, di molteplici identità, che essi forniscono, tv, social network, radio, entrano sempre più prepotentemente nel vissuto della gente comune2.
Nell’ambito di questo ruolo ormai riconosciuto ai media nella formazione dell’identità del soggetto postmoderno, qual è il l’importanza rivestita da
film, telefilm, documentari riguardanti l’antichità, il nostro comune passato,
in tale processo, tenuto conto dell’abbondanza di opere su questo tema che invadono i nostri schermi? Qual è l’importanza dei cosiddetti “peplum” nella postmodernità3? Siamo sì nell’epoca dei reality, del Grande Fratello, delle soap e
dei talent show, ma accanto a tronisti, veline, personaggi più o meno piacenti e più o meno famosi fanno la loro comparsa intrepidi legionari, invincibili
gladiatori e affascinanti patrizie romane, in una fase che è stata giustamente
definita di “revival del peplum”.
Quali sono i sentimenti, le passioni, i valori, messi in scena da questi nuovi peplum postmoderni? Hanno veridicità storica? E in un’ipotesi di recupero
della sentimentalità ai giorni nostri, quanti di questi valori costruiscono l’immaginario identitario, sociale e culturale del soggetto postmoderno?
Prima di rispondere a tali quesiti conviene restringere il campo della nostra indagine, definendo esattamente cosa s’intende per “peplum film” e distinguendo tra pellicole del passato e pellicole attuali, che presentano caratteristiche e peculiarità tali da differenziarli da tutta la produzione cinematografica,
attinente al mito e all’antichità, di epoca precedente.
Il PEPLUM: NASCITA E SVILUPPO DI UN GENERE CINEMATOGRAFICO
Partendo dal presupposto che l’antichità è il mito fondatore per eccellenza della nostra civilizzazione (come lo è l’antico Far West per gli AmericaENN. Ann. XVIII 3.
Sul ruolo svolto dalla tv nella formazione delle identità del soggetto postmoderno cfr. G. VATTIMO, La società trasparente, Garzanti 2011.
3
Il termine peplum indicava originariamente, nel mondo greco e latino, una tunica femminile. Negli anni 60 il termine passò ad indicare i film sull’antichità, caratterizzati per l’appunto da costumi d’epoca. Cfr. C. AZIZA, Le péplum, un mauvais genre, Paris 2009, pp. 13-17.
1
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Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi
TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ:
I PEPLUM E I LORO EROI
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Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi
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TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI
ni) il cinema storico-mitologico trae ispirazione proprio da tale nostro comune passato, attingendo dalla Bibbia e dalla storia greca e romana episodi edificanti, figure eroiche e affascinanti fanciulle, generalmente conosciuti attraverso lo studio scolastico e facenti parte del nostro patrimonio culturale. Prima caratteristica del genere, dunque, è inventare poco o nulla, ma semplicemente abbellire, romanzare, e mettere in luce taluni aspetti piuttosto che altri di un materiale già esistente, ai tempi della nascita dei primi peplum, già
ampiamente conosciuto e diffuso attraverso altri veicoli culturali.
Quest’operazione di “recupero” avviene praticamente insieme alla nascita del cinema stesso. La prima proiezione dei fratelli Lumière al Grand-Café avviene nel dicembre 1895 e appena l’anno successivo uscirà Néron essayant des
poisons sur un esclave di G. Hatot. La necessità di rendere episodi storici attraverso il neonato strumento cinematografico porta alla nascita di un nuovo
linguaggio che trae spunti dalla tragedia classica (Shakespeare, Racine) dal teatro lirico, (l’opera), ma soprattutto dalle grandiose scenografie della pittura storica, prima fra tutte le raffigurazioni di Roma antica, particolarmente amate
nel XIX secolo4.
Tuttavia, nonostante i primi embrionali tentativi di film a carattere storico della fine dell’800, è solo a partire dai primi anni del 900 che si può parlare di una vera e propria età dell’oro delle pellicole sull’antichità: i film si allungano, le tecniche cinematografiche migliorano ed appartengono a tale epoca film quali Cabiria (G. Pastrone, 1913), che rappresenta una vera e propria
pietra miliare del genere e contiene già in nuce quelli che saranno gli elementi di successo del genere peplum: una trama avvincente, costituita da episodi
e personaggi storici conosciuti (l’azione si svolge durante le guerre puniche)
alternati a personaggi d’invenzione, che garantivano il giusto pathos al susseguirsi degli eventi; scenografie grandiose e spettacolare realizzazione cinematografica con tutti i mezzi tecnici allora a disposizione; sapiente uso del sonoro, con musiche composte da celebri compositori. Questi furono solo alcuni degli elementi che decretarono il successo di Cabiria e la definitiva consacrazione del genere a intrattenimento sì popolare, ma fruibile anche da un pubblico borghese.
Il successo di Cabiria inaugura un fecondo ventennio di produzioni cinematografiche a tema storico, esploranti i diversi aspetti e le diverse tematiche dell’antichità: si passa dal tono patriottico di un Giulio Cesare (Enrico Guazzoni, 1914), al motivo altrettanto fortunato della decadenza dell’Impero (Messalina, E. Guazzoni, 1923), a quello, strumentalizzabile politicamente, del colonialismo e dell’espansione romana nel Mediterraneo5.
4
Si può citare l’opera di Lawrence Alma-Tadema o di Jean-Léon Gérôme, la cui tela Pollice verso ha
ispirato, in tempi recenti, le grandiose scenografie del Gladiatore di Ridley Scott.
5
Argomento dibattuto è quello dei rapporti tra peplum e fascismo: al contrario della tesi storica
più diffusa, secondo la quale il fascismo avrebbe utilizzato i film ambientati nell’antica Roma a scopi propagandistici, molti peplum si rivelano viceversa critici nei confronti del regime (si vedano Nerone di Alessandro Blasetti, con il comico Petrolini; o Processo e morte di Socrate di Corrado D’Errico) e un solo film appartenente al genere può essere considerato di chiara propaganda mussoliniana: Scipione l’Africano (Carmine Gallone, 1937), funzionale a giustificare i tentativi coloniali italiani in Africa e il cui produttore esecutivo era proprio Vittorio Mussolini, figlio del Duce. Cfr.
http://www.peplums.info/.
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TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI
I NUOVI PEPLUM: DAL GLADIATORE A SPARTACUS
È solo nel 2000 che il peplum entra nella sua terza “età dell’oro”, quella che concerne il nostro studio, grazie al grande successo di pubblico riscosso dal Gladiatore di Ridley Scott, a cui seguiranno altre produzioni di successo variabile6.
6
Alcuni esempi di peplum degli ultimi anni: Quo Vadis ? (Jerzy Kawalerowicz, 2001), La passione
di Cristo (Mel Gibson, 2004), Troia (Wolfgang Petersen, 2004), Alessandro (Oliver Stone, 2004) , 300
(Zack Snyder, 2006).
Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi
A questa prima fase d’oro dei film sull’antichità ne segue una seconda,
databile a dopo la seconda guerra mondiale (1957-1964) in cui la ormai spietata concorrenza della televisione impone all’industria cinematografica hollywodiana la necessità d’inventare qualcosa di nuovo, per attirare nuovamente
il pubblico nelle sale. Gli studios cominciano dunque ad avvalersi della tecnologia CinemaScope, un procedimento inventato dal francese Henri Chrétien per
la 20th Century-Fox, che dona grandiosità, spettacolarità a questi nuovi peplum
prodotti negli anni 50.
Non solo l’America, ma anche l’Italia, nell’era post-fascista, si afferma in
questi anni come paese produttore di pellicole riguardanti l’antichità, con un
ritmo sorprendente di quaranta film per anno: si citano, a titolo di esempio,
L’Apocalisse di Gian Maria Scotese (1946), Fabiola d’Alessandro Blasetti
(1947), Nerone, tiranno di Roma di Primo Zeglio (1949). Questi film italiani raccolgono un grandissimo successo negli Stati Uniti, forse per la prestanza fisica degli attori italiani, veri e propri “bodybuilders”, tant’è vero che il genere peplum è anche conosciuto come “il cinema dei forzuti”. I registi americani, sulla scia del successo dei film italiani, cominciano a girare pellicole a Cinecittà,
realizzando nella penisola alcuni dei capolavori del genere peplum: Quo Vadis? (Mervyn LeRoy, 1951), Ulisse (Mario Camerini, 1954), Elena di Troia (Robert Wise, 1956), Ben Hur (William Wyler, 1959).
I film di questo periodo affrontano tutti gli episodi più celebri della storia e del mito, arrivando talvolta a creare veri e propri “mostri” cinematografici e anacronismi: si pensi ad un Maciste contro Zorro (Umberto Lenzi 1963).
Tuttavia, anche questa seconda fase di produzioni di peplum è destinata
a essere detronizzata da una nuova moda, quella degli western-spaghetti, affermatasi a metà degli anni Sessanta. I film sull’antichità diminuiscono, anche se continuano ad essere prodotti: si può citare la serie televisiva prodotta dalla tv britannica, la BBC, Io Claudio imperatore (Herbert Wise, 1976), basata sull’omonimo
romanzo di Robert Graves. In Italia si segnala, per avere dato il via ad un nuovo
genere di peplum, a carattere erotico, Caligola (Tinto Brass 1979).
Negli anni Ottanta, anche in seguito alle sperimentazioni sul genere prodotte negli anni Settanta, avviene la definitiva canonizzazione del genere peplum in tre sottogeneri: le serie tv ad argomento storico, le produzioni a carattere erotico, sul modello di Caligola, e le produzioni ad argomento storicofantastico (stile “Conan il barbaro”). Nessuna di queste pellicole raggiunge tuttavia il successo di opere come Quo Vadis? e ancora prima, Cabiria: è solo a
partire dal nuovo millennio che questo genere cinematografico tornerà a vivere una nuova fase di grandezza.
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Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi
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TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI
Si entra dunque in una nuova era del peplum, rappresentata, oltre che
dalla produzione di film, da quella di telefilm, docufiction e speciali, tutti di
argomento storico: tra di esse si segnalano in particolare Rome, prodotta da
HBO, BBC e Rai Fiction dal 2005 al 2007 e Spartacus, attualmente ancora in onda,
che ottengono un grandissimo successo di pubblico.
Quali sono le caratteristiche di questi nuovi peplum? Cosa ne determina il successo nell’era postmoderna, e quali sono i valori e i sentimenti che rispecchiano?
Tutte le caratteristiche del genere sono racchiuse nel film che ne è il capostipite e che detta i canoni per queste nuove produzioni: nel Gladiatore si
trova infatti rappresentato l’eroe buono, bello (si ricordi l’espressione “cinema dei forzuti” per definire i peplum degli anni Cinquanta) e che assomma in
sé tante delle virtutes romane per eccellenza, quali teorizzate da Catone il Censore, da Cicerone e da Seneca e facenti parte del mos maiorum7.
Il protagonista, il fedele generale Massimo Decimo Meridio, viene tradito quando Commodo, l’ambizioso figlio dell’imperatore Marco Aurelio, assassina il padre e s’impossessa del trono. Ridotto in schiavitù, Massimo cercherà vendetta per l’assassinio della sua famiglia e dell’imperatore combattendo
nell’arena tra le file dei gladiatori. Massimo non è solo un valente guerriero,
ma mostra inoltre di possedere alcuni valori fondamentali della romanità, tra
cui la pietas, da non identificarsi con la moderna pietà, ma con la devozione,
il dovuto rispetto verso gli dei, lo Stato, la famiglia, valori che si concretizzavano in un’accurata osservazione dei rituali e in una loro corretta esecuzione.
Il gladiatore osserva infatti il cultus, la serie di pratiche ripetitive alla base della religione romana e nelle sue preghiere mostra tutto il suo amore verso i suoi
cari passati ai Campi Elisi, pregando di fronte alle statuette dei suoi avi.
Il personaggio interpretato da Russell Crowe si dimostra inoltre fedele
alla parola data, in questo caso al morente imperatore Marco Aurelio, che gli
affida l’arduo compito di far tornare Roma ad essere una repubblica, restituendo il potere al senato, ovvero al popolo romano, come prima dell’avvento dell’età imperiale. La fedeltà alla propria parola secondo il valore della fides, viene mantenuta anche nella vendetta preannunciata a Commodo. Il coraggioso
gladiatore mostra inoltre di possedere la gravitas, la serietà di comportamento, la costantia, cioè la condotta di vita in coerenza con se stessi, e il decus, il
rispetto per la tradizione: tutti valori a cui si riconnette quello di dignitas, cioè
la reputazione, l’onore e la stima presso il prossimo, ottenuti grazie ad un comportamento in linea con i valori del mos maiorum.
Massimo Meridio assomma dunque su di sé quelle che sono le caratteristiche del “buon romano”: il rispetto per la tradizione, la serietà, la dignità,
l’autorità, l’auto-controllo, la costanza, la tenacia, la forza d’animo, la stabilità di un comportamento, tutti valori che contribuiscono a creare il suo personaggio e a decretarne il successo presso il grande pubblico.
Il termine mos, plurale mores, i costumi, indicava in genere i mos maiorum o mores maiorum, cioè
i costumi degli antenati, che permeavano tutta la gloriosa tradizione romana e comprendevano non
soltanto le credenze e le cerimonie che univano il popolo dell’Urbe, ma anche i cosiddetti valori della romanità. Cfr. M. BETTINI, Mos, mores und mos maiorum in die Erfindung der « Sittlichkeit » in
der römischen Kultur Moribus antiquis res stat Romana, pp. 303-352; A. WARD, F. HEICHELHEIM, C. YEO,
A History of the Roman People, New Jersey 2003.
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TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI
Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi
Sull’onda del successo del Gladiatore e del suo protagonista, Massimo
Meridio, è stata realizzata Rome, una serie televisiva prodotta da HBO, BBC e
Rai Fiction dal 2005 al 2007 e girata negli studi di Cinecittà. La fiction unisce
abilmente elementi innovativi dei nuovi peplum, come le scene di sesso e violenza esplicite, con elementi dei peplum tradizionali, quali la compresenza di
personaggi storici realmente esistiti con personaggi d’invenzione e le ricchissime scenografie, talmente costose da determinare un’interruzione della serie
proprio a a causa delle enormi spese di realizzazione.
Rome è ambientata a Roma nella seconda metà del I secolo a.C., nel periodo in cui la Repubblica, ormai morente, è scossa dalle guerre civili. In questo quadro storico s’inseriscono gli ultimi anni di vita di Caio Giulio Cesare,
dalla resa di Vercingetorige alla sua morte avvenuta in Senato per mano di Cassio e Bruto e i primi anni di attività politica di Ottaviano Augusto. Tema della
serie sono quindi i profondi contrasti sociali, il clima sordido e magnifico nello stesso tempo, che caratterizza gli ultimi anni della morente Respublica. Personaggi caratterizzanti della serie non sono tuttavia Cesare e Augusto, ma il
centurione Lucio Voreno e il legionario Tito Pullo, realmente esistiti e nominati da Cesare nel De bello gallico (V 46), intorno ai quali vengono sapientemente intrecciate vicende di fantasia. Anche in questo caso è facile enucleare alcuni temi e valori cari alla romanità, rappresentati proprio da Lucio Voreno e
Tito Pullo: i due soldati hanno infatti comportamenti antitetici, sebbene li leghi un sentimento di amicizia e il comune valore militare. Non a caso nel De
bello gallico i due soldati vengono descritti come in perenne competizione per
raggiungere la promozione ai gradi più elevati.
Il centurione Voreno è campione della virtus, valore ideale del maschio
romano, che comprende la capacità di discernere ciò che è bene da ciò che
è inutile, vergognoso, o disonorevole, ma anche l’abilità in battaglia dell’eroe
e del guerriero. Lucio Voreno non a caso viene descritto come “Centurione
Prima Lancia” grazie alle sue doti di soldato. Strettamente collegata alla virtus è la gloria, cioè la fama che si ottiene dopo aver compiuto azioni valorose e il riconoscimento di esse da parte della comunità: grazie alla gloria guadagnata sui campi di battaglia Lucio Voreno, una volta congedatosi dall’esercito, viene successivamente nominato da Cesare, che vuole garantirsi una valida guardia del corpo, magistrato e quindi senatore. Tito Pullo rappresenta
invece il topos del soldato “fanfarone” delle commedie di Plauto, amante delle belle donne, del buon cibo, secondo l’ideale della simplicitas, il concetto
di vivere secondo le origini in maniera semplice, ma genuina, lontano dai lussi sfrenati dell’Urbe. Tito Pullo, nello stesso tempo, risulta però spietato in
battaglia, capace di sincera amicizia verso Lucio Voreno e di amore verso la
bella schiava Irene: i personaggi di Rome uniscono dunque al coraggio guerresco valori e sentimenti profondi, che li rendono, come Massimo Meridio,
eroi “umani”.
Altrettanto umano, pur nella crudeltà e nella violenza del contesto in cui
vive, è il trace Spartaco, divenuto gladiatore in seguito alla cattura da parte dell’esercito romano (e fautore di una rivolta contro la Repubblica romana stessa nel 73 a.C.) e protagonista della serie Spartacus. Negli intenti dei produttori vi era quello di creare un peplum non classico, ma divertente, dinamico, con
azione e personaggi appassionanti e con una punta in più di profondità rispetto ai film degli anni 60, aggiungendo a questo già vincente mix contenuti a for-
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Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi
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TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI
te sfondo sessuale, effetti speciali da videogioco e un’estetica generale fortemente legata ai fumetti e ai video giochi8.
Le gesta di Spartaco si svolgono nell’Anfiteatro campano di Santa Maria
Capua Vetere (Caserta), ovvero l’Antica Capua, citata più volte nel serial dai protagonisti e plumbeo sfondo alle avventure dei gladiatori (da notare che l’unico cielo blu presente nella serie è quello della prima puntata, dove Spartaco,
ancora in Tracia, era un uomo libero); l’intento della serie è quello di rappresentare la società romana dell’epoche delle Guerre Civili in modo vivo e intenso, senza mezze misure, attraverso la violenza quotidiana del mondo dei gladiatori e attraverso gli intrighi delle classi più alte, che si abbandonano senza
remore alla lussuria e agli agi: l’atmosfera della serie è appunto quella di un
luogo senza luce, né fisica, né morale.
Il tentativo di realizzare un peplum innovativo risulta perfettamente riuscito e la prima serie del telefilm (la produzione della seconda è stata ritardata dalla prematura morte dell’attore protagonista, Andy Withfield) ha raggiunto ottimi risultati di share, anche grazie all’eroico personaggio protagonista,
vero e proprio “duro dal cuore tenero”. Come il gladiatore, infatti, anche Spartaco ama la propria moglie, per cui combatte (dapprima per rivederla, poi saputo della sua morte per mano del suo padrone, per vendicarla) e presenta le
caratteristiche dell’eroe: è forte, invincibile, coraggioso. In questo caso la romanità non rappresenta il fondamentale humus in cui è cresciuto il protagonista al quale, essendo trace, non è stato inculcato il mos maiorum, ma permea comunque la serie dei valori fondamentali.
Anche nella serie Spartacus ritorna, come in Rome, il tema fondamentale dell’amicitia, che il gladiatore stringe con Varro, e che nel sistema di valori romano non intende semplicemente il concetto di amicizia tra singoli individui, con progetti e interessi comuni, ma anche il legame di alleanza tra due
nazioni, o il rapporto tra patronus e cliens.
Ugualmente importanti sono i valori dell’humanitas, la comprensione di
in individuo verso l’altro, tanto più importante in un ambiente come quello di
Capua, dove la violenza è all’ordine del giorno e della disciplina, cioè la ferrea
educazione, la rigidezza militare, a cui i gladiatori si sottopongono durante i
loro durissimi allenamenti.
Il giovane Spartaco, come i già citati personaggi di Rome e del Gladiatore, rappresenta un modello positivo di coraggio, umanità, e abilità nel combattimento, a cui si mescola la “debolezza” dei sentimenti d’amore e amicizia: tutti elementi che lo rendono un perfetto “eroe postmoderno”.
CONCLUSIONI: I NUOVI EROI
Avendo rapidamente analizzato i principali rappresentanti dei nuovi peplum, conviene ora soffermarci su di essi e trarne qualche conclusione.
In un panorama di crisi dei valori e di ricerca di modelli educativi, che
s’impongono soprattutto, nel nostro oggi, attraverso i vecchi e nuovi media,
si può avanzare l’ipotesi che questi film e telefilm assolvano una funzione “didattica”, grazie ai valori che essi trasmettono, facenti parte del patrimonio identitario comune ed affondante le radici nel nostro comune passato, basati sul
modello di “eroe” forte e buono che domina le scene.
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Sull’estetica della serie Spartacus consultare http://www.peplums.info/.
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TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI
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“La sollecitazione di ‘sensazioni forti’ nello spettatore avviene attraverso l’adozione del ‘film-concerto’, caratterizzato dalla presenza decisiva della musica come principio fondamentale della sua
costruzione e contraddistinto da un insieme di figure stilistiche tendenti a provocare nello spettatore un “bagno di sensazioni” . (…) Di qui l’importanza, per il cinema postmoderno, di proiezioni
ad alto livello tecnico: schermo grande, immagine perfettamente definita, sistema acustico perfetto” . Cfr. http://larica.uniurb.it/scss/files/2011/03/Il-postmoderno.pdf
10
http://www.gaetanomollo.it/data/download/189-Postmodernita_05.pdf.
Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi
Caratteristiche di queste produzioni non sono solo il ricorso a strumentazioni altamente tecnologiche, a colonne sonore struggenti e ad effetti speciali e a scenografie degne di budget hollywoodiani, che fanno pur parte della produzione cinematografica post-modernista e rispondono a criteri di spettacolarizzazione, sensazionalismo e dramma sociale9, ma anche la presenza di
valori e sentimenti che realmente esistevano nel mondo romano.
Le serie, pur non rispettando sempre la veridicità storica nelle scenografie (in questo senso, forse, la più aderente al vero risulta Rome), nei costumi, nella trama, assommano comunque, nel carattere dei personaggi, alcune virtù e valori del mos maiorum : il modello del perfetto romano è per l’azione, la razionalità, la fedeltà alla patria, l’onore agli Dei, la vita frugale e il disprezzo per la
morte, tutti valori questi, che abbiamo trovato nei personaggi dei nostri peplum.
E sono dunque, proprio questi valori e queste figure di eroi, sapientemente creati dai produttori, a colpire lo spettatore postmoderno, in cerca di modelli di vita, piuttosto che l’aspetto più cruento e sensuale di questi film e telefilm.
I valori antichi rappresentati da questi eroi positivi possono in parte coincidere, in modo simbolico, con quei valori dell’espressività individuale, incentrati in tre dimensioni del “desiderabile”, che secondo recenti studi, sono i valori cercati dall’uomo postmoderno: l’autorealizzazione individuale, la ricerca di un lavoro per esprimersi; le relazioni interpersonali gratificanti10.
L’autorealizzazione, da intendersi come diritto d’ogni singola persona
di potersi fare architetto del proprio destino, ritorna negli obbiettivi dei nostri
personaggi, che devono di volta in volta vendicare la famiglia, l’amata, riconquistare la libertà, combattere per le proprie idee e i propri valori.
La ricerca di un lavoro espressivo, atto quindi a poter manifestare la propria
personalità, è presente nei valori guerreschi degli intrepidi gladiatori e legionari,
nella loro abilità nel combattere, nella fedeltà alla propria missione di soldato.
Infine, la centralità di relazioni interpersonali che possano non solo sconfiggere l’isolamento e la solitudine, ma che siano in grado di dar senso agli aneliti dei sentimenti ed alle istanze che sottostanno agli autentici rapporti interumani, permea tutta la vita dei protagonisti dei nuovi peplum: l’amore verso la patria, verso una donna, verso gli amici è ciò che dona senso alle loro esistenze.
Da qui si comprende come valori quali l’amicitia, la virtus, la gloria siano più o meno consapevolmente bramati e ammirati dallo spettatore di questi peplum, spettatore che rivendica, come il suo eroe di celluloide, interazioni umane sincere e sentite, un’occupazione soddisfacente, l’autorealizzazione.
Non appare casuale dunque il successo di pubblico che queste opere ottengono: in un’ipotesi di recupero della sentimentalità ai giorni nostri, credo sia importante evidenziare, in positivo, il ruolo svolto dal nostro antico passato e dai
suoi valori nello sviluppo di sentimenti quali amicizia, amor di patria, amore per
la vita politica e impegno civile, amore coniugale e per la famiglia.
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Emilia Michelazzi Tra antichità e postmodernità: i peplum e i loro eroi
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TRA ANTICHITÀ E POSTMODERNITÀ: I PEPLUM E I LORO EROI
Guardando alle nostre radici, segnatamente all’antica Roma, è possibile infatti ravvisare nei valori dell’epoca sentimenti immortali e per tale motivo, ancora adesso, di grande attualità, mentre altri appaiono ormai lontani dal nostro comune sentire e dalla nostra vita quotidiana. La dimensione emozionale, amoroso-sentimentale dei nuovi peplum emoziona, ispira, coinvolge l’attualità.
La produzione di questi film, con costosissime sceneggiature e budget,
dimostra un rinnovato e sempre più forte interesse per il passato: penso sia
una buona idea partire proprio da un prodotto che incontra grande favore popolare ed è abilmente costruito per venire incontro ai gusti di un vasto pubblico, per cercare di evidenziare ciò che al di là del razionale, continua a farci
sentire vicini e affini ai nostri antenati.
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UNA POESIA
di Mario Pepe
Piazzetta Santa Croce
Lassù ci sono le finestre
dove abitavo,
dietro vedo le stanze,
e il mare,
e quei giorni sospesi
sull’azzurro dondolio delle navi.
Guardo il portone
da dove uscivi
per incontrarmi,
giovane e fanciulla,
e mi viene voglia
di aspettarti,
ma non credo
mi riconosceresti,
vestito da vecchio come sono.
Mario Pepe Piazzetta Santa Croce
UNA POESIA
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Milena Buzzoni L’esordio di Stefania Pagliero alla luce dell’elleboro
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PROSPEZIONI
PROSPEZIONI
Letture di Milena Buzzoni, Rosa Elisa Giangoia, Giuliana Rovetta
L’ESORDIO DI STEFANIA PAGLIERO
ALLA LUCE DELL’ELLEBORO
Milena Buzzoni
È attraverso lo spigoloso percorso di una
crescita che si dipana il romanzo d’esordio di Stefania Pagliero. Una crescita “fuori dal coro”, di quelle che il tempo non
sana, che gli anni non risolvono.
Carla, la protagonista, è una ragazza bruttina, o meglio, è una ragazza normale che
si vede brutta, scialba, insignificante, che
non si piace e non si ama. Nulla di nuovo, dunque, un’adolescenza come tante,
come tutte. Invidia le amiche che solidarizzano e hanno un ragazzo, cerca di sabotare la riuscita delle loro imprese
amorose, si difende dall’abisso della
solitudine con piccole menzogne, fughe,
prese di posizione. Ma il tempo, anziché
risolvere il suo isolamento, lo approfondisce creando attorno a lei il vuoto: è
come un soldato rimasto solo in prima
linea, faccia a faccia con il nemico. E il
nemico è lei stessa, il suo corpo inaccettabile, l’inaccettabile colore dei capelli,
l’inaccettabile muoversi in mezzo agli altri. Fino ad arrivare a quella frase che
giunge come una pugnalata all’orecchio
della madre: “……almeno nessuno le dà
una seconda occhiata, beata lei!…..” riferita a una donna sfigurata dalla lebbra.
E il climax, seguito dal dénouement, come
si direbbe in scrittura creativa, il nodosoluzione di tutta la vicenda, anziché risolverla con uno stratagemma, un finale ovvio che l’avrebbe banalizzata, le dà
una svolta drammatica e definitiva.
È una crescita, quella di Carla, che ne evoca altre famosissime, come quella di Giulio la protagonista dell’indimenticabile
romanzo di Milena Milani, o quella di
Anna nella “Storia di Anna Drei” sempre
della Milani o ancora quella della giovane jainista nella “Pastorale americana” di
Philip Roth. Ci sono delle affinità tra la
Carla della Pagliero e le protagoniste, Giulio e Anna, della Milani: per esempio l’av-
versione per il proprio corpo ( Anna parla della sua “lurida carne” e dice “sono
disperatamente fatta come una donna”
che somiglia all’invocazione di Carla nel
momento in cui scopre di essere diventata donna e implora “Dio di non farla
crescere, mai più”). Da qui emerge il senso di una profonda inadeguatezza, di uno
sfasamento tra sogno e realtà, fra volontà di successo e incapacità di raggiungerlo. Tutto il romanzo si rifà a una matrice esistenziale anche per il senso di isolamento e di vuoto che lo sottende. E allora è inevitabile pensare a un’altra, famosissima, Carla, quella de “Gli Indifferenti” di Moravia: consapevole, questa,
del suo ineluttabile destino e della propria deriva morale; cosciente, quella, della propria deriva esistenziale.
Lungi dal dipanarsi in linea retta, la vicenda della Pagliero, si attorciglia su se
stessa, trovando un proprio sbocco, logico e inaspettato: la destinazione scelta da Carla per il suo lavoro diventa l’emblema di un isolamento permanente, cifra esistenziale nella quale somatizzare
la propria irrisolta solitudine. Lì finalmente troverà un proprio tempo e un proprio
spazio e potrà fare come gli Inuit, il popolo che andrà ad aiutare: “…..si lasciano andare, sai, sopraffatti dal progresso del resto del mondo.” Ma attorno al
calvario di questa crescita gravitano altri drammi familiari: quello della madre
coinvolta in prima persona nelle dinamiche psicologiche della figlia, e quello del
padre, prematuramente scomparso. Sullo sfondo, l’angoscia di un’intera città,
l’impatto di un G8 violento, gli schieramenti della polizia con i caschi come
“grosse biglie grigie traslucide”, i sacchi
a pelo, il sangue sul marciapiede, l’ansia
della protagonista che teme per la vita
di quel ragazzo con le efelidi che le ha
fatto balenare sotto gli occhi una possibilità d’amore. Accanto a questo, che potremmo definire come un “paesaggio storico” affiora, a tratti, anche quello più
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PROSPEZIONI
Stefania Pagliero, La luce dell’elleboro, Genova, De Ferrari Editore, 2012, pp. 120, €
L’AMORE NELLA VITA
Rosa Elisa Giangoia
Per Philippe Popiéla l’amore è il centro
della vita, il suo vivere infatti è illuminato dall’intessere relazioni con persone,
soprattutto con figure femminili nei
confronti delle quali vive intensi momenti di amicizie amorose, di innamoramento, anche non ricambiato, ma sempre sentito come armonia di anime, corrispondenza di cuori, somiglianza di anime sensibili ed anche comunanza di Fede. Per
questo la sua silloge poetica è un susseguirsi di figure femminili, dalla “ragazza di Calais” al “Fiorellino”, alla “ragazza di Alba”, a Fabiana, «la bellissima ragazza dalla dolce voce delle “langhe”» ed
anche «anima gemella», a Maria Elena, a
Luisa, in fondo varianti di un’unica seduttrice immagine femminile che il poeta ha nella mente e di cui cerca l’incarnazione nella realtà. Per questo le sue figure femminili sono sempre legate al luogo in cui si trovano a vivere, sia in Francia che in Italia, in località care al poeta
per ragioni biografiche o letterarie, perché lo sfondo diventa l’elemento di collegamento tra l’immagine creata dal sogno e la realtà. Gli amori per lui si intrecciano, si interrompono, si rincorrono, per
poi ritornare per dare conforto e sapore alla vita, soprattutto dopo eventi
molto dolorosi, come la perdita dei genitori o il suicidio del fratellino. In definitiva si potrebbe dire che Popiéla è innamorato dell’amore stesso, più che di
singole persone. Ma per Popiéla guardare il mondo attraverso l’amore è un modo
per comprenderlo meglio, per andare oltre l’apparenza, per individuare e cogliere il senso profondo della vita, il che di
fatto è il suo anelito più autentico (Un
senso di Pace). A questo si accompagnano il desiderio del poeta di liberarsi dal
male terreno (Miracolo luminoso) e la sua
aspirazione ad una Terra Promessa di
eterna felicità (Tramonto sul mare), per
cui, dietro alle descrizioni, agli aneliti
d’amore e d’amicizia, si avverte il palpito inquietante del mistero della vita. Questo porta il poeta ad esprimere sempre
una forte tensione per individuare, intraprendere e seguire il cammino della Fede
e della Bontà, in spirito di comunione con
gli altri.
Accanto all’amore un posto significativo tra i motivi ispiratori della poesia di
Popiéla spetta all’amicizia, soprattutto
letteraria ed artistica, come dimostrano
i testi dedicati a Carlo Ossola, a Guido Zavanone e a Claudio Baglioni, che si allarga anche alla consonanza di spirito con
autori della nostra recente tradizione
come Cesare Pavese (la cui memoria è
presente in antifrasi nel titolo della raccolta), Mario Luzi e Lalla Romano (A Lalla, Fiore di Demonte).
Dal punto di vista espressivo la caratteristica saliente di questa silloge poetica
è quella di essere bilingue, in italiano e
Rosa Elisa Giangoia L’amore nella vita
specificatamente “geografico”: gli scorci di una Genova residenziale, nello
stesso tempo presente e nostalgica, più
paesaggio dell’anima che entità geografica, sullo sfondo di un mare ora accattivante ora inquieto, come nell’immagine che sembra alludere all’imperscrutabile segreto dell’universo femminile:
“….il mare incomincia a incresparsi sulla superficie tesa e scura, turgido di mistero come un ventre di donna”. È invece il freddo, con la sua funzione ambivalente, a occupare il paesaggio finale: da
un lato metafora di morte come fine di
un ciclo esistenziale, annullamento della corporalità, dall’altro veicolo di rinascita: il corpo di Carla, sotto gli strati di
pelliccia e indumenti, finalmente non
avrà più forma né odore e la sua nuova
vita comincerà proprio attraverso questo rito della vestizione che ha tutta la
solennità di un rito iniziatico, come se,
abbandonando la fisicità del corpo, acquisisse un’altra sostanza, diversa e
immateriale, in un processo di sublimazione che diventa l’unico plausibile esito della vicenda. Su questa, non a caso,
si diffonde la luce diafana dell’elleboro,
il fiore del rigore invernale, che con i suoi
poteri narcotizzanti si fa metafora di
emarginazione e distacco.
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Rosa Elisa Giangoia Tra pubblico e privato in tempi recenti
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PROSPEZIONI
in francese, per la sicura padronanza dell’autore di entrambe le lingue; in alcuni
casi la traduzione italiana è stata curata da Guido Zavanone, quasi in gara con
il poeta francese, come dimostra la conclusiva sezione Varianti.
L’andamento delle poesie è prevalentemente colloquiale, di apertura comunicativa
con il lettore a cui vengono presentati con
sincerità e immediatezza spaccati di vita
quotidiana. Per questo, accanto alle vicende d’amore, ci sono riflessioni sulla presente situazione politico-economica (Tempesta), riflessioni sulla professione di insegnante (L’ultimo viaggio), pensieri augurali di speranza di salvezza per la madre
(Mia madre) e la nonna (A Boucha), espressioni di fiducia nell’Assoluto in occasione
della morte del padre (Umile preghiera nella Trinità), ma c’è anche la vivacità festosa di uno spettacolo spagnolo (La bella di
Cadice). È la vita stessa per Popièla a farsi poesia e proprio nel suo essere poesia
trova la sua autenticità.
Il tono discorsivo, fatto di immediatezza e semplicità, trova però anche occasioni di felici espressioni figurate («il tuo
sorriso dolce di ciliegia», «i cuori di pietra dell’amarezza» e di brillanti giochi fonici con assonanze e onomatopee, che
imprimono ai versi di Popiéla quell’originalità che, insieme alla ricchezza
d’ispirazione e alla costante felicità
espressiva, caratterizza il vero poeta.
Philippe Popiéla, Amare non stanca,
Prefazione di Carlo Ossola, Introduzione di Guido Zavanone, Bonaccorso, Verona 2013, pp. 245, € 15,00.
TRA PUBBLICO E PRIVATO
IN TEMPI RECENTI
Rosa Elisa Giangoia
Scorre veloce il tempo in questo ampio
romanzo di Roberto Musetti, alla sua prima prova con un’opera di grande impegno compositivo e narrativo. Il tempo incalza in un susseguirsi di vicende che si
snodano nell’arco di alcuni decenni della seconda metà del Novecento, anni di
grandi trasformazioni politiche e sociali, di presa di consapevolezza più ampia
e matura da parte di molti, ma anche anni
di liberazione individuale da schemi di
vita rigidi e tradizionali.
Protagonista delle vicende che la vedono sempre coinvolta, in maniera più o
meno diretta, è Luana, una giovane, all’inizio appena adolescente, ma che si
evolve e trasforma profondamente nel
corso di quanto viene narrato, tanto che
il romanzo assume, oltre a molti altri, anche il carattere di “romanzo di formazione”, il cosiddetto Bildungsroman, con caduta nell’abisso nel negativo e recupero
del positivo, soprattutto della propria
personale dignità.
La vicenda di Luana inizia con una fuga
dal collegio di suore, a cui i genitori l’avevano affidata per completare la sua formazione culturale. È una fuga di protesta e di dissenso nei confronti soprattutto della madre che le ha celato verità scabrose sulla sua nascita, ma è anche una
fuga dalla ristrettezza della provincia verso una grande città, che offre miraggi di
libertà e apre nuove prospettive di vita.
In questa fuga la ragazza è aiutata da chi
crede nelle sue doti intellettuali e auspica per lei un futuro diverso da quello previsto dai genitori. Il luogo della ritrovata libertà è per Luana Venezia, con tutto il suo fascino di storia, arte, ricchezza, vita, eleganza, luminosità e meraviglia. Qui trova lavoro in una straordinaria libreria, dove, grazie al singolare personaggio di Libero, sintesi di cultura, saggezza e generosità, i libri non solo si commerciano, ma si leggono, studiano, discutono in gruppi che coinvolgono ed arricchiscono numerose persone. Gli orizzonti di Luana si possono così aprire in direzioni diverse, da quella politico sociale a quella sentimentale.
A questo punto a Luana si impongono
delle scelte di vita, per cui decide di andare a Futura, città emblematica dello sviluppo industriale del secondo Novecento in Italia, in mano ad un capitalismo
senza scrupoli, per aprire una libreria che
sia anche lì centro di diffusione di idee
e occasione per far maturare una coscienza critica nei confronti soprattutto della negativa realtà della città. È un progetto in cui crede fortemente, come ci cre-
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PROSPEZIONI
della protagonista, dei libri e della libreria, a cui si contrappongono, nella seconda parte, quella della degradazione, i beni
materiali, vissuti come possesso esclusivo ed egoistico, mentre la cultura è condivisione e arricchimento reciproco.
Dal punto di vista formale il romanzo è
costruito con sapiente scrittura, soprattutto per la capacità dell’autore di utilizzare un’ampia gamma di registri stilistici, sempre pienamente funzionali alle diverse situazioni e agli stati d’animo dei
numerosi personaggi, descritti anche
in momenti di forti tensioni emotive. Ai
dialoghi che si snodano con naturalezza, sia che si svolgano tra personaggi diversi, sia che scendano nel profondo di
uno solo, rapportandosi alla coscienza
individuale, si affiancano i monologhi che
servono per analizzare le più complesse situazioni psicologiche degli personaggi, sempre condotti da Musetti con quell’abilità che i maestri del romanzo novecentesco ci hanno insegnato.
Certo una buona prova d’esordio narrativo per uno scrittore da cui pensiamo ci
sia molto da aspettarsi.
Roberto Musetti, Angeli caduti, Europa
edizioni, Roma 2013, pp. 474, € 17,00.
DONNE GENOVESI
Rosa Elisa Giangoia
Tra la fine del Settecento ed il primo Novecento la città di Genova ebbe vicende
storiche che determinarono trasformazioni profonde anche con ripercussioni
importanti sul resto d’Italia. Infatti, a seguito della Rivoluzione Francese, dopo
aver mantenuto un atteggiamento neutrale nei confronti del governo rivoluzionario, nel 1797 la città stabilì rapporti di
alleanza con Napoleone Bonaparte, a seguito dei quali la Repubblica di Genova
cessò di esistere, sostituita dalla Repubblica Ligure, inclusa nel 1805 nell’Impero francese. Poi, dopo le sconfitte di Napoleone del 1814-1815, il Congresso di
Vienna stabilì, pur contro la volontà della Repubblica, l’annessione della regione ligure al Regno di Sardegna. Da que-
Rosa Elisa Giangoia Donne genovesi
de Carlo che con lei lo intraprende; ma
tra di loro la situazione è ambigua e sbilanciata, perché Carlo la ama perdutamente, mentre lei ama follemente Paolo, un affermato medico che aveva già fugacemente incontrato in collegio e poi rivisto in una brillante festa a Venezia, personaggio ambiguo, controverso nelle
opinioni di quanti lo conoscono.
L’esperienza di Futura si rivela ben presto un fallimento per l’insensibilità delle persone che in quella realtà vivono e
per la netta opposizione della classe politica, economicamente coinvolta. Ma, nonostante questo, per Luana all’improvviso tutto sembra volgere al meglio: abbandonato definitivamente Carlo, stringe finalmente un felice legame sentimentale con Paolo, con cui torna a Venezia
per iniziare una nuova esistenza, piena
di gioie e soddisfazioni. È un’illusione
breve, purtroppo. Le vicende volgono rapidamente verso sviluppi negativi, drammatici e dolorosi per Luana, che dovrà
ancora abbandonare Venezia e che sceglierà deliberatamente di costruirsi una
nuova vita all’insegna dell’ipocrisia, del
cinismo e della durezza più spietata nei
confronti degli altri, con il solo obiettivo di arricchirsi il più possibile.
Finalmente, però, arriverà un giorno in
cui tutte le verità della sua vita, in particolare quelle che riguardano le persone a lei care ormai scomparse, si chiariranno e le certezze recuperate le permetteranno di risalire la china della degradazione morale in cui era caduta.
È un romanzo a tinte forti, di marcati
contrasti tra il bene e il male, di netta contrapposizione tra personaggi di caratteri diversi, ma è anche un romanzo di presa di coscienza di alcuni gravi problemi
che hanno percorso la società italiana nella seconda metà del secolo scorso e che,
proprio grazie all’impegno di persone coraggiose, hanno potuto, se non essere superati (e molti non lo sono ancora oggi!),
almeno essere messi sul tappeto e presi in considerazione. Ma è anche un romanzo di riconoscimento dell’importanza della cultura, con l’emblematica presenza in tutta la prima parte del romanzo, quella che vede il carattere positivo
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Rosa Elisa Giangoia Donne genovesi
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PROSPEZIONI
sto momento in poi i destini di Genova
e della Liguria saranno legati a quelli dell’Italia, soprattutto per gli importanti contributi che la città darà all’elaborazione
teorica del movimento risorgimentale.
Dopo l’unità d’Italia si aprirà per Genova la stagione del grande sviluppo portuale ed industriale.
Di questo periodo storico di grande
trasformazione politica e quindi anche
civile e sociale, Francesca Di Caprio
Francia prende in considerazione le figure femminile, attraverso la costruzione
di 70 ritratti che rappresentano altrettante microstorie di donne genovesi per nascita o per residenza nella città che, in
condizioni sociali, economiche e culturali anche molto diverse, hanno attraversato questi decenni lasciando un segno
della loro presenza, che in alcuni casi è
rimasto indelebile, mentre in altri è stato recuperato e riportato all’attenzione
proprio dall’indagine dell’autrice. Infatti, come dice Stefano Verdino nella Prefazione «l’originalità della scelta di Francesca Di Caprio è stata quella di non fare
solo la galleria delle donne illustri, ma di
allestire un album delle ‘genovesi’ che la
memoria ha tramandato, nei più diversi scomparti».
Le prime figure femminili che vengono
prese in considerazione, secondo un percorso cronologico in cui però si dà rilievo a gruppi con caratteristiche salienti
omogenee, è quello delle “Dame illuminate”, donne della nobiltà locale che risentono del nuovo clima culturale venuto dalla Francia. Tra di loro emergono
Clelia Durazzo Grimaldi, raro esempio di
donna scienziata, particolarmente competente in botanica, Anna Pieri Brignole Sale, amante della poesia ed interessata alla politica che tenne un celebre salotto aperto alle idee illuministiche, e Antonietta Galera Costa, che rivendicò la sua
autonomia nei confronti dei genitori riguardo al matrimonio, diventando poi la
«vivace animatrice» di un salotto culturale, frequentato anche da Vincenzo
Monti, che le dedicò il suo famoso Sermone sulla mitologia, considerato il
manifesto del Neoclassicismo italiano.
A loro seguono le “Grandi madri del Ri-
sorgimento”, tra cui spicca la figura
molto nota di Maria Drago Mazzini, accanto a cui si collocano Eleonora Curlo
Ruffini e Adelaide Zoagli Mameli, tutte
«meritatamente irradiate dalla luce riflessa» della fama dei loro figli a cui «instillarono» «ideali risorgimentali». Nel periodo risorgimentale diedero importanti contributi alla causa italiana anche le
“Patriote nei salotti risorgimentali”,
come Bianca Milesi Mojon, Bianca Desimoni Rebizzo e Anna Schiaffino Giustiniani, nota per l’infelice storia d’amore
con il giovane Cavour. Accanto a loro ci
sono le “Popolane patriote quasi dimenticate”, come le sorelle Maria e Caterina Avegno che accorsero in aiuto dei
marinai inglesi della fregata Croesus, incendiatasi davanti a Camogli, in una situazione difficile che determinò la morte di Maria.
Ci furono poi le “Letterate e giornaliste”,
che fondarono e sostennero periodici patriottici, accanto ad altri più interessati
alla questione femminile. In quest’ambito emersero anche vere e proprie scrittrici, come Willy Dias e Flavia Steno, le
cui opere meriterebbero una rilettura,
come quelle per l’infanzia di Fata Nix.
La galleria delle figure femminili è arricchita ancora dai ritratti di religiose dalla vita avventurosa, come suor Blandina,
coraggiosa missionaria prima nel West
tra gli indiani, poi tra gli emigrati italiani, di numerose “Sante e Beate”, dedite
soprattutto alla formazione morale e culturale delle ragazze dei diversi ceti sociali, tra cui spiccano Benedetta Cambiagio Frassinello ed Eugenia Ravasco. Accanto a loro ci sono le “Befattrici”, tra le
quali la più famosa è indubbiamente Maria Brignole Sale De Ferrari, la Duchessa
di Galliera.
Il panorama è arricchito dal capitolo sulle “Artiste”, suddivise in “Pittrici”, da Carolina Olivia Celesia a Adelina Zandrino,
“Cantanti e Musiciste”, nessuna delle quali ha acquisito una fama tale da varcare
i decenni, e “Attrici”, come Giuditta Rissone e Rina Franchi Gaioni Govi.
A dare un tocco di vivacità a questo grande affresco è l’ultimo capitolo dedicato
alle “Figure caratteristiche di popolane”,
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PROSPEZIONI
Francesca Di Caprio Francia, Donne genovesi tra fine Settecento e primo Novecento, De Ferrari Editore, Genova 2014,
pp. 150, € 16,00.
FALSE MEMORIE
DI UN BRILLANTE IMPOSTORE
Giuliana Rovetta
Una galoppata insolita e qualche volta disturbante attraverso l’arte del XX secolo:
questo è il racconto paradossale che Roland Topor (1938-1997), personaggio geniale quanto sconcertante, propina ai
suoi lettori sotto forma di una (falsissima)
autobiografia dando alle stampe per
l’editore Wombat, a metà degli anni Settanta, le Mémoires d’un vieux con. Questo testo, oggi disponibile in italiano
nelle edizioni Voland con un titolo pudicamente sfumato rispetto all’originale, illustra con puntuale irrisione un genere,
quello dell’autofiction, dove a compensare l’opposizione tra realtà e vissuto subentra l’equivalenza tra io e linguaggio.
Il concetto che Topor sviluppa è piuttosto semplice: se ammettiamo che l’autobiografia è sempre diversa dalla vita reale, infarcita d’invenzioni a cui nessuno fa
caso, allora perché privarsi del piacere di
raccontare “una vita non vissuta ma che
avremmo voluto vivere?”. Il protagonista
narrante, affetto da un patologico narcisismo, si presenta come il geniale ispiratore e regista di ogni nuova moda e tendenza, di ogni cambiamento di rotta nel
milieu culturale parigino: dall’invenzione
del cubismo (e relativa lite con Picasso) all’anticipazione del racconto fantascientifico alla Orwell, mentre Breton lo implora di suggerire le formule adatte al suo manifesto del Surrealismo e i più grandi pittori tentano invano di imitare il suo stile sorprendente. A chi si affida il pavido
Sartre per attraversare la trafficata rue
Sant-Benoît ed accomodarsi finalmente al
tavolino del Caffè Flore? A lui, genio e, appunto, cialtrone. A chi il mitico Meliès affida una parte nei suoi mirabolanti lungometraggi? Sempre a questo io narrante ingombrante quanto versatile. Per chi
Sarah Bernard accetta di posare nuda? Per
lui, artista sempre qualche passo avanti
agli altri. Così avanti, spiega, che a volte
deve fermarsi per aspettare le Avanguardie che procedono troppo lente rispetto al suo passo, ma poi sul più bello lo superano e si dimenticano di lui.
In queste pagine trascinanti vengono passati in rassegna tutti i personaggi che
hanno illustrato la cultura del Novecento: Apollinaire, Chaplin, Cocteau, Braque,
Mirò, Cole Porter, Huysmans, Proust, persino Hitler e Trotsky: ognuno di loro viene prima contestualizzato e poi fatto a
pezzi con le armi dell’ironia più dissacrante, lasciando spazio alla figura del
protagonista narrante che vanta mille abilità, intuito sottile, eccezionale temperamento, indiscusso talento. Ma stringi
stringi di tutto questo vorticoso spendersi per arrivare prima e primo, il nostro
Giuliana Rovetta False memorie di un brillante impostore
che ci informa sulla prima miss di Genova, la sarta Cesira Rolla, ma ci permette anche di conoscere meglio alcune donne da sempre note in città, come Caterina Campodonico Carpi, la famosa Catainin de nisseue, immortalata dalla
statua a Staglieno, o Carlotta Navone,
ostessa in Sottoripa, omaggiata dal giornalista Giovanni Ansaldo per la sua abilità nel preparare la torta pasqualina e
ricordata anche da Mario Soldati.
Questa rassegna di personaggi femminili ci dà conferma del fatto che anche a
Genova, specie dopo il diffondersi delle idee illuministiche, ci siano state donne di grande cultura e di alti sentimenti civili e patriottici che hanno contribuito alla diffusione di quel pensiero che ha
profondamente trasformato la società,
ma ci fa anche capire come in tutte le
classi sociali le donne siano state sempre molto attive e, qualora siano potute uscire dal ristretto ambito familiare,
siano state sovente capaci di realizzazioni importanti, anche con sacrificio e generosità. Ancora una volta quest’ampia
ed interessante rassegna di Francesca Di
Caprio Francia ci conferma che la donna ha in sé le stesse potenzialità dell’uomo, ma che nel passato solo eccezionalmente ha avuto le possibilità per esprimerle e metterle a frutto.
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Giuliana Rovetta Le lunghe ore di Colette, reporter
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PROSPEZIONI
poliedrico eroe non ha raccolto i meritati frutti, proprio perché si è perso nelle sue fandonie iperboliche anziché curare il personaggio e capitalizzare i risultati come hanno saputo fare altri….
Nella vita reale Topor (1938-1997), figlio di
un quotato scultore ebreo-polacco, dopo
la fuga in Savoia per sfuggire ai rastrellamenti, frequenta a Parigi l’École des BeauxArts e collabora da un lato al mensile Hara
Kiri, rivista di culto dell’umorismo nero, dall’altro, e in netto contrasto, al magazine
femminile Elle. Con la sua esuberante immaginazione mette nel mirino le contraddizioni della natura umana e crea un universo anticonvenzionale la cui traduzione
espressiva passa attraverso la penna, l’inchiostro, la litografia, l’incisione su linoleum, la fotografia, la cartellonistica, la composizione di testi musicali, la scrittura di
racconti e romanzi, ma anche la scenografia, la regia, la recitazione: per Fellini ha magistralmente disegnato le proiezioni oniriche della lanterna magica nel film Casanova, per Pressburger ha ideato i costumi
dell’opera lirica Le Grand Macabre. In Italia, dove ha fondato con Jodorosky, il santone-clown e Arrabal, poeta visionario, quell’ultima assurda avanguardia che fu il Movimento Panico (“un Surrealismo, ma senza Breton a controllarci”), Topor ha anche
partecipato all’esperienza del giornale satirico Il male. Le mille sfaccettature del suo
insopprimibile spirito creativo hanno nuociuto alla conoscenza approfondita della
sua opera che, sotto la coloritura grottesca
o irridente, mostra in controluce le qualità più che di un artista cinico e beffardo,
di un riflessivo umanista affetto da inguaribile pessimismo.
Roland Topor, Memorie di un vecchio
cialtrone, a cura di C. Mazza Galanti, Voland, Roma, pp.155, € 14,00.
LE LUNGHE ORE DI COLETTE,
REPORTER
Giuliana Rovetta
Poteva diventare un’icona di qualsiasi
cosa: del femminismo e dell’antifemminismo, del conformismo e dell’anticon-
formismo, dell’amore libero e della soggezione a uomini poco affidabili, dell’indipendenza conquistata a caro prezzo e
dell’amore davvero indissolubile, quello materno. Invece Sidonie Gabrielle Colette, con quel cognome che sembrava inventato (ma era quello di suo padre Jules-Joseph, ufficiale di carriera), pseudonimo congeniale a una scrittura femminile agile e penetrante come uno scandaglio, è rimasta quella che era: una figlia (Sido, il suo libro più bello, è l’evocazione dell’intenso rapporto con la
madre) debitrice verso il padre di un ricordo in cui s’intrecciano una guerra ormai passata, ovvero la Campagne d’Italie del 1859 in cui il capitano di fanteria
Colette, ferito, restò privo di una gamba, e quella vissuta al fronte nel 1914
come inviata del quotidiano Le Matin al
seguito del marito, lo scapestrato barone Henry de Jouvenel.
Da Saint–Malo a Lugano, da Parigi all’Argonne e anche lungo la penisola da
Roma a Venezia, Colette porta sugli
eventi bellici (ma “le donne non devono
parlare della guerra”) il suo sguardo
obliquo e indagatore che fa tesoro dei dettagli, registra le incongruenze, scova la
voglia di normalità nella tragedia. I quotidiani nazionali di tutta Europa diffondono inevitabili cronache su combattimenti, assalti e ritirate, bilancio delle perdite, mentre la scrittrice più originale di
Francia, per immediatezza e autenticità
di percezione, scrive i suoi articoli (che
verranno pubblicati via via in un’apposita rubrica intitolata Propos d’une Parisienne) concentrandosi sulle retrovie, dove la
vita trascorre lenta in una terribile quotidianità, scruta col suo occhio vagamente ironico i colori nero e blu della notte,
le fantasie vivaci degli abiti dei bambini,
la trasparenza dell’acqua, le ombre dei
giardini e capta, col suo orecchio sensibile alle disarmonie, rintocchi di campane, sussulti, grida, richiami, pianti. Molte figure di donne, originali, emancipate,
svagate o eroiche serviranno a costruire
nei suoi futuri romanzi immagini femminili lontane dagli stereotipi dell’epoca.
In queste “ore lunghe”, fatte di attese interminabili, ma anche di ricorso alla fan-
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PROSPEZIONI
Colette, Le ore lunghe, traduzione di Angelo Molica Franco, Del Vecchio, Roma,
2013, pp.226, € 14,00.
ERIK FERRARI ORTELLI:
L’ARTE DELLA TRASPARENZA
E DELLA LUCE
Milena Buzzoni
In questa piazzetta soleggiata della vecchia Sturla, in fondo a via dell’Ombra, il
mare è nell’aria con i suoi odori e le sue
suggestioni. È inseguendo queste che si
entra all’interno del Borgo Club, più simile a una conchiglia che al tempio del jazz
genovese, e non si resta delusi. In questa
mostra retrospettiva di Erik Ferrari Ortelli, artista genovese di origine svizzera, prematuramente scomparso sul finire del
2011, infatti, si ritrovano gli elementi di
una natura perfettamente consona al
contesto : onde, pesci, foglie, rami, fiori,
alghe armonizzati in un gusto tattile
per la materia che coinvolge anche i papier maché usati come passe-partout e
cornice insieme che forniscono uno spessore naturale agli acquarelli e agli acrilici. Queste tecniche, così soft e poco invasive, sono l’approccio più discreto a un
mondo, quello della natura, che, nell’esperienza di Ortelli, chiede soltanto rispetto. E a questo mondo l’artista si avvicina con lievi, sommesse incursioni,
usando spatola e pennello che si alternano a creare impasti ora corposi ora rarefatti ma sempre garantiti dalla luce e dalla trasparenza come per sottrarli alla contingenza e affidarli a un’eternità trascendente e più vera. Ecco spiegata la leggerezza dei suoi pesci, il chiarore delle sue
marine, la delicatezza dei più svariati materiali raccolti un po’ ovunque e utilizzati sulla tela come pennellate di colore-forma. C’è uno scambio osmotico tra le sue
opere e la sua vita quotidiana influenzata dalla ricerca continua di elementi materici da utilizzare sulla tela, da rielaborare per creare nuovi messaggi artistici.
Il suo lavoro presso lo studio di architettura di Emilio Morasso come responsabile amministrativo e curatore della presentazione grafica e fotografica dei progetti, non gli impedisce di dedicare costan-
Milena Buzzoni Erik Ferrari Otelli: l’arte della trasparenza e della luce
tasia, per chi malgrado tutto è in grado
di esercitarla, trascorre il boato della
guerra, il sospiro dei feriti, il sussurro di
chi spera. Non si spegne mai l’aspirazione testarda e innocente a vedere la bellezza là dove si nasconde, filtrata dal coraggio di vivere, perché “la gioia è dappertutto, inevitabile” e in tempi così bui
riuscire ad apprezzarla è un atto rivoluzionario.
L’anima giornalistica di questa particolare testimone, che non esprime mai alcuna valutazione morale sulla guerra, si
manifesta in una significativa carrellata
dedicata alle città d’Italia: molte pagine
del 1915 sono destinate a Roma, altre offrono un suggestivo quadro di Venezia
e del lago di Como, altre ancora si riferiscono a Genova: “… gialla su un cielo
umido di temporali, trabocca di giovani
uomini, operai mercanti in abiti civili.
L’aria è sazia di un pregnante odore di
carbone, di catrame, di mare. Per raggiungere il golfo, il treno attraversa dei giardini negletti, dei roseti, e getta i suoi bruscolini roventi su degli allori. Il mare, che
riusciamo a bordare soltanto alla fine,
non reca alcuna traccia dei crudeli conflitti del momento e bagna alcuni villaggi color ocra – quasi sbocciati con tutte
le porte aperte…”. Non tutti i passaggi
di questa raccolta sono così idilliaci, a volte lasciano trapelare incredulità e sbigottimento (“…quel razzo festante che
squarcia il crepuscolo è una partenza di
truppe italiane. Sì, il popolo dei mandolini va in guerra!”), altre volte si rivelano pietosamente riflessivi: “Sono le tre
di notte…La magnifica luna ghiacciata ha
abbandonato il cielo, e ci vogliono ancora due ora perché le finestre si screzino
del blu del mattino. È il momento più
oscuro e il più calmo nel dormitorio universitario. Sotto la guardia di una lampadina accesa gli otto feriti stanno dormendo. Addormentati sì, ma non silenziosi. Il sonno svela quel lamento che durante il giorno l’orgoglio trattiene….”. E
da Verdun: “…un’insolita grandine comincia a crivellare il canale sotto i nostri
piedi, una singolare graniglia calda che
fa cantare l’acqua….Chi ci sta gettando
queste schegge di ferro rovente?”.
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Milena Buzzoni Erik Ferrari Otelli: l’arte della trasparenza e della luce
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PROSPEZIONI
ti energie all’arte: così dipinge di notte, nei
ritagli di tempo, negli intervalli di lavoro
con l’impellenza creativa di un’indole raffinata e istintiva che lo porta a produrre
in pochi anni migliaia di opere. Si percepisce, nelle sue tele, l’eco di un’Africa lontana ma sperimentata e nostalgica, l’Africa orientale dove risiede tra gli anni settanta e ottanta e che resta riconoscibile
nelle sfumature dei gialli, in un certo maturo arancione che evoca sole e calore, nella geometria di rami e foglie combinati a
creare suggestioni di savana.
Ma l’abilità di Ortelli non si esaurisce nell’esperienza pittorica: sette anni trascorsi negli Emirati lo orientano verso l’illuminotecnica: come impegno pubblico
crea le installazioni luminose per la
Municipalità di Dubai tra il 1995 e il 1999
e per il Al Bustan Palace Hotel di Muskat
”; tra il 2000 e il 2006 allestisce a Genova arredi di lightdesign per il Teatro Carlo Felice, il Teatro della Gioventù, il Palasport della Fiumara, l’Università,
L’Ospedale di San Martino, il Teatro Alfieri di Torino. Come esperienza privata progetta le cosiddette lampade da
compagnia presentate sulla rivista “Abitare”, alcune delle quali concludono il
percorso della mostra al Borgo Club tra-
sferendo il visitatore in un’atmosfera di
alta suggestione: la sala al buio evidenzia queste creazioni in plexiglas che vanno dalle lastre nelle quali, come in un acquario, fluttuano alghe e pesci, ai fasci
di luci multicolori che mutano lentamente tonalità in un intreccio arboreo, ad arcobaleni defunzionalizzati da un nodo
che con le loro variazioni cromatiche trascinano in un misterioso mondo di chiaroscuri evocativo di incontri, contaminazioni e mutazioni dell’essere e del sentire. Ma l’aspirazione all’autenticità della natura e ai suoi materiali non è tradita neppure dalla tecnologia di questi elementi: ogni installazione poggia su una
sezione di bambù dipinto di nero che
riafferma l’antica passione! Sintetico e naturale si fondono in questi fuochi accesi nel buio, in questi giochi di led che davvero riescono “a fare compagnia” come
dovrebbe avvenire per tutta l’arte: una
fonte permanente di godimento che illumini la sensibilità di ciascuno e qualche volta ne risolva la solitudine.
Erik Ferrari Ortelli “I colori dell’acqua e del
vento - Quadri e sculture luminose -” 3
aprile - 17 maggio 2014 Borgo Club – Via
Vernazza 7-9 R – Genova.
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CRITICA
di Giorgio Getto Viarengo
Ricordo con grande precisione la prima volta che ho potuto visionare un’opera di Luigi Grande: era il 1974, a casa di un amico che aveva appena acquistato un suo quadro. Ai miei occhi non era un lavoro qualsiasi, ma un soggetto capace di colpire la fantasia, fu immediatamente suggestione, quel tratto illustrava un indiano, la sua rappresentazione mi portava ad indagare la profondità di quella scelta: un
artista capace di rappresentare una condizione lontana, ponendo al
centro della riflessione il mondo degli ultimi. Queste particolarità portarono il lavoro di Grande alla mia attenzione intellettuale, per cercare costantemente il risultato del suo dialogo, del suo contributo per
attraversare l’infinito mondo del dibattito tra arte e società. Da quella prima emozione sono passati molti anni e non ho mai cessato la mia
riflessione per seguire il suo complesso cammino. Mi sono sempre chiesto dove l’autore trovasse la condizione espressiva e quale fosse il suo
metodo di ricerca, come Grande componesse il soggetto, il tratto, l’inquadratura del linguaggio espressivo, il tutto nella condizione essenziale dei colori che utilizzava. Il paesaggio di quest’artista non è riassumibile nella regolare lettura di come questo si sia creato ed evoluto, la composizione prende un’altra strada, non cerca i segni della pre-
Sotto il vulcano a Tenerife, 1998, olio su tela, 70x100
Luigi Grande
I COLORI CHE SERVONO
LUIGI GRANDE
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CRITICA
Luigi Grande
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Vecchio capo, 2001, olio su tela, 100x70
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CRITICA
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Luigi Grande
Persone, persone, nessuno, 2003, olio su tela, 60x80
senza antropica, ma indaga la condizione umana più nella sua interiorità che
nelle cose che la circondano. Un corpo
di donna sulla spiaggia, nella solarità di
un giorno d’estate, tra gli spigolosi scogli di Liguria è estrapolato, posto in primo piano. Questa immagine viene filtrata dalla visione essenziale di Grande e si
prosciuga di tutti i dettagli di maniera,
i colori diventano “quelli che servono”,
il paesaggio circostante ritrova la sua natura delle origini, poche cose, ma infinitamente dilatate. Lo scoglio diventa un
luogo caratterizzante, il mare un forte e
robusto colpo di colore: ecco la non canonicità, qui è la presa di coscienza contro ogni maniera. Il mare di Grande è riconoscibile nel grande specchio che si
raccoglie nella sua terra del Tigullio, ma
si scompone, trova una nuova dimensione e inaspettati colori. Non è un effetto
speciale, ma “il colore che serve”, quel-
la necessità che l’artista ricerca nelle sue
emozioni, ricava dalla straordinaria forza dell’immaginazione, come un potente motore della creatività che accelera al
massimo e restituisce un blu, un azzurro, un nero probabilissimo. In queste scelte espressive si ritrova uno dei più forti schemi costruttivi dell’opera di Grande: il rapporto con la sua terra. L’oasi dell’artista è rinchiusa nelle sue passioni
ideali, negli sterminati inverni, nelle
buie notti, nel caldo assordante del cicaleggio assolato d’estate, nel silenzio dei
portici e nei tetti dei nostri centri storici. Qui sono i “colori che servono”, in questo cosmo di persone, case, volti, situazioni segnate da pietre consumate dal
tempo: qui vive il tratto di Luigi Grande.
La sua artigianalità si ritrova nei gesti di
chi vive in questa terra, nella Liguria realizzata dalla fatica atavica di uomini che
hanno costruito spostando pietre, ta-
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Luigi Grande
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CRITICA
gliando ardesie, vivendo nei colori dei cieli e dei mari del Tigullio: sono qui “i colori che servono”! Ho provato a scomporre alcune opere di Grande, a verificare se
esistesse un percorso prevedibile, ma il
filo della ricerca si perde nei complessi
meandri delle dimensioni, degli spazi, dei
luoghi delle emozioni: queste sono le materie prime di Grande. Allora si compren-
Bagnante e cielo giallo, 2011, olio su tela, 90x80
de quali possano essere i “colori che servono”, la tavolozza dove il tubo plastico si riversa acquista la potenza della fornace, dove il fuoco-passione fonde i metalli-colori, dove il crogiuolo-pennello plasma il liquido incandescente della prossima creazione. Lo spazio del creare e del
lavoro attivo dell’artista non si esprime
solo sulla dimensione della più classica
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CRITICA
Luigi Grande
Natura, 2011, olio su tavola, 166x86
tavola o tela, Grande ha saputo ricercare anche la forma più complessa della ricerca scultorea, della fusione del bronzo nella magica
conchiglia capace di restituire l’oggetto essenziale
della sua immaginazione.
Qui desidero soffermarmi
sul complesso della plasticità offerta dal monumento alla Resistenza in Lavagna. La scelta di realizzare
un’opera pubblica, quell’estremo lavoro di ricerca
che chiamiamo monumento, è senza dubbio una delle prove più difficili per un
artista, spesso è capace di
diventare l’esame estremo.
Quella di Lavagna è una
composizione essenziale,
dove il soggetto si esprime
in un paesaggio che non è
limitato al paraggio circostante, ma si muove e vola
in un ambito vastissimo,
quella composizione non
occupa l’immediato, si avvolge alle mulattiere, attraversa i boschi, entra nelle
ferite del combattente, segna il sangue dei caduti, riprende il cammino degli
ideali espressi da quelle
colombe che iniziano il
volo: ecco l’opera di Grande. Le colombe che prendono il volo sono il fuoco del
monumento, una fiamma
che destina l’opera all’eternità di quel valore. Il volo
delle colombe inizia dalle
mani tese del “soldato della libertà”, uno solo per raccontare il destino di chi
scelse il cammino rappresentato da Grande: sono
queste le scarpe rotte e
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CRITICA
Luigi Grande
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Bagnante, 2012, olio su tela, 70x60
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CRITICA
pur bisogna andar. Quando si usa il termine monumento si scomoda una parola difficile, un termine che non finisce con
la collocazione dell’opera, ma in quell’istante prende via un infinito cammino
nel tempo e nello spazio: questo è il vero
significato del monumento. Il tempo infinito non è una sfida difficile per uomini come Grande, il suo metronomo segna
tempi diversi, i lenti palpiti della fine delle burrasche che diventano tempeste di
colori, i timori del vulcano, i passi di Mimì
a Ustica, un cane che racconta la sua vicinanza all’uomo anche nella cecità,
l’ultimo paesaggio che si sviluppa nel caleidoscopio di uno specchio retrovisore
di un’auto. Luigi Grande viaggia e ritorna sempre al suo balcone, l’amata fine-
Luigi Grande
Scogli, 2012, olio su tela, 80x60
stra davanti al mare, da qui si parte ogni
volta, qui si ritorna dopo ogni sfibrante
viaggio. Quel balcone è un punto d’osservazione, qui è custodita la stella polare,
la bussola per orientare la prossima ricerca, dove si attrezzano le idee, dove si
custodiscono i “colori che servono”. Mi
piace pensare a Luigi Grande con le braccia posate sul davanzale, di quel balcone davanti al mare, qui il cammino del
suo lavoro semina i tanti motivi del prossimo viaggio, è una vera stazione, dove
tiene nascosti i suoi compagni d’esplorazione, ci sono sempre tutti e non
manca quell’infinito che permette di
trovare il prossimo tratto. II balcone davanti al mare è forse l’ultima dimora dei
pensieri, ma come dimenticare, il terrazzo sui tetti nel cuore del centro storico,
le ombre forti, le tramontane, gli odori,
le disciplinate armonie di quei portoni,
dei portici uguali e scanditi dalla geometria storica della vecchia città. Quasi un
paradosso? Il balcone davanti al mare e
il terrazzo sui tetti? No! Grande guarda
con occhi senza età e tempo, il suo spazio non si divide in luoghi così dissimili, trova nuova forza, soggetti e pensieri per viaggiare, contemplazioni che
portano al suo pentagramma cromatico,
dove dormono i “colori che servono” e
si risvegliano con infinita forza e compongono il nuovo lavoro. Quanti sono i
passi di cui è capace, dove sono le nuove coordinate per arrivare al prossimo
tratto, sono comprese in quella miriade
di sentimenti che si traducono nei due
luoghi del lavoro di Grande: il paesaggio
e la figura. Non riesco a contare quante
volte ho cercato di razionalizzare cosa
sia un paesaggio, di ricercare linee descrittive per delineare dove sia contenuto questo luogo, quale sia il rapporto tra
natura incontaminata e natura dilatata
dall’uomo che vive nel paesaggio. Mi chiedo se per avere un paesaggio sia in assoluto necessario avere un rapporto tra
natura e uomo, se basti la prima, se l’uomo sia il vero protagonista di questo spa-
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Luigi Grande
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CRITICA
zio che ci permette di vivere.
Forse è proprio questa la dimensione da ricercare: lo spazio per vivere e interpretare la
propria vita, ma questa è la
cultura! Allora mi pare di
raggiungere un punto d’osservazione: il paesaggio di Grande è un luogo del suo vissuto, perciò contenuto nell’arte
d’interpretare la vita, la cultura. Grande accende una luce
forte sul paesaggio, una determinatezza che diventa offerta di un orizzonte compiuto
e comprensibile, il luogo dell’essere di questo artista è il
paesaggio, dove i lati della tela
raccolgono una geometria
profonda, capace d’offrire diversi punti d’osservazione,
tutti riconducibili al punto focale: quello del viaggio. L’arte della figura è l’altro segno
del suo confronto col mondo,
la figura di Grande si compone nel preciso momento che
il pensiero incontra la tavola
del quadro. Il primo colpo di
pennello è già determinato nel
qualificare l’umore di quel
personaggio, che si trasforma
in figura capace di portarti
nella natura, nelle confidenze, Erica, 2012, olio su tela, 80x60
sotto la luna, in una festa, nel
tentativo di volare. Qui le virgole non bastano per determinare i tanti sogni che diventano figure, la continua
ricerca è tale da diventare solitudine, angoscia, timore in un mondo di grandissima umanità. Un tratto singolare nelle figure di Grande è lo sfocamento nel movimento, quasi una fretta del passare nel fotogramma del quadro, una potenza che
appare capace di muovere l’intera opera. La sfocatura è delimitata intorno alla figura e compromette il paesaggio circostante, quasi un segno futurista, un tratto
della voglia di fuggire, di scappare da quel centro che ferma il soggetto, lo blocca,
lo costringe; ma il pennello di Grande libera quel senso d’impossibile fissità: la velocità diventa libertà del movimento nello spazio del quadro. Dovessi trovare una
chiave di lettura nell’opera di Luigi Grande, mi soffermerei a un diapason che più
volte ho cercato in questa illustrazione, si tratta dell’inciso “dei colori che servono”, di quella tavolozza capace di creare il mondo infinito dei suoi lavori, dove l’arte delle figure e il paesaggio vivono l’eternità “dei colori che servono”.
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CRITICA
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Luigi Grande
Metamorfosi, 2013, olio su tela, cm 120x80
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Luigi Grande
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BIOGRAFIA
BIOGRAFIA
Luigi Grande è pittore, scultore, grafico.
La sua prima personale risale al 1960,
alla galleria il Portico di Santa Margherita Ligure; seguono poi le gallerie milanesi de “Il Giorno” nel 1964 e dell’
“Agrifoglio” nel 1970 con testo critico
di Mario De Micheli.
Si aggiunge negli anni alle numerose
personali la partecipazione a rassegne
d’arte nazionali e internazionali (Francia, Germania, Grecia, U.S.A., Finlandia).
Sulla sua attività artistica figurano numerose pubblicazioni, fra cui: “Pittura
tra storia ed evento” di G. Beringheli nel
1985 - “Quest’arte” libri 1987, ed. Riccitelli e “Sui ritratti di Luigi Grande” 1992
di Vico Faggi a cui seguono: “L’arte del
paesaggio” e “L’arte della figura” sempre
di Vico Faggi - “Moralità dell’immagine”
di Giorgio Seveso, al XXIII premio Vasto
di Arte e critica d’Arte 1989-1990 e
“Arte italiana contemporanea” ed. “Fenica 2000”, 1994 e più recentemente
“Luigi Grande” di G. F. Bruno ed. Erga
1996 - “Repertorio degli incisori italiani”
ed. Faenza 1997 - “Arte contemporanea
italiana, 1946-1997” ed. De Agostini
1997-1998-1999 - “Luigi Grande” di G.
Seveso, Quaderni artistici Galleria Armanti, Varese 1999 - “Autoritratto d’artista” Gall. Ciovasso (Milano). Sua è la
copertina di “Le parole cadute”, poesie
inedite di F. Mazzi (Bastogi editore) e di
“Resine”, Quaderni liguri di cultura n. 85
Sabatelli Editore.
Ha eseguito varie opere pubbliche fra cui:
La scultura del partigiano in Piazza Innocenzo IV, Lavagna (1975), i
Cippi a Cavi di Lavagna (1988), il monumento all’emigrante a Favale
di Malvaro (1989), il busto di G. Casini al parco Villa Rocca di Chiavari
(1996), pittura murale a Casoli - Atri (1997). Sue opere figurano alla
Galleria Civica di Arte Moderna di Gallarate, al Museo Pinacoteca di
Vado Ligure, alla Collezione Grafica Comune di Bagnocavallo (Ra), al
Castello di S. Pietro in Cerro (Museum in motion).
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BIOGRAFIA
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Luigi Grande
Sull’opera di Luigi Grande hanno scritto: E. Alfieri, G. Arato, F. Ballero, E. Balossi, G. Beringheli, L. Bianciardi, M. Bocci, C. Boldi, G. Bruno, M.
Campomenosi, P. Cavallo, G. Chioma-Sgorbini, V. Conti, M. Cristaldi, M.
De Micheli, M. Deutone, V. Faggi, D. Ferin, G. Ferrera, C. Ghiglione, L.
Grande, P. Guella, N. Krings, G. Latina, F. Lecca, T. Marcheselli, F. Mazzi, G.
Metz, M. Milani, G. Mondello, F. Musso, N. Mura, A. Natali, A. Nobile, M. T.
Orengo, S. Paglieri, D. Pasquali, F. Passoni, L. Perissinotti, F. Ragazzi, S. Ricaldone, S. Riolfo Marengo, F. Sgorbi, G. Scorza, P. Serbandini, G. Seveso,
F. Sirianni, S. Solimano, R. Tomasina, D. Villani, M. Vescovo, R. Vitone.
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Ugo Carmeni
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VETRINA
UGO CARMENI
AL DI LÀ DELL'IMMAGINE
di Andrea Rossetti
Anziché restituzione oggettiva di un universo concreto, e altrettanto
oggettivo, l'immagine fotografica secondo Ugo Carmeni è un campo
d'azione incerto e solo parzialmente prevedibile, limbo tra coscienza
e incoscienza, tra la realtà per come la vediamo e il suo prestabilito
disgregarsi su un piano bidimensionale. Poco interessato a tratteggiare una linea univoca o diretta tra soggetto e resa fotografica, Carmeni è portato piuttosto ad allentare la comune tensione soggetto-trama formale, a ritoccare l'immagine dall'interno, a lavorare col suo potenziale espressivo sino a mutuarne l'oggettività in una pura percezione meta-fotografica, basata su intercessioni emotive e sugli effetti della nostra conoscenza individuale della realtà. Per inciso, va chiarito che già in tempi non sospetti (precedenti quindi al progetto Percettive) tale approccio intuitivo/meta-fotografico è stato parte fondamentale in una produzione visiva abituata a premeditare per sé sviluppi sensorio-soggettivi, così come evidenziano le alterazioni fotografiche da schermo televisivo della serie Colorbox, datata 2004-2005.
Nulla ha l'obbligo di assomigliare a sé stesso, niente di quanto fissato dall'obbiettivo manifesta la minima volontà di risultare troppo stabilito: Venezia ha perso lo smalto della dinamica città turistica, Carmeni l'ha resa una laconica e riflessiva partizione cielo-mare-terra, a
sua volta scomponibile nella triplicità basilare dei colori primari rosso-verde-blu (Venice RGB). Città, habitat reale per una composizione
Perceptions #2, 2014, fotografia - stampa fine art su alluminio, cm 70x110
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VETRINA
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Ugo Carmeni
Perceptions #1, 2014, fotografia - stampa fine art su alluminio, cm 95x145
Venice RGB, 2013, fotografia - stampa lambda su alluminio, cm 80x140
tecnico-sentimentale in cui la fedeltà al
soggetto è solo un concetto parziale divenuto oggetto di calcolata contraffazione, di una manipolazione identitaria
che è pari alla descrizione del tramonto osservato dall'incostante trasparenza
di un finestrino segnato dallo sporco e
da resti di applicazioni adesive. Oppure
a quella del vaporetto deserto che filtra
tra l'evanescenza materica di una paratia in vetro, con un taglio prospettico volto a scarnificare delicatamente la contorta visione spaziale immortalata nel '60
da Berengo Gardin (Venice waterscapes).
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Drina A12
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VETRINA
DRINA A12
DUE PERCORSI
PER LA VIA DELL’ARTE
di Marco Piva
Il percorso, la storia artistica di Grazia Buongiorno, in arte Drina A12,
sembra la narrazione di una storia meravigliosa, magica, al confine fra
la realtà e il mondo della fantasia. Eppure tutta la vicenda corrisponde a realtà.
Humans Some, 2014, caffè e carta fatta a mano, cm 100x100
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VETRINA
Drina A12
“C’era una volta…” una cartiera del Seicento, dove una ragazza dalle forti pulsioni artistiche ritrova nello stenditoio (il
luogo dove si mettevano ad asciugare i
fogli prodotti nella fabbrica) delle vecchie
giacenze. Mirabilia. Ecco il tesoro della
favola. A questo punto, la ragazza protagonista di questa favola moderna decide di usare per i suoi lavori, le sue sperimentazioni, questo tesoro che il destino consegnò nelle sue mani. Nasce dunque il progetto “Drina A12”.
Drina è un fiume della penisola balcanica che attraversa sinuoso la Bosnia Erzegovina e la Serbia marcandone la divisione o, a voler vedere la cosa da un’altra
prospettiva, ne unisce in maniera indissolubile i confini.
Il nome d’arte scelto da Grazia, sta a indicare la volontà di seguire un percorso,
così come la A12, l’autostrada che collega Genova a Roma, la città dove, secondo
il vecchio adagio, “portano tutte le strade”.
C’è un che di ineluttabile in questo percorso, l’idea che tutto porti a un luogo finale, una destinazione che, per quanto riguarda Drina A12, corrisponde alla gioia negli
occhi di chi osserva i suoi lavori.
Le immagini, i volti ricreati tramite il dominio di mezzetinte vanno a fondersi con
i numeri e con le lettere e il contrasto tra
testo e immagine, così come quello tra
il marrone intenso e il beige leggero, vanno a comporre l’opera vera e propria, in
un trionfo di caratteri dominanti fra loro
opposti, suggerendo allo spettatore
l’idea che, alla fine, sia il contrasto stesso il fattore che genera un’armonia visiva di una potenza assoluta.
Durante il percorso realizzativo, la fotografia, l’immagine di partenza scelta da
Drina viene smembrata e ricostruita da
zero. I tratti dei volti scelti vengono azzerati dall’occhio che osserva la materia
e, successivamente, ricostruiti dall’occhio
interiore dell’artista che li riformula seguendo la propria ispirazione.
Drina vive la propria esperienza artistica come una sorta di sfida contro se’ stes-
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Shark, 2014, tecnica mista, cm 100x100
Driniano Allen, 2014, tecnica mista, cm 40x40
sa, con la voglia di apprendere fino in
fondo la conoscenza del proprio sistema
realizzativo, ripartendo da zero dopo
aver concluso la produzione di un’opera. Nei suoi lavori è riscontrabile la ferma volontà di far progredire il proprio
percorso artistico verso una definizione
ben precisa, che sia in grado di trasmettere all’osservatore sensazioni forti,
contrastanti, ma che smuovano qualcosa nel profondo dell’animo di colui che
ricambia gli sguardi dei volti ipnotici di
Drina A12.
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Emanuela Pasolini
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VETRINA
EMANUELA PASOLINI
LA MISURA DELL’INFINITO
di Flavia Motolese
Caleidoscopie cromatiche simili a mandala di puro colore, le opere frattali di Emanuela Pasolini si schiudono nello spazio. Sono l’evoluzione artistica di ciò che potremmo definire più lontano possibile dal concetto di creatività e arte: una funzione matematica. La geometria frattale è stata introdotta dal matematico Mandelbrot per studiare tutte
quelle forme naturali a cui non si possono applicare gli assiomi della geometria euclidea, perché molto più complesse e frastagliate. Que-
Luna, 2012, elaborazione digitale - stampa a pigmenti in digitale su carta matt, cm 40x40
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VETRINA
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Emanuela Pasolini
Marte rosso, 2012, elaborazione digitale - stampa
a pigmenti in digitale su carta matt, cm 90x70
Antropomorfo, 2012, elaborazione digitale - stampa
a pigmenti in digitale su carta matt, cm 40x40
sti oggetti, definiti frattali, possono essere costruiti seguendo precise regole di
tipo matematico, dai grafici dei risultati di tali calcoli nascono le immagini frattali. La peculiarità dei frattali è di essere dotati di autosimilarità: ogni loro parte è simile al tutto a qualsiasi scala li si
ingrandisca. Sono come una cellula iniziale, una frazione del Tutto e il Tutto
stesso, inteso come unità che genera ogni
cosa, possono essere, quindi, considerati la “misura dell’infinito”.
Prendendo avvio da queste teorie e dalla numerologia che applica nel suo lavoro nel campo della moda, creando fantasie per un prestigioso setificio, l’artista ha decodificato delle formule in
grado di tradurre la realtà in figurazioni dall’impaginazione simmetrica, caratterizzate dalla ricorrenza di linee curve
spezzate e dal ritmo circolare.
Gli elementi oggettivi della natura, abbandonata la loro forma riconoscibile, assumono un nuovo aspetto imprevedibile a
priori anche dall’artista stessa, ridu-
cendosi ad una spazialità bidimensionale dove tutto è giocato dal contrappunto di nero e bianco, colore e silhouette.
Successivamente, Pasolini interviene
cromaticamente sulle strutture complesse ottenute: il suo uso sapiente del
colore non teme l’utilizzo di tinte vivaci, fluo o, viceversa, della loro totale assenza. Nella sua produzione è risolta, in
una soluzione di continuità, il “dibattito” forma-colore, poiché la materia figurativa è spazializzata dalla fluida dinamicità delle policromie o monocromie.
Quest’arte simile ad un microscopio/telescopio svela la struttura base infinitesimamente piccola che costituisce le
fondamenta di ogni cosa. Una sorta di
universo parallelo o di galassia sconosciuta, in cui tutto ha un aspetto diverso e
misterioso. Ne scaturiscono opere dallo
straordinario fascino ipnotico in cui si
raffigurano sagome di vago aspetto antropomorfo o astrale, in grado di evocare un senso d’infinito e di sacralità della vita.
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Gisella Penna
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VETRINA
GISELLA PENNA
UN VIAGGIO
di Flavia Motolese
Le opere di Gisella Penna ricordano le tappe di un viaggio, artistico ed
esistenziale. Hanno i colori brillanti della vegetazione e quelli caldi della terra. Tele destrutturate in cui confluiscono elementi propri della pittura, del collage e della fiber art. Le stoffe ritagliate e poi cucite insieme
diventano la base su cui l’artista interviene pittoricamente e vengono scelte e utilizzate sia come puri elementi coloristici, sia come segni grafici.
L’apparente spontaneità della composizione finale, dettata dalla forte carica espressiva delle sue opere, cela in realtà una genesi meditata in cui
nessun elemento è casuale, ma frutto di attente scelte. Nell’opera finita, ogni dettaglio si fonde perfettamente nell’insieme annullando la distinzione tra le diverse fasi di assemblaggio ed elaborazione. L’artista è
uscita dalla rigidità del quadro, scegliendo di muoversi più liberamente su un supporto duttile, agevole e maneggevole, che si presta ad un intervento gestuale spontaneo e più diretto. Un’idea di nomadismo contemporaneo, culturale più che spaziale, che rispecchia l’esigenza sem-
A sea dance, 2012, tela destrutturata, cm 112x133
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VETRINA
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Gisella Penna
La casa dei limoni, 2012, tela destrutturata, cm 108x156
pre più attuale di libero movimento e accessibilità. È il viaggio, infatti, la sua primaria fonte di ispirazione, inteso come
esperienza di vita, in grado di arricchire,
di nutrire la mente. La produzione artistica di Gisella Penna, simile ad un carnet de
voyage, prende forza da una grande passione per l’arte, quasi un’urgenza quotidiana di dare forma alla propria creatività. Sensibile e acuta osservatrice, ha fatto dell’espressione artistica un mezzo di
comunicazione con gli altri e una vera e
propria filosofia di vita. Nelle sue opere trovano espressione raffinati estetismi, argute sintesi grafiche ed espressività primitive, tribali. La sua solida cultura figurativa e grafica dimostra una particolare attenzione ai linguaggi e alla commistione
dei generi, in un continuo interscambio tra
arte e vissuto.
Les routes berbères, 2013, tela destrutturata,
cm 200x150
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Mattia Scappini
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VETRINA
MATTIA SCAPPINI
SOSPESI INCANTI
di Flavia Motolese
Nonostante la giovane età, le opere di Mattia Scappini evocano un’atmosfera di solenne austerità di derivazione morandiana. La sua recente produzione è costituita da dittici di grandi dimensioni, in cui solidi parallelepipedi emergono dal vuoto, come presenze evocative, o galleggiano
simili ad isole in uno spazio indefinito. Invertendo le due tele, la composizione iniziale lascia il posto ad una nuova immagine, creando un particolare gioco speculare: il corpo centrale che fungeva da fulcro si apre
AABB, 2013, olio su tela, 125x185
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VETRINA
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Mattia Scappini
2HDPE, 2011, olio su tela, 92x250
generando una profondità di campo inaspettata, una prospettiva più complessa
e articolata. Lo spettatore ha come l’impressione di trovarsi all’interno di un labirinto: le distanze si allungano e gli scenari mutano all’improvviso. Luoghi illusori in cui l’artista evita di imporre convenzioni allo sguardo limitando la raffigurazione ad una lettura univoca.
La figurazione essenziale e il tonalismo,
giocato sul contrasto bianco e nero e le sfumature del grigio, legano la riconoscibilità di forme primarie elementari con un senso imprecisato di sospensione temporale. Le forme architettoniche modulari che
si delineano in questi spazi immobili
soffusi da vago chiarore, ispirano una poetica del silenzio.
L’artista si dedica ad una pittura che infonde un’idea di purezza, filtrando in modo
personale la lezione dei grandi maestri del-
l’arte italiana, dal Rinascimento alla Metafisica. Tutto il lavoro è incentrato sullo studio dei volumi e sulla resa delle trasparenze, di luci e ombre, che riescono a bilanciare perfettamente il rigore delle forme e
un profondo lirismo. La potenza di queste
visioni è la loro forza evocatrice, il loro stare a metà tra una raffigurazione oggettiva
e un’apparizione, un’inesplicabile affinità
con luoghi quotidiani e al tempo stesso
estranei e stranianti, tracce riemerse di presenze ormai scomparse o presenza misteriosa ed impenetrabile. Paesaggi interiori
ed interiorizzati che scarnificano il superfluo per penetrare il cuore sostanziale delle cose. Scappini non mostra indugi nel dedicarsi ad una pittura che è mezzo e fine
di se stessa, atto meditativo e controllato
gesto espressivo, in grado di dialogare con
la realtà restituendone la malinconia, ma
privandola di ogni prosaicità.
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Satura International Contest
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S AT U R A I N T E R N AT I O N A L C O N T E S T
SATURA INTERNATIONAL CONTEST
1ST CONTEMPORARY ART CONTEST
a cura di Mario Napoli
Inaugurazione sabato 3 maggio 2014
ore 17:00 - Palazzo Stella
160 ARTISTI IN MOSTRA
aperta fino al 14 maggio 2014
dal martedì al sabato ore 15:30 – 19:00
Genova, SATURA art gallery
Posizione aperta oltreconfine per il SATURA International Contest, nuovo concorso pensato dalla galleria di Palazzo Stella per tastare con mano
nuovi linguaggi visivi, pittorici e fotografici. Concentrati sulla produzione contemporanea, ma con uno sguardo intenzionato a non fare anacronistiche divisioni tra Italia e resto del mondo, poiché, col passare del
tempo, risulta sempre più impossibile discernere in modo sistematico
pratiche artistiche divenute interdipendenti, e, decisamente inutile, pretendere di sezionare e dividere forme espressive all’interno di un libero scambio culturale. Sta in quest’ordine di pensiero il succo dell’operazione SATURA International Contest e il motivo logico della sua presenza nel fitto calendario eventi di SATURA art gallery. Questo concorso intende puntare ad un’idea di arte “allargata” e sdoganata in tutti i
suoi confini di genere, in un periodo storico che riconosce negli artisti,
come anche nei fruitori dell’arte, la tendenza sempre più diretta a muoversi almeno un filo oltre il perimetro - utile, ma pur sempre restrittivo - tracciato da sistemi simbolico-comunicativi locali. Il SATURA International Contest interviene in un’epoca che reclama con fare sempre più
incalzante una mentalità internazionale per non sentirsi stupidamente tagliati fuori, e che ci spinge ad essere sempre culturalmente predisposti a macinare frammenti eterogenei di semiologia estetica provenienti da ogni zona produttiva dell’arte contemporanea. Impossibile quindi che ciò avvenga senza riflettere di conseguenza sul ruolo della diversità, sulla sua capacità d’influenzare e rendere socialmente specifica la
selezione nei contenuti fatta da ogni artista o gruppo di artisti. I pittori e fotografi selezionati, hanno saputo mettersi in gioco davvero, anche scavalcando, sfidando o riscrivendo le regole di una confortante cultura visiva nazionale. Per un’arte un po’ più apolide e un po’ più consapevole cittadina del mondo. A Genova. Certamente impossibile, quanto inutile, classificare gli esiti di fronte ad artisti che s’incrociano senza direttive pressanti, mostrandosi sintonici se è il caso o empatici quando questioni di affinità lo permettono. Chiamati, assieme a tutti noi, a
testimoniare un’arte contemporanea divenuta questione unitaria e soprattutto transnazionale.
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ARTISTI VINCITORI
1° Premio Pittura Daniele Duò, 1° Premio
Fotografia Aurora Giampaoli, 2° Premio Pittura Maurizio Morandi, 2° Premio Fotografia NECATI, 3° Premio Pittura Luca Ricci,
3° Premio Fotografia Stefano Cacciatore,
Premio della Critica Guido Alimento, Premio della Giuria Marilisa Giordano.
Aurora Giampaoli,
Daniele Duò, Necati e Maurizio Morandi
Satura International Contest
LA GIURIA di SATURA
INTERNATIONAL CONTEST 2014
Marino Anello collezionista, Elena Colombo critico d’arte, Gianluca Gandolfo storico dell’arte, Ilaria Leopoldo grafico, Milena Mallamaci architetto, Marta Marin art
curator, Flavia Motolese art curator, Mario Napoli presidente associazione SATURA, Mario Pepe critico d’arte, Ketlin Ribeiro Maffessoni esperta in comunicazione
dello spettacolo, Marco Piva critico letterario, Andrea Rossetti critico d’arte, Laura Rudelli storico dell’arte.
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S AT U R A I N T E R N AT I O N A L C O N T E S T
Satura International Contest
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ARTISTI SEGNALATI
Luigi Agnelli, Henri Baviera, Caterina
Bruzzone, Olga Cabezas, Antonio Carbone, Lorenzo Castello, Barbara Cervio, Liliana Condemi, Andrea Connell Fantechi,
Renato Dametti, Angela Di Sanza, Carmine Fiore, Maura Gamba, Metella Guglielmone, Monica Kirchmayr, Marco Lami, Maria Lepkowska, Umberto Marangoni, Attilio Maxena, Andrea Morini,Tommaso
Panzeri, Luca Paramidani, Silvia Pavarini,
Gisella Penna, Giorgio Piana, Stefano
Prazzoli, Paola Rapetti, Consuelo Rodriguez, Silvana Romano, Piergiorgio Saccomano, Giuliana Silvestrini, Clelia Tormen, Antonio Vescina, Massimo Zilioli.
Stefano Cacciatoe e Luca Ricci
ARTISTI PREMIATI
Rossella Baldecchi, Isabel Carafi, Marina
Carboni, Ugo Carmeni, Paolo Cau, Paul Critchley, Marco De Barbieri, DRINA A12, Domenico Fatigati, Silvia Fucilli, Angelo Giannetti, Enrico Grasso, Gisela Hammer, Antonio Isacco, Massimo Shoza Longhi, Donato Lotito, Alessandro Melis, Maria Micozzi, Egle Mercedes Murgese, Giorgia Napoletano, Peter Nussbaum, José Ángel Palao,
Paola Pastura, Galya Popova, Michele
Protti, Brigitta Rossetti, Umberto Signa,
Marcello Terruli, Stefano Torrielli, Marta
Vezzoli, Paola Volpe, Elizabeth Waltenburg.
Guido Alimento e Marilisa Giordano
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S AT U R A I N T E R N AT I O N A L C O N T E S T
zari, Carmen Lietz, Marisa Maffei, Anita
Maninchedda, Gianpaolo Marchesi, Rita
Melita, Tiziana Monoscalco, Valeria Morasso, Domenico Nicoletta, Annamaria Nicosia, Cinzia Oneto, Manuela Pasolini, Valentina Pavone, Adriana Pinosanu, Michela
Poggio, Mirella Raggi, Fabio Ramagnano,
Fabio Ricco, Stefania Rizzelli, Pietro Roca,
Alessandro Rossi, Vittorio Sacco, Maryna
Sakalouskaya, Vittoria Salati, Giuseppe Salvatore, Rosaria Santorelli, Sergio Sarigu,
Federico Sasso, Claudio Semino, Chiara Silvano, Tatiana Serokurova, Oleksandra
Simanova, Antonino Sparla - CHICO, Edoardo Stramacchia, Savina Tarsitano, Mario Tonino, Rosario Tortorella, Maria Tripoli, Cosimo Valerio, Maria Vittoria Vallaro, Paolo Viola, Rita Vitaloni, Valeria Vittani, Matteo Zallio.
Rossella Baldecchi, Paola Pastura, Umberto Signa e Angelo Giannetti
Satura International Contest
ARTISTI FINALISTI IN MOSTRA
Vicky Queen-Ann Abu, Marinella Albora,
Elena Alietti, Rita Alleruzzo, Giovanni Baia,
Paolo Benvenuti, Alessandra Bisi, Elisabetta Bondì, Paola Borio, Martina Bovo, Antonio Cagnazzo, Maurizia Carantani, Giuliano Castelli, Caterina Cataldi, Rossana
Chiappori, Aldo Ciabatti, Patrizia Maria
Cocchiarella, Jolanda Comar, Emilio Costarelli, Aurelio Cottica, Valeria Crisafulli, Egle De Nuzzo, Roberto Del Fabbro, Stefano Devoti, Francesco Disciglio, Francesco Donato, Cira D’orta, Salvatore Falco,
Maurizio Falcocchio, Sibilla Fanciulli, Vilma Fanti, Cynthia Fico, Cristina Flaviano,
Marcella Foresio, Saverio Galano, Eleonora Gerbotto, Anna Ghisleni, Edoardo Giavelli, Giorgio Gioia, Francesca Giraudi, Bruno Greco, Aldo La Pietra, Maria Grazia Laz-
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I libri di Elena Colombo
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I LIBRI DI ELENA COLOMBO
I LIBRI
di Elena Colombo
CIELO ARIDO Emiliano Monge
La Nuova Frontiera, 220 pp., 19 €
“Cielo Arido” s’inserisce nel
nuovo corso della letteratura
ispano-americana che usa la
ricchezza della parola nella
testimonianza civile. Lo stile
di Emiliano Monge è un
flusso di coscienza che
illumina a due a due i
momenti fondamentali della
vita di Germán Alcántara
Carnero che si trasformerà
da “Gringo” esiliato in terra
straniera a carnefice a
“Penitente” ma non riuscirà
a emanciparsi dal destino
inscritto nel suo nome di
battesimo – che lo condanna
ad essere “Fogna” e
“Montone” (e quindi
“sacrificio”). Le tappe
dell’evoluzione non sono
lineari, perché una vicenda
può avere diversi inizi o non
averne affatto secondo il
punto di vista dalla quale la
si guarda, ma le emozioni
descritte sono universali e
riconoscibili, ampie fino a
coprire lo spettro delle
esperienze possibili. Questo
rende la scrittura
sperimentale e ostica al
primo contatto, ma anche
ipnotica e avvolgente,
evidenziando nel magma dei
ricordi le date che, segnando
la biografia individuale del
personaggio, hanno
modificato anche la storia
messicana: una persona
passa da figlio-lavoratore
spaventato a genitore legato
a un figlio malato. La sua
disperazione senza posa
replica le molte varianti del
dolore per la scomparsa dei
propri affetti e in lui si
materializza la situazione
precaria di una patria
idealizzata, che sembra non
esistere all’infuori del piano
soggettivo. I passaggi
cronologici sono repentini e
innescati dal meccanismo
della memoria portata dagli
oggetti, ma su ogni scena
domina un paesaggio
polveroso e riarso, che
giustifica il paragone con la
prosa di Cormac McCarthy
quasi che la Meseta Madre
Buena – sintesi di un’intera
nazione – fosse un luogo
alieno quanto il suolo
lunare. Allo stesso modo
ricorrono spesso i cani,
come alterego del
protagonista: come avveniva
nel film “Amores Perros di
Alejandro González Iñárritu,
gli animali violenti o vittime
di angherie immotivate sono
l’estrema rappresentazione
delle pulsioni umane che qui
si manifestano, deformate
dal tempo, nel ragazzo che
si ribella al giogo di un
padre obeso e spaventoso;
nel giovane che viene
reclutato quasi suo
malgrado in una banda di
ribelli rivoluzionari; nel
funzionario che entra nel
sistema scoprendone i
metodi brutali e infine
nell’uomo stanco che cerca
soltanto una tardiva
redenzione.
DAL VENTRE DELLA BALENA
Michael Crummey
Neri Pozza Editore, 374 pp., 18 €
“Dal ventre della balena” è
stato paragonato a
“Cent’anni di solitudine” per
la struttura ellittica di un
racconto che attraversa le
generazioni regalando al
lettore un affresco magico di
una piccola comunità della
costa del Terranova.
L’analogia regge se si
considera la tecnica
narrativa che si serve del
realismo per descrivere i
fenomeni fantastici, ma ci
sono importanti differenze
rispetto al romanzo latinoamericano. Come Gabriel
García Márquez, in ogni sua
opera Michael Crummey
parte dalle leggende della
sua terra e dalle esperienze
famigliari per costruire un
mirabolante caleidoscopio di
personaggi che s’inseguono
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I LIBRI DI ELENA COLOMBO
la Vedova o Mary Tryphena
possono riportare alla mente
Ursula Iguarán, l’alone
sovrannaturale di alcune
situazioni è accostabile a
Última, la sciamana di
frontiera di Rudolfo Anaya.
GOYA Tzvetan Todorov
Garzanti, 293 pp., 29 €
Nella sua ricerca
antropologica a tutto campo,
Tzvetan Todorov ci ha già
abituati alle incursioni nel
mondo dell’arte: con “L’arte
o la vita!”, l’autore aveva
esaminato la figura di
Rembrandt per stabilire il
nesso tra il vivere e il creare.
Il fulcro del nuovo libro è
Francisco Goya – uno dei più
controversi protagonisti
della scena culturale
spagnola a cavallo tra il
Settecento e l’Ottocento, in
un periodo di grandi
mutamenti sullo scacchiere
politico europeo. Qui si
analizza la sua doppia
personalità artistica: la
carriera pubblica, fatta di
commissioni e ritratti intrisi
di psicologia, ma soprattutto
si parla della parte privata,
cospicua e variegata, da
molti considerata oscura ma
in realtà rivelatrice. Pitture,
disegni e incisioni
rispondono all’urgenza
emotiva di mostrare la verità
del mondo, mettendo
l’umanità davanti a uno
specchio. Le pulsioni, la
violenza, i demoni interiori
fanno tutti parte di un’unica
sequenza che si dipana
lungo tutta l’esistenza del
pittore/osservatore,
diventando un catalogo da
consegnare ai posteri per
esorcizzare certe dolorose
inclinazioni. Lo studio rileva
così l’attualità dei
protagonisti che tornano
sulle lastre incise, negli
album, nei quadri e persino
sulle pareti della Quinta del
Sordo. La biografia di Goya è
un punto di partenza
schematico Le streghe, i folli,
i briganti, perdendo
individualità, si trasformano
in esempi universali motivati
dalla contingenza sociale e
trovano un’eco nel
linguaggio coevo e
successivo. I mostri
proliferano nel genere
fantastico, mescolando vero
e verosimile. L’abbattimento
della frontiera tra la
spiegazione comune e quella
sovrannaturale è il filo
conduttore che inserisce
questo saggio sia nella
critica letteraria sia nella
semiotica ma, nelle opere
precedenti l’attenzione di
Todorov si era concentrata
su personalità a che avevano
ricercato la Bellezza
sublime, ora egli – come già
aveva fatto Eco – descrive un
processo inverso che
conferisce dignità anche alla
Bruttezza. L’apparato
iconografico è fondamentale
in questo percorso ma
purtroppo l’edizione
cartacea spesso non rende
giustizia al tratteggio degli
I libri di Elena Colombo
lungo il cerchio chiuso del
tempo, però i riferimenti
geografici e cronologici
collocano il villaggio del clan
Devine in un luogo preciso e
identificabile, forse isolato
quanto Macondo a causa
dell’inclemenza del clima,
ma non separato dalla Storia
mondiale. Questo
caratteristico parallelismo
tra mito e verità unito al
paesaggio gelido non
richiama i colori sgargianti
dei Caraibi colombiani ma
piuttosto un altro scrittore
dell’estremo del pianeta:
Francisco Coloane con le sue
cacce ai cetacei e agli
indigeni fueghini. Il forte
valore allegorico dei
protagonisti è certamente un
altro elemento che rievoca il
boom sudamericano: come
Melquíades o José Arcadio
Buendía, il Giudeo è immune
allo scorrere degli anni, ma
in questo caso, l’uomo muto
e albino scaturisce
misteriosamente dalla
pancia di una balena
spiaggiata, con un eco
biblico che ritorna lungo
tutto il libro e si
accompagna ai classici della
letteratura di mare – da
Samuel Taylor Coleridge a
Herman Melville. L’autore
suggerisce che la parola –
sotto forma di parabola,
proverbio o tradizione orale
– è il principio che plasma
l’ambiente e l’identità.
Ciascuna generazione trae
linfa dalla precedente e i
segreti del passato si
riaffacciano sul presente
diventano omissioni
innegabili, sul filo dei
fondamenti morali
tramandati dalle donne. Si
sviluppa così un albero
genealogico ricco di figure
femminili carismatiche e, se
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I libri di Elena Colombo
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I LIBRI DI ELENA COLOMBO
originali e i dettagli si
confondono con la trama
della carta.
I RAGAZZI BURGESS Elizabeth
Strout
Fazi Editore, 445 pp., 18,50 €
Reggendosi su momenti
d’incredibile lirismo, il
realismo di Elizabeth Strout
descrive la realtà poliedrica
dell’America
contemporanea, preda di un
sistema parassitario che
spinge le persone a
nascondere gli istinti. Nel
quadro ci sono sia i colori
del Maine di David Henry
Thoreau sia quelli della
grande metropoli, vista
come la gabbia dorata
dell’alta borghesia,
analizzata con il taglio
brillante di Francis Scott
Fitzgerald. Nella dinamica
centro/periferia s’inserisce
però un elemento esterno
che rischia di destabilizzare
gli equilibri relazionali:
l’arrivo di una comunità di
somali nel cuore dello “Stato
più bianco dell’Unione” crea
tensioni e pregiudizi difficili
da superare, mettendo in
luce un’incomunicabilità di
fondo che un tempo aveva
caratterizzato i rapporti tra i
ceti sociali. Un episodio –
apparentemente a sfondo
razzista – costringe Jim e
Bob Burgess, rampanti
professionisti newyorkesi, a
tornare al loro paese
d’origine per raggiungere e
aiutare la sorella che,
essendo rimasta a Shirley
Falls, non è riuscita a trovare
la propria strada. I disagi
adolescenziali di suo figlio
Zachary costringono i
protagonisti a fare i conti
con un passato segnato da
un incidente di cui tutti e tre
si credono colpevoli. Il
triangolo tra fratelli si
allarga ai diversi modelli di
famiglia, ognuno con le sue
disfunzioni e le sue fratture
interne. La scrittrice
padroneggia una tecnica
narrativa che raggiunge vette
di chiarezza lirica
impressionanti, superando
decisamente le ambizioni di
“Pastorale Americana” di
Philip Roth. Il paragone tra i
due non rende giustizia: in “I
Ragazzi Burgess” ogni
frammento della situazione
attuale riporta a galla un
ricordo. Si genera così una
parziale ricomposizione del
puzzle, secondo una
struttura che è insieme
fattuale ed emotiva. Le scene
si dispiegano davanti agli
occhi del lettore come
dipinti di Edward Hopper
ma, accanto alla lezione
appresa dai maestri
statunitensi del cromatismo,
coesiste un’attenta
caratterizzazione dei
personaggi che avvicina
l’autrice – Premio Pulitzer
del 2009 – ai migliori
romanzi di Jonathan
Franzen: nessuno può essere
considerato totalmente
buono o totalmente cattivo;
nessuno è vincente al cento
per cento.
IL BORDO VERTIGINOSO DELLE
COSE Gianrico Carofiglio
Rizzoli, 315 pp., 18.50 €
“A noi preme soltanto il
bordo vertiginoso delle
cose” è un verso del poeta
romantico Robert Browning ;
ed è da questo orlo
metafisico che si parte (o si
arriva?) leggendo l’ultimo
romanzo di Gianrico
Carofiglio, basato su
un’originale costruzione
letteraria: la scelta del “tu”
come narratore straniante,
che indica la scissione
psicologica del protagonista.
Ci vuole un po’ di tempo per
capire che l’uomo al bar e il
ragazzo che frequenta il
liceo a Bari sono la stessa
persona, perché una notizia
di cronaca spinge lo scrittore
in crisi quasi cinquantenne
Enrico a fare i conti con il
passato, ritrovando
frammenti di memoria che
credeva ormai perduti,
scoprendo che nessuno può
davvero ignorare le proprie
radici. C’è qualcosa che
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I LIBRI DI ELENA COLOMBO
spezzando il flusso della
matita che sottolinea.
IL GIOCO DI RIPPER Isabel Allende
Feltrinelli, 465 pp., 18,50 €
Il Gioco di Ripper presenta
Isabel Allende nell’inedita
veste di giallista e conferma
la sua capacità di innovarsi
senza mai snaturarsi,
nemmeno in questo nuovo
contesto totalmente
statunitense, che sembra
prendere spunto dalla
narrativa visuale delle serie
televisive. La scrittura
cinematografica e gli incastri
logici della trama cercano
una via alternativa per
affrancarsi dalla’etichetta
del “realismo magico” , che
continua ad accompagnare
gli autori ispanoamericani
come una scomoda pietra di
paragone. Il risultato è un
romanzo di ottima levatura
stilistica (difficile da trovare
in questo tipo di libri), che si
nutre dell’influenza del
marito Will Gordon,
discepolo dichiarato di
Maugham, ma avvicinandosi
alla penna di Claudia
Piñero, aggiunge sensibilità
femminile agli schemi del
genere. Indiana si occupa di
aromaterapia in un clinica
olistica e, dato che lo
scenario è una San Francisco
cosmopolita, il primo
riferimento che salta in
mente è forse quello più
ellittico, ossia “La Maga delle
Spezie” di Divakaruni. Nel
panorama mutevole della
baia si muove una carrellata
di personaggi con una buona
definizione psicologica: i
pazienti della dottoressa, la
sua famiglia, gli uomini della
sua vita, descritti con
freschezza e attenzione ai
dettagli. La maestria si nota
nello studio dei particolari
paesaggistici e sociali,
inseriti per dare
verosimiglianza
all’ambientazione, mentre le
citazioni colte sono usate
con leggerezza
parsimoniosa, senza
appesantire mai il testo che
resta teso in un viluppo fino
alle ultimissime pagine. La
figlia di Indiana, Amanda
indaga su una serie di
macabri omicidi insieme ai
suoi amici, in un gioco di
ruolo virtuale che, partendo
dal celebre caso dello
Squartatore, applica le
regole della deduzione
all’urgenza del presente.
Altro elemento interessante,
nato dalla tradizione
letteraria, è la struttura
compositiva pensata come
una cronaca scandita giorno
per giorno, parte integrante
di un testo ancora in
divenire ideato dal nonno di
Amanda, Blake Jackson. Da
gennaio ad aprile, le morti si
susseguono senza che la
polizia riesca a mettere
insieme i tasselli di un
quadro d’insieme complesso
che svelerà l’identità di un
unico (?) assassino.
I libri di Elena Colombo
rievoca la malinconia di
Sandro Veronesi o
addirittura lo scenario
emotivo di “I Ragazzi
Burgess” di Elizabeth Strout:
è necessario riconsiderare le
origini per vincere i traumi
che forgiano il carattere. La
ricerca e la rielaborazione
dei fatti non hanno solo una
corrispondenza spaziale
nello spostamento
topografico in giro per la
città, attraverso i luoghi che
erano stati familiari e che si
sono trasformati negli anni,
ma anche un valore
simbolico, dato che
ritornando sui propri passi
non si ricavano mai le stesse
sensazioni. Questo nuovo
anti-eroe è vicinissimo a
Roberto di “Il Silenzio
dell’Onda”, ma qui c’è una
maggior profondità, una
nostalgia evidenziata dalla
puntualità della colonna
sonora. Man mano che la
trama s’infittisce, i tasselli
s’incastrano mostrando – o
meglio, suggerendo – vari
livelli di complessità: da un
lato l’universo soggettivo, e
dall’altro una situazione
sociale pervasa da una
violenza collettiva, non
banalizzata, connaturata al
quotidiano, che richiama
certe pagine di Saviano o di
Ammaniti. Si procede per
epifanie, con un’attenzione
al linguaggio che produce
piccoli finali fulminanti, fino
all’accettazione del rimosso
che forse porterà il ghost
writer ad abbandonare
l’anonimato per rispondere
all’urgenza di raccontare
una storia ma, come Muriel
Barbery, l’autore cede alla
tentazione didascalica della
spiegazione filosofica e a
volte scivola leggermente
proprio sulle parole
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I libri di Elena Colombo
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I LIBRI DI ELENA COLOMBO
LA NOSTRA GANG Philip Roth
Einaudi, 173 pp., 18 €
“La Nostra Gang” è un
pamphlet satirico, scritto da
Philip Roth già nel 1971 –
prima dello scandalo
Watergate che pose fine
all’era Nixon – ed è quindi
stato considerato profetico
per i suoi tratti dissacranti.
In realtà, al di là del suo
valore documentale, esso
può essere letto a due livelli:
da un lato c’è il suo valore
contingente, che lo colloca
all’interno di un contesto
definito e riconoscibile; ma
abbiamo anche un piano
universale, che mostra in
maniera inclemente i
meccanismi occulti del
linguaggio politico. È la
messa inscena di uno
svelamento antropologico, la
spettacolarizzazione dei
processi studiati da
Weatherford nel suo saggio
sui “clan” di Capitol Hill.
Tuttavia, per giungere
all’eccellenza letteraria della
“Animal Farm” di George
Orwell, manca quello scatto
che eleva i concetti oltre il
particolarismo storico. Non
c’è una storia di fondo che
costruisca umanamente i
personaggi e quindi rimane
solo la difficoltà di
orientamento, senza il
coinvolgimento emotivo che
si ha ad esempio guardando
l’ottima serie televisiva “The
Newsroom” di Aaron Sorkin,
incentrata su un gruppo di
giornalisti. In altre parole,
questo testo resta sempre
troppo legato alle questioni
statunitensi perché possa
arrivare a un pubblico più
vasto. È un handicap che
limita tutta la prolifica
produzione dello scrittore,
spesso focalizzato sulla
borghesia americana e
soprattutto sulla comunità
ebrea, però qui – a
differenza di quanto avviene
nei romanzi – non c’è il
supporto di una vera e
propria trama e
l’abbondante chiosa delle
note rallenta il ritmo dello
stile volutamente teatrale.
LA REGINA SCALZA Ildefonso
Falcones
Longanesi, 704 pp., 19.90 €
Ildefonso Falcones ci ha
abituato ai grandi affreschi
storici in cui le storie dei
singoli s’intrecciano con la
Storia ufficiale. Attraverso i
secoli, gli scenari si spostano
sulle strade di Spagna,
reinventando i canoni del
romanzo picaresco. Ogni
opera getta un fascio di luce
sulla molteplicità di
un’anima nazionale che si è
sempre considerata unitaria.
“Nessuna cultura è un
monolite” dicono gli
antropologi. Così i
personaggi dell’autore
catalano sono figure
apparentemente marginali,
sono gli umili che si rivelano
essenziali nel tessuto del
quotidiano: dai lavoratori di
fatica di Barcellona fino ai
mori cacciati nel XV secolo,
il nuovo tassello del mosaico
descrive la comunità dei
gitani e la lunga
persecuzione subita da
questo popolo. Sullo sfondo
dei cambiamenti sociali del
Settecento, sono le donne a
possedere la chiave per
risolvere le situazioni più
intricate, dispiegando un
grande canto sulla libertà.
Ciascun dettaglio è stato
verificato con attenzione
didascalica, sfruttando la
polifonia delle fonti. Le
trame, costruite con una
sapienza e un ritmo
cinematografico, sono
ispirate ai fatti delle antiche
cronache andaluse ma
riecheggiano la sensualità
della Carmen di Mérimée. La
ricchezza delle pagine
evidenzia due elementi
contrastanti: da un lato
abbiamo la violenza che
regola i rapporti tra i sessi e
le antiche leggi mostrate
anche dai film di Gatlif;
dall’altro la repressione
morale diffusa a tutti i livelli
del vivere comune. La
parabola di Milagros la
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QUASI MAI Daniel Sada
Del Vecchio Editore, 437 pp., 16 €
Daniel Sada è una rivelazione
o una maledizione per il
lettore. È un labirinto
d’invenzioni linguistica dal
gusto barocco e modernista,
paragonato allo stile fiorito
di José Lezama Lima o
Severo Sarduy ma i
commentatori hanno notato
una sostanziale differenza
geografico-paesaggistica:
mentre la ricchezza degli
scrittori cubani si nutre
dell’esuberanza dei Caraibi, i
personaggi di “Quasi mai” si
muovono nella polvere del
Messico anni Quaranta. Le
digressioni erotiche servono
a tracciare un complesso
affresco sociale che mostra
un Paese in corsa verso la
nuova industrializzazione.
Demetrio è un agronomo –
figura volutamente arcaica e
fuori contesto – che cerca
l’appagamento personale
nell’esperienza sessuale,
senza però trovare sbocchi
per il futuro: il suo percorso
è fatto di occasioni mancate
e di contrapposizioni fittizie.
Da un lato l’amore libero e
disinibito dei postriboli – eco
delle molte storie di mitiche
prostitute letterarie –
dall’altro la visione
angelicata del pudore,
rappresentato dal
matrimonio con la bella e
immacolata Renata. Sullo
sfondo dei cambiamenti
culturali di un’intera
nazione, le vicende private di
un uomo sono lo specchio
della collettività e i rapporti
di coppia distorti dal
desiderio sembrano derivare
direttamente
dall’attaccamento morboso
delle relazioni madre/figlio.
Mamma, zia, suocera sono
una sacra triade che deforma
lo sguardo verso l’esterno e
costringe il protagonista a
una continua fuga da se
stesso, sulle strade aride
dello Stato di confine di
Coahuila. L’inadeguatezza di
Demetrio lo spinge a volere
l’isolamento e poi a rifiutarlo
perché, come lo Zeno di Italo
Svevo, non può venir a patti
con la propria debolezza.
Parlando di America Latina, è
quasi inevitabile tentare il
parallelo con il realismo
mágico di Gabriel García
Márquez, ma qui la
costruzione poetica è ancora
più estrema, levigata con il
cesello di un lessico
inventato ad hoc, secondo un
progetto ambizioso che è
valso all’autore il Premio
Herralde de Novela e
addirittura il Premio
Nazionale del Messico per le
Arti e le Scienze. Un plauso
particolare, quindi, va al
traduttore Carlo Alberto
Montalto che si destreggia
abilmente tra ispanismi,
messianismi e “sadismi”.
I libri di Elena Colombo
Scalza, acclamata nei teatri
della capitale e vessata dal
marito, sono lo specchio
pubblico delle ingiustizie
sopportate da un’etnia che
ha rifiutato con fierezza la
condizione di degrado della
schiavitù. Come simbolo di
quest’orgoglio che non si
piega di fronte alle avversità,
Ana Vega e suo padre
Melchor trovano un
completamento nella figura
di Caridad, una negra giunta
dalle piantagioni di tabacco
di Cuba per imparare come
gestire una femminilità
gioiosa – che non conosceva
– e una nuova indipendenza.
Si crea una continuità tra la
tradizione e l’attualità
osservata Caterina
Pasqualino tra i “flamencos”
del sud e, grazie
all’universalità delle
emozioni, la lettura è
coinvolgente e
appassionante.
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Andando per mostre
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ANDANDO PER MOSTRE
ANDANDO PER MOSTRE
GIANNI BERENGO GARDIN
Storie di un fotografo
G. Berengo Gardin, Porto di Genova con la
Lanterna
A un passo dal luogo natio, in versione
rinnovata e arricchita rispetto alle
precedenti mostre, un’affascinante
retrospettiva, a cura di Denis Curti,
dedicata a Gianni Berengo Gardin (Santa
Margherita Ligure/GE 1930) noto in Italia e
all’estero come un poeta che tramite la
fotografia coglie con occhio sagacemente
benevolo i migliori frammenti d’Italia
(Milano, Venezia, Liguria, la Biennale di
Venezia, i manicomi con la legge
Basaglia…) e del mondo (Gran
Bretagna,Vienna…).
200 splendide stampe analogiche in bianco
e nero - perché “sono due bei colori, per
non dire del grigio che è un colore
bellissimo” e ancora “il colore distrae il
fotografo e chi guarda” come sostiene il
Maestro-scattate dal 1969 al 2002,
appositamente selezionate per questa
mostra e comprensive di alcuni inediti
ripercorrono il cammino umano e
professionale di questo artista alla ricerca
di un racconto obiettivo e veritiero che
restituisca l’immediatezza del vivere e la
sintonia con gli altri nella ricerca di
emozioni indimenticabili da portare nella
memoria e nel cuore.
Indirizzatosi alla fotografia dal 1954, dopo
avere vissuto a Roma, Venezia, Lugano e
Parigi, nel 1965 si stabilisce a Milano e fa
di quest’arte la propria professione
dedicandosi a reportage, documentazioni
di architettura e ambiente, indagini
di Wanda Castelnuovo
sociali… pubblicati sulle più importanti
testate della stampa nazionale e
internazionale e realizzando più di 200
libri fotografici, ricevendo numerosi premi
e riconoscimenti di prestigio in ogni dove.
Senza trascurare le foto note e meno note
come quella che coglie l’intima tranquillità
di un pastore al pascolo (Vercelli 2009)
mentre cura il fuoco sotto lo sguardo vigile
di uno dei cani, respiriamo l’anima di
Genova secondo Gardin: un omaggio
affettuoso con una spruzzata di nostalgia
all’operosità del porto, che ha fatto la
fortuna della città, con navi e lavoratori,
alle strade, alle case e alla Lanterna,
simbolo pulsante di una popolazione che
vuole stare al passo con i tempi.
↪ Genova: Sottoporticato di Palazzo
Ducale, Piazza Matteotti 9
10:00-19:00 da martedì a domenica;
14:00-19:00 lunedì;
biglietteria chiude un’ora prima
Fino all’8 giugno 2014
Biglietto mostra: intero € 11.00,
ridotto € 9.00/4.00
Info e prenotazioni: 199 15 11 15,
www.mostraberengogardin.it
Catalogo: Marsilio Editore
CAMPIGLI
Il Novecento antico
La splendida Villa dei Capolavori, sede
della Fondazione Magnani Rocca, presenta
articolate in cinque sezioni più di 80 opere
(oltre ai mosaici allestiti in giardino)
realizzate tra gli anni ’20 e ’60 da Massimo
Campigli (Berlino 1895 – Saint Tropez
1971) il cui vero nome era Max Ihlenfeld.
Tale notizia di carattere biografico emersa
recentemente è essenziale per la
comprensione della sua poetica rivelando
un mistero celato per anni: figlio di una
berlinese diciottenne non sposata, è
portato in Italia per evitare lo scandalo e
ripreso dalla madre quando nel 1899
questa si sposa con un commerciante
inglese, ma si finge sua zia, segreto che il
giovane scopre casualmente a 14 anni.
Di carattere solitario, formatosi un’ampia e
profonda cultura (conosce cinque lingue), può
essere definito un europeo nel senso moderno
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ANDANDO PER MOSTRE
Massimo Campigli, Scalinata
↪ Mamiano di Traversetolo/PR, Fondazione
Magnani Rocca, Via Fondazione Magnani
Rocca 4
10:00-18:00 da martedì a venerdì; 10:0019:00 sabato, domenica e festivi; la
biglietteria chiude 1 ora prima
Fino al 29 giugno 2014
Biglietto mostra: € 9.00 comprensivo delle
Raccolte permanenti, scuole € 5.00
Info e prenotazioni: tel. 0521
848327/848148, www.magnanirocca.it
Catalogo: Silvana Editoriale
COME ESSERE uN uOMO?
Il ‘sesso forte’ nell’antichità
Un episodio della vita degli eroi, la cerimonia
della vestizione
L’intrigante mostra organizzata dal Museo
delle Antichità di Basilea (unico in Svizzera
dedicato solo all’antichità classica) non si
limita a presentare una serie di
testimonianze, in questo caso dell’Antica
Grecia, come memoria di un passato, ma
opera un interessante paragone con un
presente mutevole per quanto riguarda
l’idea di virilità, nell’immaginario collettivo
legata a forza, razionalità, coraggio, libera
sessualità e soprattutto nessuna
indulgenza verso alcuni atteggiamenti
‘deboli’ come piangere o fare lavori
domestici.
Oggi qualcosa è cambiato e il dedicarsi alla
casa e alla prole non pare almeno per
alcuni essere una deminutio così come non
lo era piangere e mostrare dolore
nell’Ellade e in particolare nell’Atene dal
550 al 330 a. C.
Attingendo una serie di testimonianze dal
ricco patrimonio del museo, l’esposizione
racconta il dipanarsi della vita dell’uomo
dall’infanzia e lungo il periodo delicato
della formazione adolescenziale fino al
passaggio rituale all’età adulta con gli
impegni della vita pubblica e di quella
militare, della religione, dello sport e della
sessualità fino alla vecchiaia e all’epilogo
della vita, il tutto illustrato tramite statue,
vasi dipinti e rilievi in cui il modello si rifà
spesso al Canone di Policleto.
Andando per mostre
del termine e, dopo essere stato reporter a
Parigi per il ‘Corriere della sera’, diviene non
solo pittore connotato da mistero, magia,
geometria, memoria e simboli, ma anche
scrittore raffinato e riservato.
Fondamentale nel suo percorso il 1928
quando a Roma è affascinato dai reperti
etruschi del Museo di Villa Giulia e dai
ritratti romani del basso impero delle
Terme di Diocleziano: influenze
determinanti nella sua analisi anche
dell’archetipo materno e dell’eterno
femminino di cui elabora uno stereotipo
con il busto stretto, a clessidra quasi a
indicare lo scorrere del tempo.
Elemento centrale della sua poetica è
quindi la donna o meglio tante donne
raffinate, signore eleganti, belle, famose,
decorate da gioielli e inserite in
un’architettura precisa, ma
misteriosamente prigioniere, immobili,
sconosciute, distanti e sfuggenti come
quelle che salgono silenziose la Scalinata.
Noto ritrattista dallo stile particolare come
nel Ritratto di Olga Capogrossi, icona della
mostra, Campigli diventa famoso in tutto il
mondo anche grazie a committenze private
e pubbliche tra cui i quattro splendidi
affreschi realizzati tra il 1933 e il 1940 per
la Triennale di Milano.
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Andando per mostre
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ANDANDO PER MOSTRE
Tappe scandite da considerazioni che
inducono a riflettere a cominciare dalla
statua del Dio Ermafrodita con
caratteristiche fisiche maschili e femminili
fino alle abitudini erotiche come la
pederastia assolutamente normale
(condannata invece l’omosessualità tra
uomini) in una cultura in cui l’adulto ha la
funzione di trasmettere valori al giovane.
A livello pubblico la donna salvo
sacerdotesse ed ‘etère’ è inesistente a
vantaggio del maschio, protagonista
vezzeggiato anche quando si prepara al
combattimento come racconta Un episodio
della vita degli eroi: la cerimonia della
vestizione (550/540 a.C.) raffigurato su
un’anfora da vino proveniente da Atene.
Un percorso avvincente per comprendere il
presente attraverso il passato.
↪ Basilea: Antikenmuseum Basel,
St. Alban-Graben 5
10:00-17:00 da martedì a domenica
Fino al 21 aprile 2014
Biglietto mostra: intero frs 20,
ridotti frs 18/5
Informazioni e prenotazioni: 0041 (0)
612011212, www.antikenmuseumbasel.ch
Catalogo: Antikenmuseum Basel e
Sammlung Ludwig Editori
Le maschere sorprendenti
JAMES ENSOR
Un’appassionante scoperta James Ensor
(Ostenda 1860 -1949), visionario artista
belga - di padre inglese e madre fiamminga
formatosi prima nella città natia, cui
rimane sempre profondamente legato
vivendoci solitario e introverso e
trasformando la mansarda in studio, e poi
a Bruxelles - che con il suo stile ironico,
fantastico, stravagante e provocatorio a
volte fino all’aggressività ha influenzato
artisti del XX secolo quali Alfred Kubin,
Paul Klee, gli impressionisti tedeschi e i
surrealisti che lo hanno considerato un
precursore per le tematiche relative
all’assurdità della nostra esistenza.
La mostra di Basilea con un centinaio di
opere tra dipinti (circa la metà), disegni e
grafica provenienti dal Museo Reale delle
Belle Arti di Anversa (attualmente in
ristrutturazione) e da collezioni private
svizzere offre un’esaustiva panoramica
sull’attività di Ensor dagli inizi quando
soggetti preferiti sono stupende marine, la
stagione balneare con l’incantevole
Badenwagen, solitaria ‘cabina da mare’
(ancora in uso oggi sulle estese spiagge del
Mare del Nord), fino agli interni, alle nature
morte e alla celebre fase del grottesco con
bizzarre maschere carnevalesche
(pertinente tale esposizione proprio nella
città che vanta uno dei carnevali più
celebri, singolari e affascinanti al mondo) e
agli ultimi lavori.
Le maschere appartenenti alla tradizione
europea e asiatica sondano gli abissi
dell’animo smascherando l’inutile vanità,
la stridente assurdità della vita umana e i
supposti intrighi del mondo artistico
contro di lui come nello spettacolare e
colorato L’intrigo, evidenziando una
critica sociale non avulsa da comicità e
insieme una notevole raffinatezza
compositiva.
Dopo notevoli difficoltà, Ensor,
ondeggiante tra narcisismo come
testimoniano i numerosi Autoritratti e
frustrazione, riesce a vedere l’agognato
successo con le sue opere acquistate anche
da Istituzioni pubbliche e ad assistere
all’inaugurazione a Ostenda di un
monumento in suo onore.
James Ensor, L’intrigo
↪ Basilea: Kunstmuseum, St. Alban-Graben
16
10:00-18:00 da martedì a domenica.
Biglietto mostra: intero Fr. 21, ridotto Fr.
16, ridotto scuole Fr. 8
Fino al 25 maggio 2014
Informazioni: 0041 (0)61 2066262,
www.kunstmuseumbasel.ch
Catalogo: Hatje Cantz Editore
25-2014 colore_Layout 1 28/05/14 21:23 Pagina 99
ANDANDO PER MOSTRE
Lorenzo De Simone, Italia in bicicletta
In occasione del 120° anno di fondazione
del Touring Club Italiano gli affascinanti
ambienti del Palazzo della Ragione (il
secondo dei tre broletti milanesi, quello
‘nuovo’, centro della vita cittadina dal
secondo quarto del XIII secolo al XVIII
quando cambia destinazione d’uso ed è
soggetto a numerose trasformazioni)
presentano un suggestivo percorso
interattivo sonoro e visivo - organizzato dal
prestigioso Studio Azzurro - della Storia
d’Italia attraverso l’evoluzione
dell’esperienza del viaggio protagonista
proprio negli ultimi 120 anni della più
veloce trasformazione mai sperimentata
dall’uomo.
Oltre un secolo di eventi e progresso
documentato tramite immagini e
testimonianze a cominciare dalla mitica
bicicletta - emblema di sviluppo a fine ‘800
e ancor di più oggi se si organizzasse a
Milano e non solo una razionale rete
ciclabile adatta alla sua natura
pianeggiante - fino al nascere degli altri
mezzi di locomozione e al loro evolversi.
Una storia del turismo, prima riservato a
pochi e oggi esperienza collettiva
comunque sempre foriera di arricchimento
e crescita, che inizia con una strada
sterrata, si trasforma in asfaltata, in ferrata
(lente o veloci) e poi in acqua e infine
nell’aria solcata da aerei sempre più
tecnologici e complessi. Una scoperta
anche tramite una ‘cartellonistica’ in fieri di
località illustrate da guide: è di 100 anni fa
la prima voluta e curata da Luigi Vittorio
Bertarelli, fondatore del Touring Club
Italiano, che ha ideato la collana delle
gloriose Guide Rosse con cui il ricco e
variegato patrimonio del made in Italy è
stato disvelato a un largo pubblico.
Una ricchezza dinamica fatta di un capitale
naturale, artistico, culturale ed
enogastronomico assai sfaccettato e dai
multiformi aspetti: dall’artigiano alla
piccola realtà produttiva che hanno
profondamente trasformato la nostra
Penisola, un tesoro che deve essere fatto
conoscere all’interno e all’estero in modo
che l’Italia ritorni a essere meta primaria
del turismo.
↪ Milano, Palazzo della Ragione, Piazza
Mercanti 1
14:30-19:30 lunedì, 9:30-19:30 martedì,
mercoledì, venerdì, sabato e domenica,
9:30-22:30 giovedì
Fino al 25 maggio 2014
Ingresso gratuito
Info: 840 888802, www.touringclub.it
Catalogo: Silvana Editoriale
LA RAGAzzA CON L’ORECChINO DI PERLA
Vermeer, La ragazza con l'orecchino di perla
L’ampliamento a L’Aia del Museo
Mauritshuis - maestosa dimora
classicheggiante secentesca, ricostruita ex
novo salvo le mura esterne dopo l’incendio
del 1704 e trasformata nel 1822 in sede
dei “Gabinetti reali dei dipinti e curiosità” chiuso fino al prossimo 27 giugno ha
Andando per mostre
IN vIAGGIO CON L’ItALIA
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Andando per mostre
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ANDANDO PER MOSTRE
permesso il prestito alla dotta Bologna,
culla della cultura universitaria mondiale,
di 37 opere “Da Vermeer a Rembrandt”
(come recita parte del sottotitolo),
appartenenti al ‘600, definito il ‘secolo
d’oro’ olandese grazie all’eccezionale
sviluppo di scienze, arti e commerci
internazionali.
Palazzo Fava, scrigno prezioso, permette
di conoscere lavori di straordinaria
qualità messi un po’ in ombra dalla
presenza de La ragazza con l’orecchino di
perla, uno dei capolavori di Johannes
Vermeer (Delft 1632 -1675), assurta a
icona mondiale per il fascino della
fanciulla che guarda chi la ammira con i
suoi lucenti occhi grigio azzurri. Di
questo splendido primo piano (tronie
come si chiamano questi modelli
immaginari e anonimi anche se partono
dalla realtà) stupiscono il serico
incarnato, le labbra socchiuse e lucide,
l’esotico turbante orientaleggiante (non di
moda all’epoca in Olanda) e la perla
piuttosto grande, in uso allora, preziosa e
rara se vera o di vetro di Venezia
verniciato se finta e comunque
affascinante per la luce raffinata che
esalta la luminosità del volto.
Meritano, però, attenzione tutte le tele
presenti come Diana e le sue ninfe, forse la
prima di Vermeer (di cui rimangono solo 36
opere), di grandi dimensioni e dalla
tematica storica a dimostrare l’ambizione
dell’artista, e inoltre interni con figura,
nature morte e ritratti tra cui affascinante
per il suo realismo il Ritratto di uomo
anziano (di Rembrandt van Rijn: Leida
1606 - Amsterdam 1669) sereno e rilassato
e dagli abiti trasandati così diversi da quelli
eleganti e di moda dipinti da Anthony van
Dyck e La vecchia merlettaia, rappresentata
con rispettosa dignità da Nicolaes Maes,
valido allievo di Rembrandt.
↪ Bologna, Palazzo Fava Palazzo delle
Esposizioni, Via Manzoni 2
9:00-20:00 da lunedì a giovedì; 9:00-22:00
venerdì e domenica, 9:00-23:00 sabato
Fino al 25 maggio 2014
Biglietto mostra senza prenotazione: intero
€ 12.00, ridotto € 9.00/6.00
Info: tel. 051 19936305,
www.genusbononiae.it
Catalogo: Linea d’ombra Editore
LIONE, CENtRO DEL MONDO!
L’esposizione internazionale urbana del
1914
Un affascinante tuffo nel passato per
rivivere i fasti dell’Esposizione
Internazionale Urbana organizzata a Lione
da maggio a novembre 1914 su una
superficie di circa 75 ettari con 27.000 m²
dedicati ai pomposi padiglioni delle
Nazioni - esteso e notevole il Padiglione
della Germania - che espongono il meglio
di quanto prodotto da oltre 17.000 aziende
per rispondere al tema sull’igiene e sul
necessario progresso sociale.
Il sogno è nelle mani di quattro personaggi
illuminati: Edouard Herriot (senatoresindaco di Lione), Jules Courmont
(Professore di igiene alla facoltà di
medicina), Louis Pradel (Vicepresidente
della Camera di Commercio di Lione) e
Tony Garnier, architetto che aspira a
realizzare una città industriale, espressione
in quell’epoca di modernità.
La mostra racconta ambizioni, obiettivi,
finanziamenti, organizzazione e modelli
dell’Expo rivelandone anche il carattere
politico e internazionale e mettendo in luce
la genialità entusiasta di Tony Garnier
oltreché i grandi festeggiamenti per
l’inaugurazione e per la visita ufficiale del
Padiglione Germania, Expo 1914
Presidente Poincarè fino alla dichiarazione
ufficiale di guerra del 3 agosto 2014 e alla
partenza delle nazioni nemiche.
Se importanti sono imprese, industrie,
turismo con la ricostruzione di un villaggio
alpino e gastronomia con il Palazzo
dell’Alimentazione, una moderna azienda
agricola e una sezione di orticoltura, il
fulcro dell’attenzione è rappresentato da
salute pubblica, lotta contro le malattie,
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ANDANDO PER MOSTRE
LuPO ALBERtO 40 ANNI
I 40 anni di Lupo Alberto di Silver
40 anni e non li dimostra Lupo Alberto (e
tutta la Fattoria McKenzie) - simpatico e
dolcissimo amico uscito dalla fertile
fantasia e dall’abile mano artistica di Silver,
pseudonimo del bravo Guido Silvestri
(Modena 1952) - di cui nel 2014 ricorre
l’importante compleanno che oltre a
Genova sarà celebrato anche in altre città
italiane.
Lo straordinario lupotto azzurro compare
sul Corriere dei Ragazzi nel 1974 e da quel
momento le sue storie costituiscono una
compagnia fidata per generazioni
attraverso strisce, libri, il Mensile di Lupo
Alberto (pubblicato dal 1985), diari
scolastici con cui consolarsi di tediose
lezioni… insomma un mondo che diverte in
modo intelligente e controcorrente.
L’entusiasmante e spassosa mostra con
originali e memorabilia racconta le gesta
del bizzarro anti-eroe, imperfetto come
ciascuno degli individui che
indipendentemente dall’età si identificano
con lui, modello da seguire per la bontà di
fondo, l’altruismo e il coraggio con cui si
rialza con entusiasmo dopo essere stato
malmenato fisicamente dal coriaceo cane
Mosè e dialetticamente dalla logica
stravagante, ma ferrea di Enrico la Talpa,
anche se il suo creatore sostiene che il
nostro amabile alter ego è cambiato non
solo nell’aspetto, ma anche nel carattere.
Come potrebbe perdere fascino un lupo
che invece di mangiarsi le galline, come
succede a tutti i suoi simili, s’innamora,
contrastato da Mosè, della gallina Marta, di
buona famiglia, di indole amabile e con la
testa sulle spalle - una vera “gallina d’oro” che lo contraccambia?
Un mondo senza pregiudizi in cui non
conta l’aspetto, ma quello che si è e la
fattoria è popolata da esseri diversi e
contradditori (esattamente come il pianeta
umano) dove il maiale Alcide può essere
l’intellettuale e il filosofo del gruppo che ne
accetta i sermoni anche se Glicerina,
papero ignorante e privo di morale, gode
nel ferirlo, ma è suo inseparabile
compagno, e nel quale tutti vorremmo
entrare per partecipare alla Festa per i 40
anni!
↪ Genova: Museo Luzzati, Porta Siberia,
Area Porto Antico 6
10:00-13:00 e 14:00-18:00 da martedì a
venerdì; 10:00-18:00 sabato e domenica
Fino al 21 settembre 2014
Biglietto mostra: € 5.00, gratis fino a 6
anni
Informazioni e prenotazioni: 010 2530328,
www.museoluzzati.it
Catalogo: Sagep Editore
MAtISSE, LA FIGuRA
La forza della linea, l’emozione del colore
Henri Matisse (Le Cateau-Cambrésis 1869 –
Nizza 1954), incisore, illustratore, scultore
e pittore inizia verso il 1890 il suo percorso
artistico a Parigi studiando pittura e
legandosi con Albert Marquet, André
Derain e Maurice de Vlaminck dalla cui
Andando per mostre
ospedali, trattamento delle acque,
protezione dei minori…
Determinante l’aspetto artistico: dai mobili
(nell’occasione è mostrato per la prima
volta dal 1830 il letto di Luigi XVIII, ora al
Louvre) alle eccezionali sete di Lione, alle
ceramiche di Sèvres e se il Salon dei pittori
mette in evidenza la produzione di Lione,
quello dei pittori moderni dà la possibilità
agli abitanti della città di conoscere artisti
contemporanei come Braque e Picasso.
Un crogiuolo di stimoli per organizzare il
futuro attraverso il passato.
↪ Lione: Gadagne Musées, 1 Place du petit
Collège
11:00-18:30 da mercoledì a domenica; la
biglietteria chiude 30 minuti prima
Fino al 27 aprile 2014
Biglietto mostra: intero € 7.00, intero €
5.00
Informazioni: tel. 033 4 78420361,
www.gadagne.musees.lyon.fr
Catalogo: Fage Editions
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Andando per mostre
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ANDANDO PER MOSTRE
amicizia nascono i Fauves presenti per la
prima volta al Salon d’Automne del 1905.
Pur non trattandosi di un movimento
organico, costoro si riconoscono nella
forza espressiva del colore che, connotato
da vivace e mediterranea solarità e da
‘gioia di vivere’ e svincolato dalla realtà,
esprime le sensazioni dell’artista.
Un centinaio tra dipinti, sculture e opere su
carta, incentrate sul tema della figura
soprattutto femminile rivelatrice del suo
sentimento religioso della vita, racconta
l’iter di Matisse che partendo dai temi della
classicità ne modifica la rappresentazione
tradizionale non solo nelle prime opere
fauve, ma anche nelle celebri odalische fino
alle creazioni della maturità.
Matisse, Odalisca in piedi con piatto di frutta
Un intrigante percorso che va
dall’Autoritratto del 1900, minaccioso e
minacciato tanto da incutere sconcerto
nei contemporanei agli Acrobati e che
comprende tra gli altri il Ritratto di André
Derain, serio, vivace e forte, e il bronzo
La serpentina, una delle sculture più
singolari tratta da una foto di una donna
procace cui l’artista riduce le forme nel
modello in creta fino a farne una figura
sinuosamente slanciata in un gioco
sapiente di pieni e vuoti.
Rinato a seconda vita dopo un’operazione
chirurgica nel 1941, inventa prima in
formato ridotto per un libro dal titolo Jazz
il metodo della gouache découpée,
ritagliando direttamente in fogli colorati
con tempere dalle sue assistenti forme che
poi accosta con estro creativo come lo
splendido Icaro.
Importante il rapporto di intimità quasi
ossessiva dell’artista con le modelle come
Camille Joblaud da cui nasce la figlia
Marguerite nel 1894, Lorette dipinta 50
volte in un anno per esempio ne Le due
sorelle e altre nel dopoguerra illuminate
dalla luce della Costa azzurra e
dall’esotismo.
↪ Ferrara: Palazzo dei Diamanti, Corso
Ercole I d’Este, 21
9:00 – 19:00 tutti i giorni festività
comprese. La biglietteria
chiude 30 minuti prima
Fino al 15 giugno 2014
Biglietto mostra: intero € 8.00, ridotto €
6.00, ridotto scuole € 4.00
Info e prenotazioni: tel. 0532 244949,
[email protected],
www.palazzodiamanti.it
Catalogo: Ferrara Arte Editore
PIStOLEttO
Forests for Fashion - Fashion for Forests
L’artista Michelangelo Pistoletto (Biella
1933), Maestro dell’Arte Povera, ha
portato la sua poetica artistica e sociale
nell’imponente Salle des Pas Perdus del
Palazzo delle Nazioni - costruito
ispirandosi all’Architettura Beaux Arts da
Henri Paul Nénot negli anni ’30 al centro
del Parco dell’Ariana sulla sponda del Lago
Lemano - sede della Società delle Nazioni
fino al 1946 e oggi principale sede
europea dell’ONU.
Occasione ineludibile, ma sfuggita a molti
la celebrazione il 21 marzo della Giornata
Internazionale delle Foreste (coincidente
con l’inizio della primavera nel nostro
emisfero) con l’evento dal significativo
titolo Forests for Fashion - Fashion for
Forests finalizzato a ricordarne il ruolo
fondamentale nella vita del pianeta
dipendente anche dalle opzioni della
moda che può contribuire alla
conservazione dell’ambiente perfino con
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ANDANDO PER MOSTRE
Ginevra, Pistoletto, installazione e
performance
la scelta degli abiti.
Fulcro portante il Terzo Paradiso,
affascinante emblema (mimato in mattinata
da più di 500 studenti ginevrini a
Plainpalais) creato dall’artista che ha
rielaborato il simbolo matematico di
infinito aggiungendovi un cerchio centrale
cosicché quelli laterali rappresentano uno il
Paradiso naturale in cui l’uomo è in
armonia con la natura, l’altro quello
artificiale ‘affetto’ da globalizzazione, uniti
tramite un cerchio più grande, il Terzo
Paradiso, grembo di una rinascita globale
in equilibrio con il pianeta.
Sotto l’iconica installazione di ca. 20 m. decorata con stoffe dei vari colori della
foresta dal marrone della corteccia, al
verde e al giallo delle foglie e dei fiori… di tale simbolo e in mezzo a pini, betulle,
magnolie e peschi, oltre alla mostra di
abiti e oggetti ecosostenibili, si sono
svolti una sfilata di moda con modelli di
giovani stilisti che utilizzano fibre di
aziende ecosostenibili della piattaforma
Fashion B.E.S.T. e un balletto con i
PRIMA MAtERIA
Negli affascinanti ambienti di Punta della
Dogana - luogo magico ristrutturato
dall’architetto Tadao Ando con una
razionalità rigorosamente essenziale che
ne esalta l’antico incanto - “Prima Materia”
in un momento di pluralismo globale in cui
il centro di gravità internazionale si sposta
verso Oriente evidenzia il valore
cosmopolita dell’arte, linguaggio universale
che trascende le diversità.
80 opere realizzate dal 1960 a oggi da
artisti della Collezione Pinault raccontano
tale periodo caratterizzato da guerre,
proteste e rivolte sociali attraverso un
‘dialogo’ tra artisti di aree geografiche e
culturali differenti, ‘dialogo’ che accosta e
paragona l’Arte Povera con il movimento
Mono-Ha (in cui si utilizzano legno e corda)
sorto in Giappone nei medesimi anni e
Mark Grotjahn, Turkish Forest
questi con lavori monografici di Llyn
Foulkes, Mark Grotjahn e Marlene Dumas.
Numerose installazioni sono state ridefinite
per gli spazi che le accolgono mentre in situ
sono state create ex novo alcune opere come
quelle di Loris Gréaud, Philippe Parreno e
Theaster Gates che prendono così parte alla
Andando per mostre
danzatori vestiti da tessuti ricavati dalle
piante nel segno della libertà, della
sostenibilità delle diverse attività e del
consumo responsabile.
↪ Ginevra: Palazzo delle Nazioni, Salle des
Pas Perdus, Avenue de la Paix 14
10:-12:00 e 14:00-16:00 da lunedì a sabato
(visite guidate)
Fino al 15 aprile 2014
Ingresso Onu: visite guidate a pagamento
Info: tel. 0041 229174896,
www.unece.org, www.cittadellarte.it
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Andando per mostre
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ANDANDO PER MOSTRE
progettazione dell’esposizione secondo la
filosofia di François Pinault che ama far
sbocciare le mostre attraverso il lavoro
diretto degli artisti. Per esplicitare tale
intento il mecenate francese da questa
esposizione inaugura con l’artista cinese
Zeng Fanzhi, seguito nell’aprile 2014
dall’americano Wade Guytonn, un ciclo di
commissioni ad hoc per il ‘Cubo’ - spazio
centrale di Punta della Dogana di cui è
baricentro architettonico e cuore simbolico
- affidando ogni anno a un artista il
compito di un progetto finalizzato.
Una mostra da guardare con calma per
riuscire a cogliere i molti input di varia
intensità e stabilire empatie come quella
affascinante con lo statunitense Mark
Grotjahn, fin da giovane attratto
dall’astrazione, che vive e lavora a Los
Angeles e nella serie Turkish Forest
(costituita da 9 opere) traduce
metaforicamente la situazione esistenziale
umana nella foresta del mondo e della vita.
↪ Venezia, Punta della Dogana, Dorsoduro 2
10:00-19 :00 da mercoledì a lunedì; la
biglietteria chiude 1 ora prima
Fino al 31 dicembre 2014
Biglietto mostra: intero € 15.00, ridotto €
10.00, scuole € 6.00
Info e prenotazioni: tel. 199 112 112 (a
pagamento), www.palazzograssi.it
Catalogo: Electa Editore
YEAR AFtER YEAR
Opere su carta dalla uBS Art Collection
Nelle affascinanti sale del primo piano di
Villa Reale (di stile neoclassico, opera
dell’architetto Leopoldo Pollack, allievo di
Giuseppe Piermarini, e dal 1921 sede della
Galleria d’Arte Moderna), la mostra
sancisce una costruttiva partnership tra la
GAM e UBS Art Collection - una delle
raccolte più importanti al mondo con più di
35.000 tra disegni, fotografie, sculture e
lavori di videoarte realizzati dagli anni ‘60
a oggi dai più importanti artisti
contemporanei a livello internazionale - che
con vari interventi si prefigge di valorizzare
la Galleria attraverso il restauro delle
collezioni esistenti e del percorso
espositivo permanente.
50 le opere esposte di 35 artisti: Frank
Auerbach, Charles Avery, Georg Baselitz,
Troy Brauntuch, Chuck Close, John Currin,
Charles Avery, Hunter's Cabin
Lucian Freud, Robert Gober, Jenny Holzer,
Roy Lichtenstein, Robert Longo, Sigmar
Polke, Ed Ruscha, Jim Shaw, Cy Twombly,
Robin Winters...
Organizzate per tematiche e realizzate su
carta proprio in un periodo in cui questa
sembra destinata alla scomparsa
soverchiata da numerosi strumenti
tecnologici, conservano un notevole
fascino proprio in virtù di tale materiale
apparentemente dal ruolo meno visibile
nella formazione della poetica di un artista,
ma non per questo meno essenziale
Opere raffinate come di Charles Avery
Hunter’s Cabin dalla straordinaria capacità di
esprimere attraverso linee filiformi alternate a
pennellate corpose l’anima complessa di un
cacciatore che rientra in una casa stracolma
di oggetti in cui ciascuno ha un suo posto nel
rigore logico maschile che così li ha
organizzati comprendendovi un cane,
ineludibile compagno, e un prudente gatto
che non ostenta la sua presenza. Non
mancano nomi più famosi come Bonnie
Camolin che in A Mermaid descrive gli
atteggiamenti psicologici tipici di chi si
mangia le unghie o ancora il celebre artista
della Pop Art Roy Lichtenstein che in Crying
Girl, disegno a inchiostro dalle linee
essenziali e sintetiche, raffigura una giovane
fanciulla in lacrime.
↪ Milano, GAM Galleria d’Arte Moderna,
Via Palestro 16
9:00-13:00 e 14:00-19:30 martedì,
mercoledì, venerdì, sabato e domenica;
giovedì fino alle 22:30
Fino al 21 giugno 2014
Ingresso gratuito
Info: tel. 02 88445947,
www.gam-milano.com
Catalogo: UBS Editore