Diapositiva 1 - Arcipelago itaca
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Diapositiva 1 - Arcipelago itaca
letterature, visioni ed altri percorsi ideatore e curatore: Danilo Mandolini AVVERTENZA. “Arcipelago itaca” blo-mag è un’iniziativa resa disponibile nel solo formato digitale e distribuita via e-mail e tramite internet (www.arcipelagoitaca.it), a circa 1.000 tra associazioni ed operatori culturali, riviste di letteratura e non, critici, scrittori ed estimatori vari. “Arcipelago itaca” blo-mag non è da considerarsi una testata giornalistica in quanto non ha periodicità e non può pertanto essere ritenuta un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 07.03.2001. Testi ed immagini contenuti in “Arcipelago itaca” blo-mag sono riprodotti, quando possibile e per lo più, previo espresso consenso dei relativi autori (sono sempre e in ogni caso citati gli autori e/o le fonti di reperimento). Arcipelago itaca è un marchio registrato. […] Ma ei non brama che veder dai tetti sbalzar della sua dolce Itaca il fumo, e poi chiuder per sempre al giorno i lumi. Omero, Odissea - Libro I Iscriviti al gruppo Facebook e segui da vicino tutte le nostre attività. https://www.facebook.com/groups/1017432441619677/ GRAND HOTEL IDOMENI Lo scorso 23 maggio – quando questa ventesima apparizione di “Arcipelago itaca” blo-mag vedeva l’inizio della sua lavorazione – le autorità greche hanno ufficialmente dato il via alle operazioni di sgombero del campo profughi di Idomeni. Questo: ancora nell’assoluta mancanza di chiarezza sulla sorte futura degli oltre ottomila ospiti di questo luogo-non luogo nel tempo divenuto simbolo di razzismo, discriminazione e sofferenza. http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/idomeni-profughi-migranti-bloccati-macedonia-grecia.aspx Sedici immagini liberamente raccolte sotto il titolo di GRAND HOTEL IDOMENI – e rimandanti, con i relativi link, ad altrettanti articoli presenti sul web – e due scatti di Gordon Matta-Clark commentano questa ventesima apparizione di “Arcipelago itaca” blo-mag In copertina (http://tark.org.tr/europe-must-open-the-borders-1144/) Echi Anteprima Arcipelago itaca Edizioni Guillaume Apollinaire Da Calligrammes - Poèmes de la paix et de la guerre / 1913-1916 Traduzione di Norma Stramucci Voci Anteprima Arcipelago itaca Edizioni Neapolitana membra di Vladimir D’Amora Casa rotta di Valentina Maini Con la nota di postfazione al volume di Stefano Colangelo Impossibile ritorno di Lucilla Niccolini Album di Claudio Salvi Con “luoghi in attesa. O soltanto vuoti” di Giulio Mozzi VETRINA SPECIALE Avrei fatto la fine di Turing di Franco Buffoni. Con contributi critici di Flavio Cogo e Simone Giusti VETRINA Abbonato al programma delle nuvole di Giampaolo De Pietro. Con una nota di lettura di Danilo Mandolini Echi 1 - 23 24 - 32 33 – X 33 - 42 43 - 50 51 - 61 62 - 82 83 - 97 Antologia dell’opera e della critica di e su: Salvatore Ritrovato SOLO INEDITI Da Gabbie in codice di Antonio Bux Da Liture di Riccardo Socci Collage Jaroslav Seifert Anteprima Arcipelago itaca Edizioni Guillaume Apollinaire Da Calligrammes - Poèmes de la paix et de la guerre / 1913-1916 Traduzione di Norma Stramucci Voci Anteprima Arcipelago itaca Edizioni Neapolitana membra di Vladimir D’Amora Casa rotta di Valentina Maini Con la nota di postfazione al volume di Stefano Colangelo Impossibile ritorno di Lucilla Niccolini Album di Claudio Salvi Con “luoghi in attesa. O soltanto vuoti” di Giulio Mozzi VETRINA SPECIALE Avrei fatto la fine di Turing di Franco Buffoni. Con contributi critici di Flavio Cogo e Simone Giusti VETRINA Abbonato al programma delle nuvole di Giampaolo De Pietro. Con una nota di lettura di Danilo Mandolini Antologia dell’opera e della critica di e su: 98 - 145 146 - 151 152 - 157 158 - 159 Salvatore Ritrovato SOLO INEDITI Da Gabbie in codice di Antonio Bux Da Liture di Riccardo Socci Collage Jaroslav Seifert Ventesima apparizione http://www.ekathimerini.com/206959/article/ekathimerini/news/greek-opposition-leader-visits-idomeni echi http://www.repubblica.it/esteri/2016/03/14/foto/migranti_cosi_passano_il_fiume_tra_grecia_e_macedonia135468138/1/#1 Anteprima Arcipelago itaca Edizioni Da Calligrammes Poèmes de la paix et de la guerre 1913-1916 di Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci ISTMI - Collana di traduzioni di opere in versi €uro 16,00 - ISBN 978-88-99429-10-2 Il volume è composto da una scelta di trentadue componimenti (testo originale e versione in italiano a fronte) e da una nota introduttiva a cura della traduttrice. Il libro è in formato 15 (base) x 21 cm (altezza), consta di 144 pagine in carta Avorio Sahara g/mq 120 e di una copertina stampata in 4 colori su carta Acquerello Avorio g/mq 240. A seguire (oltre alla bio-bibliografia di Guillaume Apollinaire e di Norma Stramucci): una selezione di dieci testi. Questi, i link relativi alla scheda di dettaglio del volume e alle modalità di acquisto dello stesso: http://www.arcipelagoitaca.it/wpcontent/uploads/2016/08/scheda_da_calligrammes.pdf; http://www.arcipelagoitaca.it/acquista/ Guillaume Apollinaire La vita e le opere 1 Guillaume Apollinaire, pseudonimo di Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wąż-Kostrowicki, nacque a Roma il 26 agosto del 1880 e morì a Parigi il 9 novembre del 1918. Ebbe un’adolescenza turbolenta e con studi irregolari, trascorsa però tra letture intensissime e numerosi viaggi. Conobbe e frequentò molti artisti dell’avanguardia parigina di inizio novecento. Tra questi: i poeti Giuseppe Ungaretti e Max Jacob e il pittore Pablo Picasso. Partecipò attivamente alle discussioni sul cubismo in gestazione. L'interesse per il moderno lo portò a sostenere anche il Futurismo e la pittura metafisica di Giorgio De Chirico. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale scelse di arruolarsi come volontario e combatté con il grado di Sottotenente. Nel 1916 venne ferito ad una tempia e subì un delicato intervento chirurgico. Nel luglio del 1918 sposò Jacqueline Kohl. All’inizio di novembre di quello stesso anno si ammalò di influenza spagnola. Il 9 novembre l’amico Giuseppe Ungaretti (che era accorso per comunicargli la vittoria dell’Intesa) lo trovò in stato d'incoscienza, e probabilmente già privo di vita, con accanto la moglie disperata. Ricoverato d’urgenza all'ospedale italiano di Parigi, venne subito dichiarato morto. È sepolto nel cimitero di Père Lachaise della capitale francese. Tra i numerosi lavori pubblicati nel corso della sua breve vita (si occupò anche di narrativa, di teatro e di critica d’arte), Alcools (1913) e Calligrammes. Poèmes de la paix et de la guerre 1913-1916 (1918) sono considerati i suoi due capolavori in versi. Tra le moltissime opere si ricordano, per la poesia: La vita e le opere • • • • • Le Bestiaire ou cortège d’Orphée (1911); Alcools (1913); Poèmes à Lou (1915) Vitam impendere amori (1917); Calligrammes - Poèmes de la paix et de la guerre 1913-1916 (1918). Pubblicazioni postume • • • • La Poésie symboliste (1919); Il y a (1925); Poèmes secrets à Madeleine (1949); Le Gu ninno cazzoetteur mélancolique (1952). per la narrativa: • • • • • • • • • 2 Mirely ou le Petit Trou pas cher (1900); Les Onze Mille Verges (1907); L'Enchanteur pourrissant (1909); L'Hérésiarque et Cie (novelle - 1910); Le Poète assassiné (novelle - 1914); Les Exploits d'un jeune Don Juan (1911); La Rome des Borgia (1913); La Fin de Babylone - L'Histoire romanesque 1/3 (1914); Les Trois Don Juan - L'Histoire romanesque 2/3 (1915). Pubblicazioni postume • La Femme assise (novelle - 1920). per il teatro: • • • Les Mamelles de Tirésias(1917); Couleurs du temps (1918); Casanova (1918). La nota introduttiva della traduttrice Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci Traducendo I Calligrammi di Apollinaire, nel rispetto dell’originale, al di là delle corrispondenze sintattiche e semantiche, ho cercato nell’italiano le parole che più mi paressero ubbidire al senso di quanto non è traducibile, quel filo d’anima che lega un granulo di significato all’altro granulo, ossia la stessa sostanza poetica. Nonostante l’apprezzamento espresso da Giovanni Raboni in una bella lettera (era il 2002): A me sembra decisamente un buon lavoro, motivato da un atteggiamento di fondo giustamente non-esibizionistico (capita molto spesso, a chi traduce ed è poeta in proprio…), ma non privo di soluzioni coraggiose […] il timore di avere troppo osato è stato motivo di un’opera tenuta nel cassetto per ben più dei nove anni raccomandati da Orazio. Ma Orazio, nella sua Ars poetica continua: Delere licebit quod non edideris. Ed io distruggere non ho voluto. Ringrazio quindi Arcipelago itaca Edizioni, nella persona di Danilo Mandolini, per avere dato l’opportunità alla mia voce di traduttrice di lanciarsi all’esterno, non tornando più indietro: nescit vox missa reverti. Propongo qui una scelta di trentadue componimenti (testo originale e versione in italiano a fronte) dove l’intento dichiarato in apertura di questa nota credo abbia trovato l’occasione in assoluto migliore per compiersi. Dedico il mio lavoro (tutto e dunque anche quest’ultimo che “vede la luce” oggi) alla memoria di colui al quale lo devo: il mio maestro – maestro anche di traduzione – Franco Scataglini. Norma Stramucci, marzo 2016 3 *** I testi che seguono sono tratti da Da Calligrammes - Poèmes de la paix et de la guerre / 1913-1916 di Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci (Osimo - AN, Arcipelago itaca Edizioni 2016). Selezione a cura di Danilo Mandolini Da Calligrammes Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci 4 Da ONDES LES FENÊTRES LE FINESTRE Du rouge au vert tout le jaune se meurt Quand chantent les aras dans les forêts natales Abatis de pihis Il y a un poème à faire sur l’oiseau qui n’a qu’une aile Nous l’enverrons en message téléphonique Traumatisme géant Il fait couler les yeux Voilà une jolie jeune fille parmi les jeunes Turinaises Le pauvre jeune homme se mouchait dans sa cravate [blanche Tu soulèveras le rideau Et maintenant voilà que s’ouvre la fenêtre Araignées quand les mains tissaient la lumière Beauté pâleur insondable violets Nous tenterons en vain de prendre du repos On commencera à minuit Quand on a le temps on a la liberté Bigorneaux Lotte multiples Soleils et l’Oursin du [couchant Une vieille paire de chaussures jaunes devant la [fenêtre Tours Les Tours ce sont les rues Puits Dal rosso al verde tutto il giallo si spegne Se cantano gli ara nelle loro finestre Strazio di pihì C’è da scrivere un poema sull’uccello che ha solo [un’ala Per telefono lo diffonderemo Trauma enorme Si piange per questo Ecco una gaia ragazzina fra quelle di Torino Il povero ragazzo soffiava il suo naso sulla cravatta [bianca Tu rimuoverai la tenda E all’improvviso si apre la finestra Ragni se le mani tessevano la luce Bellezza pallore inconoscibili violetti Inutilmente proveremo ad adagiarci nel riposo Si comincerà a mezzanotte Il tempo coincide con la libertà Lumachine Lasca molteplici Soli e il Riccio del [tramonto Un paio di scarpe vecchie e gialle davanti alla finestra Torri Le torri sono strade Pozzi Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci 5 Puits ce sont les places Puits Arbres creux qui abritent les Câpresses vagabondes Les Chabins chantent des airs à mourir Aux Chabines marronnes Et l’oie oua-oua trompette au nord Où les chasseurs de ratons Raclent les pelleteries Étincelant diamant Vancouver Où le train blanc de neige et de feux nocturnes fuit [l’hiver O Paris Du rouge au vert tout le jaune se meurt Paris Vancouver Hyères Maintenon New-York et les [Antilles La fenêtre s’ouvre comme une orange Le beau fruit de la lumière Pozzi si fanno le piazze Pozzi Il cavo degli alberi che danno rifugio alle mulatte [vagabonde Gli Sciabini cantano a morirne Per donne che ripudiano l’amore E l’oca rimbomba col suo verso a nord Dove si uccidono gli orsetti lavatori Si raschiano le pelli Diamante cristallino Vancouver Dove il treno bianco della neve e dei fuochi della notte [fugge dall’inverno O Parigi Dal rosso al verde tutto il giallo si spegne Parigi Vancouver Hyères Maintenon New York e le [Antille La finestra si apre come un’arancia Il frutto pieno della luce LUNDI RUE CHRISTINE Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci La mère de la concierge et la concierge laisseront tout [passer Si tu es un homme tu m’accompagneras ce soir Il suffirait qu’un type maintînt la porte cochère Pendant que l’autre monterait Trois becs de gaz allumés La patronne est poitrinaire Quand tu auras fini nous jouerons une partie de [jacquet Un chef d’orchestre qui a mal à la gorge Quand tu viendras à Tunis je te ferai fumer du kief Ça a l’air de rimer Des piles de soucoupes des fleurs un calendrier Pim pam pim Je dois fiche près de 300 francs à ma probloque Je préférerais me couper le parfaitement que de les lui [donner 6 Je partirai à 20 h. 27 Six glaces s’y dévisagent toujours Je crois que nous allons nous embrouiller encore [davantage Cher monsieur Vous êtes un mec à la mie de pain Cette dame a le nez comme un ver solitaire Louise a oublié sa fourrure Moi je n’ai pas de fourrure et je n’ai pas froid Le Danois fume sa cigarette en consultant l’horaire Le chat noir traverse la brasserie Ces crêpes étaient exquises LUNEDÍ RUE CHRISTINE Faranno finta di niente la portinaia e sua madre Questa sera mi accompagnerai se sei un uomo Sarà sufficiente che uno faccia la guardia al portone Mentre l’altro sale Sono accesi tre fornelli a gas La padrona soffre di tubercolosi Faremo una partita a tric-trac quando avrai finito Ha mal di gola un direttore d’orchestra Ti offrirò hashish da fumare quando verrai a Tunisi Sembrano parole in rima Una fila di piattini fiori e un calendario Pim pam pim Quasi 300 franchi devo dare d’affitto alla mia padrona Preferirei tagliarmelo piuttosto che pagarla Alle 20 e 27 partirò In continuazione sei specchi si fissano Mi sembra che stiamo a complicarci sempre di più Caro signore Siete un uomo che non vale due soldi A un verme solitario assomiglia il naso di quella [donna Luisa ha dimenticato la pelliccia Io non la indosso e non ho freddo Il Danese fuma e controlla l’orario Il gatto nero passa per la birreria Erano buone queste frittelle Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci La fontaine coule Robe noire comme ses ongles C’est complètement impossible Voici monsieur La bague en malachite Le sol est semé de sciure Alors c’est vrai La serveuse rousse a été enlevée par un libraire La fontana gocciola Nero il vestito come le unghie Non è concepibile Ecco signore L’anello di malachite C’è segatura per terra E ciò dimostra che è vero Un libraio ha rapito la cameriera rossa Un journaliste que je connais d’ailleurs très [vaguement Un giornalista che conosco del resto molto poco Jacques attento ti dirò cose essenziali Écoute Jacques c’est très sérieux ce que je vais te dire Compagnia di navigazione mista Compagnie de navigation mixte Il me dit monsieur voulez-vous voir ce que je peux [faire d’eaux-fortes et de tableaux Je n’ai qu’une petite bonne 7 Après déjeuner café du Luxembourg Une fois là il me présente un gros bonhomme Qui me dit Écoutez c’est charmant A Smyrne à Naples en Tunisie Mais nom de Dieu où est-ce La dernière fois que j’ai été en Chine C’est il y a huit ou neuf ans L’Honneur tient souvent à l’heure que marque la [pendule La quinte major Mi disse guardi signore che cosa so fare in acqueforti e [quadri Io però ho solo una servetta Dopo pranzo al caffè del Luxemburg Una volta là mi fa incontrare un uomo grande e grosso Che mi dice Mi stia a sentire è divertente A Smirne a Napoli in Tunisia Ma dove mio Dio Sono trascorsi otto o nove anni Da quando sono stato l’ultima volta in Cina L’Onore sta spesso nell’ora che segna il pendolo La quinta maggiore Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci 8 LE MUSICIEN DE SAINT-MERRY IL MUSICANTE DI SAINT-MERRY J’ai enfin le droit de saluer des êtres que je ne connais [pas Ils passent devant moi et s’accumulent au loin Tandis que tout ce que j’en vois m’est inconnu Et leur espoir n’est pas moins fort que le mien E avrò pure il diritto di salutare la gente che mi è [sconosciuta Mi passa davanti e va tutta insieme lontano Intanto tutto quello che vedo di lei mi è estraneo Ma la sua speranza è forte quanto la mia Je ne chante pas ce monde ni les autres astres Io non canto questo mondo e neppure le altre stelle Je chante toutes les possibilités de moi-même hors de [ce monde et des astres Io canto di ogni luogo che ho dentro al di là della terra [e dei pianeti Je chante la joie d’errer et le plaisir d’en mourir Io canto la gioia di andarmene in giro e il piacere di [morirne Le 21 du mois de mai 1913 Passeur des morts et les mordonnantes mériennes Des millions de mouches éventaient une splendeur Quand un homme sans yeux sans nez et sans oreilles Quittant le Sébasto entra dans la rue Aubry-le[Boucher Jeune l’homme était brun et ce couleur de fraise sur [les joues Homme Ah ! Ariane Il jouait de la flûte et la musique dirigeait ses pas Il s’arrêta au coin de la rue Saint-Martin Jouant l’air que je chante et que j’ai inventé Les femmes qui passaient s’arrêtaient près de lui Il en venait de toutes parts Lorsque tout à coup les cloches de Saint-Merry se [mirent à sonner Le musicien cessa de jouer et but à la fontaine Il 21 maggio 1913 Nocchiero dei morti prostitute che danno piacere [caduco Milioni di mosche sventolavano fulgore Quando un uomo che non aveva occhi naso e orecchie Lasciando il Sébasto entrò in rue Aubry-le Boucher Giovane e bruno e con il colore della fragola alle [guance Uomo Ah! Arianna Suonava il flauto e la musica dirigeva i suoi passi Si fermò all’angolo di rue Saint-Martin Suonando l’aria che io canto e che ho inventato Le donne che passavano gli si fermavano accanto Ne arrivavano da ogni parte Poi tutto a un tratto le campane di Saint-Merry si [misero a disturbarlo Il musicante smise di suonare e bevve alla fontana Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci Qui se trouve au coin de la rue Simon-Le-Franc Puis Saint-Merry se tut L’inconnu reprit son air de flûte Et revenant sur ses pas marcha jusqu’à la rue de la [Verrerie Où il entra suivi par la troupe des femmes Qui sortaient des maisons Qui venaient par les rues traversières les yeux fous Les mains tendues vers le mélodieux ravisseur Il s’en allait indifférent jouant son air Il s’en allait terriblement Puis ailleurs A quelle heure un train partira-t-il pour Paris A ce moment Les pigeons des Moluques fientaient des noix [muscades En même temps Mission catholique de Bôma qu’as-tu fait du [sculpteur Ailleurs Elle traverse un pont qui relie Bonn à Beuel et [disparaît à travers Pützchen 9 Au même instant Une jeune fille amoureuse du maire Dans un autre quartier Rivalise donc poète avec les étiquettes des [parfumeurs En somme ô rieurs vous n’avez pas tiré grand-chose [des hommes Che si trova all’angolo di rue Simon-Le-Franc E dopo Saint-Merry fece silenzio Lo sconosciuto riprese a suonare il flauto E tornando indietro scese fino a rue de la Verreire E vi entrò seguito dalla fila delle donne Che uscivano dalle case Giunte da vie traverse con gli occhi pazzi Le mani protese al melodioso incantatore Lui se ne andava incurante suonando la sua aria Terribilmente procedeva D’altronde in altro luogo A quale ora un treno partirà per Parigi In quel momento Dai piccioni delle Molucche cadevano feci a noci [moscate Nello stesso momento Missione cattolica di Bôma che ne hai fatto dello [scultore In un altro posto Lei attraversa un ponte che unisce Bonn a Beuel e [scompare mentre passa per Pützchen In quell’istante preciso Una giovane donna innamorata del sindaco In un altro quartiere Forza poeta fai a gara con le etichette dei profumieri Insomma voi che beffeggiate granché dagli uomini [non avete tirato fuori Et à peine avez-vous extrait un peu de graisse de leur [misère Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci Mais nous qui mourons de vivre loin l’un de l’autre Tendons nos bras et sur ces rails roule un long train [de marchandises Tu pleurais assise près de moi au fond du fiacre Et maintenant Tu me ressembles tu me ressembles [malheureusement Nous nous ressemblions comme dans l’architecture [du siècle dernier Ces hautes cheminées pareilles à des tours Solamente un po’ di grasso dalla loro miseria Ma noi che ci consumiamo per vivere lontani l’uno [dall’altro Ci tendiamo le braccia e su questi binari corre un [lungo treno merci Piangevi sedutami accanto in fondo alla carrozza E adesso Che enorme sciagura tu mi assomigli Noi due siamo uguali e come nell’edilizia dell’altro [secolo Quelle alte ciminiere simili a torri Andiamo verso il cielo e non tocchiamo più terra Nous allons plus haut maintenant et ne touchons plus [le sol Et tandis que le monde vivait et variait Le cortège des femmes long comme un jour sans pain Suivait dans la rue de la Verrerie l’heureux musicien Cortèges ô cortèges C’est quand jadis le roi s’en allait à Vincennes Quand les ambassadeurs arrivaient à Paris Quand le maigre Suger se hâtait vers la Seine Quand l’émeute mourait autour de Saint-Merry 10 Cortèges ô cortèges Les femmes débordaient tant leur nombre était grand Dans toutes les rues avoisinantes Et se hâtaient raides comme balle Afin de suivre le musicien E intanto che il mondo viveva e cambiava La fila delle donne lunga quanto un giorno senza [pane In rue de la Verrerie camminava dietro al musicante [festoso Cortei o cortei Come quando un tempo il re se ne andava a [Vincennes Quando gli ambasciatori arrivavano a Parigi Quando il magro Suger s’affrettava verso la Senna Quando la rivolta si spegneva attorno a Saint-Merry Cortei o cortei Le donne finivano per quante ne erano In tutte le strade vicine E sembravano pallottole tanto erano rapide A seguire il musicante Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci Ah ! Ariane et toi Pâquette et toi Amine Et toi Mia et toi Simone et toi Mavise Et toi Colette et toi la belle Geneviève Elles ont passé tremblantes et vaines Et leurs pas légers et prestes se mouvaient selon la [cadence De la musique pastorale qui guidait Leurs oreilles avides L’inconnu s’arrêta un moment devant une maison à [vendre Maison abandonnée Aux vitres brisées C’est un logis du seizième siècle La cour sert de remise à des voitures de livraisons C’est là qu’entra le musicien Sa musique qui s’éloignait devint langoureuse Les femmes le suivirent dans la maison abandonnée Et toutes y entrèrent confondues en bande Toutes toutes y entrèrent sans regarder derrière elles Sans regretter ce qu’elles ont laissé Ce qu’elles ont abandonné Sans regretter le jour la vie et la mémoire Il ne resta bientôt plus personne dans la rue de la [Verrerie Sinon moi-même et un prêtre de Saint-Merry Ah! Arianna e tu Pâquette e tu Amine E tu Mia e tu Simone e tu Mavise E tu Colette e tu bella Geneviève Sono trascorse tremolanti e vane E i loro passi svelti e lievi seguivano la melodia Della musica pastorale che attraeva La loro famelica voglia di ascoltare Un attimo lo sconosciuto si fermò di fronte a una casa [che si vendeva Casa disabitata Dai vetri in pezzi Abitata nel sedicesimo secolo La corte fa da rimessa alle vetture dei corrieri Il musicante vi entrò La sua musica che s’allontanava dava un che di [struggente Anche le donne invasero la casa E tutte vi entrarono in un’orda confusa Tutte tutte vi entrarono senza voltarsi Senza rimpiangere quello che lasciavano Le cose abbandonate Senza rimpiangere il giorno la vita e la memoria In poco tempo fu deserta rue de la Verreire Solo io vi rimasi e un prete di Saint-Merry Entrammo nella vecchia casa 11 Nous entrâmes dans la vieille maison Ma non c’era nessuno Mais nous n’y trouvâmes personne Voici le soir A Saint-Merry c’est l’Angélus qui sonne Cortèges ô cortèges C’est quand jadis le roi revenait de Vincennes Adesso è sera A Saint-Merry l’unico suono è l’Angelus Cortei o cortei Come quando un tempo il re se ne tornava da [Vincennes Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci 12 Il vint une troupe de casquettiers Il vint des marchands de bananes Il vint des soldats de la garde républicaine O nuit Troupeau de regards langoureux des femmes O nuit Toi ma douleur et mon attente vaine J’entends mourir le son d’une flûte lointaine Giunse una folla di gente con il berretto Giunsero venditori di banane Giunsero soldati della guardia repubblicana O notte Mucchio di sguardi languidi delle donne O notte Tu mio dolore e mia inutile attesa Ascolto il suono in agonia di un flauto lontano Da CASE D’ARMONS Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci 13 TOUJOURS A Madame Faure-Favier SEMPRE Alla signora Faure-Favier Toujours Nous irons plus loin sans avancer jamais Sempre Senza muoverci andremo più lontano Et de planète en planète De nébuleuse en nébuleuse Le don Juan des mille et trois comètes Même sans bouger de la terre Cherche les forces neuves Et prend au sérieux les fantômes E di pianeta in pianeta Di nebulosa in nebulosa Il don Giovanni delle mille e tre comete Non si stacca dalla terra Per cercare forze nuove E prendere sul serio i fantasmi Et tant d’univers s’oublient Quels sont les grands oublieurs Qui donc saura nous faire oublier telle ou telle partie [du monde Où est le Christophe Colomb à qui l’on devra l’oubli [d’un continent E tanti universi dimenticano se stessi Ci sono i grandi capaci di fare perdere la memoria Chi dunque saprà farci dimenticare questa o quella [parte di mondo Dov’è il Cristoforo Colombo al quale si dovrà l’oblio [di un continente Perdre Mais perdre vraiment Pour laisser place à la trouvaille Perdre La vie pour trouver la Victoire Perdere Ma perdere veramente Per lasciare il posto a ciò che può capitare Perdere La vita per trovare la Vittoria Da LUEURS DES TIRS Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci 14 LES FEUX DU BIVOUAC I FUOCHI DEL BIVACCO Les feux mouvants du bivouac Éclairent des formes de rêve Et le songe dans l’entrelac Des branches lentement s’élève I fuochi mobili del bivacco Fanno luce a forme di sogno Che nel viluppo dei rami Lentamente si eleva Voici les dédains du regret Tout écorché comme une fraise Le souvenir et le secret Dont il ne reste que la braise Ecco gli sdegni del rimpianto Sbucciato come una fragola Il ricordo e il segreto Dei quali resta solo la brace L’INSCRIPTION ANGLAISE Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci C’est quelque chose de si ténu de si lointain Que d’y penser on arrive à le trop matérialiser Forme limitée par la mer bleue Par la rumeur d’un train en marche Par l’odeur des eucalyptus des mimosas Et des pins maritimes Mais le contact et la saveur È qualcosa di tanto tenue e lontano Che a pensarci si arriva a farla consistente Forma limitata dal mare azzurro Dal rumore di un treno in cammino Dall’odore degli eucalipti delle mimose E dei pini marittimi Ma il contatto e il sapore Et cette petite voyageuse alerte inclina brusquement [la tête sur le quai de la gare à Marseille Et s’en alla Sans savoir Que son souvenir planerait Sur un petit bois de la Champagne où un soldat [s’efforce Devant le feu d’un bivouac d’évoquer cette [apparition A travers la fumée d’écorce de bouleau Qui sent l’encens minéen Tandis que les volutes bleuâtres qui montent D’un cigare écrivent le plus tendre des noms E attenta la piccola viaggiatrice ha inclinato [bruscamente il capo sul marciapiede della stazione a [Marsiglia Poi se ne è andata Senza sapere Che il suo ricordo sarebbe volato basso Su di un boschetto della Champagne dove un soldato [vorrebbe Davanti al fuoco di un bivacco richiamare alla mente [quell’apparizione Attraverso il fumo di scorza di betulla Che ha l’aroma dell’incenso minoico Mentre le volute bluastre che salgono Da un sigaro scrivono il più tenero dei nomi Mais les noeuds de couleuvres en se dénouant Écrivent aussi le nom émouvant Dont chaque lettre se love en belle anglaise 15 L’ISCRIZIONE INGLESE Et le soldat n’ose point achever Le jeu de mots bilingue que ne manque point de [susciter Cette calligraphie sylvestre et vernale Ma i nodi di serpi che si sciolgono Scrivono anche il nome che commuove Con ogni lettera che in tondo si dispone in [bell’inglese E il soldato non osa mettere fine Al gioco di parole in due lingue che non manca di [suscitare Questa calligrafia boschiva e primaverile Da OBUS COULEUR DE LUNE Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci 16 IL Y A C’È Il y a un vaisseau qui a emporté ma bien-aimée Il y a dans le ciel six saucisses et la nuit venant on [dirait des asticots dont naîtraient les étoiles Il y a un sous-marin ennemi qui en voulait à mon [amour Il y a mille petits sapins brisés par les éclats d’obus [autour de moi Il y a un fantassin qui passe aveuglé par les gaz [asphyxiants Il y a que nous avons tout haché dans les boyaux de [Nietzsche de Goethe et de Cologne Il y a que je languis après une lettre qui tarde Il y a dans mon porte-carte plusieurs photos de mon [amour Il y a les prisonniers qui passent la mine inquiète Il y a une batterie dont les servants s’agitent autour [des pièces Il y a le vaguemestre qui arrive au trot par le chemin [de l’Arbre isolé Il y a dit-on un espion qui rôde par ici invisible [comme l’horizon dont il s’est indignement revêtu et [avec quoi il se confond Il y a dressé comme un lys le buste de mon amour Il y a un capitaine qui attend avec anxiété les [communications de la T.S.F. sur l’Atlantique Il y a à minuit des soldats qui scient des planches [pour les cercueils Il y a des femmes qui demandent du maïs à grands [cris devant un Christ sanglant à Mexico Il y a le Gulf Stream qui est si tiède et si bienfaisant C’è una nave che si è presa la donna che amo Ci sono nel cielo sei palloni frenati e quando si fa [notte li diresti larve dalle quali sembra che stiano [per nascere le stelle C’è un sottomarino nemico che ce l’aveva con il mio [amore Ci sono mille piccoli abeti spezzati dalle schegge di [granata intorno a me C’è un fantaccino che passa accecato dai gas [asfissianti C’è che abbiamo fatto tutto a pezzi nei camminamenti [di Nietzsche di Goethe e di Cologne C’è che soffro per una lettera che non arriva Ci sono parecchie foto del mio amore nel portacarte Ci sono i prigionieri che passano trasudando ansia C’è una batteria coi serventi che si agitano intorno ai [pezzi C’è il portalettere che arriva al trotto dal sentiero [dell’albero isolato C’è si dice una spia che di qui si aggira invisibile [come l’orizzonte del quale si è indegnamente [rivestita e con il quale si confonde C’è dritto come un giglio il busto del mio amore C’è un capitano che attende con trepidazione le [comunicazioni del T S F sull’Atlantico Ci sono alcuni soldati a mezzanotte che segano assi [per le bare Ci sono donne che chiedono mais ad alta voce [davanti a un Cristo che sanguina in Messico C’è la corrente del Golfo che è così temperata e [benefica Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci 17 Il y a un cimetière plein de croix à 5 kilomètres Il y a des croix partout de-ci de-là Il y a des figues de Barbarie sur ces cactus en Algérie Il y a les longues mains souples de mon amour Il y a un encrier que j’avais fait dans une fusée de 15 [centimètres et qu’on n’a pas laissé partir Il y a ma selle exposée à la pluie Il y a les fleuves qui ne remontent pas leur cours Il y a l’amour qui m’entraîne avec douceur Il y avait un prisonnier boche qui portait sa [mitrailleuse sur son dos Il y a des hommes dans le monde qui n’ont jamais été [à la guerre Il y a des Hindous qui regardent avec étonnement les [campagnes occidentales Ils pensent avec mélancolie à ceux dont ils se [demandent s’ils les reverront Car on a poussé très loin durant cette guerre l’art de [l’invisibilité C’è un cimitero pieno di croci a 5 chilometri Ci sono croci dappertutto di qua di là Ci sono fichi di Barberia su quei cactus in Algeria Ci sono le lunghe mani agili del mio amore C’è un calamaio che avevo fatto con un razzo di 15 [centimetri e che non è mai partito C’è la mia sella esposta alla pioggia Ci sono i fiumi che non risalgono il loro corso C’è l’amore che mi trasporta con dolcezza C’è un prigioniero tedesco che sulle spalle si portava [la mitragliatrice Ci sono uomini nel mondo che mai hanno fatto la [guerra Ci sono degli Indù che guardano con meraviglia le [campagne occidentali Pensano con malinconia a quelli che si chiedono se [rivedranno Perché molto lontano durante questa guerra si è [spinta l’arte dell’invisibilità Da LA TÊTE ÉTOILÉE SOUVENIRS Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci 18 Deux lacs nègres Entre une forêt Et une chemise qui sèche RICORDI Due laghi negri Tra una foresta E una camicia che asciuga Bouche ouverte sur un harmonium C’était une voix faite d’yeux Tandis qu’il traîne de petites gens Bocca schiusa sull’armonium Era una voce fatta di occhi A trascinare la piccola gente Une toute petite vieille au nez pointu J’admire la bouillotte d’émail bleu Mais le rat pénètre dans le cadavre et y demeure Una vecchietta minuta dal naso a punta Ammiro lo scaldino smaltato di blu Ma il ratto penetra nel morto e ci resta Un monsieur en bras de chemise Se rase près de la fenêtre En chantant un petit air qu’il ne sait pas très bien Ça fait tout un opéra Un signore in maniche di camicia Si rade vicino alla finestra Cantando un’aria che non conosce bene Fa molto opera Toi qui te tournes vers le roi Est-ce que Dieu voudrait mourir encore Tu che ti volti al re Quasi che Dio volesse ancora morire CHEVAUX DE FRISE Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci 19 CAVALLI DI FRISIA Pendant le blanc et nocturne novembre Alors que les arbres déchiquetés par l’artillerie Vieillissaient encore sous la neige Et semblaient à peine des chevaux de frise Entourés de vagues de fils de fer Mon coeur renaissait comme un arbre au printemps Un arbre fruitier sur lequel s’épanouissent Les fleurs de l’amour Durante il bianco e notturno novembre Quando gli alberi lacerati dall’artiglieria Avvizzivano ancora di più sotto la neve E quasi sembravano cavalli di frisia Avvolti da onde di filo di ferro Il mio cuore rinverdiva come un albero a primavera Un albero da frutto sul quale si dischiudono I fiori dell’amore Pendant le blanc et nocturne novembre Tandis que chantaient épouvantablement les obus Et que les fleurs mortes de la terre exhalaient Leurs mortelles odeurs Moi je décrivais tous les jours mon amour à [Madeleine La neige met de pâles fleurs sur les arbres Et toisonne d’hermine les chevaux de frise Que l’on voit partout Abandonnés et sinistres Chevaux muets Non chevaux barbes mais barbelés Et je les anime tout soudain En troupeau de jolis chevaux pies Qui vont vers toi comme de blanches vagues Sur la Méditerranée Et t’apportent mon amour Roselys ô panthère ô colombes étoile bleue ô Madeleine Je t’aime avec délices Si je songe à tes yeux je songe aux sources fraîches Si je pense à ta bouche les roses m’apparaissent Si je songe à tes seins le Paraclet descend O double colombe de ta poitrine Et vient délier ma langue de poète Durante il bianco e notturno novembre Mentre cantavano tremendamente le granate E i fiori morti della terra esalavano I loro mortali odori Io ogni giorno descrivevo il mio amore a Madeleine La neve appoggia pallidi fiori sugli alberi E ammanta di ermellino i cavalli di frisia Che si vedono ovunque Abbandonati e sinistri Cavalli muti Non cavalli berberi ma dall’ispido pelo E io ad un tratto li animo In mandria di bei cavalli pezzati Che vanno verso di te come onde bianche Sul Mediterraneo E ti consegnano il mio amore Rosagiglio o pantera o colombe stella azzurra O Madeleine Io ti amo con delizia Se sogno i tuoi occhi sogno sorgenti fresche Se penso alla tua bocca mi appaiono le rose Se sogno i tuoi seni il Paracleto discende O doppia colomba del tuo petto E viene a sciogliere la mia lingua di poeta Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci 20 Pour te redire Je t’aime Ton visage est un bouquet de fleurs Aujourd’hui je te vois non Panthère Mais Toutefleur Et je te respire ô ma Toutefleur Tous les lys montent en toi comme des cantiques [d’amour et d’allégresse Et ces chants qui s’envolent vers toi M’emportent à ton côté Dans ton bel Orient où les lys Se changent en palmiers qui de leurs belles mains Me font signe de venir La fusée s’épanouit fleur nocturne Quand il fait noir Et elle retombe comme une pluie de larmes [amoureuses De larmes heureuses que la joie fait couler Et je t’aime comme tu m’aimes Madeleine Per ridirti Ti amo Il tuo viso è un mazzo di fiori Oggi ti vedo non Pantera Ma Tuttofiore E ti respiro mia Tuttofiore Tutti i gigli salgono in te come cantici di amore e di [allegria E i canti che s’involano a te Mi conducono al tuo fianco Nel tuo bell’Oriente dove i gigli Si cambiano in palmeti che con le belle mani Mi fanno segno di venire Il razzo si apre notturno fiore Quando si fa notte E ricade come una pioggia di lacrime amorose Di lacrime felici che la gioia fa cadere E io ti amo come tu mi ami Madeleine Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci LA JOLIE ROUSSE LA BELLA ROSSA Me voici devant tous un homme plein de sens Connaissant la vie et de la mort ce qu’un vivant peut [connaître Ayant éprouvé les douleurs et les joies de l’amour Ayant su quelquefois imposer ses idées Connaissant plusieurs langages Ayant pas mal voyagé Ayant vu la guerre dans l’Artillerie et l’Infanterie Blessé à la tête trépané sous le chloroforme Ayant perdu ses meilleurs amis dans l’effroyable [lutte Je sais d’ancien et de nouveau autant qu’un homme [seul pourrait des deux savoir Et sans m’inquiéter aujourd’hui de cette guerre Entre nous et pour nous mes amis Je juge cette longue querelle de la tradition et de [l’invention De l’Ordre et de l’Aventure Eccomi davanti a tutti un uomo pieno di senno Che intende la vita e la morte per quanto un vivo può [sapere Che ha provato i tormenti e i piaceri dell’amore Che talvolta è stato capace di imporre le sue idee Che conosce più lingue Che alquanto ha viaggiato Che ha visto la guerra in Artiglieria e Fanteria Ferito alla testa trapanato sotto cloroformio Che ha perso i più cari amici nella orribile lotta So dell’antico e del nuovo quello che un uomo solo [potrebbe dei due sapere E senza angosciarmi oggi di questa guerra Tra noi e per noi amici miei Io giudico questa lunga discordia della tradizione e [dell’invenzione Dell’Ordine e dell’Avventura Vous dont la bouche est faite à l’image de celle de [Dieu Bouche qui est l’ordre même Soyez indulgents quand vous nous comparez A ceux qui furent la perfection de l’ordre Nous qui quêtons partout l’aventure 21 Nous ne sommes pas vos ennemis Nous voulons vous donner de vastes et d’étranges domaines Où le mystère en fleurs s’offre à qui veut le [cueillir Il y a là des feux nouveaux des couleurs jamais vues Mille phantasmes impondérables Auxquels il faut donner de la réalité Voi che nella bocca avete l’immagine di Dio Bocca che è l’ordine stesso Siate indulgenti nel paragonarmi A quelli che furono la perfezione dell’ordine Noi che ovunque cerchiamo l’avventura Non vi siamo nemici Vogliamo darvi terre grandi e strane Dove a chi vuole coglierlo si offre il mistero in fiore Là sono nuovi fuochi e colori mai visti Mille imponderabili fantasmi Che bisogna rendere veri Guillaume Apollinaire Traduzione di Norma Stramucci Nous voulons explorer la bonté contrée énorme où [tout se tait Il y a aussi le temps qu'on peut chasser ou faire [revenir Pitié pour nous qui combattons toujours aux [frontières De l'illimité et de l'avenir Pitié pour nos erreurs pitié pour nos péchés Voici que vient l'été la saison violente Et ma jeunesse est morte ainsi que le printemps O Soleil c'est le temps de la Raison ardente Et j'attends Pour la suivre toujours la forme noble et douce Qu'elle prend afin que je l'aime seulement Elle vient et m'attire ainsi qu'un fer l'aimant Elle a l'aspect charmant D'une adorable rousse Ses cheveux sont d'or on dirait Un bel éclair qui durerait Ou ces flammes qui se pavanent Dans les roses-thé qui se fanent 22 Mais riez riez de moi Hommes de partout surtout gens d'ici Car il y a tant de choses que je n'ose vous dire Tant de choses que vous ne me laisseriez pas dire Ayez pitié de moi Vogliamo esplorare la realtà vasta contrada dove [tutto tace C’è anche il tempo che puoi cacciare o far ritornare Pietà per noi che sempre combattiamo alle frontiere Dell’illimitato e dell’avvenire Pietà per i nostri errori e peccati Ecco che viene l’estate stagione violenta Ed è morta la mia giovinezza come la primavera O Sole è il tempo della Ragione ardente E aspetto Per inseguirla sempre la forma nobile e dolce Che lei prende affinché io solo la ami Arriva e mi attrae come il ferro la calamita Ha l’aspetto che innamora Di una adorabile rossa Le diresti d’oro i capelli Un bel lampo che non finisce O le fiamme di superbia Sulle rose-tee che si sfanno Ridete pure di me Uomini di ogni luogo e più forte se siete gente di qui Perché esistono tante cose che non ho il coraggio di [dire Tante cose che non mi lascereste spiegare Abbiate pietà di me Norma Stramucci È nata a Recanati, dove vive e svolge la professione di insegnante. È maturata alla scrittura, e alla poesia in particolare (nonché alla traduzione della poesia straniera in italiano), con la guida di Franco Scataglini. Oltre a numerosi articoli e recensioni ha pubblicato: L’oro unto (con una Nota di Massimo Raffaeli, Tracce 1995), Erica (con l’Introduzione di Romano Luperini, Manni 2000), Del celeste confine (con una Nota di Mario Luzi, Manni 2003), Il cielo leggero (con una Nota di Massimo Raffaeli, Azimut 2008), Lettera da una professoressa (con l’Introduzione di Maurizio Viroli, Manni 2009) e Se mi lasci ti uccido. Variazioni sul tema (AbelBook 2012). Il volume di cui alle anticipazioni delle pagine precedenti rappresenta un ampio e significativo estratto dal lavoro di traduzione integrale, svolto nell’arco temporale di più di un decennio, dei Calligrammes di Apollinaire ed è altresì la prima pubblicazione dell’autrice in ambito traduttivo. http://www.normastramucci.com/ 23 http://www.thepeninsulaqatar.com/news/international/373842/greece-says-will-fix-idomeni-campoverflow-within-week voci http://www.ilpost.it/2016/03/07/idomeni-ultimi-giorni/ Anteprima Arcipelago itaca Edizioni Neapolitana membra di Vladimir D’Amora 1a edizione Premio "Arcipelago itaca" per una raccolta inedita di versi €uro 11,00 - ISBN 978-88-99429-04-1 Il volume è composto da trenta testi di Vladimir D’Amora preceduti dalla motivazione della 1a edizione del Premio “Arcipelago itaca” per una raccolta inedita di versi. Il libro è in formato 15 (base) x 21 cm (altezza), consta di 52 pagine in carta Avorio Sahara g/mq 120 e di una copertina stampata in 4 colori su carta Acquerello Avorio g/mq 240. A seguire (oltre alla bio-bibliografia di Vladimir D’Amora e alla motivazione del Premio): otto testi dell’autore. Questi, i link relativi alla scheda di dettaglio del volume e alle modalità di acquisto dello stesso: http://www.arcipelagoitaca.it/wp-content/uploads/2016/04/schedaneapolitana-membra.pdf; http://www.arcipelagoitaca.it/acquista/ I testi che seguono sono tratti da Neapolitana membra di Vladimir D’Amora (Osimo - AN, Arcipelago itaca Edizioni 2016). Selezione a cura di Danilo Mandolini Vladimir D’Amora Dal 1974 napoletano che vive lavora scrive a Napoli, fu studioso di filologia classica, di Caravaggio e di Nietzsche, e giornalista e traduttore: è lettore d’immagini, che non interpreta. Ha pubblicato solo per la Galleria Mazzoli una specie di poesia marcata-come Pornogrammia - poesia la quale, nella forma di libro, si aggiudicò un certo riconoscimento al Premio Poesia Città di Fiumicino 2015. Come tanti, ma non come tutti, è connesso - nel web 2.0. Fondò e diresse, con altri, “Vulgo.net”: una rivista multilingue solo digitale. 24 Da Neapolitana membra Vladimir D’Amora Dalla motivazione opera vincitrice ex aequo, Sezione C - Raccolta inedita. 1a edizione Premio nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca” Un ritratto di Napoli fuori da ogni cartolina; una Napoli moderna, metropolitana, magmatica e metamorfica; un ritratto privo di qualsiasi intento celebrativo, sentimentale e/o sentimentalistico. Una Napoli che troverebbe il suo adeguato sottofondo nelle improvvisazioni jazzistiche dei Napoli Centrale e nelle evoluzioni del sax e della voce di James Senese. Questa è la Napoli descritta da Vladimir D'Amora, giovane e già affermato autore, che da una parte non nasconde certo la sua propensione verso la scrittura di ricerca e lo sperimentalismo in generale, non ripudiando però, dall'altra, l'eco lirica, la capacità di suggestione e suggerimento della parola, la volontà della poesia del dire e dell’essere capace di ridefinire un mondo, di provare a ricostruirlo proprio dopo averlo destrutturato. 25 Renata Morresi - Manuel Cohen - Martina Daraio - Danilo Mandolini Alessio Alessandrini - Mauro Barbetti Vladimir D’Amora * quel filo fu napoli, beata tenebra nel balzo poiché in esso è nascosta la ragione di una sola anima. lungo le verifiche di stato s'ammassano spazi, un porto sotto l'angolo di posti da cartolina e fiato. anche un bacio solo bum bum bum nelle canzoni perché al di là del mondo è bianco, lo stile dell'asfalto tira. 26 Vladimir D’Amora * Napoli oggi è nel suo inverno statico e pressante, è una lettera morta che la luce sarà domattina per chi luce ricordando il giorno, nuovo giorno e per ogni e nuovo sole sorgere di un lento battito, stretto ai pochi gesti nel quotidiano lungo un anno. Forse avremo bisogno dei ricordi nella scrittura tutelata nella noia: saremo come figli seduti alla distanza, occhi e parole rosso-rabbia incerta ai primi raggi. Avremo la ragione dei nati a vivere tra braccia lungo viali e primavere in questi anni tutti paralitici. Sarà costante idea la bianca presa e il latte speso in una città di polvere biostorica mai tolta, già sottratta. 27 * Vladimir D’Amora Napoli si lasciò cadere sul dorso sfatta, con una briciola di voglia antica. Come a stare: sola la continuità di voci, corrose sui suoli dissestati dal sangue vero velamine di sconti – di lì a poco giunti gli amici del contingente coi loro omaggi migranti a consumare la convenzione innocua della sera. Terribile fu lo sforzo che si levò dai vicoli: era quasi l'ora! se al mattino aveano faticato perché restassero ritocchi della cecità deposta per manciate d'ore a rimarcare strisce di una vita, in vendita. Perspicua Napoli come un mestiere, non più di una funzione l'idea di cambiarsi in un teatro ove l'indiscernibilità del patico e della sfoglia di tradizione arrancava per settimane il suo passato. 28 Cosicché Napoli. Non si scorsero più occhi: a medicare i ricordi non erano più sogni né puntuale massa inavvertita, alienato e putrido ogni dovere di queste operazioni di fondazione. Slacciata sui costoni a getto sulla riva apparecchiò, deterse mani e il collo, scostò ogni riflesso. Giacque Vladimir D’Amora * A sera capitano ancora eventi di una speciosa traspropriazione a dire che la relazione che il politico è, s'inabissa corta nelle frenetiche rivendicazioni di distanza. Nel cerchio del Vomero ove circolano indifferenti i mercanti d'anime e quasi come a Seul il resto da finestre inquadrate da architetti mai ringiovaniti, sono scorti i passi dell'imminente fine: è il reggerla, la novità che ha trasformato l'immobile respiro in una esatta maniera della vita: internamente quelli coi capi vivi nelle vasche umane, chiedono il potersi aggirare pesanti nei metri consentiti, quasi i corpi loro come dei muti segnali si specializzassero nella sopravvivenza accelerando le trasmissioni di pochi punti di parola. Le ossa che dalla bocca riescono sputate con la gagliardia feroce e quanto mancano i santi ed i filosofi non imprestati da televisioni in queste abbreviate luci lo starnutire diverso è un gioco prodigioso e tu di un'altra epoca diffranta. 29 Vladimir D’Amora * scampia riscritta e falsa non si dettavano compiti sullo scalino due pezzi morti erano amiconemico, era la piana cesura le ossa poi smarrivano gli occhi con ansie drogate nel vero e l’interveniente del vuoto di qua, presso le luci, prezzi che alterano muri segnano figli e morti in città ché lasciano arti nei segni, le colle, le vite malate, letami e cieli che allattano vane le forze colme di certi ricordi e sono due giovani frasi, lo scorrere chiaro, tagliato, di un’indecisa spesa di cose. 30 * Vladimir D’Amora Ridico il mio paese, Calvizzano, del nord di Napoli spaiato e catafratta pietra del doppio vincolo, coi suoi dintorni * Era concettoso, riarso, lo squallore di quei vicoli, le rincorse d'analisi, lo stile provato nel fatto di ogni volto chiuso, rudimentale. Ora Napoli è la sua penuria, il dogmatico accadere immemore, senza abiti e senza intelligenza. Tutto posteriore a tutti. 31 fissi fondali per corse in sé concluse, che continuano col sangue giovane alla morte, come al neon, come la carne fosse cemento e vite non si smuoveranno. Al mio paese il passo è cieco, colla schiuma al cuore d’ore slegate e sudo e il mio paese, venduto, si sparge in calcoli bulimici rigurgiti del proprio del livore. Io gli fiutavo il legno delle case e il porco, esaurita fola, in quelle mani sunte dalla pleonessia la colpa della terra, roride e buone a scorticare visi a seppellire i morti e me, frutti sputati ai cancri della specie. Vladimir D’Amora 32 * Non era città a ripetere nelle materie degli uomini l'acqua piovuta. Era Napoli. E questo deserto ordinato da milioni di dei alla metà d’un impossibile contatto con la luce. È con la naturale violenza che il tempo lasciava colluvie di margini stretti come giudizi e per l'eterno stato. Perché non erano nomi equilibrati i progressi e il divenire speciale dei tempi, le pose restate su ossa pagate e minuscole, quasi smorte. E quella era città dalle curve in cui noi che erigevamo umiltà e puntuali stagioni di voglie tra noi applaudimmo al resto dell’illesa costruzione alla moda, dei minimi scarti del fondo, devoti all’idea. http://en.protothema.gr/idomeni-refugees-rage-over-closed-borders-grows-ngos-leave-the-camp/ Anteprima Arcipelago itaca Edizioni Casa rotta di Valentina Maini ESTUARI - Giovane e nuova poesia italiana Collana diretta da Manuel Cohen €uro 13,00 - ISBN 978-88-99429-05-8 Il volume è composto da sessantuno liriche di Valentina Maini e dalla nota di Postfazione di Stefano Colangelo. Il libro è in formato 12 (base) x 19 cm (altezza), consta di 80 pagine in carta Avorio Sahara g/mq 120 e di una copertina stampata in 4 colori su carta Acquerello Avorio g/mq 240. A seguire (oltre alla bio-bibliografia di Valentina Maini): nove testi dell’autrice e la nota di Postfazione di Stefano Colangelo. Questi, i link relativi alla scheda di dettaglio del volume e alle modalità di acquisto dello stesso: http://www.arcipelagoitaca.it/wp-content/uploads/2016/04/scheda-casarotta.pdf; http://www.arcipelagoitaca.it/acquista/ I testi che seguono sono tratti da Casa rotta di Valentina Maini (Osimo - AN, Arcipelago itaca Edizioni 2016). Selezione a cura di Danilo Mandolini Valentina Maini È nata a Bologna nel 1987 e ha vissuto in Italia e in Francia. Laureata in Lettere e in Culture Letterarie Europee, con doppio diploma italo-francese, è dottoranda in Letterature Comparate presso l’Università di Bologna con un progetto sull'immaginario della guerra civile spagnola. Ha pubblicato vari articoli scientifici, in particolare su Samuel Beckett e Amelia Rosselli, e alcuni suoi racconti sono comparsi su riviste come "Inutile", "Atti Impuri", "TerraNullius", "Effe", "Verde", la rassegna stampa di Oblique Studio. È stata premiata in diversi concorsi letterari. Attualmente vive a Parigi. Casa rotta è la sua opera prima in versi. 33 Gordon Matta-Clark. Splitting 9, 1977. Gelatin silver print http://www.cultframe.com/2011/05/laurie-anderson-trisha-brown-gordon-matta-clark-mostra-londra/ Da Casa rotta Valentina Maini * Entra come mano umidità dalla finestra chiusa, crepa la pelle della bambola, non usa dare il benvenuto, non fa altro che luce ferire. * Sanno dove muore la domanda muovono veloci verso il punto di rottura percorrono cateti per l’uscita dal triangolo non fanno che tornare. 34 Valentina Maini * Sforma la notte il giorno, disfa la sua geometria compatta di crisalide riemersa dalla pece, inonda. Non credi possa consolare la luce fa le veci della chela, se per tutti l’alba è lieve come pesa nell’angolo degli occhi l’acqua cerca spazio: alzi la testa ad arrestare la gravità dei fori, delle macchie che importa del colore bianco ferisce il sesso, una balena. 35 Valentina Maini * Ho in giro dieci padri altrettanti ne ho persi per la strada vuota basterebbe un custode nel palazzo, l’allarme elettrico che scacci. * Dal quadrato luminoso non s’accende nessun numero-rubrica, agisce solo come esca, eppure non ferisce, fossimo tutti pesci! Fosse una finestra quella che vicina si apre! Troppo ospitale la soglia non insegna la strategia di fuga. 36 Valentina Maini * Abbiamo attraversato centimetri, nemmeno continenti ci siamo mossi con fatica, ci sembrava di correre, era qualcun altro - siamo stati quasi fermi se badiamo alla prospettiva generale se diamo retta ai grandi numeri la sostanza è vuota. 37 Valentina Maini 38 * Bruciano le banche alla televisione lo schermo non illuminano non scalda il fuoco nasce spento, colore: cenere frequenza: mite, affluenza: scarsa dice il direttore, non incidono nessuna piaga nel corpo oro del creato sventolano bandiere lucidate dai papà-carezza-sulla-testa, fate bene a ribellarvi con coscienza, per quanto la violenza: eccessiva, motivazioni: polimorfe, poco chiare. Prese di parola: già sentite, ma perché non vi spremete per uno schermo più sottile – che scompaia – una fuga analogica dal pianto universale l’organico rifiuto della manna, cosa sottile più non nutre, trasferisce clona dati, non vuole partorire. Valentina Maini * Non getta ombra nella stanza la guerra televisiva, oscura il tempo di un boccone, scuote timida la testa per dovere di indignazione. Nessuna crepa nelle mura, non fora la parete: come tu dall’altra parte che mi gridi - scordi: chi tra noi è lo spettacolo, chi lo spettatore. * Continua a nascere non arresta il flusso delle gemme, si riempie è tutta luce germinata senza condizioni necessarie gli esperti allargano la bocca – lei cresce che continua a crescere, senza ossigeno, temperatura sfavorevole contro ogni previsione evolutiva che il seme quasi non si vede. 39 Gordon Matta-Clark. Conical Intersect, 1975. https://quattrocentoquattro.com/2014/12/15/gordon-matta-clark-in-cinque-opere-fondamentali/ Da Casa rotta Valentina Maini 40 Dalla Postfazione di Stefano Colangelo Presa in un conflitto con lo spazio, che non le fa più riconoscere ciò che la avvolge, e che dovrebbe invece rimanerle familiare – le pareti, le stanze, i mobili di casa – una bambina attraversa lentamente le età dell'uomo, acquistando e perdendo qualcosa passo per passo, come se un pavimento continuasse a cedere, immediatamente dietro il suo camminare: se ne vanno dietro di lei le visioni, le proiezioni e i desideri che la circondavano e la nutrivano. Queste poesie portano il titolo di Casa rotta. Perché rotta, e non distrutta, o crollata? Forse il campo di significato di quell'aggettivo riporta al maneggiare una casa-giocattolo, allo scuoterne la fragilità per impulso di conoscenza? E soprattutto, di quali resistenze, di quali forme di tenacia riuscirà a fidarsi quella bambina, quando le capiterà di avvertire l'arrivo dell'ospite che viene da lontano – della viaggiatrice che, nel vecchio aforisma Eliotropio di Adorno, agiterà la routine della casa, facendo di una cena ritualmente borghese di benvenuto uno scintillante racconto di fate, come la messaggera di una vita trasformata? Nello sfidare l'assenza di luce, percorrendo le pareti con la punta delle dita, la cecità di questa bambina è in tutto e per tutto la nostra. Anche il suo linguaggio, così stranamente disarticolato – la prima impronta beckettiana, se è lecito ricondursi agli interessi critici dell'autrice, Valentina Maini – con quei suoi predicati che si affacciano sull'impossibilità di esprimere, e insieme sull'attesa spasmodica di espressione, un po' chiede di appartenerci, che lo vogliamo o no. Ci si impone. Ci porta continuamente dentro e fuori da una casa reale e da una casa-giocattolo. E così anche la sintassi mentale di questo spazio martoriato di scosse, di ricordi che rimbalzano, di odori abbandonati nel tempo trascorso, è costruita su azioni che tagliano la percezione soggettiva con colpi decisi: «Non congiunge: priva / Non conosce: cerca di dimenticare». Man mano che si cammina, non c'è una stanza che parli, non c'è un anfratto che comunichi; l'ossigeno è raro, la temperatura è sfavorevole. E come fare, allora, di questa casa della prigionia, di questa architettura così spietatamente orizzontale della condizione umana un piccolo cosmo abitabile? Mircea Eliade scriveva che l'esperienza mistica fondamentale, nelle culture dell'India antica, era espressa con l'immagine della rottura del tetto, e del conseguente volo del corpo nello spazio. Ma qui il tetto non è una parete sottile: non ci si sottrae a questa aria materica, sorda, che occupa un presente così inesorabilmente secco, ottuso, totalizzante. La casa qui ha più muri che finestre e porte: più inciampi e spigoli che aperture e invasioni di luce. Valentina Maini 41 Eppure – e sarà un altro azzardo il voler chiamare in causa Amelia Rosselli, sulla quale Valentina Maini ha scritto fin da studentessa pagine critiche di grande maturità – il cammino di questa bambina-esploratrice si ricongiunge per via letteraria, ma anche per affinità istintiva, a tutte le «tènere crescite» dell'io femminile di Serie ospedaliera, a quella sua particolare «ansia o angoscia» per tutti coloro che «facendola esistere la distruggono». Probabilmente sarà dalla frequentazione attenta della poesia rosselliana che Valentina Maini ha lavorato su una propria poetica degli spazi chiusi, quelli dell'ospitare come dell'ospedale, chiamando a raccolta qui una prospettiva che va dai primordi di Emily Dickinson fino a certe prove recenti di Elisa Biagini (L'ospite, o Da una crepa): la lettura capillare di uno spazio domestico che diventa insicuro, precario, lasciato solo; circondato dai crolli, quasi tentato di cedere per sempre a un senso di implosione, di tempo e di desiderio fatti andare via, precipitati, sbriciolati. Nel suo crescere, la bambina di Casa rotta cerca indizi, connessioni che mettano rami di continuità nella sua vita. Come nel Disperso di Cucchi, il suo tempo si sdoppia fra l'attualità di un trauma, di una perdita, e la sua mancata elaborazione, che si reduplica in una permanenza, in una occupazione totale del tempo, fatalmente dilatato. E più il trauma torna a occupare quel tempo – più è sognato, proiettato, schiacciato su uno schermo – meno lo si riesce a decifrare. Poi, a un certo punto, succede che il libro gira su se stesso, facendo perno su un testo a epigrafe, messo tra parentesi e dunque pronunciato a un livello mentale insieme più dimesso e più profondo. La ragazza osserva la sua casa crollata – o la rottura della sua casa-giocattolo - camminandole intorno, all'aperto, da fuori; comincia a muoversi in mezzo a un noi, probabilmente in parte generazionale, sicuramente situato molto lontano da dove lo si poteva rintracciare in precedenza. La ragazza ora chiede ragione, fino a denegare la bambina che era; prende a scuotere tutto quell'enorme spazio stanco, familiare e abulico che la circondava. È come se desse corpo a una nuova possibilità, alla lingua dell'altro, dell'esiliato, dell'ospite. Da una casa dell'infanzia a una casa straniera. Qui il gesto del riconoscere non coincide più con quello del ricordare. La bambina che aveva attraversato la cecità, la freddezza e il ruvido delle pareti, e conseguentemente il rumore del loro crollo, ricostruisce ora il familiare nell'estraneo: «ho trovato pace nella casa / d'altri, nell'odore di terrazzo / scucito dal riparo». Scriveva Jean Onimus, in un bel saggio sulla poetica domestica e sulle sue metafore, che «l'essenziale è separarsi, poter delimitare una zona, un "territorio", come quello che riservano a se stessi, per potersi sentire a casa, certi animali». Una specie di casa fatta da tante piccole nicchie, da tante micro-case, ognuna con il proprio significato tattile, memoriale, allegorico. Un'intimizzazione progressiva del proprio spazio, che è insieme paradossalmente, di quel medesimo spazio, una riscoperta; anzi, una moltiplicazione - come si legge verso la conclusione di questa raccolta - «fino all'infinire». La Casa rotta di Valentina Maini rappresenta forse un percorso di questo genere: ne costituisce pezzo per pezzo i gesti, il ritaglio, l'idioma; ne oltrepassa la durezza, le difficoltà. Ce ne offre ancora, coraggiosamente, il senso, anche quando quelle pareti che ci imprigionano non sembrano altro che le stesse parole, nelle quali tendiamo a perderci. Stefano Colangelo Si è laureato in Lettere – indirizzo classico – nel 1993. Ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Italianistica nel 2001, all'Università di Bologna, sotto la guida di Ezio Raimondi. È Professore Associato di Letteratura italiana contemporanea dal settembre 2014. Ha tenuto seminari di Esegesi dantesca, Retorica e Metrica per Ezio Raimondi, dal 1994 al 1996, e di Composizione scritta in italiano, Poetica e retorica e Istituzioni di letteratura per Niva Lorenzini, dal 2002 al 2006. Come ricercatore ha tenuto corsi di Letteratura italiana contemporanea al Dams, seminari di Analisi del testo poetico a Lettere, Corsi di Metrica, Comparative Metrics e, infine – in lingua inglese, dal 2012 al 2015 -, Metrics and Contemporary Verse Theory per la Laurea magistrale in Italianistica, Culture letterarie europee e Scienze linguistiche. Nello stesso Corso di Studi insegna, dal 2015, Poesia italiana del Novecento. Ha tenuto interventi, lezioni e seminari come Visiting Scholar e Visiting Professor in Italia (Università di Pavia, Urbino, Milano Bicocca, Trento), in Francia (Université de la Sorbonne Nouvelle - Paris III), in Germania (Otto-Friedrich-Universität Bamberg, Freie Universität Berlin), in Belgio (Universiteit Gent), negli Stati Uniti (Brown University, Providence; Indiana University, Bloomington; University of California, Los Angeles) e in Giappone (Senshu University, Tokyo). Ha scritto sui mensili “Lyrica” e “Opéra International”, sui quotidiani “Il Sole 24 Ore”, “Liberazione" e “Il manifesto”; sui periodici “Alfabeta2”, "L'Indice dei Libri del Mese", "Left-Avvenimenti", "Semicerchio” e "Poesia". 42 Ha pubblicato: Metrica come composizione (in appendice una conversazione con Edoardo Sanguineti - Gedit 2002), Come si legge una poesia (Carocci 2003), Il soggetto nella poesia del Novecento italiano (Bruno Mondadori 2009) e, insieme a Niva Lorenzini, Poesia e Storia (Bruno Mondadori 2013). Qui, ulteriori informazioni di dettaglio: https://www.unibo.it/sitoweb/stefano.colangelo http://www.ansa.it/sito/photogallery/primopiano/2016/03/07/un-bambino-nel-campo-profughi-di-idomeniin-grecia_020c3e4d-223a-450c-a368-5c0b38191817.html Anteprima Arcipelago itaca Edizioni Impossibile ritorno di Lucilla Niccolini 1a edizione Premio "Arcipelago itaca" per un’opera prima di poesia €uro 11,00 - ISBN 978-88-99429-09-6 Il volume è composto da ventisei liriche di Lucilla Niccolini precedute dalla motivazione della 1a edizione del Premio “Arcipelago itaca” per un’opera prima di poesia. Il libro è in formato 12 (base) x 19 cm (altezza), consta di 64 pagine in carta Avorio Sahara g/mq 120 e di una copertina stampata in 4 colori su carta Acquerello Avorio g/mq 240. A seguire (oltre alla bio-bibliografia di Lucilla Niccolini e alla motivazione del Premio): otto testi dell’autrice. Questi, i link relativi alla scheda di dettaglio del volume e alle modalità di acquisto dello stesso: http://www.arcipelagoitaca.it/wp-content/uploads/2016/04/schedaimpossibile-ritorno.pdf; http://www.arcipelagoitaca.it/acquista/ I testi che seguono sono tratti da Impossibile ritorno di Lucilla Niccolini (Osimo - AN, Arcipelago itaca Edizioni 2016). Selezione a cura di Danilo Mandolini Lucilla Niccolini Si è laureata in Lettere Classiche all'Università di Pisa-Scuola Normale Superiore. Subito dopo la laurea ha insegnato Lettere nelle scuole italiane in Germania. Attualmente è docente di Latino e Greco al Liceo Classico Rinaldini di Ancona. Collaboratrice del “Corriere Adriatico” dal 1983, ha curato le pagine della Cultura e numerosi inserti speciali, tra cui quello della riapertura del Teatro delle Muse ad Ancona e i fascicoli del 150° anniversario della testata. Ha curato l’allestimento e i testi di quattro edizioni del supplemento “Marche Meraviglia”. Altre collaborazioni vanno dalla rivista "Campania" al periodico "1999 Marche", a "Mare Marche", alla rubrica dei libri della redazione giornalistica del Tg Marche-Rai. 43 Da Impossibile ritorno Lucilla Niccolini Dalla motivazione opera vincitrice ex aequo, Sezione A - Opera prima. 1a edizione Premio nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca” Una convincente prima prova poetica, questa di Lucilla Niccolini, del resto già affermata giornalista, che propone qui una raccolta di versi incentrati sul sentimento filiale nei confronti di una madre ormai cambiata, invecchiata e aggredita dalla malattia; un sentimento che viene portato a nudo, attraverso episodi minimi e riflessioni, in modo ovviamente partecipato, ma anche trattenuto dal pudore; un pudore che riesce a spostare il punto di osservazione e a renderci il quadro più ampio e generale. La poesia è così capace, dal piano personale e individuale, di aprirsi al destino comune, di parlarci dello scorrere inesorabile del tempo al quale tutti siamo soggetti e nel flusso del quale possiamo sovrapporci, riconoscerci nell'altro e nel suo percorso. 44 Renata Morresi - Manuel Cohen - Martina Daraio - Danilo Mandolini - Alessio Alessandrini - Mauro Barbetti Lucilla Niccolini * Dici grazie ogni volta che mi volto con le chiavi in mano. Sulla porta rispondo: E di che? Mentre il nodo in gola accompagna le scale che già scendo non mi fermo non ritorno su. Consumo il sentimento della colpa in questa penitenza della pena. 45 * Lucilla Niccolini 46 Quando scoprii un giorno all'improvviso che la figura dritta s'era incurvata fu come quando ci dissero che la Terra non è un piano ma una sfera che gira vorticosamente nello spazio. Vennero meno i punti cardinali dell'amore. Cominciò allora questo disamore il sentimento dello scorrere lento, condiviso di cui soltanto tu fingi di ignorare il corso quando chiedi infantile “Sai quanti anni ho?”. * Lucilla Niccolini * Solo della tua infanzia resta il segno indelebile, fotogrammi ricorrenti, pochi, quelli più vividi di tutta l'esistenza. Furono segnalibro della tua agenda a ritroso riapparsi nottetempo per lasciarti agguerrita la mattina al risveglio. Ti facevano singhiozzare di rabbia e di cordoglio accanto a lui stremato di venerazione impotente. 47 La sua visita al cimitero assomiglia alla mia corvée quotidiana. La cura maniacale rispetto di un rituale consolida rinfranca la coscienza di un conto pesante da pagare. Non fingiamo sollecitudine. La dètta l'imperativo di un debito. Parcella sentimentale o esenzione morale dall'esubero del dolore. * Lucilla Niccolini * Tutto il tempo impiegato a dedicarmi a te è movente presunto della rabbia con cui accolgo ogni volta la verifica allarmante dell'abbandono che subisci inerme. 48 Fuggo via. Non sbatto la porta ma ogni uscita è una fuga, resa a caro prezzo, quello della tua solitudine che non ti spieghi. Non saprò mai cosa trattiene il tuo ricordo vicino: se l'offesa delle mie insofferenze o il sorriso che parco riesco a dispensarti raramente. E solo perché tu non t'accorga della sofferenza che mi costa appendere ogni mio giorno alla tua esistenza. Lucilla Niccolini 49 * E se per un minuto (magari di più!) tornassi a essere la guida inappellabile della famiglia? Se tu recuperassi l'aceto e l'ago della tua ragione non credo che sarebbe un'ora facile. Non saprei spiegarti le ragioni del mio tradimento. Non vorresti ascoltarle, mi guarderesti stranita. Sarebbe un'ammissione di questa tua nuova vita che non sai. * Lucilla Niccolini 50 Rimasi stupefatta quando alla notizia più tragica della nostra storia (più ancora dell'altra grande morte) ti chiedesti guardandomi all'improvviso “Cosa mi devo mettere?” fedele a quella tua etica dell'estetica che ora raramente riappare inaspettata. Dissolve per un po' l'ansia del tuo ritiro. Ravviva la mia speranza di un tuo impossibile ritorno. http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/migranti-le-autorita-greche-danno-il-via-allo-sgombero-delcampo-profughi-di-idomeni_3010281-201602a.shtml Anteprima Arcipelago itaca Edizioni Album di Claudio Salvi LACUSTRINE Collana diretta da Renata Morresi €uro 12,00 - ISBN 978-88-99429-11-9 Il volume è composto da quarantotto liriche di Claudio Salvi e dalla nota di postfazione (“luoghi in attesa. o soltanto vuoti.”) di Giulio Mozzi. Il libro è in formato 15 (base) x 21 cm (altezza), consta di 60 pagine in carta Avorio Sahara g/mq 120 e di una copertina stampata in 4 colori su carta Acquerello Avorio g/mq 240. A seguire (oltre alla bio-bibliografia di Claudio Salvi): undici testi dell’autore e “luoghi in attesa. o soltanto vuoti.” di Giulio Mozzi. Questi, i link relativi alla scheda di dettaglio del volume e alle modalità di acquisto dello stesso: http://www.arcipelagoitaca.it/wpcontent/uploads/2016/08/scheda_album.pdf; http://www.arcipelagoitaca.it/acquista/ I testi che seguono sono tratti da Album di Claudio Salvi (Osimo - AN, Arcipelago itaca Edizioni 2016). Selezione a cura di Danilo Mandolini Claudio Salvi È nato a Milano nel 1976 e qui vive. Suoi testi sono stati pubblicati in “Nazione Indiana”, “Vibrisse”, “GAMMM” e “Piazzaemezza”. Alcuni suoi testi critici sono stati pubblicati in cataloghi e monografie di artisti. Album è la sua opera prima in versi. 51 Da Album Claudio Salvi Da Album * bisogna vedere adesso. stanco, ammaliato. pauroso del volo. f. argomenta contro tassisti, notai - canaglie. la luna gialla è appena sopra il condominio. scende la neve uno se ne sta lì. che ore sono - balbetto un po’, le otto. alzando l’indice. ci metto due ore a fare dieci righe. io che desidero vedermi la città da me e la vedo in foto. 52 ma sono i profumi, i rumori che non senti. e tutto quello che non esiste: una casa per esempio. un prato. di un viaggio in aereo − vuoti, tremori − si era tanto spaventata. * Claudio Salvi non ci vuole tanto. un prato di erba finta ecco tutto. e luci a forma di papavero. un corridoio di legno dove qualcuno passa accanto a banchi schierati. un uomo firma certi libretti. in angolo una lampadina. questa stinge le pareti. poi la fila indiana di ragazzi e ragazze. più niente da vedere. eccetto la ragazza che corre avanti altri due passi e che tengo per il braccio. non tenermi, ride, che faccio come il cane - e tira. * 53 «quasi ogni giorno compro pane che consumo a fatica». «costa un tanto a chilo, sono poche le cose che non dimentico». dice il vicino. «non esiste un orecchio disponibile al momento». intanto un uccellino prende le briciole. per i giardini nessuno si è visto. forse il miraggio di un acquazzone. il vicino tende le mani. «ecco è finito». Claudio Salvi * siamo al ristorante emanuel. la spiaggia dietro la mia sedia. mi alzo, vado verso il mare. metà luna illumina l’acqua. le barche a vela hanno luci in cima agli alberi e oscillano. tante persone stanno sul molo. due bambini sulla riva, uno tira sassi e quando lo supero cerca qualcosa. salgo sul molo, vedo persone che scendono su piccoli gommoni a motore. due olandesi guardano, lui beve da un bicchiere di carta e lei gli sta abbracciata al fianco, una donna gli parla in inglese cattivo, ridono, l’olandese dice buona fortuna. la donna scende su un gommone con le bambine, il gommone affonda quasi sotto il pelo dell’acqua, il motore non si accende, quando partono l’olandese alza il bicchiere. il molo è lungo poco più di dieci metri e in fondo un uomo pesca con un galleggiante luminoso e intorno dei bambini. l’acqua è nera. a metà costa le luci di paesi. c’è calma. penso che questi sono i miei contemporanei e non voglio non so rendere quell’atmosfera. c’era calma e c’erano le voci della gente. mi sono mescolato a loro e nessuno mi badava. ho visto la partenza. il pescatore non ha fatto attenzione, dall’ultimo gommone le donne hanno salutato l’olandese. una è scesa senza scarpe. i gommoni sono arrivati fino alle barche ferme, ho visto una luce illuminare il fianco di una barca. andavano a letto. 54 Da Polaroid Claudio Salvi * due righe (?) - se guardi bene io sono in piedi. emily chiede di te. è lei che si siede. bel tempo fino a martedì. * questo è un liceo. chiusure, blocchi - un prato. un’auto in pieno sole. muovendoci attorno chiaro senso di spazi nuovi. * dopo la pioggia - in cima. portofino è interamente in territorio italiano. cosa ne dici dello scorcio. * gli uccelli mangiano le ciliegie - io metto una radio in mezzo ai rami di questo ciliegio. 55 […] Da Sogno Claudio Salvi * misurare una cosa non vuol dire forse regolarla. non è una regola che richiedo adesso. è una misura. come in geometria. così ho fatto la foto ai ragazzi arabi che giocavano a pallone con il muro di una chiesa. ho fotografato un albero dal basso con la macchina fotografica. era pieno di fiori. poi sono caduti. bisogna fare ecc. - diceva. io ho detto un’altra cosa, non mi ricordo. poi siamo andati fuori, era buio. ho detto un’altra cosa, avevo fame. 56 Da Altri scritti Claudio Salvi * l’effetto della fotografia è l’effetto di un mezzo trasparente. si vede ciò che l’occhio ha registrato in uno spazio nuovo. fotografa una foto di un giardino. in tutti i casi hai un’immagine. io la indico e dico − guarda che giardino − ma chi vede dice - io vedo una foto. e un altro dice - sì è un bel giardino. in fondo non si fa altro che ripetere quello che c’è. le cose cambiano però quando qualcuno mette la copia in mezzo a un numero di originali tra cui non si può distinguere. adesso fotografa una porzione di un atlante. non c’è differenza tra la foto e l’atlante. allora come si può dire che cos’è? oppure non si conosce l’originale ma tu dici - questa è una foto. io non so dire se è così o è una porzione di un atlante. 57 una foto può far vedere un giardino o un’altra cosa in un certo modo che non si può far vedere altrimenti. Claudio Salvi * in questa foto non c’è l’idea che mi sono fatto di un fantasma. ma chi dice che uno vuole vedere un fantasma così come gli appare. uno vuole vedere in certi casi ciò che non si aspetta. si vede un fantasma o un effetto che questo produce in stanza (muove un oggetto). se è un effetto le persone dubitano dell’oggetto e non di ciò che causa il movimento? allora non dubitano per niente del fantasma. o è la foto che uno indica - è il fantasma. è un effetto causato da qualcosa? di questo dubito, così della foto e di chi fotografa. ma di cosa dubito? di me stesso in pratica. che questo sono io − ma un altro dice − sei tu 58 Da Album Claudio Salvi “luoghi in attesa. O soltanto vuoti” di Giulio Mozzi Lo so, non è così che dovrebbe dire un postfatore, ma mi sento costretto a dirlo: c’è poco da aggiungere, ai testi di Claudio Salvi, oltre a ciò che Salvi stesso scrive e (esplicitamente, nelle ultime pagine) ne scrive. Si può tentare, per l’avvio del discorso, un brevissimo catalogo. Abbiamo finestre, piogge che iniziano o durano o finiscono o sono appena finite, altre finestre; c’è il gesto di indicare, abbastanza insistito (di indicare a qualcuno). Va presa sul serio, la frase di Léon Brunschvicg che sta in apertura, letteralmente e metaforicamente. Salvi non sembra percepire (e restituire) davvero personaggi (benché personaggi ci siano), oggetti (benché oggetti ci siano), luoghi (benché luoghi ci siano, e della più comune quotidianità): “A me piace guardare un buco per la forma che ha, non per quello che di umano porta”. E nemmeno, specificherei, per ciò che ci si può vedere attraverso. 59 Ironicamente (credo: ma forse di un’ironia inavvertita dall’autore) s’intitola Polaroid, una sequenza di questo libro. I fotografi dicono (cito luoghi comuni stracitati) che la fotografia non “rappresenta” la realtà, ma ne “mette tra virgolette” un pezzo. Altri fotografi dicono (v.s.) che non è importante solo ciò che entra nella fotografia, ma anche (e forse - e qui il luogo comune diventa vezzo) ciò che ne resta fuori. Ecco: direi che ciò che mi appare, leggendo i testi di Salvi, è: le (impronunciabili) virgolette, il bordo (che, in quanto bordo, non è né dentro né fuori: è in nessun luogo) della fotografia. Ovvero: il gesto di indicare. Il rivolgere lo sguardo, non ciò che lo sguardo coglie (che sembra, e magari può essere davvero, casuale), non ciò che lo sguardo non coglie. Claudio Salvi Leggendo i testi di Salvi mi abituo a uno sguardo che è insieme molto assertivo (la forma del buco!) e per niente assertivo. Questo suscita in me molte cose, mi fa venire il mal di testa, mi fa sentire la tentazione di rovistare nelle cose che appaiono (palloncini, schermi bucati, bar, erba finta, vecchi cessi, minestroni), e io resisto alla tentazione. In ciò trovo un guadagno. Non esattamente un benessere. Non esattamente un piacere. Ma un aumento di conoscenza; sì, e un aumento di conoscenza della conoscenza. Ciò che si chiama bellezza, in una parola. Non ho molte patenti per parlare o scrivere di poesia (anzi: non ne ho nessuna… Oggigiorno, per parlare di poesia, servono moltissime patenti, e raffinatissime), e quindi posso solo offrirvi la sensazione, l’esperienza della lettura. Non vedo niente (niente di particolare, niente di attraente), quando leggo Salvi, ma vedo. Come dicevo in cima alla presente paginetta, c’è poco e anzi nulla da aggiungere a ciò che Claudio Salvi scrive. 60 Giulio Mozzi È nato il 17 giugno del 1960. Abita a Padova. Si è diplomato presso il Liceo-Ginnasio “Tito Livio”. Dopo aver svolto diversi lavori si è principalmente occupato, dal 1996 al 2001, di corsi e laboratori di scrittura e narrazione. Dal 1997 al 1999 ha inoltre collaborato con la casa editrice Theoria. Dal 2001 ai primi mesi del 2009 è stato consulente per la narrativa italiana di Sironi Editore. Nel 2006 ha dato vita, con un gruppo di generosi amici, alla casa editrice in rete vibrisselibri, ora di fatto cessata. Dal 2008 al 2014 è stato consulente di Einaudi Stile Libero. Dal 2009 al 2013 ha collaborato con l’Istituto per la sperimentazione didattica ed educativa (Iprase) della provincia di Trento. Attualmente è consulente di Marsilio Editori per la narrativa italiana. Nel 2010 ha iniziato una collaborazione amichevole con Laurana Editore, dalla quale è nata la “Bottega di narrazione”. 61 Tra le sue numerose pubblicazioni (riguardanti svariati “ambiti dello scrivere” e realizzate anche con diversi editori di rilevanza nazionale), le più recenti sono: [con Clementina Sandra Ammendola, cura] Abitare. Un viaggio nelle case degli altri (libro d’inchiesta, prefazione di Marianella Sclavi. Terre di Mezzo 2010); [con Amedeo Savoia, cura] Il diario di tutti. Un esperimento di “scrittura privata” svolto dagli stidenti delle scuole superiori della provincia di Trento (prefazione di Gustavo Pietropolli Charmet, Iprase 2010); Madrigali rudimentali (poesia, sfogliabile in rete, 2010); La stanza degli animali (prosimetro, :duepunti edizioni 2010); [con Valter Binaghi] 10 buoni motivi per essere cattolici (saggio, Laurana 2011); Il male naturale (racconti, nuova edizione con postfazione dell’autore e un saggio di Demetrio Paolin, Laurana 2011); [con Marco Signorini e Silvia Montemurro] Ricordami per sempre (fotoromanzo, Museo di fotografia contemporanea 2011); Consigli tascabili per aspiranti scrittori (Terre di Mezzo 2012); La felicità terrena (nuova edizione con un racconto in meno e due in più, una postfazione dell’autore e uno scritto di Carlo Dalcielo, Laurana 2012); Sono l’ultimo a scendere (nuova edizione, con aggiunte e antologia della criticia, Laurana 2012); Dall’archivio (in versi, Aragno 2013); [con Stefano Brugnolo] L’officina della parola. Dalla notizia al romanzo: guida all’uso di stili e registri di scrittura (Sironi 2014); Favole del morire (con una postfazione di Lorenzo Marchese, Laurana 2015). Qui, ulteriori informazioni di dettaglio: https://vibrisse.wordpress.com/giulio-mozzi/ http://www.repubblica.it/esteri/2016/03/12/foto/idomeni_primi_vagiti_nel_fango_il_neonato_nella_tendop oli_dei_migranti-135321461/1/#1 Patrizia Cavalli Vetrina speciale A partire da questa ventesima apparizione di “Arcipelago itaca” blo-mag si inaugura un nuovo spazio denominato, appunto, Vetrina speciale. Una delle più recenti opere di un poeta italiano contemporaneo e vivente sarà oggetto di una nota inedita redatta da due critici. A seguire i due contributi critici appena indicati: una selezione di testi tratta proprio dall’opera in versi al centro dello speciale. Per questa prima occasione un grazie particolare va a Flavio Cogo e a Simone Giusti per la grande disponibilità ed attenzione dimostrate. Franco Buffoni Patrizia Cavalli Su Avrei fatto la fine di Turing di Franco Buffoni. Di Flavio Cogo AVREI FATTO LA FINE DI TURING Di Franco Buffoni Avrei fatto la fine di Turing è un volume autobiografico in cui Buffoni ricostruisce i rapporti e i sentimenti nei confronti dei genitori, visti attraverso ricordi, sensazioni ed episodi vissuti a partire dall’infanzia. Il poeta sottolinea che il tema profondo del libro “consiste nel rapporto tra inizio e fine della genitorialità, ma anche nel suo opposto: la necessità di sopprimerla per potere sopravvivere”, concetto che nella sua crudezza si dipana in tredici dei quattordici capitoli del libro (la prima, Per placare Monaldo, chiaro riferimento al padre di Giacomo Leopardi, assume un significato universale che va oltre l’autobiografismo). Buffoni esplicita il significato del titolo del libro e dell’omonima poesia nelle Note, poste alla fine della raccolta: Alan Turing è un matematico e crittografo inglese, “uno dei padri dell’informatica”, “il cui contributo fu decisivo nel decrittare i codici segreti nazisti e quindi nel determinare le sorti della guerra” che “morì suicida, dopo essere stato sottoposto a castrazione chimica in quanto omosessuale” (p. 121). Nella poesia Avrei fatto la fine di Turing Buffoni sottolinea il rischio in cui sarebbe incorso il poeta, grazie al padre e alla “pavida e sottomessa acquiescenza” della madre, se la sua omosessualità fosse stata svelata. A rimarcare il recente passato di repressione di gay e lesbiche in Italia, Buffoni è esplicito: Avrei fatto la fine di Turing O quella di Giovanni Sanfratello In mano ai medici cattolici Coi loro coma insulinici E qualche elettroshock. […] (p. 17) 62 Ricorda Sanfratello nelle Note: “rapito dai famigliari a Roma nel 1964 […] «curato» con elettroshock e coma insulinici […] ritornò in «famiglia» in stato vegetativo” (p. 121), rammentando e denunciando le oppressioni subite dagli omosessuali ad opera del potere civile, medico-psichiatrico e religioso. La seconda parte di Avrei fatto la fine di Turing riassume la vera sostanza del padre e dei rapporti conflittuali col poeta e la sua omosessualità: […] Perché era un piccolo borghese Il mio padre amoroso Non si sarebbe mai sporcato le mani. Controllando l’impeto iniziale Vòlto allo strangolamento Del figlio degenerato, Ai funzionari appositi Avrebbe delegato La difesa del suo onore. (p. 17) AVREI FATTO LA FINE DI TURING Di Franco Buffoni Il padre è incapace di amare il figlio, privo di spontaneità persino nelle dimostrazioni d’affetto, è una figura urlante, smarrita nel suo passato di ufficiale che ha subito passivamente la Seconda Guerra Mondiale, la cui virilità non si distingue da quella convenzionale degli anni ’50. Buffoni rende palese la distanza e la conflittualità con la figura paterna fino ad arrivare alla consapevolezza del possibile parricidio senza senso di colpa alcuno: Me ne nutro, ci sguazzo in questa faccia Ancora da ragazzo che mi vedono, e agglutino Nel sacco insieme a un cane e a un gallo, Senza vipera o serpente. Non ho ucciso niente. (p. 39) Il poeta chiarisce il significato oscuro di questi versi nelle Note: “Essere gettati a fiume in un sacco assieme a un cane, un gallo, una vipera (o un serpente) e una scimmia era la punizione che Roma infliggeva ai parricidi” (p. 122). Il contrasto col padre si attenua all’approssimarsi della morte di quest’ultimo: la cruda constatazione della malattia e la decadenza fisica prendono il sopravvento sull’ostilità e il conflitto, senza però attenuarne l’assoluta lontananza: 63 Ogni volta che fisso negli occhi un albero Sento che mio padre mi guarda E non è affatto piacevole. (p. 56) Vita col padre e la madre è il capitolo che lega la prima parte del libro dedicata al padre alla seconda dedicata alla madre. Scampoli di vita quotidiana, segnata dai litigi, urla e tensione che caratterizzano i rapporti tra i genitori fino ad arrivare all’odio accompagnato da un’ostentata indifferenza e formalità che cela un carico di rancore e violenza sopita. In questo capitolo Buffoni situa la perdita della verginità (Tra le dita il bruciore, p. 63) ricordando lo sbigottimento dei genitori e la poesia Ritratti dove appare la prima descrizione materna, basata sul confronto di due foto dei genitori, preludio alla seconda parte del volume. La madre diciottenne xx dall’ “espressione pacata”: AVREI FATTO LA FINE DI TURING Di Franco Buffoni […] Nel ritrattino alla Vermeer, Che fa pendant Con la piccola luce di collera negli occhi Del babbo adolescente Che ricordo bene al naturale. (p. 64) Sei sono i capitoli dedicati alla madre. A differenza della figura paterna, quella materna non viene trattata cronologicamente: questa sezione si apre con la madre già in là con gli anni, e si chiude con le impressioni lasciate da una madre anziana e nel contempo giovane, frammiste ai ricordi dell’infanzia. L’ottavo capitolo, dal significativo titolo Dulcissima, testimonia l’attenzione amorosa riservata alla madre negli ultimi anni di vita di questa, dove le incombenze della cura, della presenza e della premura verso la fragilità che deriva dalla malattia sono espresse con leggerezza a partire dai comportamenti: Quando non ci saranno più le mie chiamate Tra le sette e le otto E se ritardo un labbro che leggermente trema. […] Attenzioni dunque, che sono accompagnate da una promessa: […] Quando non dovrò più tenerti Bassa la pressione Quanto tempo che avrò Per scrivere di te. (Dulcissima, p. 69) 64 La madre, figura nutrice che sostiene la “vita vera” della casa, si prestò a ricoprire il ruolo di madrina di guerra, scrivendo “A un ragazzo sconosciuto / […] con l’incoraggiamento dei comandi / E delle canossiane”, attività imbarazzante che costringeva entrambi a mobilitare le ronde “Per impedire l’incontro / In caso di licenza” (p. 82) e ricorda i nomi dell’attrice Luisa Ferida (“Luisa Ferida ti sentivo pronunciare / Un nome caldo dalle profondità del regime”) e di Edy Campagnoli, annunciatrice televisiva, presente nel ritratto “Datato millenovecentocinquantasei / Incorniciato in tinello”, “Agile modella” “Rapinata come anziana sola / Da due finte ispettrici della Asl” (p. 83), rimarcando così il decadimento, sia fisico, mentale e sociale, a cui conduce la vecchiaia. Amara è la constatazione: Muoiono i nostri cari Lasciandoci i resti dei loro Matrimoni sbagliati. (p. 85) AVREI FATTO LA FINE DI TURING Di Franco Buffoni I capitoli XI-XIII svelano la fase terminale della vita della madre, affrontata serenamente, dove il ricordo vivo e presente non cade nel patetico, dove lo scorrere del tempo comprende piccoli episodi, notizie e digressioni, rendendo tangibile al lettore il dolore provato dal figlio nell’affrontare il lento ma inesorabile cammino della madre verso l’epilogo. In Mancava solo che per compiacermi, la morte è affrontata con una delicatezza e sensibilità rare. Nel raccontare la caduta nel coma della madre, i versi ci restituiscono un’atmosfera di intimità familiare: Mancava solo che per compiacermi Ti alzassi per fare colazione E poi tornassi a letto a finire di morire La mattina del 27 dicembre. Respiro lungo da sonno imbronciato, Gentilezze da figlio a casa per le feste. «Ti preparo il tè», e la convinzione Di avere udito un grugnito d’assenso. Invece il coma ti aveva già saldato Il respiro ai sensi: «Il tè si fredda» Mentre guardavo le mail… […] (p. 95) 65 Il significato del capitolo XIV, Cristo-Mercurio e Venere-Maria, è chiarito dall’autore nelle Note: per affrontare, superare e sopprimere la genitorialità il figlio all’inizio “quasi esce dal ventre del padre per rientrare nell’explicit nella madre, assurta a mitologica Venere-Maria” (p. 121): perciò non comparirà più il padre, figura oramai inutile. La madre aleggia sull’infanzia delle fiabe colorate a matita, con i suoi misteri e la consapevolezza della crescita, i cui giochi vengono interrotti al grido “È pronto!” (La ringhiera tace, p. 112), e dalla voce che lo accompagna scalino per scalino. Avrei fatto la fine di Turing è un’opera originale, che affronta in maniera nuova i rapporti famigliari, attraversati da conflitti, amore, incomprensioni, violenze e affetti, e che per schiettezza e sensibilità non trova riscontri nella poesia italiana; un libro destinato a diventare un piccolo classico. Meglio amare, meglio scrivere. Su Avrei fatto la fine di Turing di Franco Buffoni. Di Simone Giusti AVREI FATTO LA FINE DI TURING Di Franco Buffoni “Nella Londra degli anni Cinquanta non era facile, e nemmeno sicuro, essere un omosessuale dichiarato o praticare l’omosessualità; se scoperte, tali attività potevano portare a pene severe, all’incarcerazione o, come avvenne nel caso di Alan Turing, alla castrazione chimica mediante somministrazione obbligatoria di estrogeni. Le posizioni dell’opinione pubblica erano, nel complesso, di condanna come quelle della legge”. Ho cominciato a leggere Avrei fatto la fine di Turing con queste parole di Oliver Sacks ancora in mente. Fresco di lettura di In movimento (On the Move. A Life, traduzione di Isabella C. Blum, Adelphi 2015), mi è stato sufficiente aprire il libro di Buffoni e scorrerne l’indice per capire che mi sarei trovato coinvolto in un grumo di cognizioni ed emozioni simile a quello che avevo ancora in mente e nel corpo dopo aver letto l’autobiografia di uno dei miei intellettuali prediletti, della cui vita privata fino a quel momento non sapevo niente fino a quando, all’improvviso, mi sono trovato immerso in scene come questa: «Non sembra che tu abbia molte ragazze» disse. «Non ti piacciono?». «Ma sì, mi vanno benissimo» risposi io, desideroso di chiudere la conversazione. «Preferisci forse i ragazzi?» insistette lui. «Sì – ma è solo una sensazione – non ho mai “fatto” niente». E poi aggiunsi, timoroso: «Non dirlo a mamma, non lo sopporterebbe». Invece mio padre glielo disse, e il mattino dopo lei scese con la faccia stravolta dalla collera, una faccia che non le avevo mai visto prima. «Sei abominevole» disse. «Vorrei che tu non fossi mai nato». Poi se ne andò e non mi parlò più per diversi giorni. 66 Una situazione che solo uno scrittore laico e profondamente permeato di cultura scientifica poteva risolvere – con grande sollievo del lettore – con un ragionamento sul potere dell’educazione e della cultura: Siamo tutte creature della nostra educazione, della nostra cultura e dei nostri tempi. E io ho avuto più volte bisogno di ricordare a me stesso che mia madre era nata negli anni Novanta dell’Ottocento, che aveva avuto un’educazione ortodossa e che nell’Inghilterra degli anni Cinquanta il comportamento omosessuale era trattato non solo come una perversione, ma come un reato perseguibile. Devo anche ricordare che il sesso è una di quelle materie – come la religione e la politica – in cui persone altrimenti moderate e razionali possono nutrire sentimenti intensi e irrazionali. Mia madre non intendeva essere crudele o augurarmi la xxx morte. Adesso mi rendo conto che era stata presa alla sprovvista e sopraffatta, e che probabilmente rimpianse le parole che aveva pronunciato o forse le segregò in una parte isolata della sua mente. Esse però mi tormentarono per buona parte della mia vita ed ebbero un ruolo fondamentale nell’inibirmi e permeare di sensi di colpa quella che avrebbe dovuto essere un’espressione libera e gioiosa della sessualità. AVREI FATTO LA FINE DI TURING Di Franco Buffoni 67 Armato di questa storia, ho cominciato dunque ad aggirarmi nei dintorni del libro di Buffoni, consapevole – me lo dicevano il prestigio della collana editoriale, la complessità dell’indice, la cura del peritesto, lo stesso titolo, incisivo al limite della violenza – di trovarmi di fronte a un testo importante, forse decisivo per la carriera di uno scrittore che da alcuni anni cerca di fondere autobiografismo – sempre più narrativo, sempre meno criptato – e saggistica, azione poetica e azione politica. Nelle Note in fondo al libro si può trovare la chiave di accesso (una delle chiavi, poiché ciascuno entra ed esce da qualunque varco riesca a individuare), l’amore filiale, il rapporto di un figlio con i suoi genitori e, più in generale, di un giovane con le figure adulte di riferimento. Un uomo (un bambino, un ragazzo e poi un adulto) che fa i conti con l’educazione dei propri genitori, con la loro cultura, che, più o meno subdolamente – attraverso il canale privilegiato delle emozioni amorose – irretisce, forma, orienta e vincola la vita che sta cercando una sua definizione. Franco Buffoni sa – e lo dice nelle Note – che suo padre non sarebbe mai stato in grado di accettare la sua omosessualità e, se il figlio l’avesse esplicitata, avrebbe certamente provveduto a farlo “curare”, con la complicità della moglie e madre (della sua “pavida e sottomessa acquiescenza”). E Franco avrebbe fatto la fine di Turing, appunto, prima messo alla berlina, già condannato all’atto stesso dell’accusa, e poi recluso – anche se in un luogo di cura, in un manicomio per esempio – e infine suicida. Perché quella degli anni Cinquanta e Sessanta - e anche per tutti i Settanta – è una società che non esita a mettere le mani addosso a una persona, se ritiene che quella persona sia semplicemente sbagliata. E i genitori altro non sono che la famiglia, la cellula della società, chiamata a dare forma all’individuo, a prepararlo a farsi a sua volta cellula, anche – anzi, necessariamente – a prezzo della sua libertà individuale. E così, sembra quasi naturale – e invece va considerata una scelta straordinaria, potente, rivoluzionaria – trovare all’inizio del libro, in prima posizione, una poesia che si intitola Per placare Monaldo: il figlio migliore della civiltà letteraria italiana a confronto con il suo aguzzino e coi suoi alleati. Occorre fingere per placare Monaldo Abbozzare Smettere di accusare il vecchio tonto Di clericale codinaggio, Piuttosto concentrarsi sullo Stato di Milano AVREI FATTO LA FINE DI TURING Di Franco Buffoni 68 Sulla cultura libertina Di Settala e Cardano Tra scienza e medicina… O meglio Su ciò che è stato lo Stato di Milano… Perché dal catechista amico del Giusti V’è ormai ben poco da aspettarsi, Palese è il voltafaccia, Col ritorno dei viennesi s’è dato Alla distribuzione del viatico agli infermi E agli inni sacri. È Leopardi contro Manzoni, il contino Giacomo – la vittima per eccellenza di una genitorialità-prigione che non prevedeva fine, destinata a durare per sempre, fino alla morte o alla fuga – contro il conte Alessandro, l’amico del Giusti, da cui nulla ci si può aspettare. È, anche, la cultura laica e liberale, individualista, contro la cultura cattolica e clericale. Parafrasando una celebre canzone inglese degli anni Ottanta (“Keats and Yeats are on your side / While Wilde is on mine” - The Smiths, Cemetery Gates, 1986), potremmo cantare, mettendoci nei panni dell’io lirico che si rivolge al padre, che “Manzoni è dalla tua parte, ma Leopardi è dalla mia”. Da una parte l’amore libero, che trae origine dai sensi, dal corpo senziente, dall’altra l’amore controllato, sottomesso ai bisogni di sicurezza di una parte della società. L’amore che travolge e trasforma contro l’amore che moltiplica e conserva. La prima parte del libro è ingombrata dal padre di Franco, Piero Buffoni (1914-1980), di volta in volta interlocutore (in absentia) o personaggio protagonista di una piccola saga familiare in cui gli tocca recitare la parte del “babbo” e poi, più avanti, del marito, portando così sulla scena l’altra protagonista di questo Avrei fatto la fine di Turing, la madre. Così apro il libro al contrario e trovo un altro inizio: l’ultima poesia, Perché io che per te da bambino. Perché io che per te da bambino Un piccolo dio ero stato E crescendo Cristo-Mercurio Con te Venere-Maria, Poi divenni il tuo Padre e marito Pur restandoti figlio, Nella nostra costellazione famigliare Per trent’anni al sole giocando Sorgente Con te luna calante. AVREI FATTO LA FINE DI TURING Di Franco Buffoni 69 Trent’anni, dal 1980 al 2010, sono gli anni che separano la morte del padre da quella della madre. È la storia di una lenta trasformazione del figlio in padre e marito, della madre in figlia e moglie. Ed è ancora un dialogo coi morti, disturbati stavolta affinché ascoltino la storia di una lunga relazione di cura parentale. La storia di una vita – e del rapporto cruciale di tutta una vita – narrata nel breve spazio di undici versi, grazie anche a quei due composti quasi alchemici, Cristo-Mercurio e Venere-Maria, che costringono il lettore a leggere e rileggere il testo alla ricerca di ulteriori spiegazioni. Seguendo la pista della VenereMaria, per esempio, possiamo ritrovarci a Milano, alla Pinacoteca di Brera, dove si trova la pala in cui Piero della Francesca ha rappresentato una Madonna sovrastata da una grande conchiglia a cui è appeso un uovo di struzzo (o una perla?), quasi fosse una nuova nascita di Venere. È la bellezza che non perisce, ed è anche la capacità di generare senza alcun intervento maschile (in barba all’eterosessualità). Cristo-Mercurio, invece, rimanda alla tradizione alchemica e alle nozze tra Sole e Luna, il cerchio (lo spirito maschile, la capacità di conferire all’anima una coscienza individuale) e la coppa, a forma di falce di luna (lo spirito femminile, la vitalità e la fecondità). È così che io mi sono avventurato nel corpo del libro, dopo averne letto la testa e la coda, il padre e la madre, i due princìpi che solo raramente si incontrano (forse perché le famiglie non sono luoghi ameni: “Muoiono i nostri cari / Lasciandoci i resti dei loro / matrimoni sbagliati”), e sempre con risultati straordinari, come nel caso in Ghiani-Fenaroli, capolavoro di poesia civile. Un tempo, negli anni Ottanta, i critici dicevano, giustamente, che la poesia di Buffoni aveva ascendenze laforghiane, palazzeschiane, poiché dissimulava con l’ironia – e anche con la voluta opacità del discorso – il motivo di fondo della sua scrittura. Oggi, invece, potremmo dirla una poesia leopardiana, che riesce a cantare la vita senza infingimenti, la propria vita, ridotta in episodi, ricordi, stralci a partire dai quali, grazie a una versificazione che non esiterei a definire classica (sia pure di un classicismo interno alle logiche e alla storia del versoliberismo), è possibile costruire una visione del mondo, un sistema – rigorosamente asistematico – di pensiero. L’augurio è che attraverso la lettura sia possibile che le immagini, le storie, le metafore si innestino nella mente e nel corpo di chi legge. E poi, a partire da lì, possano originare un pensiero autonomo, libero, autenticamente poetico e democratico. I testi che seguono sono tratti da Avrei fatto la fine di Turing di Franco Buffoni (Roma, Donzelli 2015). Selezione a cura di Danilo Mandolini Da Avrei fatto la fine di Turing Franco Buffoni Avrei fatto la fine di Turing 70 Avrei fatto la fine di Alan Turing O quella di Giovanni Sanfratello In mano ai medici cattolici Coi loro coma insulinici E qualche elettroshock. Perché era un piccolo borghese Il mio padre amoroso Non si sarebbe sporcato le mani. Controllando l’impeto iniziale Vòlto allo strangolamento Del figlio degenerato, Ai funzionari appositi Avrebbe delegato La difesa del suo onore. Franco Buffoni Un sollecito nemico «Solo questa per avisarti come ne’ dì passati io ricevetti una tua, per la quale io intesi tu avere avuto erete, della quale cosa intendo come hai fatto strema allegrezza: […] con ciò sia che tu ti sé rallegrato d’averti creato un sollecito nemico, il quale con tutti li suoi sudori disidirerà libertà, la quale non sarà sanza tua morte». (da una lettera di Leonardo al fratellastro Domenico) 71 Erano i giorni d’agosto, le lumache lasciano il guscio, Diventano vermi arancioni con gli occhi e le antenne: Non sembrano più nate al loro prima E tanto è il giorno che chiedono E tanto era il giorno come fossi stato Sempre senza te, Fuori e dentro il guscio Per non somigliarti. Franco Buffoni Vittorio Sereni ballava benissimo Vittorio Sereni ballava benissimo Con sua moglie e non solo. Era una questione di nodo alla cravatta E di piega data al pantalone, Perché quella era l’educazione Dell’ufficiale di fanteria, Autorevole e all’occorrenza duro In famiglia e sul lavoro, Coi sottoposti da proteggere E l’obbedienza da ricevere Assoluta: «È un ordine!», Riconoscendo i pari con cui stabilire Rapporti di alleanza o assidua Belligeranza. Ordinando per collane la propria libreria. 72 Franco Buffoni Il filamento di platino Il primo giorno del suo non risvegliarsi Quasi sembra che a staccarsi dalle foglie Dica di no Ci pensi su, riscopra La natura tra le bombe. Ieri stringeva il pugno alzato Lo scagliava contro i vetri dell’androne, Oggi è frastornato, vede solo Palloni fuoruscire Dal muro in verticale delle tombe, Bianchi e rossi come capi mozzati Ricadere sul selciato. Ma poi i cipressi lo terranno quieto Sussurrandogli i nomi dei venti, Il filamento di platino sciogliendogli tra i denti. 73 Franco Buffoni Le gocce in fila Così fino a diventare una signora vecchia Nella casa che le assomiglia, La tappezzeria senza colore con gli strappi nascosti dai fiori La badante che dorme nella stanza del figlio che non torna E nel bagno degli anni cinquanta le gocce in fila sul marmo nero. 74 Franco Buffoni Traducevo Katherine Mansfield Stavo traducendo Katherine Mansfield O meglio traducevo del bambino Che morì alla Mansfield E poi riapparve a lei tutta la vita, Quando nella mia domenica stranita Irruppe la cronaca Col referendum sulla legge 40. Sono a favore, sempre a favore Se alla fine incontro comunque Sorrisi e carezze a un bambino. Sono contrario, sempre contrario Se alla fine incontro percosse Ipocrite patrie Potestà e prime Comunioni con la fila Dei maschi E quella delle femmine. 75 * Franco Buffoni Nella poltrona che ti conteneva La sera prima di morire Ho trovato una corona del rosario Finita sotto il cuscino. Forse all’improvviso ti eri volta Verso la porta: arrivavo Ogni tanto, e tu Cambiavi espressione: Ti tornava la luce negli occhi, Uscivi dalla poltrona. La castagna 76 Ho il riccio spinoso ma il cuor generoso Mi mangiano cotta bruciata o ballotta Mi trovo in campagna mi chiamo… Mi disorienta non saperti al mare In questa frazione dell’estate Con le carte in mano e le tre amiche Uscite a borse a fiori. E spalle nere piene, Gambe a uncino, frasi dalle sdraio. Mi disorienta non doverti chiamare Per mentirti ogni giorno parole. Che la tua terra sia Di forma perfetta una castagna. * Franco Buffoni Poi basta una mattina di vero sole Aprendo le griglie della sala Luccica al raggio la cima del pino Ed è la luce del cinquantanove Coi tre vestiti dell’estate Pronti per il Corpus Domini Uno da passeggio seta a fiori Per la processione Uno da sera in tinta unita, scuro O bianco, uno da casa se veniva gente. Le nostre infanzie 77 Di quando il ventre ti fioriva di me E lì il nostro tempo si è fermato. Le nostre infanzie con le fiabe al Caran d’Ache Nella scatola di metallo E l’ultima già in età adulta, Fino al tuo dolore animale Che si fa quieta disperazione. Quello è il passaggio che mi fa impazzire, La trasformazione della fiaba in vita. Franco Buffoni * Mancava solo che per compiacermi Ti alzassi a fare colazione E poi tornassi a letto a finire di morire La mattina del 27 di dicembre. Respiro lungo da sonno imbronciato, Gentilezze da figlio a casa per le feste “Ti preparo il tè”, e la convinzione Di avere udito un grugnito di assenso. Invece il coma ti aveva già saldato Il respiro ai sensi: “Il tè si fredda” Mentre guardavo le mail… 78 “Brava! Sei stata brava!”, Te lo dissi subito, tenendoti la mano Appena smettesti con quel soffio leggero. Tu che di lodi ne avevi ricevute Sempre poche. “Beh, almeno i figli Li ho fatti intelligenti!”, dicevi alle sue spalle Dopo l’ennesima tirata sulla tua Superficialità. Magari incapaci di distinguere Chi sogna da chi è in coma. Franco Buffoni * Perché io che per te da bambino Un piccolo dio ero stato E crescendo Cristo-Mercurio Con te Venere-Maria, Poi divenni il tuo Padre e marito Pur restandoti figlio, Nella nostra costellazione famigliare Per trent’anni al sole giocando Sorgente Con te luna calante. 79 Franco Buffoni È nato a Gallarate nel 1948. Vive a Roma. Saggista (L’ipotesi di Malin, Marcos y Marcos 2007) e traduttore (Poeti romantici inglesi, Mondadori 2005), ha insegnato per trent’anni letteratura inglese e letterature comparate. Nel 1989 ha fondato e tuttora dirige “Testo a fronte”. Tra i suoi libri di narrativa: Più luce, padre (Sossella 2006), Zamel (Marco y Marcos 2009), Il servo di Byron (Fazi 2012), La casa di via Palestro (Marcos y Marcos 2014) e l’ultimo Il racconto dello sguardo acceso (Marcos y Marcos 2016). Il suo esordio in poesia risale al 1978 ed avvenne, con presentazione di Giovanni Raboni, su “Paragone”. Sono seguiti: Nell’acqua degli occhi (Guanda 1979), I tre desideri (San Marco dei Giustiniani 1984), Quaranta a quindici (Crocetti 1987), Scuola di Atene (L’Arzanà 1991), Suora carmelitana (Guanda 1997), Il profilo del Rosa (Mondadori 2000), Guerra (Mondadori 2005), Noi e loro (Donzelli 2008), Roma (Guanda 2009), Jucci (Mondadori 2014), O Germania (Interlinea, 2015) e i recentissimi Avrei fatto la fine di Turing (Donzelli 2015) e Pettorine arancioni e altre poesie (Carteggi Letterari 2016) Il suo lavoro in versi è stato raccolto in Poesie 1975-2012 (Mondadori 2012). 80 www.francobuffoni.it Flavio Cogo Laureato in Letteratura italiana contemporanea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, a partire dal 1999 (ricerche biobibliografiche per R. Reali, Le pitture murali. L’edilizia civile a Lendinara e Badia Polesine, Venezia Marsilio 1999) si occupa di storia e letteratura italiana contemporanea e collabora con artisti, scrittori, case editrici e istituzioni culturali. Ha pubblicato le monografie: Elio Vittorini editore 1926-1943 (presentazione di R. Ricorda, Bologna, ArchetipoLibri 2012) e Mario Stefani e Venezia. Cronache di un grande amore (prefazione di Alberto Toso Fei, Mestre-Venezia, I libri di Gaia 2013). Tra i suoi scritti: Vittorini e una traduzione minore: The Life of Our Lord di Charles Dickens (in Elio Vittorini. Il sogno di una nuova letteratura, a cura di L. Gasparotto, Firenze, Le Lettere 2010); Vittorini e i Musulmani in Sicilia (in Un tremore di foglie. Scritti e studi in onore di Anna Panicali, a cura di A. Csillaghy, A. Riem Natale, M. Romero Allué, R. De Giorgi, A. Del Ben, L. Gasparotto, Udine, Forum 2011); La ricezione delle traduzioni anglo-americane di Vittorini (in “Otto/Novecento”, n. 2, 2012); Venezia Viet Nam 1965-1975: un decennio di solidarietà (in “Mekong”, n. 2, 2012); Il Vietnam nella coscienza degli Italiani. Il caso di Venezia in 1973-2013. XL anniversario delle relazioni diplomatiche Italia-Viet Nam. Saperi, diplomazia, cooperazione (a cura di S. Scagliotti e L. Riccardi, premessa di A. Perugini, Torino, Quaderni Vietnamiti 2013). Ha curato le revisioni dei cataloghi dell’artista Andrea Morucchio (Andrea Morucchio, Venezia, Pixart 2012; Andrea Morucchio Catalogo ragionato 2000-2012, Venezia, Pixart 2012; Andrea Morucchio 2000-2013, Venezia, Bugno Art Gallery 2013), nonché la produzione, le ricerche storico-iconografiche e i testi della mostra Viet Nam Venezia Venice Viet Nam 1965-1975 del 2007. 81 Fa parte della redazione della rivista “Mekong”. Ha creato la pagina facebook dedicata al poeta Mario Stefani: https://www.facebook.com/mariostefanievenezia/ Ha creato la pagina facebook dedicata allo scrittore, traduttore e editor Elio Vittorini: https://www.facebook.com/ElioVittoriniEditore19261943/ Per l’artista olandese Channa Boon nel 2015 ha scritto l’atto breve Venice Unsmasked (titolo provvisorio). Simone Giusti È insegnante, formatore di insegnanti e consulente esperto di politiche e pratiche dell’istruzione. La sua attività di ricerca si è concentrata sulla lettura delle opere della tradizione letteraria, sulla didattica della letteratura, sulla teoria della traduzione e sugli approcci narrativi applicati alla ricerca sociale. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Cambio verso (Effequ 2016), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci 2015), Per una didattica della letteratura (Pensa 2014). Per Loescher condirige (insieme a Natascia Tonelli) la collana scientifica “QdR / Didattica e letteratura”. Pubblica regolarmente sulla rivista online “La ricerca” (http://www.laricerca.loescher.it/). Il suo sito/blog è: www.simonegiusti.eu. Altri siti web collegati alla sua attività: www.laltracitta.it. 82 http://www.panorama.it/news/esteri/unicef-i-bambini-migranti-senza-cibo-tra-grecia-e-macedonia/ Vetrina ABBONATO Su Abbonato al programma delle nuvole di Giampaolo De Pietro. AL PROGRAMMA DELLE NUVOLE Di Danilo Mandolini Di Giampaolo De Pietro 83 Abbonato al programma delle nuvole (Forlì, L’arcolaio 2013, 13,00 €) di Giampaolo De Pietro è un’opera di poesia che non può non essere definita come di grandissimo respiro. I soggetti offerti al lettore, le tonalità utilizzate, persino gli scarti – i minimi movimenti del comporre in versi – paiono infatti davvero vari e variegati. Nonostante una complessità, dunque, difficile da dire compiutamente e di cui gli aspetti appena evidenziati sono solo alcune delle molteplici componenti colpisce, innanzitutto, la compattezza e l’uniformità della pronuncia nei molti “frangenti” del libro (quattro sono le sezioni che organizzano più di cento testi) e come questa – la pronuncia, cioè – riesca a rimanere chiaramente la stessa anche quando il versificare passa dalla misura breve (sia essa verticale, che orizzontale) a quella lunga o allungata (a tratti, diremmo, anche narrativa). Va subito sottolineato, però, che la complessità alla quale ci si è riferiti in apertura di questo pezzo non è, in ogni caso, tale da pregiudicare la fruizione di Abbonato al programma delle nuvole da parte di un qualsiasi appassionato di poesia. Seppur anche vasto nelle sue numerose e possibili declinazioni (altresì riferibili alle scelte linguistiche, di sovente originali, che probabilmente hanno, insieme ad altri “inneschi”, dato il là al lavoro ed alimentato in progress lo stesso) l’apparire ostico di questo più recente volume di versi di Giampaolo De Pietro sembra come sciogliersi – meglio: pare come semplificarsi con estrema naturalità – se si cerca di familiarizzare al meglio con il potenziale, si passi l’espressione, leitmotiv dell’intera opera. Agli occhi di chi compone questa nota di lettura risulta difatti difficile riuscire a sottrarsi al fascino della dinamica che sembra sottendere alla creazione della maggior parte dei testi di Abbonato al programma delle nuvole. I versi di questa produzione pubblica del nostro si inseriscono con puntuale insistenza e rinnovata profondità – attraverso il volgere delle pagine – nelle fessure infinitesimali che il divenire (umano; ma anche della materia tutta) determina nel suo quasi sempre muto accadere. A tratti pare addirittura crearle, queste fessure alle quali si è appena accennato, e ciò si verifica grazie alla “messa in scena” di un contrappunto davvero sorprendente, di un contrasto formidabile il quale non può non essere qui evidenziato. Il frequente accostamento, all’interno di molti singoli versi, di termini che evidenziano, diciamo così, ambiti ABBONATO AL PROGRAMMA DELLE NUVOLE Di Giampaolo De Pietro 84 evocativi e di significato di dimensioni e portate tra loro “drammaticamente” differenti, contribuisce infatti a determinare come la sottolineatura di una “frattura” che non può sfuggire al lettore più attento e che non può, inoltre, non sedurre. A titolo dimostrativo (sono veramente molti i tratti del volume connotati da questa peculiarità), si riporta qui di seguito parte di un passaggio in versi che è emblematico di quanto appena evidenziato: «E se ne stessimo tracciando … / un tempo fra il tempo e il fiato?». Ecco: avvicinare due sostantivi, “tempo” e “fiato”, che rimandano, sì, in qualche modo ed entrambi, alla dimensione umana, ma che sondano due “territori” dalle estensioni (e anche dai contenuti direttamente o indirettamente a questi stessi termini riconducibili) totalmente differenti tra loro, crea un rapporto di prossimità che diremmo essere tanto sproporzionato e inaspettato quanto, di conseguenza, singolare. Singolare perché, soprattutto, tende a moltiplicare le occasioni che possono stimolare, finanche indurre, il fruitore di questa poesia ad abbandonarsi alle riflessioni più disparate e più profonde. Va aggiunto che questo particolare “movimento” del versificare di De Pietro è reso anche attraverso altre modalità leggermente diverse, ma dagli esiti sempre e comunque sorprendenti. Ancora un assaggio che riguarda, questa volta, l’accostamento di vocaboli (che sono “entità viventi” e non) in grado di colpire il lettore alla stessa stregua del caso in precedenza sottolineato: «Quella nuvola ha / il profilo liscio di / balena e le ali da / passero…». Ed Abbonato al programma delle nuvole sembra scorrere – avanti ed indietro, senza soluzione di continuità – proprio lungo questo confine fatto di fessure esplorate ed aperte dal comporre dell’autore; lungo una linea sottilissima e tanto accennata ed irregolare in principio, quanto palese e precisa poi. Il poeta indugia, insiste lungo questo limite che è, frequentemente, anche tra il visibile e l’invisibile; scruta dentro gli interstizi che vede e che crea con la determinazione e la leggerezza di chi sa che, in ogni caso, non avrà risposte alle domande che si pone; indaga con la consapevolezza che proprio nel percorso che la poesia traccia (nel suo essere forma di espressione artistica che, appunto, non fornisce risposta a domanda alcuna) risiede tutta la forza di una ricerca che è imprescindibile tout court, che non può di fatto prescindere, verrebbe da aggiungere, dalla precarietà della condizione umana. Nella creazione di questo grande mosaico in movimento sono coinvolti i sentimenti, il percepire fallace dell’uomo, la natura, gli oggetti, lo stesso osservare… Tutte, insomma, le principali manifestazioni del vivere (o comunque un vastissimo repertorio di queste) che tra l’altro scopriamo, spesso, tra loro intrecciarsi ed interagire. È necessario annotare, in chiusura di questa nota, che le scelte linguistiche alle quali è stato fatto prima riferimento (soprattutto l’uso di termini e di modalità espressive poco comuni, nonché il ricorso frequente alle reiterazioni) risultano assolutamente funzionali all’esaltazione del leitmotiv in merito al quale si è già abbondantemente disquisito. Queste stesse scelte linguistiche ed il mood di vivace ironia che ne deriva e che percorre ampi tratti del volume sono altre solide fondamenta alla base della grande fruibilità dell’intero lavoro. ABBONATO AL PROGRAMMA DELLE NUVOLE Di Giampaolo De Pietro 85 I testi che seguono sono tratti da Abbonato al programma delle nuvole di Giampaolo De Pietro (Forlì , L’arcolaio 2013). Selezione a cura di Danilo Mandolini Da Abbonato al programma delle nuvole Giampaolo De Pietro Da ABBONATO AL PROGRAMMA DELLE NUVOLE * Vorrei lavorare sui piccoli rumori del tempo, badando ai piccoli rumori di tempo, che registrerei con un apparecchio specifico Un antiorologio. * 86 La vita sorride agli angoli. Dopo avermi detto sei bello ma non in conseguenza te ne eri andato. La scritta là dietro la pioggia, la città pure, ma davanti agli occhi, o innanzi, oceaniche linee d’attesa e trasporto. Smonta l’ombra, fa l’accorta mal accolta, c’è molto lavoro. Giampaolo De Pietro Abbonato al programma delle nuvole Quella nuvola ha il profilo liscio di balena e le ali da passero, si sta assottigliando. Ce n’è un’altra più rapace ha ali divise. Abbonato al programma delle nuvole, per il cane la porta che si apre è la scena madre. 87 * Gli stessi spazi di sabato e domenica. Le finestrelle azzurrate dei lunedì mattina le occhiute forme di vita su marte le scelte di mercurio e il nome di un gatto il pianeta ch’è giove dei fiori tutti e la venere dei nostri tenere e temere insieme. Il dì dei dì di quando il traffico non esiste più nelle città(e alla campagna si dedica un temporale, un futuro e una quiete). L’invenzione della musica nella nostra casa nuova. Da PANE DELLE STESSE COSE Giampaolo De Pietro 88 * Scrivere viene scrivere se ne va scrivere resta un po’ rimane come a una mano il freddo all’altra il rifugio va’ e viene, torni e sciopera e non c’è tangenziale che prenda non ama la velocità che invece prova ad accettare, senza prendersi del tutto il suo pressare, ma soltanto il lato fallimentare o quello ideale tutt’ al più si perderà la carta la voce il testimone, e non è universale e un aggettivo trovato in finale quando nemmeno più serviva, scrivere non è un’iniziativa ché ora che mi viene è una parola bruttina, invece adesso ha una misura, così costante da parer vera, vera e trattenuta, ma è uno sbaglio immantinente risultato, scrivere non è niente, ha più risorse il pianto, forse, più sorgenti il riso. ripeto a fiato. Scrivere proviene da un’altra stella, che crolla tra il vetro e la carta. * Giampaolo De Pietro Buona parte d’ombra. Non ci sono occasioni perdute Non ci sono occasioni migliori Ore buone, uomini miei; questo ci dice di noi il tempo orso bruno in corrispondenza con l’orso polare del tempo che resta sempre in mezzo come la cosa terrestre che abbiamo chiamato occasionalmente tempo perso. Buona parte deriva fatta. * 89 Il pane delle stesse cose il frusciare delle tue rose di stanze il salterellare del canarino e del mare il sospirare sulle stesse linee chiare sorella verde chiara ho il tuo nome tra le dita come margherite della mia mano l’azzurro lo si vede dal corpo che scende le scale o le sale. Da NUVOLE IN CIELO - CAPELLI DI VIRGINIA WOOLF IN FOTO Giampaolo De Pietro Tenere tracce dei consigli (da una foto di Virginia Woolf a diciott’anni) – Chiuse gli occhi – per riaprirli chissà quando e dove. Come, se non con gli occhi stessi? Con lo spazio scritto prima ancora di prendere, e scrivere, decidersi a riempire il bicchiere d’acqua che segnerà, una volta lasciato lì senza bere, la sospensione del tempo, il paese di una abitazione, paese delle età sospese. La scrittrice a diciott’anni, decise, chiuse gli occhi. non per dire, forse neanche per ascoltare. Magari, mimetizzarsi, sì, con le parole – non con quelle d’ascrivere, né quelle da scriversi. Quelle che mimavano il solo, e il multiplo, il sole e una parola sola. Alla lettera, e la sedia alata di chi studia con l’aria la storia intorno, gli occhi delle storie di sé come un’altra, un altro – occhi d’onde. Forse, la scrittrice pensò a un bacio, un bacio intenso nel tempo. Un bacio, al tempo, imperfetto. 90 “Così sono le città, come le vuole il vento”. Così io mi sento. Come mi muove l’atmosfera che non riesco a intravvedere, immaginando. Sotto, sopra, un filo. L’aria, diciott’anni, dal respiro (Bicchiere d’acqua lasciata in segno di sospensione, bicchiere che non evapora). Giampaolo De Pietro * Scala infinita della schiena. Non so come va la vita, ho il sonno leggero e il vento addolcito per libera interpretabile reazione. O spaziatura del mare, per isole del verbo resistere. Gentili case che porgete vostri balconi al sorger mattutino ai passanti migliori, vi voglio bene e grazie per(e a)i vostri fiori. 91 Giampaolo De Pietro Buster(ebbe) Keaton (improvvisato, di profilo, in quaranta ammicchi) Sapevo poco del suo viso, se non quel che ne avevo visto fuoco fumando un poco. La voce, poi, n’era del tutto ignota, me insieme. Ora, avrei voluto scriverne. Una tesi sul suo viso disteso alla sera dei conti o alla resa, fin che quadra con il partire linea per sempre di ogni primo adito, a fiutare. E dei movimenti nel ventre io vuoto ventriloqui di uno stesso margine che sarebbe forse cantabile, inenarrabile. A un punto, e una linea di ruga sottile l’improvato sorriso. In trovarsi del fiato, ritrovarsi mutato col tempo quasi mimetizzato al tv color-reale. 92 Giampaolo De Pietro * Hai la tua mappa. Punteggiatura, arca di segni. Non ti fermare se ti fermi piegati e come pregare a tempo vivere un sorriso è. Di volta in volta, (a) piccoli fiori. È questo il ritmo l’unico da piuma a polso ritmo d’ascrivere. Sai che i libri aspettano. Non tutti, magari. Che lei preparò come un trattato sonoro della ripresa. Di a da in con su per tra fra – del fiato (la preposizione è articolata solo prima del fiato stesso). E se le fotografie fossero mappe del fiato? E se ne stessimo tracciando una fra le altre un tempo fra il tempo e il fiato? E per. (la preposizione è semplice prima e per il fiato stesso) 93 Da VEDI, È UN IMPROVVISO - (ALFABETO, MIGLIO) Giampaolo De Pietro * “Io, più volte la ripeto e più significato le do”. Piccolo, le case sono grandi, i palazzi esterni che magari ti spaventi un poco, anche solo a passarci sotto, otto e più volte coinvolto e consapevole magari di un limite per tutti, tu piccolo a smarrire di fronte alle apparenze già effettive di per loro emozionato è un conto dentro è un canto pure che si fa sentire fino a disperderlo ed uscire dentro di te il confine ascolta a spazio non dato si canta pure a solo insieme. 94 Giampaolo De Pietro * Ore a fare verde chiedere l’ atto di ritagliare fiato al vento (è un verso di mio padre) Tratteggiamo alberi albeggiamo lunghi e a dire primavera, soli & apostrofi. 95 Giampaolo De Pietro È nato a Catania alla fine degli anni settanta. La sua prima raccolta di poesie, Tre righe di sole (Archilibri, Salarchi Immagini), è del 2008; alcuni di quei versi sono stati poi tradotti e pubblicati in riviste di lingua tedesca e slovena. La foglia è due metà è il titolo del suo secondo libro, per il progetto Buonesiepi libri (2012), vincitore del Premio Baghetta 2013. È tra i redattori di Incerti editori. Abbonato al programma delle nuvole (L’arcolaio 2013) è la sua penultima raccolta di versi. Del 2015 è il poemetto Se i fantasmi vengono dalle statue con illustrazioni di Rossana Taormina (collana Isola). 96 Danilo Mandolini È nato ad Osimo (AN), dove vive, nel 1965. Ha pubblicato, in versi: Diario di bagagli e di parole (Edizione privata 1993), Una misura incolmabile (Edizioni del Leone 1995), l’anima del ghiaccio (l’aliante 1997), Sul viso umano (Edizioni l’Obliquo 2001), La distanza da compiere (Edizioni l’Obliquo 2004), Radici e rami (Edizioni l’Obliquo 2007) e A ritroso - Versi e prose (Edizioni l’Obliquo 2013) che raccoglie, riscrivendola in buona misura, un’ampia selezione di tutta la sua precedente produzione. Sue poesie e suoi racconti brevi sono apparsi in antologie, riviste e blog letterari. I suoi lavori hanno ottenuto riconoscimenti in numerosi premi letterari nazionali. Nel 2010 ha ideato ed iniziato a curare “Arcipelago itaca”: un progetto di diffusione della poesia contemporanea e non solo che nel frattempo è divenuto anche casa editrice (www.arcipelagoitaca.it). Anamorfiche è il titolo della sua raccolta inedita di versi di prossima pubblicazione. 97 http://www.dw.com/en/idomeni-refugees-await-word-from-brussels/a-19115700 Salvatore Ritrovato È nato nel 1967. È poeta, critico e saggista. Ha scritto i seguenti libri di poesie: Quanta vita (Book 1997), Via della pesa (Book 2003; nuova edizione, puntoacapo 2015), Come chi non torna (Raffaelli 2008), Dedo (e-book, «Quaderni di RebStein» - XIV 2009), Cono d’ombra, ispirato a un viaggio in Bosnia-Erzegovina (con film-documentario, regia di A. Laquidara, Transeuropa 2011), L’angolo ospitale (La Vita Felice 2013). Ha tradotto dal francese, dallo spagnolo, dal latino e dal greco antico. È stato tradotto in spagnolo, francese e olandese, su antologie e riviste. Ha condotto trasmissioni radiofoniche sulla poesia e lavorato nel campo della piccola editoria come correttore, traduttore e consulente, e nei giornali, come redattore culturale. Collabora a varie riviste di poesia contemporanea, e co-dirige l’annuario di poesia contemporanea internazionale Punto (puntoacapo). Per quanto riguarda il suo lavoro critico, si ricorda: Dentro il paesaggio. Poeti e natura (Archinto 2006), La differenza della poesia (puntoacapo 2009), Piccole patrie. Il Gargano e altri sud letterari (Stilos 2011) e All’ombra della memoria. Studi su Paolo Volponi (Metauro 2014). 98 Insegna Letteratura Italiana moderna e contemporanea all’Università di Urbino, dove vive. I testi che seguono sono tratti dalle opere qui evidenziate in grassetto. Selezione a cura di Danilo Mandolini Da Quanta vita Salvatore Ritrovato Il foglio bianco 99 A volte lascio inviolato il foglio come lo avevo preso coriaceo ed elastico che sembra una membrana di bosso, nudo ma tumultuoso. Lo so ha spiato tutti i miei silenzi, le mie mosse, l’umido scricchiolio dei passi, i cedimenti del pensiero, le orgogliose fessure delle travi. E astuto come un topo ha frugato nella stiva tossendo e spurgando streptococchi per settimane e disgustando sul mio palato («E già, cosa speravi?» tu gli domandi) l’amore dell’oblio. La vita, l’io, i morti, cosa resiste nell’accesso a queste stanze? un portachiavi che unisce, grazie a lui, segreti opposti? Ed ora quanto lo odio vedendolo tacere candido e in agguato, e vivere dei miei incrollabili rimorsi! Da NELL’ORA INCERTA Salvatore Ritrovato 100 Il prestanome «Ma scusa», interrompo il timoniere, «laggiù, sulla poppa, quel disperato che si tuffa...» E impassibili assistono tutti, galleggiando attonito lo sguardo nei morsi rantolanti dei flutti. «È perché non ha le ali. O le ha perse, Icaro, sulla coffa cercando, chi sa, le Diomedee.» Va sempre così. Un giorno qualunque un giorno senza pietà senza disperazione in un’aria che sa di muffa qualcuno pensa di sciogliere il nodo delle correnti con le quali ha navigato. «Saggio il timone, a guidare chi lo guida. A vincere – ed alza gli occhi al belvedere – la curiosità con l’intenzione. Io pure, che sono un timoniere, io dei miei anni non sono che un prestanome.» Da COLPI DI SCENA Figura Salvatore Ritrovato 101 La vita è ingrata, indisponente. Come un faro indolente che avverte i marinai: «L’attracco a Metaponto». Chi lo capta da lontano, chi vira prima di scorgerlo, a babordo, chi controlla, all’ultimo minuto il salvagente; resta quel sogno grato e infedele che descrisse Omero per primo, in questo mondo: «Straniero, non vieni forse da Cillene? non narri sempre, solo, storie di galere?» Ulisse si congeda dai Feaci (seconda versione) ...ma farò presto, amore, non disperare. Ora non amo più Nausicaa ed ogni notte fuggo dal suo letto come un gatto selvatico alla luna piena. Finora ho corso solo le rotte di una fiera e ho perso tutti i miei compagni (oh li risento: «Odisseo, torna qui, con il riscatto!»). Ma come faccio? Vorrei essere forte come te, sapere quanta vita e quanta rissa di enigmi in queste tele ho lasciato, ma sono ancora qui - e sono vecchio. Amore, non mi dimenticare, continua a dare l’acqua alle petunie sul davanzale, prepara il letto sotto l’albero di pesco, prima di sera. Da INTROSPEZIONI DI PAESAGGI Salvatore Ritrovato Proprio la stagione peggiore questa per un viaggio lungo, le mani brucate dalle verruche, indocili, sanguinanti, le voci che cantano agli orecchi soffiando i loro motivetti nel fumo dei candelabri, gli sguardi persi nel buio appeso ai laqueari. La stagione peggiore per reprimere le sommosse. Rancori, passioni, istinti primordiali ad ogni angolo scintillano, come lame affilate affondano nella carne, di taglio, sghembe, storte, si aggrovigliano, incrociano le strade. 102 Da INCOGNITE Salvatore Ritrovato 103 Sulla tolda Così andavamo parlando sommessamente come due gendarmi sulla tolda soppesando a turno l’antichità del legno e i corridoi delle prossime rotte. Qua è tutto il nostro museo e le immagini degli splendidi gesti velati dalla sorte; qua forse anche le nostre fortunate madri, le nostre amanti, l’eterna estate, dicevamo, quando all’improvviso un freddo, il gelo fitto nei reni ci serrò i denti ed ostruì i vivaci ricordi già alle porte. Uno di noi, quello senza mantello, donato già agli eredi, con un mazzo ovviamente di chiavi e uno di crisantemi, tolse gli occhi al cielo e disse: «Tante previsioni andranno storte ma quest’anno, scommetto, nessuno caccerà l’inverno facilmente, io son troppo vecchio e neppure tu vivrai in eterno». Su Quanta vita Salvatore Ritrovato 104 […] Se … collegassimo la sezione conclusiva con la prima … chiuderemmo l’arco allegorico che riporta il tema del viaggio alla scrittura, con le ovvie reminiscenze mallarmeane che il naufragio del pensiero sul bianco della pagina implicano. Tuttavia, il libro non ripiega in una apatica autoreferenzialità, ma attraverso la metafora dominante apre uno spazio metafisico dove il simbolismo si intreccia con la fiction narrativa, l’ermetismo con la coralità epica dei personaggi, la verticalità moderna dell’interrogazione con l’orizzontalità classica della descrizione e del mito (prevalenti nella sezione Colpi di scena). Il naufragio mallarmeano della prima poesia fa da prologo alla desolazione tipicamente novecentesca rappresentata in seguito; il dramma si stempera infatti nell’assenza di disperazione e nella subdola tranquillità della bonaccia: «Il territorio adesso è tutto nostro, libero, / naufragare in una distesa bruciata di sale». Anche quando sulla scena appare il «mostro» e con esso si ingaggia la battaglia, la vicenda si snoda in una sorta di epoche poetiche che la sottrae al tempo per portarla in una dimensione prettamente metaforica, avallata dal titolo stesso della poesia: La visione. La citazione iniziale di Eliot dal terzo dei Quattro Quartetti, d’altronde, riporta le parole di Krishna ad Arjuna: «Avanti, o voi che credete di viaggiare; […] Mentre il tempo è sospeso, considerate il futuro / e il passato con mente imparziale. / Nel momento che non è d’azione né d’inazione / potete accogliere questo: “in qualunque sfera dell’essere / la mente di un uomo possa essere intenta / al tempo della morte” - ecco l’unica azione / (e il tempo della morte è ogni momento) […]». Gli eventi o i minimi episodi evocati dalle riflessioni e dalla descrizione dei personaggi insinuano così, nell’elegante prosaicità del verso e nella colloquialità apparente del tono, ombre lunghe di interrogazioni sull’esistenza. Non sfugga il prezioso ordito fonico e semantico, ricco di rime, assonanze e allitterazioni, calibrate e dissimulate con tanta perizia da apparire occasionali, che connota la raccolta. Si prenda ad esempio la poesia Passeggero, dove si incontra dapprima, ai versi terzo e quinto, la rima fra prato e incerato, alternata a quella fra carminio e alluminio, pure risolta entro un passaggio descrittivo che ne attutisce l’evidenza; al profilo accentuato di questi versi, segue poi, a debita distanza, il contrappunto fra sordo e ricordo e boccaporto e orto e fra motore (seguito dall’assonante allitterazione liberazione) e ore e cuore, per limitarci ai rilievi finali del verso, trascurando perciò le assonanze interne e orizzontali di alcuni versi. L’autoreferenzialità implicita nell’apertura di un simile campo metaforico si incrina nella deliberata volontà di alludere, per il tramite di una rappresentazione traslata, non soltanto all’esperienza interiore dell’autore, ma alla sua storia e al suo tempo. Le figure che appaiono in questo «diario di bordo» dilatano e oggettivano teatralmente lo spazio lirico dell’io. Sarà, a volte, un minimo scarto lessicale («Posso a stento riconoscere nelle foto / i miei compagni»), una sottile allusione («Conosco una donna che lo guardava / scegliere sempre quel posto», si dice in riferimento al personaggio di Icaro), un titolo (come 2 novembre) o il filiale ricordo, nella Prima preghiera, di chi si stenta a credere morto, a smascherare dietro questi simulacri poetici un possibile riferimento biografico. Né parrà oziosa e paradossale l’insistenza sul realismo di una poesia così manifestamente metafisica. Basti ricordare che il titolo del volume è flagrante omaggio a Luzi: «debito sentimentale, e legame musaico», a detta dell’autore, con una raccolta, Dal fondo delle campagne, della stagione più fortemente implicata nella realtà e nella storia, all’interno della ricerca letteraria del più grande autore italiano di formazione simbolista. Se poi si ritornasse alla citazione del Bartoli e al «bello e innocente ingannare che l’arte fa la natura» si paleserebbe la consapevolezza di un autore programmaticamente, nel tempo in cui il paradigma della complessità pare ineludibile e in cui gli stessi concetti di natura – o realtà, diremmo noi – ed arte, intesa in modo ampio come attività umana, si fanno sfuocati e non più chiaramente disgiungibili (essendo la parete che li divide, la coscienza, sempre osmotica e permeabile su xx Salvatore Ritrovato entrambi i versanti), sceglie un percorso «obliquo» per riportare la parola poetica al cuore della realtà o, almeno, ai suoi “fondamenti invisibili” (per ricorrere ad altra formulazione luziana). La ferma volontà di «tenere la parola “vita” nel titolo della raccolta» è attestazione preliminare alla comprensione dell’alto valore attribuito alla scrittura. L’accentuato e fittizio realismo linguistico che impronta il dettato, con l’abbondante presenza di un lessico tecnico e gergale (tiro di canna, torba, cuora, tremagli dei natanti, scotte, orzare, cavicchio, alzaia, rostri sono vocaboli ed espressioni che compaiono in un’unica breve poesia), non risulterà solo una strategia per ampliare, come eccesso di focalizzazione, lo spazio figurato dell’opera e la sua prospettiva di significazione, ma, nello stesso momento, nostalgia della “vita” esprimibile, poeticamente, solo in modo traslato. […] Marco Merlin, in “Atelier”, n. 6, A. II, giugno 1997. *** 105 […] La poesia di Salvatore Ritrovato trova espressione in due componenti indissolubilmente legate: la diagnosi della situazione attuale e la fuga verso un Eden incontaminato, nel tentativo di recuperare un rapporto più autentico con la realtà. La prima richiede un preciso atteggiamento da parte del poeta che deve sporcarsi le mani per mettere a nudo l’inconsistenza di un’epoca, trovarle imbrattate di «sugo, uovo / briciole: dispersi avanzi di generazioni», per togliere le croste «le croste alle parole» e tirar «via l’ultima patina / che insidia». Egli avverte l’attrazione verso un registro alto, un paludamento solenne, «snob» come una «jaguar d’epoca», ma è consapevole che un tale strumento non riuscirebbe a percorrere le vie della contemporaneità. Il poeta, dunque, opera un chiarimento preventivo, che da concezione del mondo si traduce in scelta stilistica senza soluzione di continuità: l’adozione di un lessico “elegiaco”, nel senso della retorica classica, come espressione di un imperativo morale. Il mondo è uno stagno putrido, fetido, ma tranquillo: vi regna una «strana pace». Lo scrittore lo presenta con un atteggiamento misto tra una rassegnata meraviglia e un desiderio di fuga, rilevabile sotto il profilo lessicale da qualche raro impasto tra aulico e colloquiale («marmitte elisie»): non esiste ribellione, insofferenza o tragedia. La cifra fondamentale è la morte, l’«avello / asettico della teca climatizzata», presente nella dimensione privata e nelle vita sociale. Come nullius nuncius, egli non riesce a smuovere la coltre di insignificanza, che distrugge il desiderio e la vita, né con la poesia né con l’amore. Tutto ristagna, non ci sono vie di fuga. Il male non è redimibile, è connaturato nella storia, nei rapporti umani, perché manca l’ubi consistam, il senso dell’esistere e dell’agire. L’uomo si sente heideggerianamente estraneo a questa realtà dominata dal relativismo. E questo relativismo si traduce in “essere-per-la-morte”, poiché non esiste alcuno spazio per la progettualità né per l’ideale. Forte allora, come secondo elemento poetico, è la tentazione della fuga verso l’Eden, il Paradiso Terrestre attraverso diverse rappresentazioni: il viaggio, l’infanzia, la natura. La prima, compiuta lungo le coordinate dello spazio-tempo e della memoria, si attua entro una prospettiva che non prevede approdi definitivi, ma soltanto un movimento continuo, che pone in dubbio la stessa identità dell’uomo. La seconda “via di fuga” va individuata nell’infanzia: «L’infanzia devi riempirla di gioia se non vuoi fuggire / e riempirla, mi / dico, in quest’aria primaverile». Pertanto, di fronte alla realtà la memoria cede e il tempo si immerge nella natura, terza “via di fuga”, e si accorge improvvisamente che il baratro fra il Paradiso perduto e la contemporaneità affonda le radici nel non-mito, non nella letteratura, non nelle fasi evolutive dell’essere umano, ma in un preciso momento storico ossia nella Modernità che ha causato un’invalicabile barriera tra il tempo dell’uomo, scandito da cerimonie, da pause, da ritmi, e il tempo della natura, segnato dalle stagioni. L’individuo contemporaneo non conosce più le cadenze annuali come i tempi della seminagione, della mietitura, né le simbiosi con gli animali e con le piante né le feste legate al ciclo di produzione, di distruzione e di rinnovamento. Si genera allora uno “spaesamento”, una dislocazione mentale che altera i punti di riferimento e la facoltà di conoscere e di nominare. La «ferita» xxxXXxxx Salvatore Ritrovato non si rimargina né con il ripiegamento interiore né con l’evasione dalla realtà e neppure con la ricostruzione di un mondo ideale, perché «dove la salita fa un triedro ora è un paese diverso»: «siamo così lontani e così diversi in quella terra / che si raffredda e nessuno sa, dentro, di respirare». Unico territorio abitabile, anche in momenti di una disincantata riflessione, sembra essere quello della poesia. Non resta che «l’accettazione a volte gelida, a volte furente della finitezza, quasi con l’atteggiamento di chi, perdendo la propria fede, rimarchi ancora più nettamente i motivi dell’agnosticismo» (Alberto Casadei). IL FOGLIO BIANCO è la poesia di apertura della raccolta Quanta vita (1997) tra il foglio bianco e il libro non esiste alcun rapporto di determinazione, ma solo libertà, anzi libero arbitrio. Dunque, l’atto della scrittura come scelta? E questa scelta comporta una trasgressione e, quindi, implica una colpa? Il poeta non lo sa, non deve rispondere; egli lavora con l’immaginazione. Perciò dà al foglio bianco le sembianze di un astuto e ineffabile nemico della sua scrittura, che spia i dubbi e i rimorsi dell’io e scorge le crepe in fondo alle quali si svolge un dolore non detto o differito. Il soggetto che muove la scrittura, sin dalla prima raccolta è un pronome dimidiato, offeso e umiliato. […] In questa lirica (FIGURA) si manifesta, sostiene Franco Musarra, «il campo tematico dal quale Ritrovato estrae il materiale linguistico ed immaginifico della maggior parte della sue poesie: quello del mare». Frequenti soprattutto nelle prime raccolte, troviamo parole come stiva, albero maestro, timone, prua, poppa, scialuppa, scafo, carte nautiche, cui si aggiungono tecnicismi come coffa, tremaglio, scotta, pavesata, ferzi e così via. Il critico considera il linguaggio marinaresco staccato da ogni riferimento concreto, finalizzato piuttosto a disporre «una rete di interrelazioni semantiche volte a “rappresentare” le “sensazioni” più nascoste, provocate soltanto parzialmente dall’esperienza esistenziale». Nella lirica FIGURA il poeta non vuole assolutamente nascondere i rimandi e i due viaggiatori, Ulisse e Icaro, rappresentano non il desiderio di avventura, quanto la fuga dalla realtà nel mondo della poesia, altro Eden sognato. […] La fuga dal reale si pone come unica via di salvezza da un mondo ormai irrimediabilmente contaminato dai miti della giovinezza, della forza e del danaro. Ritrovato, attraverso la tematica del viaggio, propone l’esigenza di una “volta”, che si presenta assolutamente necessaria anche perché l’io stesso ha subito un devastante processo di disidentificazione. Sull’orizzonte del mito egli intravede che ogni soluzione prettamente letteraria è destinata a fallire: il problema va ricercato all’interno dell’uomo. […] Giuliano Ladolfi, Salvatore Ritrovato. La fuga della parola, in Poeti italiani del Duemila (a cura di G. Ladolfi, Bari, Palomar 2011, pp. 180-188) *** 106 […] C’è … qualcosa di profetico nel tema di Quanta vita, incentrato sull’allegoria del viaggio per mare, con cui salpa per il suo percorso, tra ciurme ubriache (“Non senti la crapula / la danza della ciurma ubriaca? / e che aria tira in questa/vilipesa trireme? / Sì, potresti aver ragione, / l’essere è così lieve...”) e mozzi saggi che guardano al passato da un alveo in secca con “nessun flusso d’acque”, immancabili riferimenti melvilliani e omerici, ma anche eliotiani. Anzi, sta forse in un verso di Eliot la dichiarazione di poetica più sintetica e precisa, così come viene messo in citazione all’inizio del libro: “At the moment which is not of action or inaction” (“Nel momento che non è d’azione né d’inazione”). Non si tratta di un’impasse, semmai di qualcosa che non va, che manca. L’ingranaggio non funziona, qualcosa si è rotto, il viaggio stenta anche al suo inizio, laddove il luogo comune vorrebbe lo slancio, l’impeto, il colpo di reni. Così Icaro è “quel disperato / che si tuffa (...) perché non ha le ali”, così il mostro “sbatte / la pinna nell’acquitrino”, non più nell’oceano come faceva Moby Dick, in una caccia che ha qualcosa anche del Caproni de Il franco cacciatore e de Il conte di Kevnhüller, riecheggiante in queste poesie per il rincorrersi, sebbene poco più che accennato, di allitterazioni e di xxxxx qualche sporadica rima. Salvatore Ritrovato L’artificio di scegliere un’immagine, una situazione, dei personaggi per esprimere ciò che preme comincia a diventar frequente nei poeti della generazione di Ritrovato. Servirà ricordare che un decennio prima, nel 1987, Roberto Mussapi inaugurerà la propria opera in modo analogo e altrettanto marinaro, con quel Viaggio in una stiva che è la prima sezione del suo libro d’esordio, Luce frontale. Di diverso c’era il contenuto: in Mussapi è l’idea di una prigione, di una restrizione prima della nascita, del poeta che è rimasto quasi intrappolato nel cuore del mondo attuale: “Se toccheranno terra io sarò serrato nel loro / cuore come in questa stiva prigioniero”. In Ritrovato il viaggio in mare, come già notato, è un salpare-restare, una stasi nell’oscillazione tra azione e inazione, neppure un’inazione. Qualcosa a metà tra l’incertezza e la contemplazione dell’orizzonte che, forse, si sta spalancando al nuovo autore. Chissà, per dire questo i poeti di metà del secolo avrebbero scritto frammenti dell’io, rinnovando la lotta che nel Novecento ha avuto proprio nell’io che si stava perdendo e ricercando il suo fulcro. In Ritrovato il baricentro è spostato nell’immagine: assistiamo a un racconto, una messa in scena, anche se senza alcun effetto drammatico dello stile né narrativo nella tramatura: abbiamo poesie che si avvicinano spesso alla prosa, con Montale di Satura e Sereni come evidenti modelli, direttamente o indirettamente poco importa. C’è solo, a tratti, qualcosa in più di cantato e di ritmico, il che fa venire in mente anche una certa ascendenza e preferenza anglosassone; Eliot è già stato citato, forse si può evocare il nome anche di Larkin. La combinazione tra dialogo interiore – serrato, interrogativo –, l’instaurazione di un’immagine e il racconto come diario, compone la particolarità della poesia di Salvatore Ritrovato, che lo distingue da altre esperienze a lui e noi contemporanee in cui viene attuato lo stesso stratagemma di rendere l’io in una situazione scelta dall’immaginazione. Paolo Febbraro nel suo Il diario di Kaspar Hauser costruisce una cornice narrativa che contenga i frammenti poetici attraverso la finzione del ritrovamento di un manoscritto; Davide Rondoni, soprattutto in Non sei morto, amore, racconta l’incontro con Amore in una città contemporanea con un deciso stile epico-narrativo; Massimo Morasso, ne Le poesie di Vivian Leigh, assume la voce di un altro io, in uno spostamento tipico della sua poesia; e altri esempi si potrebbero fare di come i poeti di questa generazione tentino frequentemente di immaginare una situazione o un personaggio e, attraverso di esso, esprimere l’io. E sono anche esempi che documentano la diversità dei percorsi, a partire dal dispositivo comune, e sottolinea nel confronto ancor più la peculiarità di Ritrovato. Siamo cioè in un periodo in cui l’io nudo e crudo, drammatico e frammentato, non basta più. Ma la domanda che viene riguarda ora l’ispirazione: da dove viene e come regge? Perché il fatto che regga in Ritrovato è innegabile: regge soprattutto quel nucleo emozionale in assenza del quale una poesia diventa illeggibile. […] Gianfranco Lauretano, in SALVATORE RITROVATO, LA SOGLIA DELL’AZIONE, “Clandestino”, A. XXXIII, N. 4, 2011, pp. 26-29. 107 Da Come chi non torna Salvatore Ritrovato Da VERSO CASA I A Enrico Non amo le città, i quartieri futuri illuminati dai lampioni. Meglio una luce di traverso appesa sullo scoglio, meglio il trabucco che lievita sul mare acceso dal tramonto la bora che lo scuote. Meglio la via che si arrampica nella foresta tra carrubi e pini ai faggi depressi dove sparisce il sole invisibile scroscia tra le foglie le radure di more nere come la terra sotto le pietre. 108 […] […] IX Croci senza nomi. Quanto marmo fra i cespugli e bottiglie di plastica. Tra i rami spogli andando Cari mamma e papà dice una non sono fatto per questa terra, felice in cielo dove vi aspetto. Usciamo alle campane rannicchiati nel vento. E intorno deserto. S. Giovanni Rotondo, agosto 2004 Da EGLOGHE Salvatore Ritrovato Il giardino perduto Oggi, mi accoglie un giardino senza pergolato e nuvole si addensano sulle vette, calcinate, infiammano l’autunno che alligna in villette senza memoria come pigra ansia di vita che il tiepido asfalto circonda. Mi metto a sedere dove un animale sembra che voglia calpestare, fino a ridurlo in poltiglia, il fango scivolato dalla lurida grondaia dell’ultima casa. Una pioggia fine piove da un immoto stagno che occhieggia nella sera in una piazza di foglie in esilio tra radure assiepate, ricomposte, e tutta per se stessa è la terra, con se stessa, lingua di creta su cui nulla che perduri o muoia (non un filo d’erba né il vento che soffia e trita da una grotta, nel bosco, la sua polvere) riconosce in quella soglia l’eterno. 109 L’infanzia devi riempirla di gioia se non vuoi fuggire e riempirla, mi dico, in quest’aria primaverile che spira fra le corolle e a miliardi instilla cristalli e grani di rugiada, nello stesso istante disperde nuove gemme, esplode in germogli da per tutto, trasformando la lava in vapore in rifugio la meta, dolcemente e leggera come una lanterna di sabbia e silicio appende l’odore della neve ad ali notturne. Egloga di una domenica di novembre Salvatore Ritrovato 110 Sulle cime roteano falchetti (ricordo questa scena mai vista o vissuta non so dove) salgono e scendono quasi immobili mentre noi sgusciamo all’alba contro un tepore nuovo. A quel sentiero un altro segue dopo, e quindi un altro, e torna a poco a poco il desiderio di andarsene, così, un mattino a caccia (di niente) una domenica di novembre. Superiamo gli ultimi campi ci inoltriamo lungo argini e rovi vani d’erba e limacciosi (succede quando piove) rigagnoli: siamo in un arazzo sfilacciato di rilievi e antiche gravi, in un avanzo di vigilie inerti, da tempo seppellite, un giorno pallido che non muore. Imbracciano il fucile gli altri, io le mani le rigiro nelle tasche del giaccone ampio adolescente, e spingo un binocolo nella nebbia: sembrano macchie, e a volte (non è un’impresa dicono sparare) sono beccacce; l’ultimo cinghiale fu visto vent’anni fa; nessun lupo dall’Unità. E tutti forte a parlare. Una scorsa avanti, e anch’io in fila metto le orme rovesciate sotto il fango il passo indifeso della notte. Sale l’eco dei trattori, polverosa dai campi dove scattano corvi e ogni estate tornano più pochi. Poi, una mutata lucentezza di radure foglie che frangono il vento accartocciandosi, vecchia lingua che nessuno più conosce. Esiste ancora un canto che meriti cantare? che dà forma nuova al buio? Dopo il grano, la paglia; e dopo la cenere che lega la terra all’aria all’estate l’inverno, una domenica all’altra. Mentre tutto passa. Restare come resistere esistere come non esistere. Intorno, case (mai viste o vissute non so dove) cadono, si alzano su altre case, seguono le tracce di strade cancellate, fra tornanti e cave abbandonate, e oliveti sbiaditi inverno dopo inverno luci che tremano distanti. Dove gli uomini vivono e muoiono. Il silenzio delle Muse «Unaffected by “the march of events” / He passed from men’s memory in l’an trentiesme / De son eage; the case presents / No adjunct to the Muses’ diadem.» Salvatore Ritrovato (Ezra Pound, E. P. Ode pour l’élection de son sepulchre) Fu un’altra domenica, capitò d’agosto, una mattina che le parole non sanno dove stare la notte avanza per vie traverse, nelle stanze piene di sogni mai terminati dell’insonnia. 111 Là erano due ragazze su una sdraio che raccontavano di amori, avvolte in una coperta (le osservavo dalla balaustra davanti alla baia), su un gracile confine di sabbia deserta; più in là un gruppo di amici seduti sulle sedie di un ristorante, tra gli avanzi di un’acre lotta di odori sul molo rotto come in una malata stazione di mare. naturale ci si interroga: ed è cultura. Segreto complotto cui tutti hanno qualcosa da restituire o rubare, anche i poeti, anzi più di tutti questi, che allora setacciano la spiaggia fra gli ombrelloni e i tavoli e lestamente calano una rete la riavvolgono la ributtano per strappare al giorno un minuto d’otium in quell’eterno paesaggio, o la colazione. E chi affronta e si rifugia nel segreto lo fa perché trova un dolore nella ferita un insegnamento domestico che muore all’alternarsi delle stagioni, e torna vita. Pescatori al largo sul pedalò che avevo incontrato prima, farfugliavano tra loro qualcosa di incomprensibile forse la distesa calma che la luce tagliava all’orizzonte o un desiderio di vedere le cose al loro posto che va sempre così (diceva uno in camicia sgargiante salpando sul piccolo topo azzurro), o peggio. Grida di entusiasmo dal ristorante quando appare il sole, un’ampia e mite striscia di luce che apre come un’ostrica il mondo e i sensi assonnati degli astanti che io guardo guardare, e poi sparecchiare in bermuda, e scegliere una foto dalla macchina digitale. Ognuno la sua copia tascabile dell’evento. Un genere di zitelle che portano a spasso le cagnette in città, qui sono distinti signori indecisi: tengono un cane che annusa scie di limoni e nafta dove decine di gabbiani indifferenti fiondarsi in curve livide sulla terra, e ammarare sospetti ora vedevi, e tra lo sciabordio indifferente delle onde cercare le ultime tracce di onesti naufragi. Anche le rose cominciano a sentire la fonte ideale del loro amore, ascoltano come sempre il rumore di una società che trafigge l’immenso e tragico silenzio delle muse, ne copre la fuga, e il raro andirivieni persino commosso, nel grembo di questa conca. Mattinata, Fontana delle Rose, 26 agosto 2005 È la natura, ma quando si assiste a uno spettacolo Salvatore Ritrovato La terra Il tempo che copre queste cime fa come un manto di leggero muschio e oblio, lascia segni radi ma caldi alle doline, in prati dove il mare spira odore di sotterranei paesaggi. Qui la terra decaduta ancora cade in perenne permuta con un giardino di mele, cede alle minacce, spinge, svelle da sé non fiori ma avide primavere ne spegne il seme nel ventre e nelle vene allagate di rare passioni, lo perde. 112 La terra insegna alla mia mano, alla mia mente suoi ostaggi a muoversi lentamente all’occhio a notare differenze insperate lontane dal suo cervello all’orecchio le parole cadute sotto torri di pietre e abbandonate radure al corpo l’opportunità di comprendere anno per anno quello che non fu, non era un transito di voli ma un passaggio al confine tra me e l’inverno, il silenzio e niente. 10 ottobre 2006 L’erba Salvatore Ritrovato 113 Galleggia verso la riva opposta come un tronco lasciato inerte alle correnti questo corpo in cui aspetto l’altra vita portando sull’erba che il vento bagna e piega una vitrea imbalsamata spoglia avvolta in acrilico e finissimo cotone lavorato. L’abito che fra strati grigio-cerei di nubi malate perse nelle correnti finirà per scendere in un velo lieve di polvere ora prende forma. Adora antichi fiori di vinile agli angoli delle fredde baracche disabitate, ne ammira e studia le macerie. E dalle colline di cobalto alluminio ferme in un celeste nulla che bacia i templi i pilastri il vapore acido di un incendio notturno della città tra stillanti raffiche di sogni, alza lo sguardo nel decadente piano dell’universo alle stelle che spariscono per milioni d’anni al loro silenzio, alle correnti di materia in quel punto in cui declina care ombre e ricordi ogni muro. Cadrà, e si diffonderà il profumo dolcemente della terra. Di un’altra terra dove pernici e aironi tramano insieme costose intersezioni della notte infranta sui fanali e qualche pettirosso dalle penne di fuoco lancia fischiando ariette da un ramo di pruno selvatico come un nuovo giorno che accarezza l’erba. Salvatore Ritrovato Dei poeti Un giorno sono un mucchio di ossa e polvere. Ora fuggono, e in giro ne vedi pochi, come cervi tristi, abitare una terra fra impervi teneri cuori che non sanno leggere. Un giorno assisti impotente alla loro estinzione. Prima dichiarano le loro piccole curiosità per un grammo di polline posato sulle scarpe, poi riducono alla ragione pentiti la balbuzie del creato. Arrancano, vanno a scatti. La coscienza che parla a fatica anche della morte, è un altro strappo alla regola dicono in quel folle cammino-verso la Natura amica. Ma deplorarla, o deflorarla, che consolazione, o vederla morire ogni minuto, chiusa fra briciole di azoto e la curva stagione. 114 Da ALTRE STAGIONI, SOGLIE Salvatore Ritrovato Stralôquie Ci assetta, me spia: «m’a’ fà canòsce sôpe?» fa, «e come nen lu canusce?», ma jisse nziste, «m’a’ fà canòsce sôpe?» Lu pigghje pellu vracce nchjaname citte, chjane chjane, quanta vote l’ame fatte quissi scale sôpe e sôtte, l’ame nchjanate che iavàme giune pe appurà lu vine (ddà lu vine ghjanche ddò lu rusce), pe cuntà li dammeggiane. 115 Mo fa lu gire dellu suse e lu mutidde e la tina va muntuanne, curiuse, e li libbre affôte jinte li cartune lu spècchje derète, stritte allu mure ma sta nesciune. Citte ci affaccia allu ballecône ce vòta da nu quarte all’àute della chjazza sènza crestïane, ghjanca come nu venzôle spase allu sôle. «Come jè, vu ’scegne?», li facce. Ièva tutte come penzava, e mo è tutte luntane. 23 aprile 2003 Su Come chi non torna Salvatore Ritrovato […] La riflessione esistenziale viene indotta dal tornare nei luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, come si segnala nella poesia d’apertura dal titolo Ho cominciato, scritta nell’agosto del 2004 nella natia San Giovanni Rotondo («Ho cominciato a riflettere nell’ombra / quello che sono o di me è rimasto / quando torno, perché non posso / o non serve scegliere di restare»). Il paese e i suoi residenti, gli ospiti temporanei, le ombre del passato e del presente, «le radure di more nere come la terra»: Salvatore Ritrovato dà spazio ad una liricità che afferra il tempo e la natura, i ricordi, la trama di un vivere comune riannodata come orecchiata tra finestre e porte. Tra le più riuscite poesie si segnala Il giardino perduto, che rende davvero l’idea di ciò che significa scorrere in lontananza un’età che rimane immolata. Viene riassunta in versi una realtà che non è cambiata dopo anni, come se si passasse di generazione in generazione un simbolico testimone. Una sorta di visione del mondo riformula «un adesso a cerchi concentrici», una scena già vista («L’infanzia devi riempirla di gioia se non vuoi fuggire / e riempirla, mi dico, in quest’aria primaverile / che spira fra le corolle e a miliardi instilla / cristalli e grani di rugiada…»). Salvatore Ritrovato è anche un autore ‘elegiaco’ che infonde una dichiarazione di poetica in modo implicito ma inequivocabile. La terra, la sua terra, è una terra universale che non ha nulla a che vedere con i «quartieri futuri». Ritornare all’origine non svela nulla di nuovo, ma un copione malinconico, sentitissimo, a tratti struggente. E si notano influssi di una poesia di luoghi, naturalistica, che tra l’altro Ritrovato conosce bene anche nella veste di critico. Si pensi a Bertolucci, a Volponi, a Guerra, a Bacchini, a Piersanti, a una poetica tradizionale, classica, che ha permeato gran parte del secondo Novecento italiano, specie negli esponenti che hanno vissuto o vivono tuttora nella dorsale appenninica del centro Italia. Versi eloquenti trasmettono una matrice comune che ha assonanze familiari («Ti porto nel mio paese, ripete allontanandosi. / Piove sempre laggiù oblio da anni / un giorno sì uno no, piove / un ronzio secco, senza lampi…»). Nella sezione dal titolo Egloghe, componimento bucolico in forma dialogica, c’è un incipit in esergo di Ennio Flaiano, che potrebbe riassumere l’intera poetica di Salvatore Ritrovato: «C’è chi vuole che la nostra terra sia l’inferno di un altro pianeta, ma io nego la poco lusinghiera ipotesi per vari motivi, e il principale mi sembra questo: che l’inferno è un luogo dove non allignano il ricordo e la meditazione». Un’anima in ascolto, dunque, un’anima che conserva e non dimentica, ma che anzi alza ancora una voce salvifica contro ogni deperibilità delle cose e contro ogni finitudine umana. Del resto il poeta ha questo compito inderogabile: non far cadere nell’oblio la quotidianità del vivere e i reperti della memoria, perché anche una marginalità geografica possa diventare centro. Alessandro Moscè, in “Prospettiva. Periodico di arte e letteratura”, inserto de “L’azione”, 25 ottobre 2008. 116 *** […] Il suo percorso è opportunamente delineato da Massimo Raffaeli nella Prefazione, dove fra l’altro si segnalano alcuni possibili modelli, come Vittorio Sereni, Luciano Erba e Giorgio Orelli. E in effetti, affinità con certi componimenti sereniani (o anche, più di recente, di un Piersanti o di un Pusterla) si possono individuare, per esempio in poesie come C’era un luogo, che indicano bene un filone della lirica di Ritrovato, esplicitamente legato al tema delle ‘egloghe’ e della ricognizione della natura, specchio e insieme deformazione dell’io, ormai troppo distante da quel mondo per potercisi inscrivere. In effetti, la dominante della nuova raccolta sembra quella di una sofferta presa di posizione sui limiti dell’esistenza, xxxxxxxxxxxx Salvatore Ritrovato l’accettazione a volte gelida a volte furente della finitezza, quasi con l’atteggiamento di chi, perdendo la propria fede, rimarchi ancora più nettamente i motivi dell’agnosticismo. Forse anche per questo molti componimenti gravitano sui loro finali, perentori nelle loro asserzioni e quasi brutali nel ribadire l’impossibilità di qualsiasi trasfigurazione simbolica: «non era / un transito di voli ma un passaggio al confine / tra me e l’inverno, il silenzio e niente» (La terra). E questa ricognizione esistenziale porta a trovare tracce della scarnificante desolazione ovunque, anche quando le partenze farebbero pensare a paesaggi idilliaci: «Laggiù corrono puledri senza morso / e asfodeli portano un ciuffo aspro / che sembra un dono della terra / a primavera, ma d’inverno un osso». Ecco allora che le tonalità più riuscite del libro risultano quelle in cui la quotidianità sereniana o comunque la liricità iniziale vengono travolte e stravolte dall’incedere di versi drastici, a volte commentativi e palesemente ragionativi, come in Il silenzio delle Muse; a volte implicitamente auto-correttivi, come nel dittico L’erba – L’erba II; a volte, e forse ancora più compiutamente, semplicemente denotativi, come in Farsi giorno, ultima delle Egloghe, sezione centrale della raccolta. È comunque da contrasti vistosi che nascono formule ricche, le quali possono poi essere giocate in forme brevi (specie nella prima sezione, Verso casa), o anche in atteggiamenti ai limiti (però mai dentro) il manierismo degli pseudo-sonetti o il riuso colto del dialetto, specie in Stralôquie (nell’ultima sezione, Altre stagioni, soglie). Ma la poesia migliore di Ritrovato non dipende certo dalle pur evidenti consonanze con modelli: e andranno aggiunti, almeno a livello di sensibilità, il Montale di Ossi e Occasioni, e persino Amelia Rosselli, alla quale è dedicato un componimento segnato da una imagerie alquanto onirico-visionaria (Anniversario), peraltro ricorrente in vari testi della terza sezione. Semmai, è soprattutto là dove viene delineato un destino immodificabile, un tragitto verso un senso che non sembra mai approdare a una terraferma, che emergono chiaramente accenti forti e immagini compiute: «Dove va la sua ombra, la morte gli toccherà sognare / senza venti di primavera, senza ultimatum / e dove sfiorisce l’erba, fra detriti chiamare là / il fantasma di Omero, il rantolo di un fiume, la guerra» (da L’erba II). Alberto Casadei, in “Il sottoscritto”, 23 dicembre 2008 *** 117 […] Come annunciato dal verso-titolo di quest’ultima raccolta, Come chi non torna, si tratta di un ‘viaggio’ che il poeta compie entro una prospettiva che non prevede punti di fuga né approdi definitivi, fatta eccezione per quelli che permettono all’uomo di riconoscersi – per dirla ungarettianamente – come una «docile fibra dell’universo». In questo itinerario che si dipana lungo le coordinate dello spazio-tempo reali e della memoria, l’io poetico si esprime attraverso un movimento continuo, acquisendo significato solo nell’erranza e nell’attraversamento costante di spazi mentali e fisici, fino a giungere all’elaborazione di una identità multipla e composita che riflette l’eterogeneità dei tempi dell’esistenza dall’insieme delle partenze che hanno permesso una rilettura – necessaria e spesso dolorosa – di un vissuto provvisorio, transitorio e ‘transitivo’, costituito, rielaborato e ri-conosciuto attraverso una fitta ramificazione di relazioni, ricordi, luoghi e non-luoghi, odori e sguardi di qualcosa che ci appartiene ma che resta irrimediabilmente separato, come si dice in modo programmatico nel testo d’apertura. Il viaggio nello spazio-tempo si carica in questa raccolta di valenze semantiche assai diverse: è attraversamento dell’(in)abitabile terra natale (il Gargano), rappresentata spesso come una lontana e mitica ‘terra promessa’ è percorso di formazione individuale che procede secondo il dispositivo dell’apprendere imparando a disimparare; è costante rilettura e dis-locazione del sé e dell’altro, dell’onomastica e della toponomastica che costituiscono il proprio microcosmo da riforgiare e riadattare; è, infine, attraversamento linguistico e formale di tanta poesia del Novecento, filtrata dalla letteratura classica e dai moduli poetici della nostra caotica, informe e informale contemporaneità. Memoria e pietas presiedono sempre ad ogni ‘attraversamento’ possibile. La memoria agisce talvolta immaterialmente sotto forma di vento («la vita attende il vento come piuma / sul dorso della mano, un vento freddo / che xx Salvatore Ritrovato scorre la terra deserta, confonde strade»), dislocando il flusso inarrestabile di cose e luoghi, nomi e riflessioni che proprio grazie al dispositivo-ritmo della memoria riescono a caricarsi di senso, spessore e praesentia. L’unico territorio abitabile sembra essere quello della poesia e della scrittura: un territorio-deserto che r(i)esiste e che accoglie, solo grazie all’erranza e allo sradicamento, come si dice nel secondo componimento della raccolta. La scrittura poetica produce anche momenti di una disincarnata riflessione, che non punta a chiarire ma che, al contrario si pone sulle cose come uno sguardo retrospettivo, inflesso, capace di contemplare il mistero di sé, dei conflitti, della morte, della perdita di ciò che un tempo ci è appartenuto e che continua a sostanziarci, fino a toccare con mano l’impossibilità di riconoscersi in quello che noi siamo in grado di contenere e di nominare. Di fronte ad uno spazio-tempo che cambia e ci cambia inesorabilmente, che si (e ci) trasforma, che (in)cede strappando punti di riferimento e certezze, la scrittura poetica di Ritrovato si pone come luogo geografico e paesaggio interiore di ‘r(i)esistenza’ donde poter continuare ad essere e a dire. Unica residenza possibile, uno spazio-tempo da cui si parte per tracciare molteplici approdi. Possibili. Flaviano Pisanelli, in “Poesia”, n. 242, ottobre 2009 *** 118 […] In Come chi non torna c’è uno scatto stilistico, una novità rinvenibile soprattutto nella sezione centrale e più corposa, quella delle Egloghe. È interessante intanto notare come parlando di novità non incontriamo una rottura netta con le raccolte precedenti; il cambiamento è lento, misurato, mosso verso l’invenzione (intesa anche come ritrovamento) di una propria cadenza, la voce unica e distinta di sé. Accade nei poeti che non pubblicano molto e percorrono la propria strada accettandone il ritmo in un continuo paragone con la verità della propria vita e della propria voce, ed è un pregio. Di questa piccola schiera è parte appunto Ritrovato. Perciò nell’ultima raccolta non viene a mancare il dialogo interiore, il testo inteso come annotazione lirica al confine con quella diaristica, il rapporto con l’alterità, la struttura velatamente allegorica dell’opera nel suo insieme. Proprio quest’ultimo aspetto cita l’allegoria di cui è sempre incaricata l’egloga classica, da Teocrito a Virgilio a Petrarca fino alla grande stagione della poesia del paesaggio che ha in Italia il suo centro nel Cinquecento e nel Seicento, epoche letterarie di cui, vale la pena ricordarlo, Ritrovato è un esperto a livello accademico. Neppure mancano chiari riferimenti poetici, a partire ancora da Eliot e in genere da un certo andamento anglosassone, passando per Pascoli ma anche per Magrelli, come dicono chiaramente certi versi: “Per meglio amministrare le ultime risorse / divido la memoria in are ed ettari / e gli anni in latifondi”, dove riecheggia il tranquillo possidente della propria mente di magrelliana memoria. Ma a cosa rimanda l’allegoria di questa opera? Con chi si instaura il dialogo, caratteristica dell’egloga stessa, fin dalle origini? E qual è il paesaggio che si raffigura in questo segmento cruciale del percorso di Ritrovato? Tutte le domande hanno un’unica risposta: i luoghi d’origine, a cui il poeta non torna (questo significa il titolo della raccolta) perché impossibilitato dalla loro mutazione, dalla metamorfosi continuamente in atto e che ne ha fatto un’altra cosa, non più quella del ricordo: “Indossiamo il mondo eppure è un velo a termine quest’abito”. In questo nucleo che è profondamente esperienziale, se così si può dire di un’esperienza che non c’è (ancora l’oscillazione tra action e inaction), sta innestata la sottile linea dolorosa che fonda senza esibizione il tono leggermente dolente e meditativo della poesia, che giunge però ad intuizioni perfino felici: “La terra insegna alla mia mano, alla mia mente / suoi ostaggi a muoversi lentamente / all’occhio a notare differenze insperate / lontane dal suo cervello”. Il verso lungo, il ritmo posato coincidono quindi con lo sguardo che si allontana dal “suo cervello”, rinuncia cioè alle sue imposizioni e ai suoi calcoli e si apre alla possibile novità, al dato per come è, col rischio di una perdita nel tempo di ciò che era ma anche la possibilità di rinvenire un’insospettabile bellezza. Le Egloghe di quest’ultimo passaggio, dunque, sono un ritrovamento e un’apertura per auspicabili e probabili nuovi passi verso un conseguimento di ulteriore dizione e chiarità. Gianfranco Lauretano, in SALVATORE RITROVATO, LA SOGLIA DELL’AZIONE, “Clandestino”, A. XXXIII, N. 4, 2011, pp. 26-29. Da Cono d’ombra Salvatore Ritrovato (ora, invecchiare) Ora invecchiare mi è dato, e affrettarmi per via. I passi che escono dal buio non li sento le parole strisciano senza peso. Come un manipolo di illusioni che mi segue ed è mia abitudine interrogare, ridurle all’attesa di un’altra vita. Migliaia di voci con passo lento entrano in una stretta gola. (sul traghetto, un vento) 119 Senti come il vento solleva le radici e le scioglie sopra terre emerse da un inverno, in acque di fortuna porta la nostalgia come un aratro. Senti questo vento spingere di là da Cherso la vita in contrarie e disperse direzioni, scendere nell’erebo anzitempo. (lasciata Tuzla) Nottetempo una diga si apre fra me e il caos. Salvatore Ritrovato Non macchia né picchia sulla carta non scala miti finanziari o titoli ma a lungo elucubra, fora l’insonnia, smina dentro di me la Bosnia i suoi vicoli, in un labirinto di esili e stragi. È la vita che viene come viene, pure il dubbio di non viverla, no. (la guerra dietro l’angolo) 120 L’immagine più forte sono i muri forati da pallottole: come occhi al buio spiano dal passato. Un giorno vi cresce l’erba, il sole scalda quel buco diventa nido per uccelli, la vita sboccia sulla morte, l’innocenza sulla colpa. Un giorno torna il soffio cupo di un corpo maciullato. Da L’angolo ospitale Salvatore Ritrovato Un poeta, secondo Mandel’štam 121 Negli occhi ho questa luna esanime e la tenebra malata che l’avvampa. Tendo ogni giorno quello che posso la vela al vento sulla barca e i remi al largo nel discorde traffico di panfili (su ribollenti marine) e zattere, zavorre indifferenti al cielo antico, alle illusioni. Faccio ogni anno quello che posso portando alle labbra l’umore vischioso della terra madre sempre di laidi insetti radici che si aggrovigliano tra stagioni vive e morte. Ma dov’è la leggenda di quell’uomo che cantava ai detenuti le traduzioni di Petrarca? E l’amore dove perdersi in questa vigilia di sterminio? Da ELEGIE A VENEZIA UN’ESTATE Salvatore Ritrovato «La splendïente luce, quando apare...» Chiaro Davanzati Ora che sei arrivata sarà più facile vivere alla giornata e sopportare ogni distanza o provvisoria dimora nel viaggio che si perde in calde e mute foschie e nuove paure. E per me, dai miei appunti sorpresi a un’area di servizio, alla radio in festa nei primi chiari raggi di luce tra Venezia e Urbino, sembrerà un ricordo soltanto da fermare al tuo nastrino. 122 Immagina una pianura che si srotola fra gli alvei del Po e del Piave aridi come frutti dimenticati dentro il frigo di una casa distratta – non puoi vederla oggi: era la terra, una grande tazza d’afa tra le malghe. Avrei voluto un’acquerugiola nel patio e le correnti atlantiche alle spalle di una stagione nuova che in te ora cresce e in me ostinata si rinserra covando i miei rimpianti come acquazzoni: laveranno la tua mente... Io allora ti dirò stringevi un dito mio nella manina per dirmi io sono questa piccola parte che di te resta. Pallide vocali alzava l’alba di ramo in ramo dagli alberi volava un’ombra calma più deliziosa della luce, la lunga estate che ti portò in vita. Esistevi, pensai dietro il cancello. La strada terminava in un sentiero mite e argilloso fra le colline di un paese così lontano dal Noncello da non parere vero, e tu di là aspettavi ancora il latte io qua certezze che non potevo darti. 8 luglio 2003 Salvatore Ritrovato SU UNA VECCHIA FOTOGRAFIA Chi mi fissa di voi in questa lucida carta? Che brusio è scomparso dallo schermo muto di questa kodak? Trent’anni e una parola per tenere quelle pupille, filmarne il verso sopito dalla pellicola l’attimo di meraviglia, non basta. Verrò ad abitare un giorno con voi dove non scorre linfa, non trasuda spirito di focolare e la pietà s’appanna. Pure finirà tutto, in un ostensorio cesellato con cura, o in un calice sollevato sull’altare; cesserà l’andirivieni fra me e voi che mi aspettate laggiù, sulle scale, dopo un matrimonio. 123 Da PARADOSSO I Salvatore Ritrovato Il treno è luogo di molti enigmi originari. Di paradossi. Di molti incontri mai conclusi e mai cercati. Acausali, come si dice. Luogo che radicalizza ogni ambiguità. Ogni scandalo. Facendone delle dualità ostinate. II Dualità. Mi seguono ovunque. Qualcuna è in agenda. Altre capitano. Spazi di estensione e profondità differenti. Asimmetrici. Che a volte coincidono. Il treno poi è come un ascensore (o discensore?), ma orizzontale. Parallelo alla terra. Sul treno non occorre decidere la destinazione. Superare invece l’imbarazzo del perché. Che cosa porta gli uomini a sfiorarsi. A percorrere un tragitto comune. Che cosa scioglie le distanze tra i loro corpi. Immaginando prossima un’anima. Addirittura. Che cosa incrocia in una variabile scartata lo sguardo. Quello che ciascuno riserva per sé, tiene segreto. III 124 Un giorno, ecco, il pensiero precipita. È una signora che va a Venezia. Lo so, perché riesco a sbirciare per un attimo nel suo biglietto quando lo introduce frettolosamente nell’obliteratore. Ho già incrociato il suo sguardo nell’atrio della stazione. Lei porta occhiali da sole. Io no. Ho rifatto i suoi passi con i miei. In attesa. Nervosi. Mentre alla lavagna scorreva l’elenco dei treni in ritardo. Sempre più nervosi. L’ho seguita fino all’uscita dall’atrio. Ha imboccato il sottopassaggio. L’avrei incontrata di nuovo. Si gira. Cerca nei miei gesti le ragioni di una sincera dedizione al caso. […] Da TRANSITI Salvatore Ritrovato 125 EPIFANIA DEL KAMIKAZE in tanta oscurità ci tocca scendere ... e sparai allora anch’io, e fallii, al giovane bendato. Lui mi lanciò le sue ferite contro mi lanciò la divisa del suo corpo, che inferno intorno, tutti in quella buca radiosa – tutti a urlare, anch’io premetti per esplodere, scoppiare trovarmi in un altro posto sul ventre ancora caldo come un albero sollevato alle radici, fra calcinacci e abbracci (si spezzò il filo, si aprì l’abisso) anch’io dico fluttuai a mezz’aria nella brezza del viale illuminato e all’angolo della bocca un grumo lento un morso di cervello colava in volto (forse il mio) sotto marmitte elisie e nuvole lampeggianti, sull’asfalto, in una broda di sangue e sanguinacci, ovunque l’aria posasse come aureola sopra ogni anima appassita, per caso sul menu à la carte. (Due chilometri dal centro dicono: agriturismo “Al laghetto”. I piccoli giocano con anatre e tacchini, sulla riva. I grandi a parlare di ingiustizie. Così lontano, irrespirabile, è un miracolo di vita.) Da FINAL CUT Salvatore Ritrovato DIETRO IL CANCELLO A questo paese che non è Venezia dove i bambini giocano per strada col pallone e sbucano da ogni angolo oggi ho portato Giorgia e Tommaso. Guardano di là quel movimento e nel giardino della zia, oltre la ringhiera, alzano un invisibile castello. È come un sogno che ho dimenticato. Poi stanano lucertole dalle fratte e tartarughe con dardi d’erbaspada, montano sul monopattino, e via d’un fiato. 126 Quanto i miei figli sono diversi dai bambini che giocano per strada, e da me (fra quelli), quanto è lontana la loro infanzia dalla mia da quello che fui anch’io in quel regno senza governo, di auto in sosta e passanti increduli, molesti. Un giorno li vedrò tornare grandi e domandarsi quale traccia dietro il cancello che ci separa di trent’anni fra il giardino e la strada, di ieri resti. San Marco in Lamis, agosto 2008 PASSAGGIO A SUD-OVEST Vuelvo al sur como se vuelve siempre al amor... Giorno perfetto, amore, portarsi a casa questa colpa, mangiare pane bianco come se la poesia parlasse di qualcosa, di un’altra terra per esempio o di una rosa senza spine, innocente. La notte arretra, e tu metti le mani sul prossimo inverno. Fuggire insieme a sud a occidente, e là giocare a morsi per la fame? Anche in quell’angolo non sarà facile lasciarsi alle spalle l’inferno. Da DEDICHE Salvatore Ritrovato EURIDICE Di queste notti tu indovini rime che sanno di fuliggine e rugiada e io, con la bambina, non so più la strada che porta a te, da valli un tempo opime. Un freddo vento soffia sulle cime, scende tra noi tagliando come spada. Dovrò voltarmi indietro ovunque vada? (Usare questi fogli per concime?) Altre ombre si affollano per via e mi si stringono per dirmi dàlle i guanti da sci, una sciarpa per le spalle contro l’inverno, leggile una poesia. 127 Lunga è la notte che ritorna e stretta la soglia, amore, non avere fretta. Su L’angolo ospitale Salvatore Ritrovato 128 Il titolo del nuovo libro di Salvatore Ritrovato … a prima vista pare alludere a una condizione di serenità, ma via via che ci si addentra tra le pagine ci si rende conto che non si dà voce a una condizione di benessere ospitale, ma a un senso di perdita e di esilio, vissuti come status permanente dell’esistere, con la conseguente percezione della fragilità della felicità e, talvolta, persino della sua impossibilità. Allora si capisce che ciò che vibra nella raccolta (e la rende coinvolgente) è proprio ciò che manca, poiché in tralice ai versi emerge sempre l’umanissima speranza di trovare un luogo o anche solo un angolo dove si possa – heideggerianamente – sentire di “abitare il mondo”, e sentire questa terra “ospitale”. Sebbene sia la mancanza ciò che connota il libro, infatti, la tensione che si coglie in ogni verso è una sorta di “tenace apertura” sia nella visione che nel cuore, in quanto il poeta non si abbandona mai al dolore per il disastro che pure vede dilagante attorno a sé, né si compiace del negativo che permea il reale – guerre, estremismo religioso o, comunque, la perdita che è inerente al passare della vita stessa – ma sta malinconico e a volte anche quasi adirato come in vedetta sulla soglia del mondo, in attesa che si sveli quell’invocato “angolo ospitale”. Ecco perché a mio avviso è forte in questi testi la percezione della speranza che un giorno la terra diventi (chissà come e perché) “abitabile”, pare volerci dire Ritrovato, ma sino a quel momento sarà la memoria del passato a “salvarci”, almeno in parte. Nel libro è sempre molto forte il senso del passato vissuto con intensità ma perduto: forte è il ricordo di luoghi cari che però non sono più gli stessi; di persone amate, con cui ormai non si ha più il legame di un tempo e ricorre l’immagine di figli che stanno crescendo, e presto saranno lontani. Tutto ciò che ci è caro (e ci intenerisce) andrà perduto, sottolinea il poeta, ma resta la poesia con la sua fragile forza che sa salvare la memoria, “trattenendo” la vita a un passo dal suo sparire, dando così anche senso al nostro vivere il presente (ma il poeta sa bene che persino i versi migliori non potranno “salvare” il mondo!). Leggiamo questo testo: «Giorno perfetto, amore, portarsi a casa questa colpa / mangiare pane bianco come se la poesia / parlasse di qualcosa, di un’altra terra per esempio / o di una rosa senza spine, innocente». La poesia, dunque, proprio nel momento estremo della dolcezza, prima che anche il ricordo o il sogno svaniscano, sa farci sperare (o sognare?) un mondo diverso, una vita felice e un tempo immobile che non ci sottragga ogni cosa, e lo può fare fermando un gesto, un sorriso o un’aria lieve al tramonto mentre tutto è vivo nel ricordo, come nei versi di Un’estate, del luglio 2003: «Esistevi, pensai dietro il cancello. / La strada terminava in un sentiero / mite e argilloso fra le colline / di un paese così lontano dal Noncello / da non parere vero, / e tu di là aspettavi ancora il latte / io qua certezze che non potevo darti». Una sotterranea tensione anima il libro, lo ripetiamo, facendone un’elegiaca invocazione al Bene dove non c’è più; all’Amore dove si è perduto; alla Vita stessa dove restano solo frantumi di esistenza. Tutto ciò anche nella tenue speranza che la gioia torni a esistere, pur nel disincanto e nel senso di perdita del presente. Mi pare emblematico in tal senso tornare al testo di apertura, Un poeta, secondo Mandel’štam, significativo per dirci il pensiero del poeta: «Faccio ogni anno quello che posso / portando alle labbra l’umore / vischioso della terra / madre sempre di laidi insetti / radici che si aggrovigliano / tra stagioni vive e morte. / Ma dov’è la leggenda di quell’uomo / che cantava ai detenuti / le traduzioni di Petrarca? / E l’amore dove perdersi / in questa vigilia di sterminio?». In un altro testo leggiamo una dichiarazione di poetica: «Io pure levo croste alle parole, ci provo. / Con le mani sporche tiro via l’ultima patina / che insidia, prima che sia tardi o inutile, / parlare di poesia, sceglierla per la vita»: versi emblematici, dove si dichiara ciò che il libro esprime, ovvero, la centralità di una scelta poetica di tono quotidiano, anche se attraversato da lampi lirici, oltre che da scelte lessicali e da una ricerca formale alte dove la tensione del verso è più pressante, come a testimoniare che se l’animo si eleva e vibra di forti emozioni, anche la scelta formale deve farsi più prossima al sublime. Salvatore inoltre ama attraversare la memoria della tradizione poetica, che però ha fatto propria, e rivisita qui in modo xxxxxxxxx Salvatore Ritrovato 129 personale, come nell’ultima sezione, Dediche, che si compone di due sonetti e si apre con un esergo di Zanzotto, sorta di amara e insieme affettuosa invocazione alla memoria, nella vicinanza tra gli umani: «Sarò lontana, / ma non ti abbandonerò». Colpisce il fatto di chiudere il libro con testi in una forma chiusa della poesia, ma questa scelta ha un senso preciso, a mio avviso, vista la struttura complessiva della raccolta e la poetica di Salvatore. Vediamo perché. L’angolo ospitale si compone di cinque sezioni: Elegie a Venezia, Paradosso, Transiti, Final cut e, appunto, Dediche. Se la prima sezione è strettamente collegata a tutta la poetica del nostro autore – e al tono elegiaco che la connota –, più amara, attraversata da un tono estraniato e riflessivo è invece Paradosso: parte interamente in prosa della raccolta, che ci fa vivere un incontro casuale in treno. Il tutto accade in modi contrassegnati da comunanze e differenze, delusione e solitudine, incroci di sguardi e poi silenzi, con accenni narrativi, mai di fatto davvero tali, calati in un’atmosfera di vita quotidiana dove non si rivela il senso più profondo del vivere, lasciandoci come vuoti, colmi di domande senza risposta: pirandellianamente «forestieri alla vita». Paradosso, infatti, inizia con una constatazione: «Il treno è luogo di molti enigmi originari», di cui, potremmo aggiungere, si sfiora qui la portata senza però arrivare a possederne davvero il senso ultimo. Le due sezioni che seguono sono fitte di testi molto intensi, su temi cari al poeta, e lo si capisce dal tono vibrante e dalla tensione che li anima che si avvicina a temi di impegno civile, in alcuni testi. Ci sono però anche qui diverse poesie che definirei “affettuose”, dove il tono si fa amaro per ciò che è perduto, o lo sarà presto: testi per la figlia, che cresce e diverrà altro dall’infante che era; per la propria casa, ormai sentita in macerie; per il paese dove si è vissuto, avvertito “estraneo”, come anche gli amici di gioventù cui è dedicato un bel testo. Le due sezioni centrali, dunque, danno voce a una lenta perdita, dove anche l’amore si sfilaccia e poi tramonta nelle pieghe della vita che tutto assimila e cancella, tanto che questo sentimento è sempre più un ricordo lontano, nel grande caos della memoria. Da qui il tentativo di “salvare” la vita, espresso nella sezione finale nei due sonetti Euridice e Poco e niente, dove Ritrovato dialoga affettuosamente nella memoria sia con una donna che ha amato sia con la propria dimora, ma anche con il vuoto e il silenzio che ora vi abita, in un tono però pacato, dove l’affetto sorregge (e supera) la precarietà di ogni cosa e la condizione di esilio cui tutto il libro allude. Il senso di perdita che aleggia tra queste pagine, va detto, è comunque sempre reso con tono riflessivo, a volte amaro, ma sempre fondato sulla constatazione che tutto, prima o poi, deve finire e che un giorno ci si unirà anche ai nostri cari morti, come direbbe Pascoli (altro autore caro a Salvatore). Come si coglie nel testo Su una vecchia fotografia: «Verrò ad abitare un giorno con voi / dove non scorre linfa, non trasuda / spirito di focolare e la pietà s’appanna. / Pure finirà tutto, in un ostensorio / cesellato con cura, o in un calice / sollevato sull’altare; cesserà l’andirivieni / fra me e voi che mi aspettate / laggiù, sulle scale, dopo un matrimonio». Vita e morte, dunque, per il poeta si uniscono in un cerchio in poesia, dove in parte si svela il mistero stesso dell’esistenza. Pur nell’inquietudine che vibra in tutte le pagine, pur nel senso di estraneità che vi aleggia, quindi, resta un senso di “tenace apertura”, come si diceva e, infatti, il poeta pare volerci dire che per poter vivere occorre saper accettare la perdita: la fine intrinseca in ogni cosa. Ricco di ricordi e riflessioni sull’esistenza, L’angolo ospitale è un libro che sa unire presente e passato, protendendosi verso il futuro; infatti, al termine della lettura resta la sensazione che al poeta stia a cuore testimoniare la necessità di non scordare le nostre radici di esseri umani, fragili e mortali: siamo esseri immersi nel tempo, pare dirci il poeta, ma da questo trascorrere siamo travolti, ma anche salvati, se si può così dire, se ci si immette nel flusso stesso della vita, come accade proprio nei versi di questo libro. Gabriela Fantato, da La forza fragile della poesia (nota di prefazione al volume) Da Via della pesa Salvatore Ritrovato E di buon passo vengo salgo Le scale quando al terzo Piano scocca la mezza Scossa che mi affretta L’appuntamento in piazza Oggi alla mensa rombo Con formaggio che sembra rospo E riso scotto – sbircio nel getto Dell’androne nella tromba Un nodo torvo di rampe La ruggine del corrimano Ovunque il baratro s’adagia, Penati, ovunque siate. 130 Da L’ATTESA DELLA FELICITÀ Salvatore Ritrovato 131 * Talvolta ti ritrovi in un deserto e i dettagli, i contorni delle immagini, le storie si debbono rileggere a rovescio. Così abbassando le palpebre il lenzuolo lo rivedo cadere indietro, sulle spalle, e aggirarsi Ulisse in canottiera quando calcola l’inganno («Chi sei, straniero?», artiglia l’incauto attore) e lei sorridere («Di’, Nessuno, se ti conforta – aggiunge astuta – sapere che la fine è certa anche se contorta...»). E mentre mi ripiglia nel suo velo di trine, una cortina molle di ciocche nere scivola (sono già le cinque) dalla mantiglia. Termina qui la scena. Da quello specchio, da quello che io vorrei (l’oscurità raddoppia) essere, e non posso una smorfia si divincola, volatile e sgomenta, di meraviglia. La lotta riprenderà domani sera. * Salvatore Ritrovato «E chiunque tu sia: che cosa gradisci ora? che cosa ti serve per ristorarti? [...] “Per ristorarmi? [...] che vai mai dicendo? Ma dammi, ti prego...” Cosa? Cosa? Parla! “Una maschera ancora! una seconda maschera!”» (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, 278) Nessuno allora poteva comprendere se il contrario del bene fosse il male o il niente; nessuno oggi che lei è scomparsa ed io fuggo sa dire chi mente. 132 Spengo l’alogena perché nel cuore della recita a un certo punto anche il pubblico si maschera e torna il buio. E occorre prepararsi, in fretta e furia. Nel buio è il parapiglia, senti tutti in fuga, anche la Musa che ora lascia la soglia, tutti (per affinità di colpa o di gola) nella stessa direzione. Addio non riesco proprio a dirglielo, ho il pensiero di quei giorni che un po’ alla volta si rivelano e ansia di ingannare il tempo che li tarla – quando la vedo arrendersi e sospendere la tela (non c’è tempo per disfarla) nella camera degli ospiti. Addio allora, saluta tu Eumeo impiegato del catasto e i pretendenti a una carriera tranquilla al ministero, ed Euriclea la dolce balia che ogni sera dà acqua ai tuoi gerani (un ricordo la commuove) e Femio, ancora preso dai concorsi, addio saluta tutti, pure chi disse: e ora?, e le comparse sdraiate sugli scudi, i morti, le ragazze che puliscono pozzi e corridoi, quando torni fra le stanze pallida ansando vedrai il mondo non è grande e un giorno piove un altro senti che alba LETTERE DI THEO I Salvatore Ritrovato Scegli un giorno qualunque per sbalordirmi. Da un’ora un occhio è lì, su quei colori, l’altro corre su questo foglio ceduto ad una sponda. Là il movimento frana, e lo stormo dei corvi in fuga staglia la superficie nella luce pizzicata dalle ali nere e la distesa ronzante delle spighe. Ma da quest’altra parte plana l’ombra, e mi ricordo quando vidi te una volta aprire una ruvida cisterna sotto la luna piena, la cornice malinconicamente ondeggiante fra le righe. II 133 Faccio la targa con il tuo nome e l’anno. Mi spingo fra le parole perché per me che scambio il soggetto con lo sfondo, non sono vere le cose ma l’arte che le adombra. E non mi sei di peso: dopo Boussod & Valadon chiederò ad altri, non credi?, tu sei prigioniero ed io non posso restituirti l’alba nebbiosa di questa carta da parati. Ma tu resisti, sii più forte. Nel quadro vi è un sentiero che alligna stretto sul muro, come una lingua in un cielo chiuso. III Mi dispiace non ti raggiungerò ad Auvers-sur-Oise anche se lo desidero – avrei sùbito voglia di andarmene, essere altrove libero e senza pace. Invece ho messo l’opera sopra la cappa del camino a lato (non te la prendere) di una parure chinoise. Meglio fra due porte dirai, è vero, ma dove metto i pacchi per il trasloco? Il posto è provvisorio, ti scrissi già da Nuenen, manca l’acqua e piove sempre, le muffe aggrediscono gl’intarsi, la galleria – piena di falsi – è un colabrodo… (è la vita che non basta). Da PIÙ DI MALINCONIA CHE DI PAURA Salvatore Ritrovato 134 * La vita, per un caso non leggera la scopri al dormiveglia. Io in cucina, tu nelle coperte fuggiamo per un buco della tela l’aldiqua, prima della sveglia. Parabola, dirai, avventata e veritiera che filtra ogni mattina dalla tapparella. Ma io t’ingiungo resta a letto, fuori l’anima trema se sbattono le porte, sonnecchia quando il sole sbrina le imposte. Ecco il viavai di Via del Corso, come un palco urbano fermo sulla scena che incombe nell’incerta ressa di voci – lo riconosci. Come l’aria che respiriamo. (Bevo il mio caffè d’un sorso.) * Delirio del domani, reticenza di un evento salutare: ti sei accorta che non posso sconfiggere il mio stato temporale dove è più effimero il sentimento del calore delle tue mani. Perciò un giorno resterò per sempre a letto ma non sarò morto avrò cambiato solo aspetto. E io mi guarderò così, piangendo, con gli occhi tuoi che guardo ridere naso a naso, e salutare, e girare questa camera, in silenzio. Da SEGRETI E PRESAGI Traumdeutung Salvatore Ritrovato Balza una lepre bianca all’alba nell’ombra della mente e un’altra nella scia, serica, quasi fosforescente, vi s’infratta, un’altra preme dietro, una emerge, a un lembo la trattiene la seguente, e presto un’onda soffice la inghiotte, lentamente. Così sogno di sognare e di morire sveglio, ad occhi aperti, nella fede di chi non crede e la vita prende per vera. Lovanio, gennaio 1995 135 Il passaggio Parlando di come e quando Vasto cede a un sospetto d’ombre oblique di un pomeriggio afferro ancora un lembo del giorno sulla soglia del palazzo d’Avalos, dal chiostro rosso di tardo agosto e te lo porgo, Barbara, di passaggio, come una ruga dolce e rara al tuo commosso addio da queste cose. Arremba il greppo marsico frana divalla l’ultimo paesaggio sul rapido Vasto-Pescara lentissimo fra i prati erosi dalle strade e le nuove aiuole. Giorni alti «La vita di ogni mortale corre più leggera di un volo di farfalla.» (Anonimo, su un muro) Salvatore Ritrovato 136 Così ti svegli alla mattina e raccogli un movimento svelto e fragile di penne. Lentamente apri le ali e il silenzio nell’aria si riempie di voci sommesse e aromi freschi di cornetti. Talvolta spira dal canale sterrato un’eco di latrina ma oggi non lavorano, e ardite scaglie e visionari vaticini di sereno filtrano i battenti scampanando tra fanfare ecumeniche d’altri tempi. Un’esile adunata di fantasmi sfila e dissolve l’assedio delle ore; invano lasci stare i sogni alle lenzuola, ti chiedi dove sono – lunga rincorsa all’alba che si inceppa – e voli al tuo lavoro. Salti le scale, la colazione in un battere e via da questa umida stanza, correndo all’ombra smorta della calle a giorni alti, senza consiglio. Resistere o fuggire? (Pigia la folla sulla plancia gonfia del traghetto.) Sparire nelle falle limacciose del naviglio, o librarsi da una riva all’altra senza scendere? Il sole spicca tra le nuvole ad ombrello nel nuovo giorno e il buio rapidamente percorre gli angoli di un bar in piazza Rinascimento deserta. Un sorriso in questa bianca e illune tazza di caffelatte che la nostalgia riscatta. Sciolgo la brina dalle fioche implacabili parole sgranate al cellulare. Interferenze, guerre di pulsioni elettriche nel vento che si è alzato da levante diresti, ma l’immagine di te che voli spiega l’ale (ormai da anni) tra leggerissime farfalle. (Bordano, Venezia, Urbino, 28 marzo 1999 - 1 maggio 2001) Da CARTOLINE DA CASA Salvatore Ritrovato Addii Scampàti al fuoco, tutti o quasi (anche chi dorme) gli amici oggi non tornano. Qualcuno sbatte il naso nella meta, altri fugge alla cieca, trova una vita più splenetica ma chi mi guarda più negli occhi? Avanti!, gridano laggiù anime prave, avanti!, gelido rifugio, amarsi. E un verso alligna, ignobile: «i fiori sono fiori, i sassi sassi…» 137 Agli antipodi Salvatore Ritrovato 138 Da quel fiume in piena sulle case e le persone che volevano restare come una spirale di crepuscoli e albe volò via la vita. Con quale grazia il nubifragio svanì nel fondovalle di Pantano. Un fuoco sbadigliò sui merli smorto, un sole nano e alla garitta apparve ancora la vedetta pallida scontrosa, il suo fantasma, parlare nella bora: «Morta è la tua generazione, anzi sepolta. E adesso si fa festa». Posso tornare? Sùbito. Saltare anche la messa? Là è una lumera che fermenta in ogni vico e piazzetta sui muri bianchi del paese, per ogni via che mena alla schiera dei dieci o venti che ti aspettano e danza più leggera nella notte, più serena, quando ti affacci bella alla finestra. Su Via della pesa Salvatore Ritrovato 139 La prima forte impressione, all’apertura di questa raccolta di Salvatore Ritrovato è quella che chiede al lettore di prendere coscienza che l’ascesa a una ‘mensa’ universitaria, come a un obiettivo di purezza, può essere pesante e laboriosa. Nel rivolgimento dell’ascesi petrarchesca credo sia la prima caratteristica di Via della Pesa, che, con il rovesciamento fra ‘alto’ e ‘basso’ (nella composizione che dà il nome alla raccolta e la apre: “[…] nella tromba / un nodo torvo di rampe / La ruggine dello scorrimano / Ovunque il baratro s’adagia / Penati, ovunque siate”), finisce per straniare luoghi e tempi del libro. A raggiera si espande un movimento che interferisce continuamente nella memoria: il protagonista di questo viaggio, pronto subito a cedere la parola, a prendere un’altra identità, sa molto più di Ulisse che di Orfeo, conosce spostamenti che non sono mai pure e semplici descrizioni, ma occasioni di ripartenza emotiva e sentimentale dai luoghi usati. L’Odissea, più volte richiamata attraverso i suoi personaggi-simbolo, è la maggiore dispensatrice di analogie e funziona come una sorta di ipotesto – e forse come pretesto – all’espressione del poeta che cambia di senso a seconda del posto che abita, ma dal quale non riesce a essere abitato fino in fondo. In questo modo si attua il primo, principale, generatore di rapporto dell’individuo con il luogo: lo spaesamento è evidente nelle dubitative che evocano l’incapacità di conformare la mappa poetica a quella esistenziale, persa, nel frattempo, nella nebbia dell’esperienza: “di quelle giornate lunghe, cosa affiora o si rivela / cosa può o vuole dire, di quelle / – immense, mobili – distanze, un verso” (Di quella estate). Anzi, in un’ ‘oggettività’ letteraria dell’esperienza che contrassegna in maniera fondamentale la lingua poetica, con un rapporto intenso con il parlato. Donde la sensazione di pulizia comunicativa e di unità del libro. Quel che rende paritetiche le qualità di cui si nutre la poesia è il lavoro al microscopio sullo stile: e la poesia di Via della Pesa non è mai ‘esagerata’, ma come tesa a una composizione mitica del vissuto individuale. Il poeta patisce il viaggio con ironia, tanto da far consistere citazioni di autori classici – fondamentali componenti del retroterra culturale di Ritrovato – con le più quotidiane esperienze. La Donna che esce dal bagno marino è Gaia (qui la lirica ha come esergo un passo di Esiodo), mentre un latente Ulisse si stende al sole della spiaggia in attesa di Circe. Non è senza motivo che in altri componimenti il poeta punti all’interfaccia teatrale di una drammatica agnizione, fino al definitivo congedo (“ombra, fumo siamo…”, evidentemente Orazio). La messa in scena non evade più dalla seria resa dei conti con la morte, argomento preso con generosa leggerezza, quasi in vista di una fine tranquilla e silenziosa, digerita nella speranza di una malinconia umana, senza paura: “E io mi guarderò così, piangendo, / con gli occhi tuoi che guardo ridere / naso a naso, e salutare, / e girare questa camera, / in silenzio” (Più di malinconia che di paura). Troppo evidente per tacerlo, il legame col viaggiatore cerimonioso di Caproni (si confronti anche Senza rancore e Zattere), del quale sappiamo essere Ritrovato un attento lettore. C’è un concreto tentativo di riallacciare i nodi, composti dai sentimenti della poesia moderna, tra presente e passato in un recupero della tradizione lessicale e formale classica, rinascimentale e manierista; periodi per i quali (così sembra a chi scrive) numi tutelari sono: un morigerato Catullo, per la caustica ironia del frammento di viaggio; il Tasso tormentato, e rivissuto forse nel personaggio di Goethe; il Rilke adamantino delle Elegie Duinesi; certo neo-ellenismo novecentesco (da Kavafis a Larkin). Infine, le esperienze di traduttore di Asclepiade e di Prévert rendono conto di una ricerca vitale nel recupero e della messa in opera di odi e lacerti (come, per esempio, nell’ Anacreontica) nei quali è presente il passato e la contemporaneità è già memoria. […] Giampaolo Vincenzi, in “incroci”, n. 9, genn.-febbr. 2004 *** Salvatore Ritrovato Dopo sei anni dall’esordio di Salvatore Ritrovato con un volumetto Quanta vita che esibiva giù una pronuncia esatta e uno stile raffinato, nel 2003 è uscita una raccolta che sin dal titolo dichiara una delle inclinazioni che condizionano la sua scrittura, e che si potrebbe definire diaristico-autobiografica: Via della Pesa, infatti, è stato l’indirizzo urbinate dell’autore, e in molte pagine del libro omonimo Ritrovato richiama episodi vissuti in prima persona. Le poesie, scritte in un arco cronologico che alcune subscriptiones dichiarano abbracciare poco più di un lustro, risultano così una sorta di precipitato linguistico dell’esperienza di un uomo, dei suoi dubbi e dei suoi dolori, delle sue gioie minute (come quelle amorose espresse dal divertito e arguto intarsio dell’Intermezzo, una sorta di barocca fenomenologia in versi del bacio), delle molte partenze e ritorni, propri o delle persone amate. Cambiano spesso, infatti, le coordinate spaziali della scrittura di Ritrovato, i luoghi che l’uomo percorre e il poeta nomina: Cosenza, Castelli, Bologna, Pavia, San Giovanni Rotondo, il paese da cui l’autore proviene e a cui «è impossibile tornare». Proprio quest’ultimo è uno dei temi più ricorrenti: dai titoli dei componimenti si rileva una netta convergenza intorno al motivo del viaggio, dell’allontanamento – a volte coatto – da un luogo caro: Andata e ritorno, Se tu sei tornata da un lungo viaggio, Il passaggio, Devo partire, Cartoline da casa. Fuggono i luoghi, in questi versi, ma prima di essi fugge il tempo: «In questa vita non c’è tempo / per fissare la verità sulle tue labbra / tutto rapidamente si raffredda», scrive Ritrovato, e spesso la sua poesia sembra tentare una testarda resistenza contro tale ‘raffreddamento’. È curioso che alle partenze, ai saluti, agli allontanamenti egli contrapponga a volte, tra le righe, la forma particolare di otium che è il confortevole dormiveglia mattutino: «La vita, per un caso non leggera / la scopri al dormiveglia», nei pochi momenti in cui si può esitare su un limine, e magari prestare la dovuta attenzione alle piccole cose che costellano un’esistenza: «Così ti svegli alla mattina / […] Lentamente apri le ali / e il silenzio nell’aria si riempie / di voci sommesse e aromi / freschi di cornetti» (Giorni alti, forse la più bella poesia del libro). Qui, dove Ritrovato resta fedele alle cose senza filtri troppo spessi, vanno ricercati a mio parere i suoi risultati più intensi. […] Massimo Gezzi, in «Poesia», n. 189, a. XVIII, dicembre 2004 *** 140 […] L’inizio … è d’effetto. Colpisce il ritmo della prima poesia: «E di buon passo vengo salgo / Le scale quando al terzo / Piano scocca la mezza / Scossa che mi affretta». Soluzioni ritmiche di questo genere … ritornano nell’Intermezzo. I versi citati, peraltro, si arricchiscono di ambivalenze semantiche («Piano» e «la mezza»), risorse cui l’autore ricorre spesso, magari associandole ad efficaci enjambements («fermo / immagine», «Lare del giusto / mezzo», «una città che lampeggia sulla pagina / vuota il candore che la sospende»). Altro espediente formale d’ interesse è l’uso avverbiale in apertura di versi: «Benevolmente accogli questi versi», «Così ti svegli alla mattina», «Lentamente apri le ali», «Talvolta spira dal canale». Ci sono poesie di ambientazione teatrale, poesie di soggetto pittorico (ad evocare Van Gogh). Ma la filigrana è fatta di memorie, viaggi, persone amate. La condizione è quella di chi ha lasciato il proprio luogo, vi torna e non lo riconosce: «Qui sono stato / ed è impossibile tornare / dare la mano a tutti». Significative le evocazioni dei Penati: «dovrai cercarli / rovistare in ogni cassetto / dimenticati al tuo ritorno». Un richiamo graziano (battere la terra con il piede) ha per protagonisti, in una finestra di storia, degli esuli: «Un’altra mattina grigia, rafferma, / nel punto di collisione / dei colori lividi del Conero, / dove un uomo in partenza e due / o tre figure sulla pensilina / in fuga dalla Serbia, battono i piedi sulla terra». In Via della Pesa si incontrano anche diverse soluzioni di gusto barocco, analoghe a quelle che alcuni anni or sono hanno tentato diversi poeti (penso in particolare a lavori di Frasca, di Frixione, pure molto diversi nel temperamento). Si contano parecchie parole desuete e ricercate (ad es. «poscia», «dileggio», «delibi», «lubrico», «codesti», «bifidi»). Si incontrano temi che si allacciano ad una sensibilità barocca, forse più sperimentata che sentita: il tema del bacio esposto da molteplici punti di vista e in mirabolanti xxxxxxx Salvatore Ritrovato variazioni nell’Intermezzo (persino così: «il bacio macho perfetto / muscolare e tremante, / dal lubrico sembiante, provetto / condono di una parola di troppo»), il tema della morte nella singolare composizione Sopra un poco noto trattatello di Alessandro Volta, che vale citare per intero: «L’energia che si propaga / nei binari e in una pila / di appunti presi in treno / allaga di luce e solitudine / l’animo del passeggero / apre il pensiero all’aldilà. / Dove saremo, chi ci andrà? / Mi chiede il controllore / Voilà, il biglietto / e una scarica nell’aria / infiammabile della palude / della padània / ci porta già lontano. / In un perimetro di sguardi / languidi, spalancati / dietro il vano / di un proiettile lanciato. / In un inferno di petardi, / malinconico e molesto» (notevole il contrasto fra «perimetro» e «spalancati»; riuscita l’incursione fra Palazzeschi e Gozzano con il gioco fra «chi ci andrà» e «Voilà»). Poi il tema, emblematico, del tempo: «Le cose parlano chiaramente / quando lo specchio accoglie la sera / grigia delle mie tempie / giallo limone dei miei denti». Entrambi i libri hanno molta misura e questo mi pare senza dubbio un grande pregio. […] Giovanni Tuzet, in “Atelier”, n. 36, a. IX, dicembre 2004 *** 141 Esperienza impegnativa l’incontro con Salvatore Ritrovato sulle pagine di Via della Pesa … bipartita da un Intermezzo scoppiettante di baci e conclusa da illuminanti Annotazioni. Legata all’esordio, avvenuto nel 1997 con Quanta vita, la nuova raccolta fin dal testo eponimo e incipitario invita a seguire l’io poetico nel suo farsi (…) fra necessità quotidiana, altrove, pulsione centrifughe, con ritorni interrogativi sul senso dell’essere e dello scrivere. In versi aperti sempre a una complessità o indirettamente, chiamano in causa Omero e Montale, Dante e Giovan Battista Marino, Esiodo, Asclepio [sic], Nietzsche, Theo Van Gogh, Goethe, Alessandro Volta e Philip Larkin persino, «flagrante debito» spiegato nelle note. La cosa straordinaria è che Salvatore Ritrovato riesce sans effort ad agglutinare tali materiali di riporto ai fili portanti del suo pensare poetico, per mettere a nudo, come ha osservato Vincenzo Guarracino, e insieme riscattare dall’insignificanza e dal mistero una storia altrimenti muta. Operazione non facile, eppure mantenuta in equilibrio grazie alla perizia con cui il poeta lavora le parole: «Neppure i contorni di una terra / misteriosa legano ancora la poesia / alla rotta dorata dei velieri». Grazie al garbo, alla misura con cui egli arrischia previsioni: «La lotta riprenderà domani sera. / (Questa è la vita)». Basterebbe tale visione parentetica, di una vita a pie’ di pagina, a rendermi fraterna la voce di Salvatore Ritrovato, migrante fra il Gargano di origine, Venezia, Urbino (cui si riferisce la via del titolo), Roma, con incursioni, spesso ferroviarie, su e giù per la penisola, nell’accorata constatazione del mutare inarrestabile dello sguardo: «nessuno che mi guardi più negli occhi / e mi dispiace». A lenire lo spaesamento provvede la memoria, animata da icone amicali, destinatarie di ideali colloqui: «Forse voleva dire “a presto” / l’amicizia semplice / di un gesto, non “addio”, / e attendere con te il visto per Rio: / cercare un altro transito nel mondo / invece che tornare in questo». Colloqui che si addensano intorno a figure anche femminili, come Barbara e, specialmente, Francesca, la Musa, dinamica e temeraria: «Dove tu salperesti con il vento / o la tempesta, io mi rintano a Un ennui desolato». Il dilemma che più di frequente risuona in Via della Pesa è dunque «Resistere o fuggire? / (Pigia la folla sulla plancia / gonfia del traghetto.) / Sparire nelle falle / limacciose del naviglio, o librarsi da una riva / all’altra, senza scendere?». Fra altri, mi sembra sia questo lo snodo riflessivo di più ampia ed intima eco. Quasi boenhefferiana “resistenza e resa” che, insieme all’anaforico invito all’ amore addensato in Pieghe, guida al «cuore miope, testardo» del poeta: «l’unico testimone – se gli credete – / di una disperata compassione». Ovvero di una sensibilità che offre punte di particolare bellezza nella visione – autodiretta, o per interposta persona – del futuro, dell’aldilà: «Mi mostri il passaporto per la vita / che verrà, da prendere com’è / dici fra te, “Anche lassù / non dura niente”, ed esci». Germana Duca Ruggieri, in “L’immaginazione”, n. 237, marzo 2008 *** Salvatore Ritrovato 142 L’ultima raccolta di Salvatore Ritrovato è un libro del tutto nuovo rispetto a quello licenziato oltre dieci anni fa, di cui costituisce di fatto una riedizione, per quanto riveduta e aggiornata. Lo è non tanto per il sottile labor limae esercitato qua e là sul testo, già di per sé sintomatico di un’intelligenza nel rileggersi certo non comune, quanto per il ripensamento della struttura, o meglio per la costruzione ex novo di una struttura andata a soppiantare quell’assetto liquido che caratterizzava la prima edizione, in cui era solo il raffinato intermezzo, mantenuto qui in tutta la sua eleganza barocca, a inframezzare il fluire del discorso. Le sezioni, fiorite dentro il tessuto del libro, testimoniano forse la necessità di instillare un ordine dentro quel sistema, allora consapevolmente magmatico, ma non rispondono a nessuna logica tematica: resta intatto il policentrismo – di luoghi, di persone, di cose – del discorso poetico e il soggetto rimane trincerato dietro la selva della pagina, mentre le circostanze biografiche, le occasioni si confondono e svaniscono nella vertigine della figurazione. Non un’operazione nostalgica, dunque, nonostante quel Via della Pesa, scelto come titolo qui e allora, ci riconduca all’Urbino degli anni universitari, ci riporti a una giovinezza, ormai trascorsa; perché quel luogo, tanto reale quanto inesatto nella sua incapacità di restituire delle coordinate certe, si offre come una soglia, come uno spazio privilegiato da cui guardare il farsi delle cose. Un libro in movimento, quindi, fin dalla prima sezione, in cui nel microcosmo improbabile di una spiaggia è adombrato il mito di Ulisse, ammaliato dal fascino ingannevole della donna, perennemente alla ricerca della sua Penelope, che nella finzione della rappresentazione, stenta a distinguere il vero dal falso. Il tema del viaggio è ancora implicito nel ventaglio di luoghi che si apre nelle pagine successive, quando il fondale si muove repentinamente dal vociare confuso di Via del Corso fino al profilo decadente di Venezia, quando la scrittura ricalca i percorsi in treno, gli spostamenti da San Quirino a Bologna, o la tratta breve a bordo del rapido Vasto – Pescara. In questo itinerario confuso, che affastella disordinatamente luoghi e occasioni, si materializzano presenze evanescenti, fantasmi, si agita la figura femminile che smarrisce i suoi connotati reali e da amante con la quale tentare una resistenza al baratro che ci inghiotte, con la quale imporre una tregua all’erosione delle cose, si tramuta in un personaggio diafano, a un passo dal dileguarsi. E anche il bacio che si è dato, che si sarebbe voluto dare o che si è rubato presto perde consistenza e resta solo la traccia incerta di quel bacio abbozzato nell’aria, mentre si partiva. Sì perché il motivo della distanza resta cruciale in ogni lirica: il poeta è sempre in procinto di allontanarsi, di andare, lei è in fuga o già partita, e non resta che trattenere qualche frammento, qualche contorno scialbo rimasto intrappolato nello specchio, serbare il ricordo di un incontro fugace, di un gesto corrivo, perché i vaticini hanno fallito, le predizioni sono sbagliate e non c’è un varco che ci conduca fuori dalla realtà. Presenza e assenza si compendiano allora in una galleria di ritratti lievi in cui gli sprazzi del paesaggio, i profili insensibili delle case, i volti anonimi che ingolfano le strade costruiscono lo scenario lungo cui si muove il pensiero del poeta. Si potrà cercare, seguendo il labirinto dei vagabondaggi di Ritrovato, fuori e dentro la realtà, un approdo nell’ultima sezione che apparentemente riavvolge la matassa dei suoi itinerari, e la riporta dentro le mura anguste della sua casa, nel paesaggio familiare del proprio paese. Ma il ritorno non è un riappropriarsi dei luoghi, di se stesso, bensì un arrendersi alla propria estraneità, se anche lu ciardine, il giardino della sua infanzia, ha perso i suoi connotati. Si potrebbe rintracciare il senso di un percorso proprio nell’andamento di quelle sezioni riscoperte: dalla «attesa della felicità», che suona come un bilancio a posteriori sulle idealità tradite della giovinezza, fino alle lapidarie «cartoline da casa», passando attraverso quei «segreti e presagi» che promettevano di svelare il significato inafferrabile delle cose. Oppure si potrebbe affidarsi all’epilogo, a quella rievocazione quasi mitica del nubifragio che in altri tempi travolse il suo paese, una palingenesi, una pioggia che distrugge e al tempo stesso crea, o ricrea tutto dal niente. Perché la realtà si trasfiguri in altro, perda la sua esattezza, si confonda definitivamente nella dimensione del sogno che annienta. Emanuele Spano, inedito Inediti - Da Radure e fughe Salvatore Ritrovato Contro questo correre A interporsi tra il presente e noi è la memoria: un vetro così trasparente così sottile che pare una casa abitata da leggende. Appena un filo di luce penetra le lamelle di una finestra vedi la polvere scendere sulle cose che hai perduto per sempre e nell’angolo più buio disegnare impaziente l’orizzonte che tutti attende. Così quel vetro diventa una seconda pelle raccolta nella sua fragilità e tagliente. 143 Salvatore Ritrovato Per una rosa Uno mi chiede quanti anni ho: ancora neri sono i miei capelli ma tristi. «Un minuto», gli dico, «niente più. Tanto dura, o durerà, la mia vita». «Come», mi chiede, «non capisco. È un enigma, una verità seppellita.» E io: «Tutto diedi a lei, chiuso in un bacio partendo, tutto in un abbraccio. Durò un minuto, e fui felice». 144 Salvatore Ritrovato Sognando Omero «Il simulacro non è mai ciò che nasconde la verità; ma è la verità che nasconde il fatto che non c’è alcuna verità. Il simulacro è vero.» (Qohelet) Omero spense la luce perché pensava: il buio cancellerà ogni sogno. Gli eroi, gli errori di quel poema troppo lungo i discorsi che per abitudine o inerzia salgono alle labbra degli oratori, tutto cancellato. E gli dei che puntano sui match e truccano la partita. La rivolta di Tersite contro ogni certezza. Anche il bacio di Achille e Patroclo e il pianto di Briseide spariranno all’alba. 145 Lo incontrai il giorno dopo che se ne andava ripetendo (ma con calma): cosa ho fatto? e fra sé: chiedetemi ancora un verso! La sua voce appena si sente, freme un po’, si spezza. Il tempo è come il mare, mi ha detto, quando passa sulla sabbia: all’inizio è solo una macchia, poi ha fretta. http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/idomeni-profughi-migranti-bloccati-macedonia-grecia.aspx Solo inediti Da Gabbie in codice Di Antonio Bux Gabbie in codice è un lavoro in versi di prossima pubblicazione presso Oèdipus Edizioni (Nocera Inferiore - SA) 19-07-15-14:29 Cresciuto più lungo lo strapiombo nostro selvaggio 19-07-15-21:32 è misura di frana andare a giorno e guardare semplicemente come fa anima l'acqua 146 negli occhi e i suoi specchi accumulati rotte le sembianze Gli angeli sbagliati riconoscono il pane la fame dei morsi le iene il tempo le fini i cristi e le madonne i giuda imparentati attaccano da ogni lato scivolano tra mandibole le carni fantasma ma entrano tutti più tardi concessi al banchetto 20-07-15-00:56 Da Gabbie in codice Di Antonio Bux Aprire le domande le domande sono rose antiche 19-07-15-23:47 nessuno chiede più perché Le persone che non servono bruciano parole le parole che servivano al cuore per le mani le spine umane siano le stesse da sempre ma la risposta ma il cuore parla da sé inventa persone è sangue ogni giorno coincide il silenzio e la vita tutti sanno il giorno è uno è finitezza ignorato l'avere 147 e il suo deserto è il numero amico dorme inciso dentro la rosa riposta 20-07-15-11:26 Da Gabbie in codice Di Antonio Bux Satana ha lingue piatte divora a lungo le stesse tane rimbalza sul ghiaccio la sua sfera contraria ferma solo chi è superficie 26-07-15-18:42 Pasturavacche mi parlano del rischio terribile dell'alimento oscuro il latte mischiato 148 alla calce delle corna paterne meglio allora evitare la muta tornarsene morti alle mammelle 26-07-15-20:37 Da Gabbie in codice Di Antonio Bux Il calabrone sorridente nel polline la sua corazza è dell'aria infrange spesso gli occhi umani nessun essere sente presto il volare se non arriva bisogna cadere dicono sia così un esercizio vedere la ruota del giorno e stringersi in quella i piccoli bui 149 26-07-15-23:00 Passare i giorni a invocare balene le balene sono pronte all'oltre del mare dall'ombelico nero Geppetto biascica nessuna profondità esiste allora ho capito io sono Pinocchio se una balena galleggia la sua superficie è la morte ho capito questo la balena non è metafora è l'industria marina affamata che si serve di me 28-07-15-02:30 Da Gabbie in codice Di Antonio Bux Le storie bambine hanno mani più corte sanno ancora attirare la prima eclissi ma i sogni devono agitarsi sciogliere le labbra al celeste i bambini con gli occhi di madre raccontano gesti antichi le prime folate poterlo vedere è l'ambivalente il sogno bambino di non risvegliarsi 150 28-0715-18:11 Ghianda più aperta la terra dopo la morte rovescia quel seme nella testa dell'uomo e non resta che stringersi intorno la corda sbagliata e saltare per aria o specchiarsi di fughe bruciando l'ignoto ma non basta svanire la pillola terrestre salva solo chi muta sconosciuto il suo dopo o in nessuna salvezza il segreto Antonio Bux È nato a Foggia nel 1982. Suoi lavori e testi critici sono apparsi in numerose antologie (tra le quali: InVerse 2014/15 - Italian poets in translation, a cura di Brunella Antomarini, Berenice Cocciolillo e Rosa Filardi, Roma, John Cabot University Press 2015), sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali (“Corriere della sera” e “L’Unità”), in diverse riviste (“Poesia”, “Italian Poetry Review” e “La manzana poética”) e lit-blog sia nazionali che internazionali (“Nazione Indiana”, “Poesia 2.0” e “Vallejo&Co.”), dato che molti dei suoi testi sono stati tradotti in varie lingue. Ha curato la traduzione del libro Finestre su nessuna parte (Roma, Gattomerlino Superstripes 2015) dell’autore spagnolo Javier Vicedo Alós e la traduzione di testi scelti di autori tra i quali Leopoldo María Panero e Julio Cortázar. Ha pubblicato vari libri di versi (Disgrafie [poesie 2000-2007]; Trilogia dello zero; Turritopsis; 23 [fragmentos de alguien]; Sistemi di disordine quotidiano; Un luogo neutrale; Sativi; El hombre comido), due dei quali, scritti direttamente in spagnolo, sono usciti in Argentina. È risultato finalista e vincitore di alcuni premi, tra i quali il Premio “Iris” di Firenze, il Premio “Minturnae” e il Premio “Lorenzo Montano”. 151 Dirige, per le Marco Saya Edizioni di Milano, la collana “Sottotraccia”, e cura il blog “Disgrafie” (antoniobux.wordpress.com). http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/idomeni-profughi-migranti-bloccati-macedonia-grecia.aspx Solo inediti Da LITURE Di Riccardo Socci Da LITURE 1. COLLISIONI Anniversario Un sistema si è rotto con il muso disintegrato della tua Seicento. La carreggiata si incurva e confonde nella memoria le schegge di ogni vana e incosciente negazione di questa tua smisurata negazione. Restano in mano molti pezzi ancora ma il puzzle si disgrega piano piano e un volto cammina in silenzio... 152 Nell'attimo io mi immagino la radio convulsa, Ian Curtis dal palco gridare l'elisione dell'atona finale. * Da LITURE Di Riccardo Socci Restare, ma dove? La casa è una barriera di coralli e gli sciacalli di certo non mancano. Piuttosto rompere tutte le uova nel paniere, sollevare queste gambe ridicole e dipingerle di blu, come i fiumi, che non puoi bucarli. La vita invece la senti che si svuota, goccia a goccia. Provo a lanciare dal ponte di Mezzo qualche bestemmia alla città, e pare che l'unico a capirci qualcosa sia il giorno che finisce. 153 * Io, generalmente, sto bene. Nel mondo fatto piatto piatto mi ciondolo, m'ovatto come una stanza di sapone. E al perché del marcire, del tanto sanguinare, a volte ribatte il make-up di una donna al mattino, uno sguardo al meteo, e questo mi basta. Sai, a ben sentire, del lungo graffiare di talpe non giunge nella tana che un esile riverbero la sera. Da LITURE 3. IPERMETROPIE * Da LITURE Di Riccardo Socci Al cimitero monumentale di Torino, dove è sepolto P. Levi Io cerco la tua tomba per vedere e non la trovo. Cerco la tua tomba per vedere se quella che ti scegli è più accogliente di quella che ti tocca e veramente l'ultima. Ma non riposa. Anche qui c'è un treno che fischietta e suona la sirena e suona la sirena del passaggio a livello bloccato a mezz'aria: chi passa oltre? Cosa rimane chi passa? Quanto resta se resta chi rimane, questo ronzio? 154 Io cerco la tua tomba ma la campana della chiusura mi chiama e non la trovo, dice che qui non c'è niente di mio. Ottobre. Sabato bolla di vetro troppo limpida. Traffico da pancia piena. No, non ci sono nemmeno i piccioni che cagano in terrazzo. Niente zanzare. Il fogliame diligente s'ammazza quieto sui marciapiedi: quello sempre, ma è poco. Le ruote sgonfie magari, e la sigaretta che non mi andava di fumare e ho acceso, come al solito. Ma il medico dice che ancora respiro abbastanza bene, e l'aria è buona. Guerra composta degli atomi in subbuglio: stessa solfa. Nemmeno le fusioni nucleari, ché l'elio prima o poi finisce e addio. Tu sei un panno fresco. Non te che sei un panno fresco sul mio cervello incandescente. Chi maledire se il giorno è bello e il cuore vibra a nessuna chiamata? Da LITURE Di Riccardo Socci * Io poso un mattone e il vento lo schianta. Allora ne metto altri due: mi muro. Dentro il mio letto bianco cade una pioggia di piume: mi covo e a volte ne esce un uovo che poi bevo al mattino. Faccio e rifaccio il bucato, lo stendo, seguo le righe, mi sforzo di andare sempre dritto, e mi pare di riuscirci, benché io sia mancino e le stanghette tutte inclinate all'indietro. Raccolgo cocci capelli e polvere, apro la finestra per arieggiare la stanza, metto in ordine la scrivania. 155 Ma ieri ho perso le lenti positive per l'ipermetropia, e il ritmo ora inciampa. Il soffio che entra riaccende la brace: stormi di scintille spiegano le ali. * Se avessi l'incoscienza delle bestie che fissano negli occhi l'avversario più grande senza paura. Se avessi due zampe che non conoscono la fuga né il passeggio, che non hanno scavato mai nessuna buca per nasconderci dentro l'osso e un cervello meno addestrato, scriverei tutto al presente e il presente sarebbe un motivo più che sufficiente per ridere. La portafinestra Da LITURE Di Riccardo Socci Ti avvolgono le facce illuminate di una stanza. Dalla portafinestra che hai chiuso in fretta, puoi ancora sentire la pioggia che inonda le fogne e le strade. Le masse d'aria che attraversano la città incontrano filari di antenne boa, segnali, terrazzi concimati dai piccioni, prima di entrare in casa a sfiorarti la mano e se il divano ti assiste puoi intuire allora il teorema inviolabile dei cicli: calore covato nel nucleo disperso e di nuovo ingerito, rocce metamorfiche contro radici che si allungano alla polpa, chilometri di arterie dove corrono ordigni innescati dal sole per esplodere dentro ai rami: 156 le schegge fuoriescono e i migranti con gli occhi impolverati si riposano alla fine del viaggio. Si dischiudono le uova e poi le ali di quelli che imparano la fatica del volo, prima che i venti tornino per spazzare via dai campi gli scheletri bruciati di chi ha assorbito troppa luce e si è spento. Così vai blaterando e si dilata questo tuo rumore, raggiunge la portafinestra e ti rientra in bocca, senza toccare nulla, come il più banale dei molti corollari. Riccardo Socci È nato nel 1991 a Recanati (MC). Laureato in Lettere moderne presso l’Università di Siena, è attualmente iscritto al corso magistrale in Lingua e letteratura italiana presso l’Università di Pisa, dove si dedica in particolare allo studio della poesia contemporanea e all’insegnamento dell’italiano agli stranieri. Alcuni suoi testi sono apparsi sui blog “Poetarum Silva” e “Cultura Oltre” e sulle riviste digitali “Euterpe” e “L’irrequieto”. 157 http://www.bbc.com/news/world-europe-35742796 Collage Jaroslav Seifert Ho veduto solo una volta Ho veduto solo una volta un sole così insanguinato. E poi mai più. Scendeva funesto sull’orizzonte e sembrava che qualcuno avesse sfondato la porta dell’inferno. Ho domandato alla spècola e ora so il perché. 158 L’inferno lo conosciamo, è dappertutto e cammina su due gambe. Ma il paradiso? Può darsi che il paradiso non sia null’altro che un sorriso atteso per lungo tempo, e labbra che bisbigliano il nostro nome. E poi quel breve vertiginoso momento quando ci è concesso di dimenticare velocemente quell’inferno. Collage Jaroslav Seifert 159 Domenico Pelini interpreta Sa morire così solo un uccello di Jaroslav Seifert (da Vestita di luce - Traduzione di Sergio Corduas (Giulio Einaudi Editore) https://www.youtube.com/watch?v=P_1AlgUOs6Q http://www.qcodemag.it/2016/03/13/dalla-rete-di-idomeni/ “Arcipelago itaca” blo-mag prima apparizione. Giovanni Commare su Gianfranco Ciabatti, Adriàn Bravi, Maria Lenti, Nicola Romano e Norma Stramucci. Collage Dino Campana. Riproduzioni di opere di Giorgio Bertelli e Lorenza Alba. “Arcipelago itaca” blo-mag seconda apparizione. Danilo Mandolini su Attilio Zanichelli, Lucetta Frisa, Ivano Mugnaini, Adelelmo Ruggieri e Luigi Socci. Collage Guido Gozzano. Riproduzioni di immagini di Michele Rogani e di un’opera di Pietro Spica. “Arcipelago itaca” blo-mag terza apparizione. Contributi da interventi di Maria Lenti e Gianfranco Lauretano su Tolmino Baldassari, Danilo Mandolini su Renata Morresi, Maria Grazia Calandrone, Mauro Ferrari, Daniele Garbuglia e Massimo Morasso. Inediti di Enzo Filosa. Collage Vladimir Majakovskij. Riproduzioni di opere di Silvana Russo e Lucia Marcucci. “Arcipelago itaca” blo-mag quarta apparizione. Un ricordo di Leonardo Mancino (con un testo inedito di Biagio Balistreri), Danilo Mandolini su Anna Elisa De Gregorio, Gianni Caccia, Massimo Gezzi, Franca Mancinelli, Liliana Ugolini. Inediti di Marina Pizzi. Collage Charles Baudelaire. Riproduzioni di opere di Enzo Esposito, Giovanna Ugolini, Cosimo Budetta, Alfredo Malferrari e Giordano Perelli. “Arcipelago itaca” blo-mag quinta apparizione. Un ricordo di Alfonso Gatto (con un saggio di Laura Pesola), Rossella Maiore Tamponi (con note di Francesco Scaramozzino e Giorgio Linguaglossa), Linnio Accorroni (con note di Danilo Mandolini e Adelelmo Ruggieri), Manuel Cohen (con una nota di Danilo Mandolini), Enrico De Lea, Evelina De Signoribus, Stelvio Di Spigno ed Eva Taylor. Collage Cesare Pavese. Riproduzioni di immagini di Sauro Marini e di un’opera di Adriano Spatola. “Arcipelago itaca” blo-mag sesta apparizione. Un brano dal discorso di Eugenio Montale pronunciato in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura del 1975, un ricordo di Ferruccio Benzoni (con un articolo di Francesco Magnani, un’intervista all’autore a cura di Gabriele Zani e una poesia di Francesco Scarabicchi), Cristina Babino (con una nota di Danilo Mandolini), Francesco Accattoli, Guglielmo Peralta e Lucilio Santoni. Inediti di Narda Fattori. Collage Arthur Rimbaud. Riproduzioni di opere di Agostino Perrini e di Emilio Tadini. Commento all’opera di Agostino Perrini a cura di Marco Frusca. “Arcipelago itaca” blo-mag settima apparizione. Un ricordo di Giovanni Giudici (con brani da una nota commemorativa di Goffredo Fofi), Alessandro Moscè (con una nota di Danilo Mandolini), Marco Ercolani, Fabio Franzin, Mariangela Guàtteri e Annalisa Teodorani. Inedito di Giovanni Commare. Collage William Butler Yeats. Riproduzioni di immagini di Mario Giacomelli. “Arcipelago itaca” blo-mag ottava apparizione. Un ricordo di Claudia Ruggeri (con un saggio di Stelvio Di Spigno), Alessandra Cava e Natalia Paci (con note di Danilo Mandolini), Patrizia Cavalli, Gian Maria Annovi, Luca Ariano e Anna Ruotolo. Inediti di Mauro Barbetti e Renata Morresi. Collage Giuseppe Ungaretti. Riproduzioni di opere di Luigi Bartolini. “Arcipelago itaca” blo-mag nona apparizione. Un ricordo di Pier Paolo Pasolini (con una nota introduttiva di Danilo Mandolini), Manuel Cohen, Anna Elisa De Gregorio, Francesco De Napoli (con note di Danilo Mandolini), Gianni D’Elia, Marco Di Pasquale, Annamaria Ferramosca e Maria Grazia Maiorino. Inediti di Mariella De Santis e Luigi Socci. Collage Giorgio Caproni. Riproduzioni di opere di Osvaldo Licini. “Arcipelago itaca” blo-mag decima apparizione. Un ricordo di Remo Pagnanelli (con una nota introduttiva di Danilo Mandolini), Elisabetta Maltese (con una nota di Mauro Barbetti), Maria Lenti, Nicola Romano (con note di Danilo Mandolini), Elio Pagliarani, Francesco Scarabicchi (con un’intervista a cura di Danilo Mandolini), Alessandra Carnaroli e Roberto Deidier. Inediti di Loretta Zoppi (con una nota di Danilo Mandolini). Collage Guillaume Apollinaire. Riproduzioni di immagini fotografiche che testimoniano le lotte dei lavoratori e le proteste contro il potere (sia questo economico/finanziario che non). “Arcipelago itaca” blo-mag undicesima apparizione. Violata? Giudicate voi! Sull’ormai nota “statua della discordia” di Ancona. Simonetta Giungi (con una nota introduttiva inedita di Maria Lenti), un saggio inedito di Guglielmo Peralta su Cesare Pavese (con alcune poesie scelte), [ancora su] Leonardo Mancino (con un brano da un saggio ed una lirica di Luisa Rossi), Mauro Barbetti (con una nota di Danilo Mandolini), Maurizio Landini (con un intervento di Martina Daraio), Andrea Zanzotto, Damiano Abeni (con un brano da una nota di Massimo Gezzi), Andrea Longega e Marco Srebernic (con una nota di Danilo Mandolini). Collage Charles Bukowsky. Riproduzioni di nove immagini fotografiche che rappresentano altrettanti atti d’accusa contro la pena di morte. “Arcipelago itaca” blo-mag dodicesima apparizione. Llanto por Ignacio Sánchez Mejías di Federico García Lorca. Con l’introduzione di Giovanni Raboni, le traduzioni di Carlo Bo, Elio Vittorini, Giorgio Caproni, Leonardo Sciascia e Oreste Macrì e con un recente articolo di Alessio Piras; Irene Paganucci (con una nota di Mauro Barbetti); Alessandro Seri e Norma Stramucci (entrambi introdotti da Danilo Mandolini); Eugenio Montale (nella presentazione di Dante Isella); Rachel Blau DuPlessis (con un brano dal saggio introduttivo di Renata Morresi a Dieci bozze); Manuel Caprari (con una nota sempre di Renata Morresi); Alberto Toni. Collage Jorge Luis Borges. Riproduzioni di undici immagini tratte dal volume fotografico Un secolo di guerre. “Arcipelago itaca” blo-mag tredicesima apparizione. Ricordo di Maria Grazia Lenisa [con testo introduttivo inedito (Un mondo di là da venire) di Danilo Mandolini. Scheda bio-bibliografica e scelta delle liriche a cura di Marzia Alunni. Tre (più o meno) recenti contributi critici], carteggi tra Celan e Vittorio Sereni e tra quest’ultimo e Andrea Zanzotto (nota introduttiva di Giovanna Cordibella), da Dopo Campoformio di Roberto Roversi, Adriàn N. Bravi, Lella De Marchi e Lorenzo Mari. Collage Thomas Stern Eliot. Riproduzioni di dieci immagini di Marco Baldinelli. “Arcipelago itaca” blo-mag quattordicesima apparizione. Vittorio Reta: testi da Visas (introduzione a cura di Danilo Mandolini e un ampio estratto da Una rete per Reta di Luciano Nanni); Sebastiano Timpanaro legge Leopardi (brani scelti da Giovanni Commare) [introduzione a cura di Danilo Mandolini e (Sebastiano Timpanaro) Il materialismo per la lotta di classe di Giovanni Commare]; Amelia Rosselli (da Variazioni belliche); Maria Lenti: da Effetto giorno - scritti diversi (1993-2012) (breve introduzione a cura di Danilo Mandolini e La parola scritta di Maria Lenti di Vitaliano Angelini); Narda Fattori; Andrea Lanfranchi. Collage Iosif Aleksandrovič Brodskij. Riproduzioni di tredici immagini di Danilo Mandolini. “Arcipelago itaca” blo-mag quindidicesima apparizione. Fernanda Romagnoli: testi da Il tredicesimo invitato e altre poesie ed estratti dall’Introduzione allo stesso volume e da La fortuna critica di Fernanda Romagnoli e gli inediti (entrambi a cura di Donatella Bisutti); versi da La deriva di Luca Canali ed un brano dalla Nota introduttiva alla stessa opera (a cura di Giacinto Spagnoletti); L’albero e la vacca di Adriàn Bravi (con L’evoluzione della narrativa di Adriàn Bravi oltre il confine delle ossessioni di Danilo Mandolini); Parlando d’altro di Rodolfo Cernilogar (con Parlando d’altro si fa poesia di Mauro Barbetti); Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato di Andrea Inglese (con La rappresentazione del sentimento dell’attesa di Danilo Mandolini); Femminile plurale - Le donne scrivono le Marche (con brani da Una regione al femminile plurale di Cristina Babino, Dalle Marche: una possibile “mappa” del sentire e del vedere peculiare delle donne di Danilo Mandolini ed un estratto da Viaggi minimi con Luigi Di Ruscio di Luana Trapè); Suono del vento primo di Enrico De Lea; antologie delle opere e della critica di e su Francesca Perlini (con «L’esistenza entra nella vita» di Danilo Mandolini) e Marco Simonelli. Collage Marina Ivanovna Cvetaeva. Riproduzioni di quattordici immagini fotografiche testimonianti lo stato di inarrestabile degrado ed inquinamento del pianeta (e relativi link di articoli correlati). In copertina: immagine di Jan Smith. “Arcipelago itaca” blo-mag sedicesima apparizione. Lo scorso 17 febbraio è formalmente nata Arcipelago itaca Edizioni. Michail Jur’evič Lermontov: una presentazione di Danilo Mandolini, versi da Quaranta poesie ed un estratto dalle Note ai testi (dal medesimo volume) entrambi a cura di Roberto Michilli. Da Lunga un anno di Francesco Accattoli, Musa fitta nell’azzurro di Davide Argnani, La cordialità di Mariella De Santis, Quaderno millimetrato di Dorinda di Prossimo e note di presentazione di Danilo Mandolini. Testi di Francesca Monnetti e Nota introduttiva di Mauro Barbetti. Da TerraeMotus / [voci, traccia] di Fabio Orecchini e nota di commento dello stesso autore. Piccola antologia dell’opera e della critica di e su: Alessio Alessandrini e Antonio Bux. Collage Anne Sexton. Riproduzioni di ventisette immagini che rimandano soprattutto alle copertine di molte tra le più note riviste italiane di letteratura. In copertina: “Solaria” e “Officina”. “Arcipelago itaca” blo-mag diciassettesima apparizione. Anteprima Arcipelago itaca Edizioni: Sei nessuno anche tu? - Emily Dickinson / Mario Giacomelli, versioni di Renata Morresi; Lea Ferranti: una vita per la poesia, una poesia per la vita di Alessio Alessandrini - Versi da La luna sul balcone - Poesie dal 1973 al 2001; versi da Corpo di scena di Gianfranco Palmery; Vetrina Arcipelago itaca Edizioni: Dire casa - Francesca Perlini; Jucci di Franco Buffoni - Nota di lettura di Danilo Mandolini; Da Abitiamo il corpo del vento (inediti) di Leandro Di Donato; Testi (inediti) di Nicola Romano; Antologia dell’opera e della critica di e su Giovanni Commare e Maurizio Landini; Collage Maurice Maeterlinck. Riproduzioni di quattordici immagini, raccolte sotto il titolo di CIAO BELLE!, celebrano il contributo dato dalle donne alla liberazione dell’Italia dal gioco nazi-fascista. In copertina: Combattenti curde. “Arcipelago itaca” blo-mag diciottesima apparizione. Dino Campana. Da Canti Orfici e da Il più lungo giorno. Parallelo tra la versione data alle stampe e il manoscritto ritrovato. Un brano da Dell’irrefrenabile notte di Carlo Bo; Heberto Padilla. Da Fuera del juego e da altri tre lavori mai tradotti in Italia. Versioni di Gordiano Lupi. Un brano da Fuori dal gioco e il caso Padilla di Gordiano Lupi; da Firmum di Luigi Di Ruscio; Anteprina Arcipelago itaca Edizioni: da Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda di Giovanna Frene, con tre immagini di Orlando Myxx e Storia come allegoria di Giovanna Frene; da Abracadabra di Nicola Ponzio, con 3 tavole dell’autore e un brano dalla Postfazione di Renata Morresi; dalle opere premiate in occasione della 1° edizione del Premio nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca”: Lucilla Niccolini - Vladimir D’Amora - Barbara Pumhösel - Pier Franco Uliana - Cristina Babino - Paolo Steffan. Collage Edoardo Sanguineti. Riproduzioni di tredici immagini che ritraggono quattordici poeti in pose originali. In copertina: TEMPUS EDAX RERUM di Danilo Mandolini. “Arcipelago itaca” blo-mag diciannovesima apparizione. Poesie di Sandro Penna - Con un estratto da una nota di Cesare Garboli e da un carteggio tra l’autore e Pier Paolo Pasolini; Cento passi nella poesia (e non solo). Le Edizioni l’Obliquo di Giorgio Bertelli - Con una poesia di Francesco Scarabicchi; da Il lobo dei mostri di Henri Michaux Con un brano da Nella ragnatela degli esorcismi di Pasquale Di Palmo; da L’alfabeto di un poeta di Mark Strand Con una Nota di Damiano Abeni; da In transitu di Barbara Pumhösel; da Ornitografie di Pier Franco Uliana; da Letture di Cristina Babino (su Pasta madre di F. Mancinelli) e da Pasta madre di Franca Mancinelli; da Il numero dei vivi di Massimo Gezzi - Con note di commento di Martina Daraio e Danilo Mandolini; antologia dell’opera ed inediti di Danilo Mandolini - Con un testo di Renata Morresi; da Possibile ipotetico di Simone Sanseverinati. Collage Elio Pagliarani. Riproduzioni di quattordici immagini (inclusa quella di copertina) dalla serie Anamorfiche di Danilo Mandolini. “Arcipelago itaca” blo-mag ventesima apparizione. Guillaume Apollinaire - Da Calligrammes - Poèmes de la paix et de la guerre / 1913-1916. Traduzione di Norma Stramucci; Neapolitana membra di Vladimir D’Amora; Casa rotta di Valentina Maini - Con la nota di postfazione al volume di Stefano Colangelo; Impossibile ritorno di Lucilla Niccolini; Album di Claudio Salvi - Con “luoghi in attesa. O soltanto vuoti” di Giulio Mozzi; Avrei fatto la fine di Turing di Franco Buffoni - Con contributi critici di Flavio Cogo e Simone Giusti; Abbonato al programma delle nuvole di Giampaolo De Pietro - Con una nota di lettura di Danilo Mandolini; antologia dell’opera e della critica ed inediti di e su Salvatore Ritrovato; da Gabbie in codice di Antonio Bux; da Liture di Riccardo Socci. Collage Jaroslav Seifert. Riproduzioni di quindici immagini (inclusa quella di copertina) liberamente raccolte sotto il titolo di GRAND HOTEL IDOMENI e due scatti di Gordon Matta-Clark. Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga fertile in avventure e in esperienze. Costantino Kavafis, Itaca Per ricevere, a ½ e-mail, le apparizioni (incluse quelle arretrate) di “Arcipelago itaca” blo-mag, inoltrare relativa richiesta a [email protected]. La piccola immagine in basso a destra nella seconda di copertina e in alto a sinistra nella terza di copertina raffigura la sagoma dell’isola di Itaca. Seifert R. Socci Bux Giusti Cogo Stramucci Maini De Pietro Mandolini D’Amora Buffoni Ritrovato Niccolini Apollinaire Mozzi Colangelo Salvi letterature, visioni ed altri percorsi ideatore e curatore: Danilo Mandolini Arcipelago itaca Edizioni di Danilo Mandolini Via Mons. Domenico Brizi, 4 60027 Osimo (AN). www.arcipelagoitaca.it