Bzz - EEditrice

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Mirko Del Greco
Bzz
Nuova Casa Editrice Elettronica
[email protected]
2001
I
Lo chiamano giovane, lo chiamano ilfuturodiquestopazzopazzomondo, lo chiamano e
non lo ascoltano, lo chiamano deluso, disadattato, ignavo. È lui, il giovane, residente
nella generazione x, generazione y, generazione vattelappesca.
Lo chiamano, ma non risponde mai.
A dire il vero G il richiamo l’aveva udito appena e non se n’era preoccupato
spropositatamente, nonostante appartenesse alla categoria a tutti gli effetti. Se ne stava
rinchiuso nella civiltà allo sbando dotata di strani connotati.
Bzz
I pensieri di G erano spettinati come la sua capigliatura anarchica, stropicciati come
la camicia a quadrettoni che indossava, puzzolenti come il fumo delle Amadis che circolava latitante nella sua camera 4mx4m. Tutto a causa degli incresciosi rumori provenienti dall’amplificatore del suo fido basso Hamer che lo distraevano irrimediabilmente.
Era oramai da una manciata consistente di giorni che il fastidioso guasto importunava
l’amplificatore.
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Tutto era cominciato da quando il giro blues di Bo Diddley aveva conquistato il suo
virtuoso quattro corde. Lo ripeteva follemente, senza noia, senza dubbi. Torturava
l’Hamer fino alla nausea, non importandosi dei calli che si disegnavano sulle dita. Quel
dannato e semplice giro era magia (bianca o nera non importava) allo stato puro, almeno per G.
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Per il condominio di via Pacini 45, sito in una Milano che non diceva la verità, invece, l’ennesimo stillicidio assassino.
Un giro semplicemente prodigioso, fino a quando quel rumorino scomodo
incombette senza preavvisi nell’esistenza ordinaria del giovane G.
Bzz
Un grattacapo funesto, una tempesta sonora, una guerriglia ritmica, quasi (forse) un
avvertimento: quel giretto in sol non s’ha da fare. Quel bzz era penetrato nell’encefalo e
girava a ruota libera, loquace e felice.
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E allora? Dopo una breve e scomoda consultazione con la coscienza chiamò Joe, il
costoso maestro di musica, per sentire se avrebbe avuto del tempo da dedicare al
problema.
Joe non rispose, non era in casa. La moglie raccontò, con il suo incantevole accento
salentino, che Giovanni era in sala di registrazione per provare chissà cosa, chissà per chi,
chissà perché capitano tutte a me. G dopo aver realizzato che Giovanni non era altro che
il costoso Joe salutò distrattamente.
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Gli passò per la testa (un breve lampo, teso e sicuro) di dare un’occhiata al libro di
ragioneria: era l’anno della gloriosa maturità e forse era il caso di impegnarsi, darsi una
regolata, compiere il proprio dovere.
Ci pensò bene, con serietà: rimandò l’impegno al giorno successivo e volò fuori di
casa leggiadro come i suoi pensieri. Avrebbe copiato l’esercizio di ragioneria dalla
comprensiva Anto.
Fuori c’era un mondo gigantesco e vampiro che l’attendeva, non si poteva perdere
altro tempo prezioso, soprattutto per qualcosa di unicamente burocratico come lo
studio.
Gli parve di somigliare ad una di quelle femmine che rimanda la dieta al giorno
successivo: un pensiero triste, pallido, ma realistico.
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Brillò.
II
Arrivò il giorno successivo, un giorno di novembre ghiacciato e intriso di ossido di
carbonio, un giorno milanese qualsiasi.
G non copiò l’esercizio di ragio dalla graziosa Anto, non ne aveva alcun bisogno. La
provvidenza aveva agito in maniera ancor più radicale ed efficace: nell’istituto tecnico
commerciale ‘Pietro Verri’, sito in via Lattanzio 28 a Milano, era giunto il tempo
dell’autogestione. Il nobile ed impegnato movimento studentesco aveva preso in mano
la situazione e dopo giorni d’intenso fermento sotterraneo si era deciso a uscire allo
scoperto per combattere. Contro chi? Questo, a dire il vero, non si era capito bene, ma
il popolo studentesco c’era abituato. Arrivati a novembre s’iniziava a far sul serio:
bombardamenti e cannonate fatti d’interrogazioni a tappeto e compiti in classe. Si
doveva rispondere al fuoco. La stanchezza cominciava a farsi sentire e l’autogestione
appariva agli occhi dei più il modo migliore per prendersi una semi-legittima pausa di
riflessione, un sano momento di scazzo travestito da rivoluzione.
Il motivo dell’agitazione non importava, nel nostro pazzo pazzo mondo di tasse un
motivo per protestare si trovava sempre ed era comunque un motivo veramente
importante, un problema certamente inderogabile. Sul serio. E’ tanto tanto importante.
Non si può proprio farne a meno. Compagni, amici, uniamo le voci, bla bla bla.
Così anche quell’anno l’autogestione prese forma e sostanza.
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Banchi disposti a ferro di cavallo ad uso di collettivi con temi inflazionati. Riecco la
droga, il sesso, il rock alternativo, rosso e nero, essere donna oggi, tutte problematiche che
attanagliano il mondo dei giovani e che per questo vanno affrontate con gran serietà.
Mi raccomando.
In fin dei conti quella generazione non era male: aveva un bel trucco in tasca,
criticava tutti per non criticare nessuno, attuava rivoluzioni che non fanno guai in modo
da non cambiare mai, una generazione che se non fosse stata innocua sarebbe stata
volgare.
A G tutte quelle idee e bandiere non interessavano. Pensava d’essere allergico
all’impegno politico. Anarchico? Sinceramente non aveva nemmeno compreso il vero
significato di quella parola. Alle ultime elezioni il suo nome era apparso sulle liste
elettorali. Toccava anche a lui disegnare una croce. Di votare non è che avesse una
voglia smodata, ma arrivò il sermone del babbo: gli raccontò che non votando si lascia
decidere il proprio destino agli altri. Quindi votare, votare e votare. Ebbene votò,
piuttosto schifato, ma lo fece: e dopo sette minuti esatti passati in cabina elettorale
tentando di ripiegare la scheda, consegnò al presidente di seggio i nomi stropicciati di
coloro che avrebbero dovuto, su sua gentile delega, disegnare il suo destino.
Nonostante quest’avversione verso il mondo dei grandi, G fu coinvolto
nell’apparato organizzativo della grande autogestione. Fu inserito nella sorveglianza del
primo piano: G accettò dopo aver scovato un paio di risvolti positivi. Primo, possibilità
di girare in assoluta libertà per tutto l’istituto, favorendo così lo scazzo più assoluto.
Secondo, obbligo di scassare i coglioni il più possibile a tutti gli studenti, con priorità
verso le bimbe più carine e ciccine, lista nella quale svettava la candida Anto.
Così partì anche quella avventura all’insegna dell’impossibile, fumando su e giù per i
corridoi qualsiasi cosa gli fosse offerta al fine di spettinare all’inverosimile la sua anima.
Risultato: nove giorni scemati nella leggerezza più assoluta, nove giorni lavorativi di
collettivi saturi di retorica, moralismi e tutte le altre fesserie conosciute, nove giorni
senza capire il motivo di quei nove giorni. Nove giorni per scoprire che i Cure non
hanno tutti torti. Nove giorni come tanti altri.
III
“Buongiorno signori!” tuonò.
“Ben arrivato quasi ragionier G. Dunque venti minuti di ritardo. Quante frustate gli
toccano gentili amici?” Walter blaterava sfregando le bacchette della sua batteria come
se volesse affilarle.
“Forza uomini, vediamo di non perdere tempo prezioso che alle cinque devo
scappare che ho Marina che m’attende.”
“Marina?!” di nuovo Walter, con un tono gracchiante. “Kikko esci ancora con
quella magnifica troia. Non mi dire che ti stai innamorando, non reggerei il colpo.”
“Che c’entra adesso l’amore. Uno esce tranquillo cinque volte con una tipa
qualunque e subito spaccate le palle con l’amore. Ehi G, non ho ragione?”
G non rispose, era indaffarato col suo Hamer quattro corde.
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Riprese invece Walter: “Qui non si tratta di una tipa qualunque, qui si tratta di
Marina la troia, è tutto diverso. Uno non esce con una troia il sabato pomeriggio,
qualcosa non quadra, qualcosa chiamato amore.”
“Walter non chiamarla più in quel modo, intesi?!” il tono di Kikko si era fatto
improvvisamente serioso e severo.
“Kikko, tranquillo. Guarda che si scherza. Forza ragazzi, diamoci un tono che si
inizia a rumoreggiare.” Era Fabio a dare la carica.
Lo scenario era la soffitta di un elegante condominio adibita a sala prove. La sala
prove dei Bambola, collettivo rock evanescente.
G al basso elettrico, Walter alla batteria, Kikko voce ed eventuale chitarra ritmica,
ed il prodigioso Fabio chitarrista factotum.
Da sei mesi rumoreggiavano assieme ed in quel periodo decine di nomi si erano
rovinosamente avvicendati alla denominazione del gruppo. Avevano esordito come
Basco in un locale volenteroso di Linate con sei pezzi in scaletta provati in due settimane
scarse. Tutti però, invece di Basco, capivano Blasco, e chiedevano se fossero una cover
band dedicata ad un tale chiamato Vasco Rossi. Ripiegarono allora su Mocio: durò due
giorni. Fu poi la volta di Freud e Marx, ma sembravano troppo rischiosi.
Col cambiare dei nomi si evolveva anche il repertorio. Gli inizi erano stati
caratterizzati da cover di pezzi punk, in particolare Clash e follie adiacenti. Però vista
l’incapacità del gruppo, sprovvisto quasi totalmente di nozioni tecniche, a parte Fabio, i
quattro smisero di suonare pezzi altrui ed iniziarono a produrre suoni loro, passando
con noncalanche dal metal fino a giungere nel mondo grunge venando le ritmiche di blues
casalingo.
Arrivò così il nome Bambola che non voleva andare da nessuna parte, solo
riassumere sinteticamente lo spirito dei suoi componenti. In quel Bambola si ascoltava e
respirava il divertimento, unica motivazione che li spingeva a suonare.
Nessuno voleva diventare rockstar, ce n’erano già troppe in giro.
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Poi era arrivato quel giro blues.
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Seguito da quel fastidio parcheggiato nell’amplificatore.
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Quel presagio.
“Ma che ci hai fatto a quell’ampli G?”
“Nulla, cioè, c’ho suonato, che vuoi che ci faccia con un amplificatore Walter?”
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Quel fastidio non aveva alcuna intenzione di andarsene, quel fastidio aveva attanagliato il solaio già preda di un afa pressoché insostenibile.
D’altronde non c’era altro luogo per suonare in santa pace: non avevano trovato né
una cantina né un garage e quando Walter aveva offerto il solaio di casa sua, c’era poco
da fare. Accettarono con sorrisi plastificati.
“G, io con quell’affare nell’orecchio non ce la faccio proprio. Signori smettiamo,
non scherzo, mi sembra d’impazzire.” La faccia di Kikko commentava al meglio le sue
parole.
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“Mi spiace, non so che dire. Chiederò a Joe di darci un occhio e mettermelo in sesto. Comunque vi prego di continuare senza di me. Io faccio da spettatore, anche se
magari ascoltarvi è masochista.”
Incalzò Fabio, ravanandosi il suo saggio pizzetto: “No, meglio smettere. G quando
il tuo amplificatore è a posto lo fai immediatamente sapere e riprendiamo. Tanto la serata al Pao Pao è tra dieci giorni e noi siamo a buon punto.”
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L’hit dei Bambola era Obsoleto, un inno all’auto distruzione: il pezzo, scritto durante il
sabato notte più tossico e radical chic mai vissuto da G, era costituito da poche note di
basso, una linea lenta spezzata da rumori di fondo non meglio precisati, una voce roca e
profonda concessa dal gigantesco Kikko (circa un metro e novanta di minacce) ad annunciare un mal di vivere incurabile. Atmosfere notturne e languide movenze caratterizzavano un po’ tutti i pezzi, ma obsoleto aveva decisamente una marcia in più; o forse
una marcia in meno, forse la retro, comunque si faceva notare. Non sarà stato un heavy
rotation radiofonico, tantomeno poteva competere con uno zuccheroso ritornello di Syria, ma non era quello che cercavano i Bambola. Il loro destino musicale lo conoscevano:
finché il divertimento avrebbe retto loro avrebbero suonato e spaccato, viceversa
avrebbero smesso immediatamente.
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G cercò disperatamente il costoso Joe.
Lo scovò il pomeriggio successivo: piombò a casa sua accompagnato dal malato
amplificatore. Si piazzò nel salotto/soggiorno/studio/salaprove/aula del maestro per
una visita seduta stante. Il costoso Joe senza protestare si avvento sul Torque cinquanta
watt combo: lo accese, inserì la spina e improvvisò un assolo funky spaccavetri.
L’amplificatore resse benissimo senza fare una piega, sputando un suono distinto e
pulito.
“G, qui è tutto a posto, lo senti anche tu vero?”
Sul viso di G si disegnò l’incredulità. Non aprì bocca. Prese il basso tra le mani e lo
torturò più che poteva, creando un rumore ignobile. Niente.
IV
G non era poi così integralista e ottuso come poteva sembrare ad una prima analisi
(quanto è vero che l’apparenza inganna!).
Non era uno di quelli che si tirava indietro: G restava, sempre. Durante
l’autogestione decise addirittura di provare a partecipare ad uno dei collettivi nel ruolo
di spettatore. Lo sentiva come un dovere verso la comunità scolastica della quale, volente o nolente, faceva parte.
Il destino naturalmente lo portò a scegliere il collettivo intitolato rock ed altre stranezze alloggiato in quarta F.
Decise per quello, non tanto perché il rock c’entrasse e si scontrasse con la sua esistenza (senza nemmeno sapere come), ma perché la decisa Anto aveva optato per
quello. G si chiese come mai la fanciulla avesse fatto cadere la sua scelta su
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quell’argomento: l’unico pseudorock che ascoltava era quello di quel tale chiamato Vasco. Il resto della musica che passava nel suo walkman, a quanto G ne sapeva, era quella
dance tecnologica di cui tanto si sparlava in giro. Comunque la signora Anto era ugualmente e necessariamente stupenda: G si buttò in quarta F.
Entrò esitante anche perché una nube di fumo lo assalì senza complimenti. Una
manciata d’occhi lo esaminarono per qualche istante per poi tornare a sorbirsi
l’immagine del tipo che interloquiva leggiadro. G lo conosceva, eccome: era il bell’Alex,
suo compagno di classe. Alex parlava come uno spot pubblicitario.
“POP, il nuovo album degli U2, il suono del nuovo millennio.”
Incredibile, c’erano ancora persone, esseri viventi che osavano apprezzare quei
quattro lentigginosi irlandesi che suonavano quei rumori all’ultima moda. G si vergognava di loro.
Lo spot pubblicitario d’Alex si esaurì accompagnato da un suo bel sorriso tanto
adorato dal popolo femminile dell’istituto.
Il discorso quindi virò rotta verso, come recitava anche il titolo del collettivo, le altre stranezze. Venne fuori la parola “alternativo” e nella testa di G si accese la spia rossa
che segnava l’allarme: da un momento all’altro si rischiava di arenarsi in una fanghiglia
formata da cazzate colossali.
Fu così.
Alternativi: certo, perché no? Alternativi perché si è sempre e comunque opposti al
qualunquismo, ai luoghi comuni, alle ovvietà, alla quotidianità innocua. Alternativi perché i compact disc che si acquistano, grazie al gentile contributo del papà, non osano
mai entrare in classifica; a parte Ligabue, perché il Liga si segue dagli esordi, quando
nessuno lo conosceva ancora.
Alternativi perché al cinema si vede solo roba alla Pulp Fiction o alla Trainspotting,
roba dura, senza morale, perché all’alternativo della morale non frega nulla. Si va avanti
contro tutto e tutti, fin quando fa male, fin quando ce n’è.
Alternativo. Si para il culo e la coscienza con grande sballo: sabato in barca a vela, lunedì al “Leoncavallo”.
L’alternativo è il tuo papà.
Bastò poco, una manciata di parolone, per far uscire dalla classe e di testa G. Un po’
di tristezza attaccò il suo cuore: forse anche lui somigliava a quella banda di gentaglia.
Attaccava loro come loro facevano con il resto del mondo. Era probabilmente della
stessa razza.
Vergogna G!!!
Ci volle un po’, ma alla fine riuscì a reprimere quel pensiero, bastò spostarsi su
Anto, la povera Anto che era rimasta intrappolata dentro quel covo di montati. Stava lì
sola ed indifesa. Doveva forse rientrare per metterla in salvo?
Walter, il batterista dei Bambola interruppe il delirio privato.
“Buongiorno sorvegliante, come andiamo?” Walter era appena uscito dalla classe
adiacente la quinta F. Arrivò saltellando e sorridendo. Un metro e sessanta di dinamismo.
Un puffo vero e proprio, a parte il colore.
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“Sorvegliante?” chiese G. Ma proprio mentre la parola scappò dalla sua bocca capì.
G stava dimenticando la mansione che il governo scolastico gli aveva gentilmente affibbiato.
“Che vuoi Walter, lo sai che non puoi stare in giro per i corridoi.”
“Bel trattamento per un amico, grazie tanto! Dimmi un po’ si cucca in divisa?”
La divisa del sorvegliante era un pezzo quadrato di carta attaccato con del nastro
adesivo sul petto dei prescelti (a quadretti ricavato da un quaderno) con una scitta di
pennarello: SECURITY.
“Ma che vuoi cuccare?” Rispose nervosamente G (cuccare, odiava quel termina e
tutto quello che girava attorno).
“Ah ho capito, il pensiero di Anto ti divora il cervello. Mi sa tanto che fai la fine di
Kikko. Mi sa proprio che è amore.”
“Amore? Cos’è l’amore? Walter ti rendi conto che diavolo stai dicendo, l’amore non
esiste, questo lo sai bene anche tu.”
“Va bé, se lo dici tu che sei così saggio… comunque con Anto sfruttala la divisa,
vedrai che rimarrà ammagliata, e cadrà in meno che non si dica ai tuoi fetidi piedi.”
“Guarda che non abbiamo più tredicianni, non è più tempo di favole, siamo tutti
adulti e vaccinati.”
“Questa è nuova. Da quando siamo diventati adulti? Se non ricordo male ieri in solaio giocavamo con le cerbottane. Il tuo non mi pareva un comportamento così adulto.
G ascoltami bene, l’amore, o quello che è, ti sta rincoglionendo.”
L’espressione di Walter per un attimo fu quasi seria, poi d’improvviso comparve un
ghigno satanico.
“Parli del diavolo… guarda un po’ chi arriva.”
All’orizzonte apparve la sagoma della discussa Anto, che si stava dirigendo proprio
verso G e Walter.
“Vi lascio soli. Mi raccomando dacci dentro.”
G lo mandò a cagare con un gesto della mano. Il gesto poi si tramutò in un saluto a
favore dell’inconfondibile Anto.
Si avvicinò accompagnata dal solito sorriso al tempo stesso candido e malizioso che
distrusse come al solito i tre etti di razionalità del G.
Provò a rispondere anche lui con un sorriso, ma l’emozione la deformò in chissà
quale orrenda smorfia. Allora tentò di darsi forza e iniziò a canticchiare in testa un pezzo del R.E.M. tipo Shiny happy people, ma forse aveva sbagliato canzone, aveva sbagliato
gruppo, aveva sbagliato l’indirizzo scolastico, aveva sbagliato vita.
“Quello non è mica Walter, non suona nel tuo gruppo?”
“Si, quello è Walter, ed è anche un fesso senza limiti. E’ andato perché aveva fretta,
forse dirige un collettivo sull’estinzione delle foche monache. Lo intitola figli della foca. Il
titolo non è molto originale, ma deveessere comunque interessante.”
“Boh. Ma, dimmi, com’è fare il security.” Lo disse indicando il comico distintivo
posto sul petto.
“Lo faccio giusto per perdere un po’ di tempo, non mi andava di intasarmi in quelle
aule. Che vuoi che sia. E poi security… sicurezza di che?!”
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“Bene, siamo proprio in buone mani.” Rise, un’altra accoltellata in pieno torace per
G.
“Che fai, cambi collettivo. Quello del rock non prometteva niente di buono, vero?”
Andarono avanti per un paio di minuti, dribblando sguardi e discorsi difficili con
astuzie dialettiche. Poi la mistica Anto disse che doveva andare e che non si poteva stare troppo lì nel corridoio a cazzeggiare. Prima di andare però regalò un ultimo sorriso a
G che non fece altro che contraccambiare affannato.
G la lasciò andare per poi pentirsene amaramente, ed era così da un bel po’ di tempo. Ma d’altronde, che ci poteva fare?, era il gioco.
Si dice amore, però no, chiamarlo amore non si può.
V
L’autogestione, dopo nove brevi giorni di sbragamento, si concluse. Come tutte le
belle cose, durò una miseria.
Il gioco dei Grandi era terminato, si tornò a fare le incudini sotto il martello dei
professori.
Un lunedì qualsiasi tutto era tornato normale. G arrivò alle sette e cinquantotto
come solito. Per lui trovare la classe ordinata, nonostante il dormiveglia, era stato un
trauma. Vide il suo posto in ultima fila, all’angolo della classe con vista sul cortile adibito a campo sportivo, stava lì ad attenderlo, ed a G questo non piaceva poi così tanto.
La postazione di G era davvero stategica: ultimo banco, vista sul cortile, teatro di
stupende sfide di pallavolo femminili, per resistere alle spiegazioni laceranti di diritto
privato. Ma la vera chicca di quella posizione era l’avere davanti, proprio nella postazione successiva, la perfetta Anto. Che altro si poteva desiderare?
Il panorama in classe era sempre lo stesso. Era il terzo anno che le stesse venti facce
si frequentavano assiduamente. Era cambiato solo il nome: all’inizio erano la terza A,
poi divennero quarta A, per poi divenire con naturalezza la quinta A.
Quinta A, venti anime, venti attori pronti a recitare una tragifarsa nella parte di loro
stessi. Un perfetto gioco ad incastro che solo il destino poteva combinare. Magari non è
nulla di speciale all’apparenza, nemmeno loro se n’erano accorti, e forse ogni classe
possiede l’identica magia.
Ma per G questo non contava nulla.
VI
Uno degli abitanti principali di quella quinta A era senza ombra di dubbio Bernie, la
controfigura di Ken il guerriero.
Bernie era fondamentalmente un cattivo, senza remore. Ed a G questo piaceva,
molto.
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Una delle pratiche ricorrenti di Bernie erano i raid nelle prime classi per effettuare il
rito d’iniziazione: nello specifico si trattava di firmare con dei possenti pennarelli indelebili i candidi visi delle giovani matricole.
Quando Bernie domandava a G se volesse partecipare, quest’ultimo non riusciva
proprio a resistere, nonostante la profonda malignità che questa pratica nascondeva.
Anzi era proprio quello che gli piaceva.
I due si caricavano dei migliori pennarelli indelebili in commercio e partivano alle
dieci e cinquanta, orario d’inizio dell’intervallo, alla carica di primini indifesi.
La ricreazione aveva una durata di quindici minuti, tempo utile per punire un paio
di classi. Unico ostacolo erano i professori addetti alla vigilanza, ma erano al massimo
un paio e non era così arduo evitarli.
Si entrava nella classe scelta apparentemente disarmati con le armi nascoste nelle tasche posteriori dei jeans. Bernie regalava sorrisi di circostanza che potevano far pensare
a gentili propositi. Si conquistava il centro della classe con domande inutili, un paio di
battute volgari, giusto il tempo di sondare il territorio, poi Bernie lanciava l’occhiata giusta a G e si partiva alla carica.
I ragazzini/bersaglio per qualche secondo rimanevano immobili, imbambolati, non
capivano, poi quando sentivano, ascoltavano il pennarello fendere sulle loro candide
guance, arrossate solo dalla vergogna, avvertivano il pericolo e lanciavano urli d’allarme,
ma oramai era inutile, il danno era fatto.
G, come detto si limitava alle guance, non osava andare oltre perché gli pareva di
sconfinare nella violenza gratuita.
Bernie invece quando vedeva quelle lacoste immacolate che emanavano ancora il
profumo del bucato fresco non ci vedeva più: o meglio vedeva solo quelle polo dentro
un mirino virtuale ed allora se ne fregava dai visi spaventati, delle loro mamme che
avrebbero dovuto spaccarsi la schiena per togliere i segni dell’indelebile arma. Ci dava
dentro utilizzando il pennarello come una sciabola affilata. Amava eseguire inoltre un
distinguo: i maschietti li segnava sul costato, mentre le femminucce all’altezza dei capezzoli di un seno che doveva ancora sbocciare.
L’ascendenza reciproca tra Bernie e G non si limitava solo a questi raid ricreativi. I
due, per tutto il triennio, erano stati anche compagni di bigiata e nei rapporti tra coinquilini di classe questo tipo di sodalizio non è per nulla da sottovalutare.
La bigiata tipo era attuata nei seguenti casi: manifestazione ufficiale (promossa da
qualunque frangia politica), manifestazione fantasma (ideata alle otto meno un quarto
da un drappello di studenti colpiti da scazzo acuto), interrogazione di diritto, compito in
classe di ragioneria.
Bernie e G non partecipavano mai attivamente alle manifestazioni: quelle forme di
protesta non facevano per loro. Credevano che le parole di una massa di gente urlante
per le strade non riuscisse ad intaccare l’animo di nessun uomo di potere. E poi era una
gran palla passare delle ore camminando e cantando cori incitati da dei pazzi esaltati, era
un’azione che mancava totalmente d’eleganza.
Ogni mattina, alle otto meno un quarto in punto, i due quasi-ragionier si riunivano
al bar friends adiacente alla scuola. Si accomodavano al loro tavolo riservato nella saletta
adibita a ludoteca. Dopo aver sorseggiato un succo alla pera e aver passato la rassegna
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stampa (nello specifico: gazzetta dello sport, tuttosport, corriere dello sport) toccava effettuare il punto della giornata: G leggeva a voce alta l’orario scolastico elencando le
materie che li avrebbero torturati nell’arco della mattinata. In caso di grave pericolo era
sufficiente un’occhiata per decidere il da farsi. Quando incombeva l’interrogazione di
diritto scattava la variante: si entrava in classe per cercare dei volontari pronti ad offrirsi
in pasto al giudizio della professoressa Berti. Se non era raggiunto il numero sufficiente
per salvarsi il culo (quattro pazzi masochisti), entrava in funzione il piano di fuga. Utilizzavano la scala antincendio per evitare di fare brutti incontri e poi via nel parcheggio
di cui era dotata la scuola dove rimanevano imboscati fino alle otto e un quarto, quando
le acque erano calme, tutti erano chiusi nelle rispettive classi e le vie d’uscita erano libere.
“Buona anche oggi.”
Lo slogan recitato da G definiva la riuscita dell’operazione. A quel punto nuova riunione al Friends per sorseggiare un nuovo succo alla pera e per disegnare il percorso
della mattinata. L’itinerario classico prevedeva come obbiettivo la zona Duomo: si perquisivano tutti i megastore di dischi e video per poi rifocillarsi col panzerotto del signor
Luini.
E durante le bigiate si parlava parlava parlava parlava parlava. Parole inutili, indifese,
povere, bagnate, dimezzate, vomitate, sporcate, parole amiche, volgari, scivolose, leggere, parole vestite fuori moda, disabitate, scontrose, arrossate.
“Ma G, dimmi un po’ di Anto.”
Probabilmente a G iniziarono a fumare le orecchie.
“Anto? Perché?” Cercava di mantenere un tono volgare, per non dare troppo
nell’occhio.
“Come perché? Guarda che ti vediamo tutti quando la divori con gli occhi.”
“A me non pare. Comunque è carina, lo è per tutti. La più carina della classe probabilmente, in ogni classe ce n’è una, giusto?”
“Va bé, però per te è diverso. Ti dirò G, non capisco perché tu lo voglia negare.”
G è innamorato, G è innamorato, pappappero pappappero. Come una filastrocca cantata dai
compagni più stronzi durante l’intervallo alle elementari.
“Negare cosa? Che cosa starei negando Signore? È un po’ di tempo Bernie che tutti
fate degli strani discorsi zuccherosi, parole scaricate a vanv era. Non capisco.”
“Sarà la fame?”
“Magari. Pizzeria?”
“D’accordo.”
Discorsi a cavallo tra filosofia e pop songs, ma senza pretese, senza serietà, senza
pericoli. D’altronde erano dissertazioni da bigiata, non si poteva andare troppo in là, era
la regola.
VII
Era vero. Vero come mai.
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L’algida Anto era indubbiamente la più carina della classe, non ci pioveva. Anche il
referendum effettuato dai maschi in terza durante un intervallo aveva confermato questa verità. Di conseguenza l’ammirazione verso la fanciulla era obbligatoria e G la esercitava ubbidiente.
Poi erano arrivate quelle parole, quelle voci, quelle affermazioni deliranti. G aveva
tentato di comprenderle, ma nessun risultato pareva soddisfacente, anzi incasinava ancor di più.
Il tempo scorreva tranquillo senza tentennamenti mentre la presenza dell’estranea
Anto penetrava nei pensieri di G quatta quatta, non aveva nemmeno bussato. Per G
rimaneva poco da fare: l’oleosa Anto si era appiccicata dentro di lui in bella vista, divenendo presenza fissa. G la sentiva e non poteva disfarsene. Non voleva disfarsene.
Aveva assunto le sembianze di un tic, fastidioso e piacevole contemporaneamente, ma
soprattutto stava lì e faceva quello che voleva. Punto e basta.
G accettò la realtà.
VIII
Parole.
Perché non glielo dici. Guarda che è normale.
Complimenti ottima scelta.
Ci siamo accorti, la divori con gli occhi.
Non negare, CONFESSA.
Innamorato!!! Incredibile, G innamorato, bella questa.
Ascolta la tua amica Giovanna: è una cosa bellissima, sei fortunato, magari non te ne rendi conto,
ma ti assicuro che un giorno capirai e potresti rimpiangere tutto questo. Com’è che si dice, cogli
l’attimo…
G credi, credici un po’ di più.
Ma che state a dì?
Parole.
Bella storia !!!
La guardi: un sorriso imbambolato, svagato e assolutamente magnifico.
Ma che cacchio state a dì?!
Tante parole.
Vai G, vai. I bambola tifano per te.
G, ma ha le tette piccole! Te ne sei accorto?
Anto: la soluzione migliore per ogni problema, per i tuoi problemi. Scegli il meglio, scegli Anto!
Aho! Ma che cacchio state a dì! Non ci capisco niente!
Troppe parole.
Veramente. Forse si esagera.
Anto di qua, Anto di la, Anto dove vuoi tu. Che fortuna!
Basta.
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PARTE SECONDA
haiku
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I
Metti una sera qualsiasi, una sera qualunque al “Pao Pao”, locale milanese sito in
viale Monza.
Metti che il gestore abbia adibito un angolo del locale come palco per suonatori
rumorosi giovani e abbastanza deficienti. Metti poi che lo zio di Walter, lo zio del
giovane batterista di un complesso conosciuto con il nome di Bambola, sia amico (+ o -)
del gestore del “Pao Pao”. Amico a tal punto da concedere mezz’oretta di palco una
sera qualsiasi ai Bambola.
La sera qualsiasi è arrivata.
I Bambola sono al completo, tutti i titolari sono in forma, nessuno squalificato,
nessun’ombra d’infortuni.
Nessuno di loro ha, prima di quella sera, messo piede in quel locale: di questo sono
molto felici.
I frequentatori del “Pao Pao” sono mediamente degli ultra quarantenni zitelloni,
insieme ad una manciata di ragazzi capitati lì dentro non si sa come. Negli angoli due o
tre puttane semiassiderate.
I Bambola si guardano attorno spaesati cercando di mettere su uno stage accettabile.
Fabio accorda tutti gli strumenti, è l’unico capace di farlo, ed è anche l’unico vero
lavoratore. Kikko bestemmia contro tutto e tutti sventolando la sua chioma
chilometrica castana: lui è forse l’unico con la faccia da rockstar. G fissa lo zio di
Walter, un baffone che tira giù bicchieri di gin fizz come se fossero d’acqua: tutti
vorrebbero uno zio così, un vitellone seduto al banco che canta le sue memorabili
sconfitte a ritmo di rutti.
Poi c’è Walter: lui sta fermo ad aspettare l’inizio del concertino tremando, mangiato
dall’emozione. Nessuno ci bada
“Ragazzi allora iniziamo o no!” il tono del gestore del locale è minaccioso come il
suo aspetto fisico: centonovanta centimetri di carne ed ossa, più carne che ossa. Senza
ascoltare la risposta del quartetto sonoro accende i due riflettori che illuminano e
abbronzano il gruppo.
“Signori, siamo pronti?!” Fabio pare l’unico carico e sicuro. Tecnicamente è anche
l’unico che può permetterselo.
“Ma come cazzo vuoi essere pronto Fabio. Hai visto che merdaio, dimmi tu come
faccio a cantare.” Kikko è fuori di sé, più semplicemente è fuori da qualsiasi cosa.
Fabio però ha anche la giusta esperienza per saper rispondere a tono. “Kikko,
questo è il palco, duecentomila per trenta minuti di rumore è la paga, e visto il livello mi
sembra abbastanza; inoltre ci pagano anche da bere, ma visto i boccali vuoti mi sembra
che questo lo abbiamo capito. Quindi canta e taci.”
Lo sguardo di Kikko fa sembrare che l’intervento del saggio Fabio abbia
funzionato.
“Canta e taci, bella questa!” ad intervenire è Walter che pare essersi svegliato dal
letargo di paura e tenebre.
“Tu, Walter suona e taci, Kikko non ha tutti i torti.”
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A tacere sul serio sembra essere solo G che continua a fissare con invidia e disgusto
lo zio di Walter che recidivo avanza con l’assunzione perpetua di super alcolici.
Fabio cerca l’attenzione del fido bassista: “G sei pronto, tutto a posto.” G si limita a
rispondere con un cenno affermativo del capo.
Ed ora Fabio s’accaparra l’attenzione di tutto il gruppo:
“Signori è giunto il momento di suonare, è arrivata l’ora, anzi la mezz’ora del
divertimento.”
Queste frasi sono oggettivamente delle sonore ed abominevoli scemenze, ma il
calore dei riflettori e l’odore di fritto rendono quelle parole energia positiva allo stato
brado, anche se non è chiaro l’utilizzo che se ne farà.
Si posizionano nella formazione tipo. Fabio lancia un segnale affermativo al gestore
gigante che, senza perdere un attimo, annuncia al pubblico raggelato:
“Signore e signori, stasera al PAO PAO si esibiscono questi quattro giovani che
preferiscono farsi chiamare Bambola. Non chiedetemi il perché, ma soprattutto abbiate
pietà di loro. Buon ascolto!”
Si solleva un tiepido applauso. Fabio si sistema i capelli corvini e fa un cenno a
Walter. Tocca a quest’ultimo esordire. Esita per qualche istante fino a quando anche
Kikko e G si rivolgono a lui con dei cenni incazzati di incoraggiamento.
Cerca un respiro lungo, lo trova e (miracolo) parte.
Ecco i martiri del rock’n’roll, elementi turbolenti, i martiri che cantano il si-salvichi-può per sbandati e dissidenti, per chi è dentro e per chi è fuori; ecco i martiri del
rock’n’roll, agitati permanenti, pronti a difendere il loro con le unghie e, se necessario,
con i denti.
Walter parte con una rullata semplicissima, provata centinaia di volte, forse anche di
più, una rullata che chiunque, dopo un paio di prove, è in grado di eseguire in modo
accettabile. Una rullata che anche suo zio in quel momento (benché stia affogando in
un fiume d’alcool) è in grado di suonare.
Eppure l’esitazione si schianta insieme alle bacchette sulle pelli di quella batteria che
il “Pao Pao” fornisce gentilmente in dotazione ai gruppi che si avvicendano di sera in
sera.
L’esitazione è carpita a pieno da tutto il pubblico, puttane assiderate comprese.
Kikko, G e Fabio sbiancano, nonostante l'abbronzatura provocata dai riflettori, anche
se quest’ultimo attacca ugualmente con il riff che gli spetta.
La rullata è l’attacco di Give it away dei Red Hot Chili Peppers, unica cover in
scaletta insieme a Nothing Man dei Pearl Jam. La scaletta comprende complessivamente
sei pezzi grazie ai quali dovrebbero raggiungere la mezz’ora a loro concessa.
Kikko e G seguono colmi d’esitazione. Che sta accadendo? Perché sta accadendo,
perché proprio loro, proprio questa magica sera? Niente risposte.
Il pezzo avanza rantolante, scombinato e quanto di peggio possa accadere in una
canzone, riuscendo a concludersi dopo cinque minuti di agonia perfettamente fuori
tempo.
Una cospicua parte di pubblico rimane raggelata, qualcuno fischia, o almeno ci
prova, un paio di mani applaudono involontariamente, lo zio di Walter sorseggia una
Guiness corretta con dell’impossibile.
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G inizia ad odorare il locale.
Kikko invece si gira verso Walter: “Ma vai decisamente a fan culo immenso
stronzo, che cazzarola combini!!!”
Walter tace con lo sguardo abbassato. Le mano paiono tremare, ma forse è solo
l’effetto delle luci. Interviene Fabio accompagnato dalla sua proverbiale saggezza:
“calma signori. Dai Walter, riprendiamo!” Ma Kikko continua: “Guarda stò stronzo:
prima ci trascina in questa discarica umana e poi fa il coglione!”
G nel frattempo continua ad odorare il locale costruendosi una tintarella sotto i
riflettori sempre più bollenti. Annusa ed odora. L’aria del “Pao Pao” mischia il malto
della birra con il fritto delle patatine.
Fabio attacca deciso il secondo pezzo al quale seguono il terzo, il quarto, il quinto
ed il sesto, cioè il pezzo dei Pearl Jam, che parve la peggiore lagna mai stonata nella
storia. Tutti rigorosamente strazianti e scombinati. Anche peggio, se possibile.
A G pare che nemmeno il primo giorno insieme nel solaio di Walter avessero
suonato così pietosamente: una performance rumorosa, sfasciante ogni scala, anche
quella Mercalli.
Kikko terminato lo sconcertante concerto inizia a dedicarsi alla maledizione di tutti
i martiri presenti sul calendario. Fonda anche un dizionario orale di volgarità dedicato a
Walter.
Una serata NO pensa G, sarà capitata anche agli u2, senz’altro. Ma forse c’è
dell’altro, nascosto nel sottosuolo mentale.
Solo Fabio ha il coraggio di ringraziare il pubblico ed il locale per l’opportunità
offerta.
“Adesso spiegami un po’!” Kikko tenta di gettarsi furioso sul corpicino di Walter
nel tentativo di confondergli i connotati, ma il tempestivo intervento di G salva il
salvabile.
Il gestore gigante manda a cagare con una mossa lo zio di Walter: quest’ultimo non
capisce molto visto lo stato d’ebbrezza e risponde con un sorriso per non sbagliare. Il
gestore del “Pao Pao” poi si rivolge con più clemenza a i componenti del gruppo, invitandoli solamente a sparire il più in fretta possibile. A G dispiace solo di non poter
completare la sua tintarella. E poi l’odore del “Pao Pao” gli mancherà, ci ha fatto
l’abitudine. Guarda Fabio leggendo la desolazione debordante. Eppure il pubblico non
era stato poi così maligno, anche se questo era dovuto con ogni probabilità alla sua incompetenza in materia: non frequentavano quel locale per assaggiare le realtà emergenti
del rock italiano.
Ai Bambola non resta che seguire l’invito del gigante buono: spariscono senza
salutare, senza dare troppo fastidio.
II
Caricarono gli strumenti e l’attrezzatura sulla Tipo della madre di Fabio.
G sentì rompersi una corda, ma non apparteneva al suo basso od alle chitarre di
Fabio e Kikko. Forse era un filo, uno di quelli sospesi nell’aria sulla platea di un circo: il
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circo in questione, purtroppo, non è equipaggiato di una rete di sicurezza. La corda od
il filo si ruppe creando un rumore inquietante, ben distinto.
Non c’era molto da fare, il destino era già stato scritto.
I Bambola si sciolsero sotto casa di Walter dopo una rumorosa sboccata di Kikko. Il
gruppo si sgretolò senza troppe parole, bastarono un paio d’occhiate che, nonostante
l’ombra della notte, erano anche loro ben distinte.
“Ci sentiamo”, si disse.
“Senz’altro”, si rispose.
Sembravano dei fidanzati appena mollati, pareva un film TV di prime time, quelli
equipaggiati di tristezza patinata.
G contò le parole pronunciate da se stesso durante la serata. Non riempì le mani.
Quella notte non si addormentò facilmente, non dedicò alcun pensiero alla distinta
Anto, non pianse, non pensò al futuro e nemmeno alla prossima maturità. Fissò
l’amplificatore posto al centro della stanza cercando un po’ di sonnolenza.
Bzz
Chiaramente non sognò.
III
La sublime Anto era un metro e settanta scarso di semplicità.
Semplici capelli castani lisci, semplici occhi castano scuro, un naso non troppo importante, delle labbra rosate, un seno appena accennato, dei fianchi evidenti, ma non
volgari, due gambe magre e atletiche frutto di qualche anno di pallavolo vestite esclusivamente da Levis 501. Nulla di speciale dunque, ma stava proprio in quella semplicità la
formula vincente che le permetteva di essere all’unanimità la più carina di tutte.
E poi c’era la facilità: nei movimenti, nei modi, negli occhi, nei capelli, ovunque. Ed
è bene intendersi sui termini (Babele insegna che le confusioni terminologiche portano
al crollo delle torri e alla dispersione della comprensione se non dell’umanità, credo sia
abbastanza): così come guardare non significa vedere, così come esistere non significa
vivere, e così come tra mucca e vacca c’è un bell’abisso di significati ulteriori, facilità
non significa faciloneria; e semplicità non è un insulto, anzi.
Ed anche per la semplice Anto arrivò la maggiore età. Era una discreta giornata di
fine settembre. Ci fu una modesta festicciola alla quale partecipò qualche parente più un
paio di amiche d’infanzia, niente di esagerato e sfarzoso.
Furono invece i regali ad esser il piatto forte della ricorrenza. I generosi genitori, il
padre distributore di libri, la madre indaffarata casalinga, commissionarono per la secondogenita una Peugeot trecentosei millesei iniezione cabriolet full optionals (ABS,
airbags vari, capote elettrica, autoradio cd, climatizzatore, vernice metallizzata, interni in
cuoio, fendinebbia), valore commerciale quarantasei milioni chiavi in mano.
G non credette all’evento fino a quando non vide l’incredibile Anto parcheggiare
con una manovra secca davanti all’istituto Verri. Quell’auto mozzava il fiato come la
proprietaria.
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Non fu però la condizione economica della famiglia di Anto ad inquietare G, bensì
un pensiero decisamente più blu: quella trecentosei, proprio quella, con un pieno di
benzina super senza piombo, poteva percorrere anche seicento chilometri.
Anto, la sua Anto, l’unica, l’originale poteva allora scappare lontana, lontanissima,
poteva divenire introvabile. G poteva rimanere orfano di quello sguardo, di quel sorriso
disarmante come un pezzo degli Smashing Pumpkins, quel sorriso che lo accompagnava per cinque mattine la settimana per nove mesi tondi l’anno.
Seicento chilometri e rotti si diceva, era scritto anche su Quattroruote (G aveva rimediato la prova su strada del modello dalla collezione del padre). Seicento chilometri
da Milano poteva essere dovunque in Italia ed Europa. G doveva trovare una soluzione,
un espediente, non poteva lasciarla andar via senza proclamare quel tic che lo riempiva
ovunque.
La preparata Anto terminò il parcheggio con una facilità sorprendente (non dimenticate, era una donna che guidava!).
Seicento chilometri con quel mezzo metallizzato erano una bazzecola, bastava ingranare le marce e spingere qualche pedale,e lui non poteva certo seguirla, visto che era
sprovvisto di patente, di denaro e di tutti i peccati capitali.
IV
Un semitranquillo martedì mattina, durante l’intervallo, Giovanna piombò sul banco di G dove quest’ultimo consumava un panino preparato all’alba dalla sua mammina.
La cara Giovanna arrivò accompagnata dal solito caschetto biondo riccio e dalla solita aria gaia contraddistinta da quel sorriso irritante che faceva squillare le palle
all’anticorale G, nonostante il breve affetto che nutriva per la signora. “G, mi devi
ascoltare un attimo assolutamente!”
Iniziava sempre così.
“E’ una cosa straordinaria, si chiama Haiku.” Sbraitò Giovanna contagiando di euforia un tantino anche G.
La classe, escludendo i due, era deserta e per questo dotata di un fascino vagamente
incredibile, questa almeno era l’opinione di G.
“Haiku?” Sul viso candido di G si disegnò un punto interrogativo.
Giovanna attaccò con un sermone condito da felicità: spiegò che l’Haiku non era
uno sport estremo orientale, come G aveva all’inizio ipotizzato, bensì un genere poetico
giapponese di lunghissima tradizione. Probabilmente si trattava della forma di poesia
più concisa che esista: un verso di cinque sillabe, uno di sette, un altro di cinque. Ma
l’elemento che lo caratterizzava era il riferimento obbligatorio ad un aspetto della realtà
naturale.
In una tale ristrettezza di vincoli, i poeti che si sono cimentati in questo tipo di testo
hanno saputo esprimere spesso una straordinaria delicatezza di sentimenti e profondità
di pensiero. Tutto, veramente tutto, in diciassette sillabe, non una di più, non una di
meno.
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Giovanna aveva concluso il suo intervento leggendo alcuni versi di Matsuo Basho,
grande maestro dell’arte degli Haiku.
G era sconcertato e aveva capito ben poco. A dir il vero più di una volta Giovanna
lo aveva sorpreso con le sue uscite. In genere si trattava di dischi di rock alternativo
scovati in qualche mercatino dell’usato; a volte, come in questo caso, di forme d’arte
sconosciute, scoperte in polverosi testi nella biblioteca di porta Venezia dove Giovanna
amava trascorrere i pomeriggi.
G abbozzò un sorriso: “Allora?”
“Come allora? Ma G, non li trovi meravigliosi, questi versi, queste parole.”
“Giovanna, lo sai bene che io con la letteratura e con la poesia in particolare non
sono in ottimi rapporti. Ci odiamo a vicenda, li sai i miei voti in italiano.”
“Va bé. Pensaci…”
Giovanna rimase delusa e a corto di parole, ma non era la prima volta. Lei tentava
sempre: riteneva G dotato di chissà quale particolare sensibilità. Sentiva il desiderio di
stimolare questo chissà cosa dentro G per portarlo alla luce. Era una sorte di missione,
prima o poi sarebbe riuscita. Bastava trovare la chiave giusta.
Giovanna tornò nella sala fumo posta nel cesso adiacente alla classe. G invece finì il
suo panino ripieno di prosciutto e stracchino, un classico. Meditò su quegli haiku, forse…
Giovanna aveva riposto il testo sotto il suo banco, due file avanti a quello di G.
Andò a curiosare, c’era qualcosa di quei versi che si era appiccicato al suo encefalo.
Cercò di scoprire cosa.
V
G impugnò una bic nera nuova di zecca, tolse il tappo e indirizzò la busta molto
semplicemente a: Antonella B., via Ripamonti 123, Milano. Non era sicuro del numero civico e non poteva chiederlo in giro, sarebbe subito stato smascherato.Credeva nelle capacità del postino, era sicuro che l’avrebbe comunque recapitata. Altrimenti la lettera
sarebbe finita nell’ufficio della corrispondenza orfana, quella da destinare al macero e
lui ci avrebbe rimesso ottocento lire in valori bollati. Certamente non gli sarebbe mai
stata restituita, perché non aveva alcuna intenzione di dare informazioni sul mittente.
Era comodamente stravaccato sulla sedia della scrivania, chiuso ermeticamente nella
cameretta di un trilocale sito in via Pacini.
G viveva i suoi pomeriggi in solitudine: il padre era un impegnatissimo dirigente di
una rinomata farmaceutica, la madre impiegata in una minuscola casa editrice.
Il primo pomeriggio era l’unica parentesi nella quale G indossasse la carica
d’imperatore delle mura da lui abitate.
L’Haiku l’aveva conquistato, distruggendo la prima impressione. Era una sana forma poetica, perché era poesia strutturata. Non vi erano regole segrete da scovare: diciassette sillabe, un’immagine che rappresentasse un’emozione specifica quale tristezza,
gioia, nostalgia, felicità… amore, ed era fatta. Tombola. Era pulita, era funzionale, era
interamente circoscritta e dipendente dalle proprie regole. Gli piaceva perfino il nome,
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un’espirazione interrotta da quella K creata sul fondo del palato quasi che fosse una linea tratteggiata: Haiku. Ecco la risoluzione a tutti i suoi problemi, o quasi.
Ecco il pulsante per attivare la procedura di salvataggio in caso di fuga di una Peugeot trecentosei verde metallizzata con a bordo una fanciulla chiamata Anto.
Cominciò a scrivere, cancellare e riscrivere, cancellare e riscrivere, cancellare e riscrivere…
Lavorò duramente per un paio d’ore (due ore mooolto leggere), sbudellando
l’alfabeto, tentando vocaboli che erano troppo lunghi, troppo corti, modificando e distruggendo. Un muratore della poesia: gli piaceva.
Ed ecco un Haiku caldo caldo appena sfornato.
Vento d’estate,
I capelli tuoi,
Lì il cuore respira.
Non ne andava matto, ma era quanto di meglio fosse riuscito a spremersi.
D’altronde in classe già militava un aspirante scrittore, poeta, o quello che era. Si trattava di Maximiliam: un signore permanentemente divorato da paranoie stratosferiche, un
cervellotico irrecuperabile, sempre immerso nell’arte gotica e similari, roba nella quale
prima o poi sarebbe affogato. Se quello voleva dire essere artisti, allora era meglio scegliersi un altro mestiere.
Ritornò allo scritto. Temeva che se ci avesse arzigogolato sopra troppo a lungo, se
ci si fosse dannato eccessivamente avrebbe finito con il peggiorarla ulteriormente (se
ciò era possibile). Oppure ci avrebbe rinunciato del tutto. Non voleva che accadesse.
Probabilmente la chiara come l’alba Anto era invaghita di qualche rampante universitario: magari uno di quelli che ogni tanto la venivano a prendere con dei mostruosi
centauri. Forse avrebbe pensato che fosse stato uno di quelli a spedirle l’haiku. Era un
rischio concreto. Ma a G non importava questo, l’acclamata Anto sarebbe stata comunque felice, questo era l’obbiettivo. Poco importava se non avesse conosciuto l’identità
del datore di tanta gioia, se di gioia si fosse trattato. L’avrebbe saputo soltamente lui.
Copiò la versione definitiva sul foglio più candido che possedesse (in stampatello,
come scrivendo una richiesta di riscatto invece di una poesia simil romantica), tappò la
bic e partì a razzo per imbucare la bustaC’era una buca rossa per le lettere all’angolo del
suo isolato di fianco al bar tabaccheria dove solitamente acquistava il suo pacchetto di
Amadis da dieci. Durante il tragitto pareva quasi nascondere la busta, forse per paura di
incrociare qualche conoscente curioso; non aveva alcuna intenzione di sputtanarsi.
Giunse alla meta: imbucò sotto la scritta PER LA CITTA’. Gli si accelerò il battito
cardiaco quando dalle dita gli scivolò il suo piccolo poema.
“E se sa che sono io?” Il pensiero gli bucò il cervello.
Aveva appena spedito una poesia ripiena di candido romanticismo ad una compagna di classe particolarmente carina.
Non era quello che voleva?
O no?
C’era dell’altro? Aveva commesso il più grande errore della sua piccola esistenza?
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Non ne aveva la minima idea.
Tornò a casa e riempì il trilocale cucina abitabile box cantina, con i riff dei Soundgarden. Nel frattempo aveva cominciato a formarglisi nella mente una fantasticheria
squisita. In essa la fresca come l’aria Anto camminava con lui per le vie del centro con una
delle sue felpe grigie asettiche e morbidissime.
“Voglio farti una domanda G.” Diceva nella sua mente accompagnando le parole
con uno dei suoi sorrisi divini. “Però voglio la verità, solo quella.”
Gli mostrava quel foglio appena imbucato.
“L’hai scritta tu questa?”
Era una fantasticheria terribile. Era una fantasticheria stupenda. Era solo una fantasticheria.
Voleva che cessasse.
Voleva che non cessasse mai più.
Ma i Soundgarden continuavano, nonostante il loro recente scioglimento, il disco
girava incessantemente e non aveva alcuna intenzione di smettere.
La soffice Anto stringeva la sua mano, sembrava una morsa, sembrava non potesse
più staccarsi.
La virtuale Anto e G: una cosa sola.
VI
DRIIIN
“Pronto?”
“G, sono Walter.”
“Ciao Walter, è un po’ che non ti vedo a scuola. Che fai? Pensavo ti fossi dissolto.”
“Senti G, a me dispiace per l’altra sera. Non so che cacchio mi ha preso, non lo so
proprio, non so che…”
“Ehi Walter, tranquillo, capita a tutti (o quasi) una serata NO, non snervarti esageratamente.”
“Va bé. Però per causa mia vi siete sciolti. Potevate andare avanti anche senza di
me. Un batterista l’avreste trovato nel giro di una settimana, e certamente sarebbe stato
meglio di me.”
La voce di Walter pareva essere passata sotto una pressa.
“Walter smettila di piagnucolare. I Bambola eravamo noi quattro ed il nostro unico
scopo era divertirsi. Al Pao Pao qualcosa è mutato, è divenuto innaturale, non eravamo
più quattro ragazzi in cerca di godimento puro: c’era troppa competizione, troppa voglia di riuscire. E poi Walter, lo sai, la gloria non fa per noi.”
G sentì dall’altra parte del filo un breve respiro di ripresa. Le sue parole una volta
tanto avevano funzionato. Aveva compiuto la sua buona azione quotidiana.
“Ma, non lo so, G, magari hai ragione tu. Lo spero.”
“Walter smetti di sperare, mi raccomando.”
“Grazie… grazie G.”
“Fatti vedere a scuola.”
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Si salutarono cordialmente.
VII
DRIIIN.
“Pronto.”
“Ciao G. Sono Kikko. Come te la passi?”
“Discretamente direi. Sempre immerso nel letame. E tu Kikko, è da un po’ che non
ci si sente.”
“Ma…”
Esitò. E G capì immediatamente tutto. Doveva ricominciare con i sermoni, come
aveva fatto con quel disgraziato di Walter.
Ricordò quello che diceva Fabio il saggio: i Bambola non avranno mai successo perché sono composti da quattro terribili bravi ragazzi.
“Ascolta G: mi sa che ho esagerato con Walter. Ma cerca di capire, che cazzo di casino ha combinato, non l’ho mai sentito suonare in quel modo.”
G attaccò con il suo discorsetto, dicendo che c’era dell’altro, che era giusto smettere
vista l’eccessiva serietà che si era dato all’operato. Utilizzò una voce impostata. Giunse
alla conclusione tirando di nascosto un breve ma profondo respiro di sollievo.
“Hai ragione G. Senti ho bisogno di un favore: potresti scusarti con Walter da parte
mia. Cerca di comprendermi. Fammi questo favore.”
G accettò da vero perfetto fesso. Non si chiese il perché dovesse compiere quel gesto per conto di quell’essere spregevole chiamato Kikko. Kikko? Che razza di nome era,
peraltro scritto in quella maniera, con quelle kappa pseudorivoluzionarie.
“G sei un vero amico, lasciatelo dire.”
Amico? Forse, ma forzatamente. I rispettivi padri si conoscevano da una vita, giocavano nello stesso cortile.
“Non preoccuparti Kikko. Ci sentiamo.”
Si salutarono cordialmente.
VIII
DRIIIN.
“Pronto.” Con voce stanca.
“Ciao G, sono Fabio. Che mi dici?” Questa voce era invece caricata a molla. Chissà
perché.
“Solita melma, tutto tranquillo. E tu?”
“Diavolo!!! Continua a girarmi per la testa quella serata presuntuosa. Ascolta G, abbiamo sbagliato tutto!”
BLA BLA BLA
BLA BLA BLA
BLA BLA BLA
22
Si salutarono cordialmente.
IX
Passò una settimana dall’invio dei tortuosi versi anonimi.
A quel punto doveva accadere qualcosa, qualunque cosa, era giusto prepararsi, organizzare un piano, qualunque diversivo, una teoria ed i suoi corollari. Era proprio giusto.
G analizzò analiticamente tutte le reazioni possibili della versatile Anto. Iniziò ad
osservare ogni minimo particolare, ogni movimento sospetto. Aguzzò l’udito e la vista
per carpire tutte le espressioni che rivolgeva alle compagne di classe. Gli sembrava
normale che la tirata Anto si vantasse agli occhi delle sue amiche per il gesto di un suo
ammiratore.
G voleva sapere, non c’erano cazzi.
Ma il tempo mise alla luce l’errore macroscopico di G: aveva considerato tutte le reazioni possibili della ipnotica Anto, ma non aveva pensato ad una NON reazione.
E allora?
Pensò e ancora pensò. Questa non reazione poteva essere dovuta a due eventualità:
1)
Errore di numero civico, stupidità acuta dell’addetto delle poste, un semplice
incidente postale (disgrazie che capitano). Non ci credeva troppo.
2)
Malvagità inaspettata della perfida Anto: non vi era comportamento più sadico per far impazzire lo spasimante e, magari, farlo uscire allo scoperto.
G si sentiva incastrato in un ingranaggio oscuro. Quel che è peggio, è che G si era
incastrato con le sue stesse mani.
Gli era rimasta solo quella settimana d’attesa fatta d’illusioni fantasticate ventiquattro ore su ventiquattro. Non si sentiva un letterato, anzi: escludendo la musica si sentiva
allergico ad ogni forma d’arte. Eppure in quella occasione si era sentito bene nelle vesti
di poeta. Quell’Haiku magari non era un’opera destinata al successo universale, ma
conteneva parole sincere e genuine che suonavano bene. G non era un ottimista, ma
quella volta era convinto che quelle tre righe avrebbero fatto centro. Ed invece la stronza Anto se ne stava zitta a rimurginare chissà quale idea.
Stallo (in senso scacchistico non aeronautico: si dice stallo nell’arte degli scacchi
quando il re non ha più la capacità di muoversi): questo era lo stato di G.
Che fare? Cosa non fare? Magari quel silenzio presuntuoso era un elegante invito a
lasciar perdere.
No. Quello non lo avrebbe mai accettato. Al limite toccava a lui, il cacciatore, decidere quando interrompere il corteggiamento.
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X
Nessuno capì mai.
A volte la pazzia, la follia, chiamatela come vi pare, giunge senza preavviso, nessun
avvertimento. Anzi, è sempre così.
Fatto sta che arriva sempre dove nessuno la aspetta, nei luoghi e nelle circostanze
più limpide.
G era sempre stato un essere affidabile, anche troppo maturo per la sua età: disciplinato, moderato, mai aggressivo, un tipo riservato. Un autentico ed originale bravo
ragazzo. Chiunque ci avrebbe messo la mano sul fuoco.
Poi arrivò un giovedì qualunque, un giovedì pesante, un giovedì da sei ore. La classe
aberrò disgustata. La quinta A dell’istituto tecnico commerciale Pietro Verri vide il demone, o quello che era, piombare in lei nelle membra di G.
Tutt’oggi nessuno è in grado di spiegare con esattezza il motivo di quel gesto.
Quinta ora: diritto commerciale. La professoressa Berti (un metro e cinquantotto
d’odori fetidi) era indaffarata nell’esplicare, nel modo più astruso possibile,
l’organizzazione delle società per azioni, in particolare indagava tra i casi d’invalidità
della delibera assembleari. Tutte le venti anime della classe erano indaffarate, ma non
nel recepire le nozioni del docente, bensì nello sviluppare la propria intelligenza attraverso attività di carattere ludico: nello specifico, battaglie navali, parole crociate a schema libero, tris, l’impiccato, la ruota della fortuna, un’edizione mignon del Risiko, e, per i
più coraggiosi, incontri scacchistici secolari.
G si dilettava con il compagno Claudio (noto al Verri come spacciatore di porno; a
richiesta anche materiale video con pacco anonimo) nel semplice tris.
Poi, tutto a un tratto, a G capitò, senza preavviso, qualcosa che non aveva mai provato né conosciuto.
Si sentì stanco, ma non solo fisicamente. Stanco della sua esistenza, stanco del suo
stentare. Doveva agire, non doveva più rimandare, perché nulla era più rimandabile. Poi
ascoltò una compiacente assenza d’incredulità che rese tutto semplice.
Guardò la doverosa Anto seduta davanti a lui. Sfogliava con la vicina Lisa una rivista di moda divorando un pacchetto di crackers integrali. G pensò che sarebbe stata
perfetta per un ipotetico videoclip di Obsoleto, la hit dei defunti Bambola. G le avrebbe affibbiato il ruolo di protagonista; avrebbe interpretato semplicemente se stessa, vivendo
il quotidiano. Magari non ciazzeccava molto con il testo, o forse sì, comunque era
ugualmente ed irrimediabilmente perfetta.
Radunò nella mente il maggior numero di pensieri blu possibile.
Poi svuotò tutto e partì.
caos, o come sono caos
follia
Andando a scartabellare nel dizionario della lingua italiana si trovano sotto la voce follia varie
definizioni: sconsideratezza, azione folle o temeraria, demenza, pazzia, alienazione e soprattutto mancanza di raziocinio. Probabilmente sono tutte esatte, ma per G era diverso. Quella follia, quell’assalto
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mentale che lo colpì un gioviale mattino era un eccesso di lucidità. Una chiarezza mai vista prima di
allora che lo aveva reso una cellula impazzita stanca di accarezzare noia. I suoi pensieri (blu) erano
dotati di una brillantezza incredibile. Irresistibile: quella volta non poteva esitare, non doveva mancare
all’appello, quella volta non esisteva nessuna giustificazione. La follia lo aveva sedotto e conquistato.
Ed è giusto precisare che si trattava solo di follia e non di imbecillità (o minchioneria): questo perché
mentre la prima è una forza della natura, nel bene o nel male, la seconda è una debolezza della natura,
senza alcun scampo. Una volta tanto va dato a G quello che è di G.
Si calò sotto il banco appoggiando la schiena sul pavimento. Indossava una felpa
grigio scuro in stile Anto, lo sporco non si sarebbe notato molto, la madre non si sarebbe irata troppo. Fin lì solo Claudio notò il movimento politicamente scorretto, ma lo
stupore lo impietrì.
“La delibera è annullabile quando non si è presa in conformità della legge o dell’atto
costitutivo, quindi ragazzi…” La signora Berti continuava con il suo tipico tono asettico
privo di qualsiasi vibrazione emozionale. Teneva la testa china sul testo cercando di seguire la traccia del libro per incasinare maggiormente lo studio dei suoi adepti.
L’ultima misurazione del corpo di G, coincidente con i tre giorni per stabilire la sua
conformità ai parametri dettati dal ministero della difesa al fine di arruolarlo
nell’esercito (cosa che, ahinoi, accadde. Votazione: C2), aveva declamato un’altezza pari
a 178 centimetri per un peso pari a 69 chilogrammi. G si riteneva soddisfatto del proprio fisico, non dava nell’occhio né per l’altezza né per la stazza. In quell’occasione poi
la soddisfazione aumentò, visto che riuscì con tranquillità ad infilarsi sotto la sedia della
cara Anto senza far troppo caos, per poi sbucare tra le gambe della prescelta. Il piano
(se uno ce n’era) aveva funzionato, fino a quel punto, alla perfezione.
Salì fino a far giungere la testa all’altezza del piano della sedia, proprio in mezzo alle
cosce della fortunata Anto. Le guance di G avevano preso un po’ di colore a causa dello
sforzo dei suoi inesperti addominali. I capelli erano un po’ più spettinati rispetto al solito, gli occhi ubriachi di spirito.
CHE IMPRESSIONE!!!
Anto vista da quella angolazione gli faceva un poco di impressione. Manteneva
sempre il suo fascino, ma era così strana, la testa era un testone, gli occhi sporgevano
pericolosamente dalle orbite, e poi i capelli creavano un inquieto golfo d’ombra sul viso.
Che strano, che caos laggiù.
Anto cacciò un urlo breve, ma acuto, un suono che destò l’attenzione dell’intero
popolo dell’aula.
G non perse tempo, non ce n’era da perdere, non ce n’era molto a disposizione.
Iniziò ad annusare muovendo ossessivamente i muscoli del suo collo per cercare di avvicinare il suo naso alla zona ano-genitale della cara Anto.
Anto indossava i soliti jeans e G sapeva che questo sarebbe stato un ostacolo, ma
non si tirò indietro.
La quinta A iniziò a rumoreggiare: anche Bernie interruppe il suo diletto. Stava attaccando dall’Islanda alla Groenlandia con tre terribili armate nere: nonostante la regio-
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ne danese potesse divenire il suo ventiquattresimo territorio, portandolo al compimento
dell’obiettivo, non poté resistere all’ammirare il teatrino a sorpresa organizzato dal suo
fido scudiero, così amava definirlo.
E G non esitava, continuava spedito.
La confusione nella classe saliva progressivamente rispetto allo spasmo di G. Il macello tirò su la testa della professoressa Berti, la quale, innervosita, sbatté un paio di
volte la sua terribile bic rossa, per poi ricadere nei meandri oscuri del diritto.
Anto rimase immobile per tutta la durata del rito, non fece una piega, non capiva,
voleva sapere dove G volesse arrivare.
Quando la quinta A era oramai preda di una forma d’isterismo inarrestabile, G si
ritenne nuovamente sconfitto e batté in ritirata.
Il ritorno fu decisamente più faticoso dell’andata, anche perché il mancato raggiungimento dell’obbiettivo bruciava.
Nessuno domandò mai i motivi di quel gesto. Anto accavallò le gambe e tornò ai
suoi crackers ed ai modelli della rivista.
G espose bandiera bianca.
“Allora ragazzi riepiloghiamo che oggi mi sembrate un po’ agitati: la delibera è annullabile quando non è presa in conformità della legge o dell’atto costitutivo. E’ inoltre
annullabile…”
XI
Tutta colpa di Giovanna e le sue ricerche parascolastiche.
Giovannona invase un paio di mattine prima l’esistenza di G accompagnata dalla
solita massa di riccioli biondi. Iniziò senza preavviso a sdottrinare intorno alla comunicazione tra mammiferi ed in particolare sui MESSAGGI ODOROSI.
G, come solito, aveva ascoltato le tematiche con manifesta repulsione, ma come
sempre, una volta che Giovanna si era allontanata delusa, la sua mente cominciò timidamente a rimuginare le nozioni appena assunte.
Annusamenti. I mammiferi si accorgono se la femmina è recettiva o se non lo è attraverso questa perversa azione. Ma il bello è che la regione in cui i profluvi odorosi abbondano maggiormente è quella ano-genitale. E’ annusando questa zona che avviene il
primo approccio amoroso tra gli individui di sesso diverso. La femmina dal canto suo,
pubblicizza la propria disponibilità all’accoppiamento diffondendo intorno a sé feromoni profumati.
L’odore vaginale della femmina di molte specie è un potentissimo afrodisiaco per i
maschietti, che si fiondano a pesce su qualunque oggetto sia stato imbevuto sperimentalmente dalla secrezione femminile.
A G parve come un’ultima spiaggia. Visto che la comunicazione scritta vestita da
poesia non aveva dato risultati esaltanti, non poté che tentare questa nuova strada. Non
vedeva altre vie percorribili. Era praticamente costretto.
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Piccolo particolare da annotare: quello che Giovanna non aveva detto, dandolo per
sottinteso, era che l’uomo ha perso gran parte dell’olfatto. Meglio ancora, l’uomo è olfattivamente cieco.
G lo capì dopo trenta secondi di tentativi. Nulla, non sentiva nulla, nessun odore.
Sentiva solo la gran confusione nella classe che il suo gesto aveva causato.
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PARTE TERZA:
Buon Natale e felice anno nuovo
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I
Buon Natale…
Buon Natale, siamo tutti più buoni.
G, in nome della sua bontà, era costretto a sorbirsi la precaria ricostruzione
dell’albero genealogico, suo padre non transigeva.
Ore 11, citofono: nonna Concetta e nonna Genoveffa con la solita puntualità si
presentavano ingobbite dal peso dei pacchetti.
Buon Natale.
Il pino di plastica ricoperto dalle luci psichedeliche, la tavola imbandita in onore del
santo Consumismo, il telegiornale che ricordava che c’è chi ha troppo di meno e chi
non si accontenta per principio.
Nonna Concetta: “G, complimenti, ma come ti sei fatto grande, hai visto Genoveffa! Ma G ce l’hai la ragazzina, eh?”
La lingua batte dove il dente duole.
“Nonna, non sono cazzi tuoi.”, ma rimaneva solo un pensiero, perché a Natale bisogna essere molto più buoni. Ed allora con il mal di denti nel cuore sorrise alla famigliola gentile.
Ore 11 e trenta. Spacchettamento dei doni: un maglione, una calcolatrice solare, un
altro maglione, un compact di musiche natalizie da mettere su come colonna sonora, un
altro maglione.
Buon Natale, mi raccomando.
Ore tredici, pranzo: affettato e sottaceti per antipasto, ravioli in brodo di pollo, arrosto di vitello con patate gratinate, ananas, fichi secchi, panettone senza uvetta perché
non piace a nonna Genoveffa. Tutto innaffiato con un rosso leggero leggero di nobili
origini che possono assaggiare anche le no nne.
“Mangia G, mangia che oramai sei un bel giovanotto: a proposito G, ce l’hai la
ragazzina, eh?”
Buon Natale.
Ore quindici: tombola, mercante in fiera, tombola, mercante in fiera, tombola, mercante in fiera, natale con i tuoi, tombola, mercante in fiera.
Buon Natale. La pensione è troppo bassa, siamo troppo vecchie per andare a rubare, e allora come facciamo. E poi il colesterolo è troppo alto, ma sia chiaro che al saporito non rinunciamo.
Buon Natale, lusso di cartone.
Ore 17: “Come siete fortunati voi giovani, lo sai G, goditi questi anni altrimenti te
ne pentirai, che poi gli anni corrono non ti credere. Goditela adesso che sei un bel giovanotto. A proposito G, ce l’hai la ragazzina, eh?”
Buon Natale. Via verso la cena, una cena fatta di avanzi, perché a Natale non si deve sperperare troppo, a Natale si deve essere troppo più buoni. Troppo non è mai abbastanza, dunque, un buon Natale a tutti.
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DRIIIN.
“Pronto?”
“Buon Natale G!”
“Walter? Di soltanto una parola ed io sarò salvato!”
“G, buone notizie. Per Capodanno ho scovato un festino bomba, anzi un festone
atomico. C’ho un amico, cioè quasi un amico, un conoscente, che organizza con dei
suoi amici, o che ne so, un party in un cascinale o un fienile, insomma un capannone da
paura alle porte di Milano, imperdibile.”
“Se lo dici tu. Quanto si deve sborsare?”
“La quota di partecipazione è solo un misero deca, allora, sono un grande eh?”
“Si va bé, sembra invitante. Ma per andare, non siamo motorizzati, come si fa?”
“Ci mancherebbe. Ho risolto anche questo. Andiamo con questo mio amico, cioè
quasi amico, insomma Andrea, si chiama Andrea.”
“Oltre al SI’ ho altre opzioni?”
“…”
si salutarono con parole stitiche
Meglio del torrone, delle lenticchie e dello zampone in programma a casa sua, non
c’erano dubbi il capodanno l’avrebbe passato ovunque fuori di casa.
“G chi era, la tua fidanzatina? Ma G ce l’hai o no la ragazzetta?”
“Buon Natale nonna!”
II
…e felice anno nuovo.
L’appuntamento era alle ventuno del trentun dicembre in punto in piazzale Lodi,
davanti al cinema Maestoso.
Alle ventuno e undici G perse quasi tutte le speranze, iniziò a sentire puzza di fregatura oltre ad un gelo incredibile. Trascorreva il tempo osservando il cinema Maestoso,
teatro di grandiose pomiciate. Roba da ragazzini. Contemplò anche il profilo aguzzo
della città e iniziarono a scorrere fiumi di pensieri non molto piacevoli.
Nella testa si gelò un’idea stupenda: avrebbe assassinato l’amico, o quello che era,
Walter. Buoni propositi per l’anno nuovo.
La paura di passare la mezzanotte assiderato in mezzo alla strada in perfetta solitudine lo bloccava.
Ma G si sbagliava. Alle ventuno e sedici una vettura accostò di fronte al cinema.
Dal finestrino uscì una mano che cominciò ad agitarsi nella sua direzione. Bastarono
pochi istanti per comprendere chi fosse. G si avvicinò timidamente accennando un sorriso che però somigliava ad una paresi permanente.
“Walter?” Domandò.
“Ciao G, sali dietro, dai!”
La vettura era una BMW grigio metallizzata 318 quattro porte: ad una prima analisi
pareva risalire agli ultimi anni ottanta e, vista l’età, l’auto non era poi malaccio.
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G salì quasi felice sulla berlina bavarese rimproverandosi per il suo inguaribile pessimismo. Ma poi la felicità, o quello che era, svanì a causa di un paio di segnali inquietanti.
1)
I suoni provenienti dall’antico impianto stereo installato sulla vettura assomigliavano ad un sonnifero dell’ultima generazione. Si trattava di amenità chiamate trip
hop, drum’n’bass, soul e similari, tutto off limits. G, per un istante, rimpianse la cenetta
a base di zampone e nonne in programma a casa. Che diavolo aveva combinato quel tizio chiamato Walter.
2)
Il tipo alla guida si girò verso G accompagnato da un mocio vileda che indossava in testa.
“Ciao. Andrea, sono Andrea.” Si presentò con una risata che mostrava la sua dentatura dalla geometria scorretta, difetto ribadito dall’apparecchio ortodontico che esibiva.
Questo Andrea era un over venti dall’occhio spento, la barba incolta ed un odore
preso in franchising dalle fogne di Nuova York.
“Ciao, io sono G.” Tese la mano per un saluto in regola.
“G…, ciao G…” Andrea prolungò il sorriso, ma non protese la mano.
G abbozzò ricambiando il sorriso. Poi si diresse verso il caro amico Walter al quale
inviò uno sguardo omicida. E pensare che aveva anche osato difenderlo dopo la cazzata
del Pao Pao. E lui per ringraziarlo gli aveva rifilato questo pacco colossale.
Andrea partì sgasando violentemente. Il rinculo fece salire la cena di G fino alla
gola.
“Senti G?” Disse Andrea, sempre ridendo, una risata isterica e perpetua. “Questa
berlina è un mostro, centoventi cavalli da schianto, senti che rombo. Oh! Guarda che
non è truccata, una favola meccanica.”
G taceva, la guida di Andrea gli aveva tolto la parola, era finito dentro l’auto di un
pazzo, una macchina della morte. Era in trappola, non c’era via di scampo.
Si diressero verso la tangenziale passando per corso Lodi ad una velocità di crociera
di centoventi all’ora. Andrea marciava nel traffico con dei dribbling asfissianti, G non
aveva mai assistito ad una esibizione simile. Quello che lo stupiva di più era la tranquillità di Walter che dissertava con quel pazzo al suo fianco come se nulla accadesse: la crisi dell’Inter, crisi di governo, crisi di Gianni ed altri argomenti critici.
G iniziò a scommettere con la sua coscienza sull’ora della sua morte: sarebbe giunto
al novantotto? Sarebbe stato l’ultimo morto del novantasette?
“Silenzioso il tuo amico, eh, silenzioso.”
“Ma no! Deve carburare, non ti preoccupare.”
“Carburare…? Ehi G, vuoi, eh?”
Andrea porse nell’ombra dell’abitacolo un pacchetto di sigarette.
“No grazie, ce l’ho, tranquillo.”
Il braccio di Andrea non si mosse.
“Ehi, G! Guarda bene che queste non ce l’hai.”
G bloccò l’attività cerebrale per un attimo. Poi tentò di mettere a fuoco il contenuto
del pacchetto. Riuscì parzialmente, così prese una sigaretta dal pacchetto per portarla
alla luce. Capì dunque la natura dell’oggetto: un bel bambino casereccio profumato.
31
Accettò: “Grazie Andrea!” Sorrise.
“Di niente G, di niente…”
Nuovamente G si autoflagellò: era solo un imperdonabile pessimista, doveva sempre rovinare tutto. Quell’Andrea non era poi così male, avrà anche attentato alla sua vita, ma come tutti aveva un lato negativo ed uno positivo. Quell’Andrea racchiudeva lo
spirito della nottata cui andavano incontro: divertirsi e divertire.
Accese il joint, tirò un paio di volte aprendo i suoi pensieri.
“Volete?” L’educazione prima di tutto.
“No G…” Quell’Andrea continuava a ridere e sorridere, sapeva fare solo quello
perpetuamente, G quasi lo invidiava.
“Goditelo tutto, goditelo.”
G ringraziò e continuò il suo diletto contemplando il panorama della tangenziale.
Riusciva a godersi anche le note provenienti dall’autoradio: suoni che fino a quel giorno
aveva odiato, ma che quella sera apparivano sotto una nuova luce, una luce immacolata
e gradevole.
“Complimenti, questa roba è straordinaria!!” Aveva concluso il suo joint e stava bene: sul suo volto era apparso un sorriso decisamente somigliante a quello di Andrea.
“Ti piace, eh G?” Intervenne Walter. Già, Walter! C’era anche lui.
G rivalutò l’amico, o quello che era. Era in gamba, proprio un bravo ragazzo.
Dopo circa tre quarti d’ora giunsero a destinazione. G, che godeva ancora degli effetti del joint, non aveva la minima idea di dove fossero e nemmeno gli interessava.
Il luogo però era proprio come lo aveva immaginato, anche se dall’esterno l’oscurità
non consentiva di capire molto: cascinale, fienile, piramide, non importava. C’era però
tanta oscurità e tanto spazio, come G aveva pensato.
I tre scesero dalla BMW, s’infangarono a dovere, e poi, senza perdere tempo, si addentrarono nel capannone. Eccolo, un inedito girone dell’inferno, il girone che Dante si
era dimenticato di narrare, il luogo ove le anime peccatrici sono destinate a trascorrere il
loro divertimento. G dovette ammettere che Andrea e Walter lo avevano stupito.
Il locale era stato adibito ad uso discoteca, equipaggiandolo alla perfezione, con
tanto di palla di vetro e luci di ogni colore e natura.
Anche gli abitanti erano della razza prevista da G: tutti erano sulla falsariga di Andrea. La loro missione era divertirsi e divertire. Ed ecco cavalieri sieropositivi pronti a
mutilare la pace dentro cuori affondati, rapaci determinati a disintossicare le vene dalla
noia, serpenti striscianti ai piedi dei battezzati dal sacro capitale.
I tre furono accolti da un calore e degli abbracci alieni soffocanti. Andrea fu portato
via da una bolgia umana chissà per quale motivo. I due superstiti si guardarono in faccia
e fecero scoppiare una risata sinistra.
“Beh, si parte.” Disse Walter allargando la risata a dismisura.
“Credo sia giusto.” Ribatté G.
“Lasciate ogni speranza voi ch’entrate…” Concluse Walter.
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III
La mezzanotte non tardò ad arrivare, d’altronde erano tutti riuniti per lei.
Una mezz’ora prima che lei giungesse Andrea si avvicinò a G sempre con il suo fido sorriso.
“Ti diverti G, ti diverti?”
“Direi proprio di sì, ma dov’eri finito?”
G aveva ballato e bevuto e ballato e bevuto e di tanto in tanto pisciato per poi ballare e bere e ancora.
“Ehi G, prima della mezzanotte devi assolutamente assaggiare una fetta della Torta.
Ho prenotato per te una bella fetta, mi raccomando.”
Le capacità percettive di G erano sensibilmente affievolite. Gli occhi erano socchi usi, la musica era oramai solo un rumore, Walter… lo aveva perso da una vita.
“Torta, hai detto torta? Quale torta?” G urlava per riuscire ad ascoltare la sua stessa
voce.
Nessuno rispose, Andrea era già riscomparso in mezzo alla marea umana. G non
provò nemmeno a cercarlo.
LALALA LALALA
Un incredibile girotondo era penetrato nella testa di G. Intanto il suono della musica che riempiva la sala gli torturava i timpani senza dargli tregua. Era una musica piena
di sadismo, non si fermava davanti a niente.
LALALA LALALA
Il girotondo continuava e G iniziava a non avere più una gran padronanza sul suo
giovane corpo. Le gambe iniziavano a danzare per conto loro, senza nemmeno seguire
il ritmo e i pensieri. Ballavano chissà dove e chissà perché.
LALALA LALALA
La Torta. Doveva assaggiare la Torta, la curiosità ravanava nel cervello, la Torta cacchio, doveva assolutamente divorarne un pezzo.
Problema: dov’era la Torta? Il capannone sarà stato di almeno mille metri quadri ripieni di giovanotti impazziti. Trovare una torta, anzi la Torta, doveva essere una vera
impresa. G accolse la sfida ed iniziò la caccia. La caccia alla Torta.
Walter aveva provato a stimare la popolazione della festa. Era giunto ad un numero
abbastanza definito: duecentocinquanta persone. La stima era stata effettuata poco dopo essere entrati alla festa: secondo G da quel momento si erano aggiunte almeno un
altro centinaio di anime.
Dunque trecentocinquanta persone, trecentocinquanta facce, trecentocinquanta
pezzi, trecentocinquanta cuori, settecento occhi, settecento polmoni. In mezzo la Torta,
una torta bella e buona.
“Scusa, hai visto la Torta?” G ripeté quattro o cinque volte la domanda, ma i potenziali interlocutori non badavano molto a lui ed alle sue esigenze. Ma lui tenace continuava, parlando nel vuoto, mentre i suoi occhi erano oramai prossimi alla pensione.
LALALA LALALA
Finché un rumore, una voce forse, rispose alla ansiosa richiesta.
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“La Torta? Lì all’angolo! Ma fai presto, non so se ne è avanzata.”
G provò a ringraziare la gentile anima, ma non gli parve di riuscire nell’impresa.
Non riuscì nemmeno ad identificare chi fosse quell’angelo: uomo o donna non gli importava, ora sapeva dov’era la Torta, Andrea aveva parlato chiaro, una fetta era prenotata per lui, una bella fetta, guai se non l’avesse trovata intatta. Una fetta era sua, tutta
sua.
Iniziò a strisciare verso l’angolo indicato. Sentiva la birra e tutti gli altri alcolici assunti nell’arco della serata corrergli nelle vene. E poteva ascoltare anche la sua vescica
pulsare, quasi urlare. Ma il desiderio di urinare non riusciva a sovrapporsi alla voglia incontrollata di Torta.
Arrivò all’angolo, o quasi. G intuiva la presenza di un drappello di persone: anche
loro erano lì presumibilmente per il suo stesso motivo. La Torta, la volevano tutti, era
oramai in esaurimento, ma una fetta doveva rimanere per lui.
“La Torta, voglio la Torta, una fetta è per me, per ME!!!”
Cominciò ad agitarsi, sentiva la meta prossima, riusciva anche ad apprendere l’odore
della Torta, inconfondibile, era lei, la riconosceva.
“Calmo, calmo amico, tranquillo.”
“Voglio la Torta! Muovetevi, la esigo!” Oramai gli occhi non reagivano più alla luce,
G ci aveva rinunciato, gli bastavano l’olfatto ed il gusto.
“Ecco tieni e sparisci!”
G allungò le mani speranzoso. Sentì un piattino di plastica poggiarsi sopra. Sorrise.
Missione compiuta.
Voleva ringraziare il benefattore, voleva ringraziare tutti per la serata, ma non aveva
tempo di farlo, non in quel momento. Lanciò il piatto verso la bocca. Le labbra godettero subito, Andrea aveva ragione, Lei era buonissima, Lei era meglio di ogni altro dolce, di ogni altro cibo, Lei era meglio del sesso. La degustò, era una bella fetta, non c’era
da lamentarsi, la divorò isolandosi dal mondo, tutto si allontanava, non sentiva più nulla, a parte il Suo sapore, la Sua dolcezza.
Grazie.
Ringraziò Andrea, dio, satana, o quello che era.
LALALA LALALA
IV
TORTA
DOSI PER 120 PERSONE:
9000 gr. Di farina bianca,
3000 gr. Di zucchero, 1000 gr.
Di miele di castagno, 2000 gr.
Di burro fuso, 20 dl di olio
di hashish, 30 gr di cioccolato
(estratto di cannabis), 20 gr di
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cristalli di cocaina, 10 bicchieri
di latte, 15 bustine di lievito,
narcotici a volontà (morfina ed eroina).
TEMPO: 1 ora e ½.
DIFFICOLTA’: media.
CALORIE PER PORZIONE: 540.
V
G non conobbe mai gli ingredienti, ma nemmeno se ne era mai interessato. Nel
mondo c’erano cose mooolto più importanti.
Non finì di consumare la Torta in questione che la vista tornò prepotentemente vigile. Diede un’occhiata al paesaggio: lo gradiva, particolarmente. Tutta quella gente, la
sentiva, erano tutti una cosa sola, una gran cosa, finalmente una vera festa, non ricordava una felicità simile mai vissuta.
LALALA LALALA
Il girotondo continuava. Il girotondo gli piaceva.
Credette che a quel punto fosse anche opportuno relazionare un tantino con i propri simili, magari scovare Walter, ed anche ringraziare quel benefattore chiamato Andrea.
“Ciao.”
G avvertì la voce proveniente da dietro e stavolta anche la sua natura, era femminile, aveva parlato una donna. Si girò di scatto: rischio di affogare nella penombra, ma poi
riconobbe la sagoma dalla quale erano provenuti quei suoni. Si trattava di una giovane
donna, una ragazza.
“Ciao!” Ripeté lei alzando il tono, cercando lucidità negli occhi di G.
“Ci sei?”
G raccolse un po’ d’ossigeno a fatica, per poi tirare fuori un soffertissimo: “Ciao.”
La ragazza sganciò un sorriso: “Tutto bene? Scommetto che hai assaggiato la Torta,
vero?”
G eseguì un gesto affermativo, poi riprovò con la voce: “E’ buona, veramente deliziosa.”
“Lo so che è buona. Lo sai, io sono una delle cuoche, quella botta è anche opera
mia.”
“Complimenti!”
Tentò di mettere a fuoco la creatura femminile con la quale parlava. L’azione richiesta era difficile visto che anche l'interlocutore era impegnato in un vorticoso girotondo.
LALALA LALALA
Blu.
I capelli della ragazza avevano quel colore, i suoi occhi altrettanto. Anche gli abiti
erano blu.
G ebbe un pensiero blu, non poteva essere diverso.
Anto.
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Quella ragazza aveva un non so ché di famigliare.
L’encefalo di G cominciò ad analizzare il volto della fanciulla (blu), le sue sembianze (blu). Giunse ad una conclusione: blu, è tutta blu, questa qui è la mia Anto, l’unica Anto.
Parlò a voce alta: “Anto? Ciao Anto!” si chiese il perché si fosse tinta i capelli, gli
occhi e tutto il resto.
“Se vuoi chiamami Anto, anche se la mia mamma mi chiama Alice. Comunque fa
come meglio credi, a me va bene anche Anto.”
“Anto…” G non aveva molto da aggiungere.
“Io invece come ti devo chiamare?”
“G, credo…”
G si chiedeva come mai la mistica Anto fosse così diversa. Va bene il detto “anno
nuovo vita nuova”, ma un cambio così radicale della fisionomia gli pareva eccessivo.
Decise comunque di perdonarla, bando alle ciance, erano lì per divertirsi ed era opportuno divertirsi con la sua enigmatica Anto.
“Ehi G! Vogliamo passare il tempo a contemplarci o hai altri progetti?”
G quella notte non parlò più. Si fece oggetto di piacere per la sua Anto/Alice, la
soddisfò, si soddisfò, per poi tornare estranei, senza ingombri, senza amore, solo una
manciata di pensieri blu.
VI
L’alba non tardò a giungere.
G, nonostante il frastuono che lo circondava, riuscì ad appisolarsi per un paio d’ore.
D’altronde l’insaziabile Anto/Alice l’aveva spremuto ben bene. G era stato bene, non
aveva opposto alcuna resistenza a nessuna iniziativa della partner, si era limitato a godere.
Dopo il meritato riposo era anche pronto per tornare a casa. Unico ostacolo era
trovare quei birbanti di Walter e Andrea.
Il capannone era ancora animato vivacemente, tanto da meravigliare il saggio e vissuto G, che nei suoi diciannove anni di vita ne aveva viste di cotte e di crude.
L’effetto della Torta andava via via scemando e questo un po’ a G spiaceva, ma in
fondo, visto il sole che s’alzava, non era più il caso di giocare ai vampiri.
Si mise fiducioso alla ricerca dei due, sicuramente li avrebbe beccati imboscati con
due tipe da paura, aveva ben inteso l’andazzo della festa.
Dai finestroni del capannone iniziavano a filtrare timidamente i primi raggi di sole,
illuminando gli angoli oscuri del locale: sul pavimento grezzo saltavano all’occhio le
macchie di vomito evaporanti, i bicchieri di plastica ubriachi e qualche sfigato che non
aveva trovato una panchina dove abbioccarsi. Di Walter e Andrea nessuna traccia.
Una paura attanagliò G: che lo avessero lasciato solo e indifeso in quell’inferno per
andare chissà dove. Chiese in giro se qualcuno avesse visto i due bastardi: la metà rispondeva che non né aveva la minima idea e chiedeva se G avesse un altro po’ di Torta.
L’altra metà non era in grado di rispondere, di intendere e di volere.
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Venne naturale scappare da quell’inferno terrestre per controllare la presenza della
decadente berlina di Andrea. Se non ci fosse stata… beh G non voleva nemmeno sfiorare quella ipotesi nefasta.
Uscendo ebbe un’ondata di piacere: tutta quella luce e quel verde, quasi
un’overdose. Le orecchie gli fischiavano, colpa della musica/rumore che ora sentiva in
lontananza; decise che avrebbe fatto di tutto per non dover tornare più lì dentro, quel
pensiero lo angosciava, non ne poteva più.
Si diresse verso il parcheggio situato un centinaio di metri dal capannone: erano sopravvissute una trentina di auto dell’originario centinaio. L’apparato ottico di G cercò
forsennato l’auto di Andrea: non c’è, non c’è, non c’è, non c’è. Ed invece c’era, la vedeva ricoperta da un filo di brina, i vetri appannati, e la sua indistruttibile eleganza (quell’auto
gli piaceva sempre più: gli venne alla mente che quel modello era utilizzato dall’ispettore
Derrick per i suoi inseguimenti; ciò aggiungeva un’altra manciata di fascino).
I vetri appannati?
Non era un segnale di presenza vitale al suo interno? G accelerò il passo, giunse
all’auto in una ventina di secondi e senza esitare tentò di aprire la portiera del posto
passeggero.
Magia magia, la portiera si aprì. G aveva immaginato cosa avrebbe trovato: quel
marpione di Andrea si era certamente imboscato con una femmina da paura. Lo conosceva da otto ore, ma aveva già inquadrato la tipologia di essere umano. Magari non era
giusto interromperlo o svegliarli, ma la sua nevrosi superava ogni senso pudico.
Aprì. Guardò.
Trovò quell’Andrea ansimante, già, G si sentì proprio un maleducato, ma non aveva
altra scelta, e poi l’uomo è curioso per natura, è una questione di DNA. Ed allora già
che c’era curiosò un altro po’ per vedere chi fosse la fortunata. Oh guarda, la fortunatA
in realtà è un fortunatO. Oh guarda, il fortunatO è il suo caro amico Walter.
Oh guarda, è il suo caro amico Walter.
Oh guarda, è il suo caro amico Walter.
Oh guarda, è il suo caro amico Walter.
I due amanti si accorsero della presenza del curiosone G.
Walter sbiancò, la bocca gli rimase mezza aperta come la cerniera dei pantaloni, fi ssava raggelato G, non disse nulla, non disse nulla per un bel po’.
Andrea invece con disarmante naturalezza si ricompose, si allacciò gli abiti, e con
tono asettico proclamò: “Si torna a casa, va bene?”
Gli altri due tacquero.
Chi tace acconsente.
37
VII
Dunque.
G riguardò nella memoria la scena alla quale aveva assistito utilizzando il replay.
Non aveva visto male, il fatto compiuto era quello, nessun equivoco plausibile.
Walter, quello dell’annuncio in bacheca a scuola che cercava un bassista ed un cantante, o più semplicemente due tipi normali che volevano provare ad ingigantire il loro
ego; Walter quello sempre insicuro, quello involontariamente divertente, Walter quello
che c’era in ogni occasione, Walter, quello, proprio quello, era gay, una checca, un frocio, un errore della natura. Sì, perché la gente per bene la pensava così, o no?
Certo, il parere di G si discostava drasticamente da questi luoghi comuni: gli omosessuali erano gente normale con delle erezioni diversamente motivate, nient’altro. Non
aveva avuto mai nulla contro questi signori, almeno fino a quando i gay erano altri,
lontani, per sentito dire, in televisione, fino a quando era Tognazzi con il vizietto. Fino
ad allora andava tutto bene.
Oddio. Un dubbio conquistò i pensieri di G: Walter a quale categoria delle due possibili apparteneva?. E poi pensava a come Walter potesse infilare la lingua nella bocca di
Andrea, in mezzo a quel labirinto fatto da denti gialli e dal metallo dell’apparecchio ortodontico. Che succedeva?
Qualcosa era cambiato, era Walter il discusso. Qualcosa non quadrava.
Il suo mondo, il mondo di G, era sempre stato giusto. D’accordo, sesso droga &
rock’n’roll, ma sesso nella direzione giusta, droga col taglio giusto, rock girante nel verso
giusto.
Cos’erano queste novità senza preavviso, G non era per niente d’accordo. Gli venne alla mente la cugina Luana, la cugina per bene, quella che non sbagliava mai, quella
con la gonna che sfiorava sempre il ginocchio, quella con la media dell’otto, quella
dell’offerta generosa in chiesa alla domenica. Anche Luana scherzava i gay, i frocetti li
chiamava utilizzando un sorriso divertito e disgustato: se un illustre esponente del popolo religioso come era Luana si permetteva questo umorismo, un membro di un popolo fraterno, comprensibile, tollerante, quindi giusto, allora c’era seriamente qualcosa
che non andava.
Ma perché, perché questo, perché Walter. Non gli pareva nemmeno di aver mai riscontrato comportamenti sospetti.
O forse? Ecco perché odiava così tanto gli insetti; ecco perché gli consigliava di
darci dentro con Anto prima di cambiare idea; ecco perché non era mai innamorato (o
meglio, non l’aveva mai confessato); ecco perché amava tanto la mamma e mandava a
cagare perpetuamente il babbo; ecco perché adorava l’Africa, il continente di Casablanca; ecco perché l’ascolto assiduo di Freddy Mercury, Pet Shop Boys, Placebo, David
Bowie; ecco perché odiava il calcio; ecco perché non indossava gli anfibi, i suoi golf
erano così attillati, il mondo era rotondo e forse un dio esisteva da qualche (altra) parte.
38
G non sapeva da che parte stare, da che parte stava il giusto. Non sapeva nemmeno
se si doveva scegliere una parte dove schierarsi. In quell’ultimo anno forse Walter aveva
interpretato la parte del suo miglior amico, l’amico più intimo: l’idea gli dava i brividi.
Si vergognava di quei brividi.
VIII
Il mondo, giusto o sbagliato che fosse, si affacciò ad un anno nuovo, il penultimo del
millennio.
Un anno ripieno di buoni propositi, condito da nuove crisi, nuove stragi, nuovi
conflitti bellici, nuovi giochi per console, nuovi effetti speciali, nuove tariffe per telefoni
cellulari, i soliti fatti per notizie inedite, un’altra canzone per l’estate, un nuovo ipermercato vicino casa, il concerto dell’anno, il morto dell’anno, un nuovo inquilino rumoroso
nel condominio.
L’anno del diploma, forse, per G.
Un anno, una striscia di tempo. Un anno, tanto per perdere tempo. Un anno, quasi
uguale al precedente, quasi uguale al successivo. Un anno, un invenzione umana per
farci contenti, tanto per festeggiarne l’inizio (o la fine?).
39
PARTE QUARTA:
ciao stronzone!
40
I
Dopo il saluto della Befana le lezioni ripresero regolarmente.
Nessuno ricordava più il fattaccio compiuto da G: l’annusamento della parte anogenitale della mammifera Anto era riposto in un angolo della memoria sotto forma di
leggenda ricoperta da un leggero strato di nebbia. Qualcuno pensava ad una allucinazione, altri ad una gag preparata dai due protagonisti.
G era tornato ad essere il moderato, il saggio, il simpatico, lo sfaccendato filosofo
all’angolo, quello su cui si può contare in qualunque momento, a qualsiasi ora. CONSULENZE GRATUITE avrebbe dovuto tatuarsi in fronte: il sacerdote laico, uno con
la parola giusta pronta sotto il banco. E G non si spiegava il motivo di questo ruolo.
Probabilmente era rimasto solo quello per lui, tutti gli altri posti erano già occupati, la
più carina della classe, il più carino, il più volgare, il più tossico, il più cattivo, la più effervescente, ecc.… Ed allora chi s’accontenta gode, e chi non s’accontenta, forse, un
giorno godrà un po’ di più. La speranza è la penultima a crepare.
Fatto sta che G stava solo solato in aula negli intervalli, aspettando un nuovo pentito da salvare.
Tarallo non tardò, era lui il prossimo.
Un gelido martedì mattina si presentò un paio di minuti dopo il suono incazzato
della campanella (quella che annunciava il termine della terza ora e l’inizio
dell’intervallo), giusto il tempo di far sfollare la classe. Si sedette davanti a G, nel posto
che era stato, che era e che sempre sarebbe stato dell’infinita Anto.
Tarallo, senza nome né cognome, semplicemente Tarallo, un uomo più peli che
muscoli, un metro e sessantacinque di foresta pluviale. Tarallo nel supermercato della
vita andava inserito nel reparto guastatori. Lui, maldestro come la sua Inter, lui ,la mascotte della classe, franò sulla sedia e iniziò inciampando sulle parole. Era grave.
“G, devo parlarti. Mi confido con te contando sulla tua blasonata riservatezza.”
Parlava serio come un commercialista, il commercialista che sarebbe diventato, il
commercialista disegnato e finanziato dal padre.
“Negli ultimi tempi, c’ho un casino in testa, mi vergogno di me stesso.”
“Caro tarallo, magari non hai nemmeno tutti i torti. BENVENUTO TARALLO!
SEI SINTONIZZATO SU UN MONDO DI MERDA!” G fece seguire una sonora risata. Voleva essere una battuta.
Tarallo non la considerò minimamente e continuò mantenendo il suo sguardo abbassato: metteva in luce un principio di calvizie. Destino crudele tutti quei peli sparsi su
ogni angolo del corpo e così pochi capelli.
“Non farò inutili preamboli, non mi sembra il caso, non c’è nemmeno il tempo. Sai
G, sono ancora vergine. Verginello. Un po’ per scelta, sai com’è: finché non trovi la
persona giusta si aspetta. Ma da un po’ di tempo sono invaso dal pessimismo: e se non
esistesse questo tipo ideale, se fosse solo una grande favola cazzuta. Sarei solo un boccalone sfigato. Mi sembra di aver buttato via il tempo, e se fosse troppo tardi? G, che ne
dici?”
41
E che doveva dire G? Chi era per parlare di certi argomenti? E poi: che cacchio
poteva fregargliene di quelle storiacce di complessati. A suo avviso erano tutti irrecup erabili. Doveva prendere e dare un calcio nel culo ad ognuno che entrasse in quell’aula
durante l’intervallo, e doveva iniziare da Tarallo.
Però.
“Sai Tarallo. A mio parere stai esagerando: hai, abbiamo diciannove anni, non abbiamo ancora visto nulla del mondo che sta fuori, mi pare prematuro condannarsi definitivamente. E poi ci saranno gli altri che ci processeranno e condanneranno senza appello. Autoflagellarsi non è proprio il caso.”
G chiuse bocca. La sua ramanzina l’aveva sparata. Aspettava un segnale di reazione
alle sue parole, sacre parole, sante parole di conforto. Avrebbe dovuto organizzarsi con
un servizio a pagamento. Un tot a parola, e le porte del successo si sarebbero spalancate
in un attimo.
Tarallo sollevò lo sguardo. Era proprio sollevato.
“Hai ragione G, hai solo ragione. Non so se ne sarò capace, di riprendermi intendo.
Però ti ringrazio, veramente, sei un amico, forse l’unico, comunque il migliore. Peccato
che questo sia l’ultimo anno, mi sa che mi mancherai, mancherai ad un sacco di gente.”
Anche ad Anto?
Tarallo ringraziò ancora, si alzò e prese la porta.
G non aprì bocca. Si chiese che cavolo avesse detto d’importante.
II
E poi andavano da lui a parlare di verginità. Proprio a G che l’aveva persa (o dimenticata) a tredici anni, a casa di Viviana, un pomeriggio d’aprile. Lui era in terza media, lei in seconda: entrambi frequentavano il corso pomeridiano di pallacanestro. Lui
perché il padre lo obbligava a svolgere un’attività sportiva, lei per perdere una decina di
chili di grasso: sì, Viviana era una semiobesa, non bruttissima, ma sotto la sufficienza.
Viviana aveva scritto a G una lettera d’amore vera e propria dove gli confessava di
non essere proprio innamorata, ma senza di lui non avrebbe vissuto a lungo, e aggiunse
che voleva assolutamente incontrarlo per spiegargli. G non capì nulla, a quei tempi da
bravo adolescente anni ’90 credeva che l’amore fosse l’unica cosa che potesse unire un
uomo e una donna. Comunque accettò l’invito, un po’ per curiosità, un po’ per pietà.
Solo che poi le cose vanno sempre in modo strano, in maniera inaspettata, diverse da
come le sogni e le vuoi. Luì suonò timido il campanello, lei aprì la porta accogliendolo
solo con reggiseno, mutandine ed un sorriso tutt’altro che ingenuo: G non fece caso alla
ciccia della pancia o la cellulite grondante dalle cosce.
Negli anni a venire pensò a quel pomeriggio come ad uno stupro: non sapeva però
se l’autore fosse stato lui o lei. Quella fu la prima e l’ultima volta con Viviana, fu la prima e l’ultima volta per molti anni con chiunque: forse perché deluso dall’esperienza,
forse per la sua irreparabile pigrizia.
42
E quel Tarallo gli veniva a parlare di principi, di attendere la persona giusta, il tipo
ideale, la mano degli dei, e tutte quelle storiacce filosofiche. A quell’età la gente impazziva: quelli sapevano solo urlare di politica, scoprirsi froci, moralisti e coscienziosi.
Tutti a fare a gara: vince quello più complessato, quello più malato, quello più sconvolto. G sarebbe arrivato ultimo.
III
Tarallo non guarì affatto. Questo era il pensiero di G, presupposto che Tarallo fosse veramente malato. L’ultimo paziente del dottor G uscì dalla classe per tornare alla
routine d’intervallo: tornò a fotografare con la vista i fondoschiena più eleganti per depositarli nella mente fino al cesso di casa sua per utilizzarli nei momenti intimi.
A G non rimaneva che aspettare il prossimo pentito.
Chi non arrivò mai nell’aula di G fu Walter. G lo cercò dopo un paio di settimane
di stand by: credeva fosse giusto lasciarlo in pace per un po’. Ma visto che il fido batterista pareva scomparso, G si piegò.
Quindi la triste notizia: Walter si era trasferito, si parlava dell’istituto Carlo Cattaneo
quale nuova destinazione. La motivazione era oscura.
Dopo una breve parentesi di demoralizzazione, G si sentì sollevato. Era giusto così,
Walter aveva compiuto la scelta più giusta, scomparire dal suo campo visuale. Che cosa
avrebbe potuto dirgli: io accetto la tua situazione! Perché doveva accettare?, chi era lui per
accettare? Ma la retorica dava altre soluzioni: in fin dei conti sei normale, sei come uno di noi
brutto ricchione maledetto, non cambierà nulla tra noi, Walter, io so essere amico anche delle checche,
stai tranquillo.
Sparire, quella sì che era una Santa Soluzione.
G aveva amici, non amichetti.
O meglio, G voleva solo un mondo giusto, un mondo rotondo come quello dei film.
IV
“Probabilmente G questo discorso te lo aspettavi.”
Le prediche del padre cominciavano sempre così. A fine pasto, con la madre in silenzio che sbuccia un’altra mela, appesantiti dal principio di digestione.
G non poteva far altro che subire il tormento, dimostrandosi disciplinato e maturo:
era il modo migliore per far durare quella tortura il meno possibile.
“Questo per te è un anno importante: ti diplomerai e questo, se già non lo è, deve
divenire il tuo obiettivo principale. Il diploma non è solamente un pezzo di carta: è soprattutto una prova di maturità, è un passo fondamentale verso il mondo adulto.”
Nemmeno riprendeva fiato. Il tono del babbo era asettico, ma determinato, da vero
padre.
“Il fatto è che la mamma ed io abbiamo notato negli ultimi tempi una tua persistente distrazione. Sempre questa musica a tutto volume, questi amici un po’ così…”
43
Per una volta G sorprese il padre. Non batté ciglio, non protestò, non alzò la voce
per difendere i suoi diritti di Giovane uomo. Rimase educatamente composto, con gli
occhi fissi verso quelli del padre, lanciando periodicamente gesti affermativi con il capo.
D’altronde con i genitori, con i professori, con il capoufficio, con la fidanzata era sempre uguale: tu sei l’incudine, loro il martello, era legge, e le leggi non si possono cambiare, si possono solo eludere.
“Vogliamo che tu esca la sera solo di sabato. La mamma frequenterà assiduamente
il ricevimento professori per conoscere esattamente il tuo profitto, in modo che sia tu
che noi potremo regolarci di conseguenza. G, noi contiamo molto su di te, non sei stupido: capisci bene quello che voglio dire.”
Il padre raschiò la gola soddisfatto e concluse con un democratico: “Hai domande?”
G ripropose il solito cenno affermativo e diede fiato: “Oggi niente dolce?”
V
“Sai G, ho sentito che il tuo amico Walter si è trasferito, sai perché?”
La graffiante Anto sapeva sempre dove colpire. I due se ne stavano soli soletti in un
angolo del corridoio fuori dalla quinta A durante l’intervallo. Si trattava di un piccolo
miracolo, una delle poche uscite dalla classe per G.
“Probabilmente non gli ero molto simpatico”, disse la prima scemata che gli passò
per la zucca.
“Penso sia difficile pensarti antipatico.”
L’assassina Anto sputò uno di quei sorrisi che colpivano allo stomaco.
Finalmente una buona notizia. La buonista Anto lo considerava simpatico, anzi
simpaticissimo. Da grande poteva lavorare nel castello della principessa Anto come
giullare di corte: il suo arduo compito sarebbe stato far divertire la principessa ed il suo
principe azzurro. Voleva avere una crisi isterica, seduta stante, se la meritava proprio.
D’improvviso il mondo intero iniziò a prenderlo per il culo.
“Ora sarebbe giusto ringraziarti.”
Era giusto battere il ferro finché fosse stato caldo. L’arbitraria Anto aveva dato un
punto a suo favore, magari era un segnale, magari era giunta l’ora di smettere di piangersi addosso ed agire, cacciare un paio di frasi ad effetto e far girare la lingua.
DRIIIINNN.
La campanella suonò incazzata. Era ora di rientrare in classe e fare i bravi bambini
studiosi. Era sempre così, prendi un po’ di coraggio, credi in te stesso, credi di poter riuscire in qualcosa ed il mondo con una puntualità da orologio svizzero ti stronca, proprio quel mondo giusto in cui si deve credere.
C’era seriamente qualcosa che non quadrava, qualcosa che sfuggiva anche all’acuto
e saggio G.
Ma era l’anno della maturità, gli ultimi mesi, il momento di darci dentro per non
pentirsi amaramentedopo. Si doveva accantonare il resto, il superfluo, gli svaghi, i divertimenti, l’amore e le altre sciocchezze.
44
VI
La quinta A trovò comunque il tempo per godersi una bella gita di cinque giorni
nella capitale francese.
Dopo variegate ore di treno, schiacciati dentro delle cuccette, i venti eroi al completo giunsero alla meta.
G trovò Parigi come l’immaginava: la classica città da gita, tanti monumenti, tanti
parchetti ove acquistare il fumo indigeno, tanti locali ove riempirsi di spirito, tante vie
ove seminare i professori.
Furono cinque giorni di scoperte. Maximiliam, il tenebroso, l’alieno oscuro, si dimostrò anche simpatico sotto effetto alcool. Tarallo, il peloso, scoprì che la verginità
era una gran cagata sostenuta da un drappello di sfigati, e scoprì anche che Lisa non
aveva solo un gran bel culo. G scoprì che la seriosa Anto era casta anche sotto effetto
alcool, o meglio, che anche in versione brilla le risultava solo simpatico, anzi, simpaticissimo.
Tutti sanno che in gita il luogo visitato è esclusivamente un pretesto. G e Bernie
dileguarono con astuzia i professori è trovarono la loro oasi: si persero nel piazzale del
centro Pompidu, luogo di raccolta della Parigi alternativa. La piazza giusta per scovare
musica, fumo e una caricatura su tela, insomma, i veri souvenir.
La quinta A fece ritorno a casa vestita di un’aria internazionale, un pacco di rullini
da sviluppare ed un inquieto divertimento, che non guasta mai.
All’orizzonte la maturità iniziava a farsi nitida e con essa tutti gli annessi e connessi.
VII
“G? Scusa G?…”
Una voce straniera. G alzò lo sguardo dal libro di ragio bestemmiando tra i pensieri.
Maximiliam, incredibile, quell’alieno, compagno di banco di Tarallo sapeva anche
parlare, interloquire, comunicare, relazionare con il prossimo: allora un dio esisteva sul
serio, non era tutta una candid camera. Contò le volte che aveva ascoltato quella voce
(escludendo le interrogazioni): le dita della mani bastavano a contenerle.
Pensò ad una nuova consulenza da intervallo. Rabbrividì all’idea: chissà quale orrendo delitto dovesse confessare quel viso pallido. Doveva essere qualcosa di straordinario per far uscire quel tarlo dalla sua tana.
“Spero di non disturbarti troppo.”
“Oramai l’hai già fatto. Non perdere tempo, scusarsi non serve.” G utilizzava un bel
tono severo, gli piaceva quell’autorità di circostanza.
“Studiavi?”
“Il libro di ragio lo utilizzo solo a questo scopo. Se sai suggerirmene un altro che
non sia pulirsi il culo, beh, fatti avanti.”
Maximiliam sorrise, poi si rifece serio. Roba scottante, intuì G.
“Cacchio G, la maturità è alle porte! E’ un momento duro per tutti. Dico, anche tu
che studi nell’intervallo, non è normale! Non fraintendermi, fai benissimo. Diamo tutti
45
il massimo, giustamente. Per fortuna tra un paio di mesi sarà tutto finito, ma fino ad
allora la pressione ci spremerà a fondo.”
“Complimenti Maximiliam! Improvvisi o li scrivi di notte i testi?”
Maximiliam stavolta rimase serio. Il dunque si stava avvicinando.
“Senti G. Ho qualcosa di straordinario per tirarsi su, roba veramente seria, di gran
classe intendo.”
Si mise la mano, magrissima come il resto del corpo, in una delle tasche della felpa
grigia che indossava. Prima di estrarre il contenuto girò il capo per controllare la porta.
Et voilà, un sacchetto di plastica trasparente, probabilmente adibito all’origine al contenimento di cibi da congelare: all’interno delle capsule tonde e bianche come il viso
dell’alieno. Maximiliam accompagnò l’esposizione della merce con un sorriso da televendita.
G non fece una piega: “E allora? Sono belle, sono tonde, sono bianche, che vuoi?!”
“G, so che sei un esperto. Questo è uno speed stellare, la cosa giusta per le nottate in
full immersion su ragio!”
“Oh! Speed! Ho sentito bene? Alle soglie del terzo millennio c’è gente che chiama
ancora l’anfetamina speed. Matusa! Maximiliam, lasciatelo dire: sei proprio un matusa.
Ma dimmi un po’, quanto la metti una di queste magnifiche pasticche?”
“G, chiaramente un prezzo d’amico, da vero amico: un deca a pasticca! Un autentico affare.”
“Beh Maximiliam: per prima cosa non chiamarmi mai più esperto. Io non sono
esperto d’anfetamine, non sono un esperto di ragio, non sono un esperto di calcio, e
non sono un esperto di stronzaggine, materia nella quale invece tu sei maestro, tu sei il
guru della stronzaggine!”
Il sorriso di Maximiliam si affievolì progressivamente con lo scorrere delle parole di
G fino a scomparire.
“Ascoltami: se fossi un esperto di anfetamine, o meglio, di speed, come ami chiamarlo, ti direi che il loro utilizzo è una scorciatoia per l’impotenza, ma magari tu sei già
a posto da quel punto di vista. Hai visto? Se fossi esperto parlerei così e ti prenderei a
calci in culo fin quando respiri. Ma io non sono un esperto, quindi non dico niente, non
compro niente e non ho sentito niente. Se userai ancora con quel tono leccato e con
quelle parole, ti farò capire la mia qualifica: l’esperto di guai. E come esperto te ne farò
provare un bel po’: intesi?”
Maximiliam aprì bocca, ma il volume della sua voce era sceso a zero. Si girò e uscì
dalla quinta A senza protestare: accettò il risultato, uno a zero per G, palla al centro.
G provò soddisfazione, quasi piacere fisico. Il suo atteggiamento aveva sorpreso
anche se stesso. Un vero duro, una prestazione da uomo, uomo vero.
Dipinse un sorriso per poi tornare nel fantastico mondo della ragioneria applicata.
46
VIII
Lorena, Lisa, Alex ed anche il Tarallo.
I quattro membri, della quinta A, si erano trasformati in satelliti. Avevano eletto
come pianeta di fiducia Maximiliam. Api intorno al miele. Anche i più insospettabili,
quelli che G riteneva giusti divennero incalliti consumatori del suddetto prodotto chimico.
Ecco la moda più succulenta della stagione: speed per tutti, anche per te, non essere
timido. Speed come il tamagothci, speed come pantaloni a zampa d’elefante, speed come
ciucciotti in plexiglas.
G si godeva lo show, sentendo per la seconda volta nell’esistenza quella cosa nominata disdegno.
Quel disdegno rimase finché non giunse la sua coscienza, rinvenuta di soprassalto,
sconvolta come proveniente da un incubo.
Gentile signor G,
proprio lei si permette di sconvolgersi a fronte di certi comportamenti, proprio lei, perfetto esemplare
di tossico boy: un tossico boy nascosto ai suoi genitori, ai suoi zii, ai suoi cugini benestanti di valori, nascosto a se stesso. Proprio lei, ultimo dei radicali, s’inventa moralista, proibizionista. Sia chiaro questo,
signor G, non è un avvertimento, nemmeno una predica, questo è un serio ultimatum: la smetta, con decorrenza immediata!
G non oppose resistenza:
“Giusto! Facciamo il loro volere. Chi non ha peccato scagli la prima pietra, stando
attenti a non colpire nessuno.” D’altronde erano tutti oramai dei giovanotti sani e vaccinati. Tra poco sarebbero divenuti maturi, con tanto di pezzo di carta bollata, non necessitavano di un tutore temprato pronto ad indicare la retta via. E G non era nemmeno uno di quei volumetti colorati distribuiti alla gioventù per avvertirla delle controindicazioni e degli effetti di quelle sostanze illecite.
IX
IN SILENZIO PER FAVORE.
QUELLI ALTI DIETRO, GRAZIE.
SORRIDETE, MI RACCOMANDO.
CIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIISSSSSSSSSSSSSS.
CLICK.
FLASH.
GRAZIE.
Una bella foto, con dei bei colori, un bel formato, con delle belle facce, una bella
classe, senza grossi errori, senza sfondi impegnativi che distraggono, senza troppi comandamenti.
47
X
Dal primo ed ultimo capitolo del diario non troppo segreto di G.
Gentile diario,
è giunto finalmente il momento di rivolgermi a Te. Lo sai, è un bel po’ di tempo che ci provo, ma
sinceramente non sono mica il tipo da libro Cuore, non riesco proprio a riversare ogni singola cagata su
dei pezzi di carta, tanto per sfogarmi. Altrimenti sarebbe infinitamente facile: si necessita un po’ di sostanza.
Oggi però quel po’ di sostanza mi pare di averla trovata, anche se le sicurezze non sono il mio forte, quindi non prometto nulla. Prendere o lasciare. E siccome sei il mio diario, volente o nolente, Ti tocca prendere, abbozzare e portare a casa.
Non essendoci frequentati con esagerazione mi pare opportuno schiarirti un po’ le idee indottrinandoti le nozioni fondamentali su G (io) e quello che gira attorno. Sono un uomo dei gemelli che ha appena festeggiato le diciannove primavere: fin qui, sicuramente diresti, tutto bene. Non sono il più alto
della classe (a Maximiliam e Bernie l’onore), non sono il più intelligente, non sono quello che dice la cosa giusta al momento giusto nella piazza giusta. E allora Ti domanderai (sei il mio diario, lo devi fare!) chi sono. Quelli che oggi hanno passato le mie stesse stagioni considerano questo interrogativo assai
ostico. Magari annegherò in un oceano di retorica (sarei in ottima compagnia) dicendo che sono un semplice esemplare di essere umano che accontentandosi gode in misura soddisfacente. Ora tu sei costretto a
controbattere adducendo sostanziose motivazioni che dovrebbero indurmi a migliorarmi, a fare di me un
grande uomo. In questa maniera, gentile diario, mi deluderesti: sei arrivato tardi, sei l’ultimo di una
coda seminfinita.
Oramai alle favole non credo più, o quasi. Già perché, tornando al punto di partenza, è proprio di
una favola che vorrei dissertare, una favola così lontana, così vicina. Favola: magari non è questo il
termine più appropriato. Non è una storia ben delineata, non c’è nemmeno il lieto fine, ma un elemento
lo possiede, il nome: Anto. Questa storia, questa favola, questa cosa mi attanaglia oramai da tempo e,
nonostante ciò, fin qui non ritenevo opportuno interpellarti. Oggi ho trovato finalmente quel po’ di sostanza che mi permette di utilizzarti. Già perché stamani questa favola chiamata Anto ha scritto un
bel capitolo sul retro della mia foto di classe. Dedica si chiama, me l’hanno scritta tutte le venti anime
della quinta A, ma per evidenti ragioni, la sua doveva avere per forza uno spessore maggiore. E lei, da
grande star, non ha tradito le aspettative, anzi: per l’occasione ha affilato il suo miglior coltello per conficcarmelo giusto giusto nel centro della schiena.
Per rendere più chiaro il concetto allego alla presente la dovuta documentazione e, restando a disposizione per eventuali chiarimenti e fiducioso nella possibilità di una consulenza salvavita,
colgo l’occasione per porgerTi distinti saluti.
G
ALLEGATO N.1
Ciao stronzone!
Devo dire che quest’anno
Non mi hai cagato x
48
Niente, comunque
Ti ricordo che ti voglio
Bene lo stesso!
Baci
Antoxxx
XI
“Il mondo è una gran presa per il culo!”
G lo urlò a più riprese, ma non gli sembrava mai abbastanza. Tutti dovevano
ascoltare quella verità.
La vita è una gran presa per il culo.
Cambiava il soggetto, ma la sostanza era invariata. Magari le urla spaventavano i vicini, ma a G questo non importava, il messaggio andava diffuso il più presto possibile.
“Siamo vittime di una gran presa per il culo!”
Così G andava avanti propagando, senza alcuna vergogna, il suo pensiero. Stava seduto sul pavimento del salotto arredato in noce massello, osservando alternatamente le
due facce della foto di classe consegnatagli la mattina stessa.
Lato A: faccioni sorridenti e occhi chiusi impauriti dal flash.
Lato B: dediche variegate.
A G interessava soprattutto il secondo lato, la b-side, quel pseudomurales ripieno di
smack, baci, by, forever, XXX, !!!, bye bye. Lì in mezzo presiedevano tutti i protagonisti
della quinta A, tutti con il loro prezioso contributo, tutti con le loro parole, con i loro
pensieri affettuosi, nessuno mai sgarbato, tutti venati di ironia.
Ciao Mago G, mi mancherai. Baci. Sonia.
Dopo tre anni together, finalmente abbiamo finito. Luca.
Un megasaluto al cucadores della quinta A. quest’estate non bere troppo, anche se i fumi
dell’alcool ti fanno un bell’effetto! Alex.
Gli auguri non te li faccio perché portano sfiga. Quindi, semplicemente, CIAO! L’esausta di
quinta A, Marta.
Distinti saluti. Maximiliam.
Nessuno di loro sarebbe divenuto un grande scrittore, e poi non erano quelle carinerie da soap opera che creavano l’ira funesta di G, bensì quel già documentato messaggio/dedica della favola Anto.
Ciaostronzone!Devodirechequest’annononmihaicagatoperniente,comunquetiricordochetivogliobenelostesso!BaciAntoX
XX.
“Attenzione! Presa per il culo in vista! Difendetevi!”
Il tono di G cresceva. Iniziava a somigliare ad un acuto pavarottiano.
Quello della favola Anto era stato un autentico colpo basso, G non ne ricordava di
simili. Ma la cosa peggiore è che non riusciva proprio a spiegarsi quel messaggio/dedica. Aveva inserito la sua testa in mezzo alle cosce di quella favola, ma nonostante ciò non l’aveva cagata per niente. Non bastava.
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E l’Haiku? Non credeva che Anto fosse così stupida da non capire chi fosse l’autore
di quei versi raffazzonati. E allora?
Ciao stronzone!
Poteva essere una prova, una prova di forza. La favola voleva sadicamente analizzare la resistenza di G.
Devo dire che quest’anno non mi hai cagato per niente,
O Anto era stupida, molto stupida. Dietro quella media dell’otto si nascondeva una
mente priva di senso comune, un’ameba, un buco nero.
Comunque ti ricordo che ti voglio bene lo stesso!
Terza possibilità: un equivoco mastodontico, una serie di coincidenze incastrate alla
perfezione capaci di causare il caos, come in certi film di Woody Allen, o magari no,
magari Woody era veramente un pervertito come si mormorava a Hollywood, magari la
visione dei suoi film crea delle gravi deviazioni mentali, magari G era vittima dell’effetto
Woody.
Baci AntoXXX
Poi l’ira svanì, le urla si dissolsero spiaccicate sulle pareti del confortevole tre locali
cucina abitabile doppi servizi box cantina.
E questo si diceva amore.
Dio, o quello che era, aveva osato creare una simile cosa per poi attribuirgli il nome
amore. Per G era una pazzia, erano tutti pazzi: perdersi in una simile sofferenza era segno di masochismo acuto, non c’erano dubbi.
Quell’amore che l’aveva gettato via come una palla di gomma, quell’amore che non
l’avrebbe ripreso, che non avrebbe interrotto la sua caduta, quell’amore che l’aveva reso
una nuvola carica di pioggia, quell’amore che l’aveva fatto strisciare, l’aveva trasformato
in paglia pronta a bruciare, quell’amore che in futuro si sarebbe rimpianto irrimediabilmente, quell’amore che a detta di tutti era l’essenza dell’esistenza, quell’amore come un
tempio, quell’amore il grande amore.
Quell’amore, o quello che era, non faceva per G.
Meglio lasciar stare, meglio la partitella la domenica mattina al parco Lambro, meglio i deliri del Wallace, meglio novantesimominuto, meglio le rullate in tre quarti senza
fiato, meglio le piste a Cinecittà, meglio il tour in bici immersi nella Brianza, meglio le
bustine d’Aulin (posologia: due al dì), meglio la titubante misoginia del Woody, meglio
quegli anni ottanta da cui non si esce vivi, meglio il corso d’informatica serale in centocinquanta ore, meglio i surgelati in monodose, meglio gli sciacqui col Tantum Verde,
meglio la Guiness con un paio d’amici, meglio il telefono muto, meglio rimanere appeso
alla mia frenetica noia, meglio la sospensione dell’incredulità del buon vecchio Coleridge,
meglio un disco dei Pearl Jam, meglio non credere, meglio di niente.
E allora odio.
Sentiva odio, un carburante nobile, che non era poi così male, alla faccia dell’amore.
E allora lasciò andare, senza rimorsi, senza soffrire, ci mancherebbe, nessuno conosceva la scorza blindata del G: ci voleva ben altro per corroderla, non certo gli occhi di
una favola.
Comunque per non correre rischi inutili si preparò una bella cura disintossicatrice:
cioccolato + Nine Inch Nails a manetta e un pizzico di studio (q.b.). Quale migliore oc-
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casione vista la maturità alle porte, una maturità importante, l’ultima con l’esperimento
ventennale dei sessantesimi.
G, non ditelo a nessuno, puntava ad un glorioso quarantadue, mascherandosi però
da quello che voleva solo passare, anche con un trentasei di straforo. Tattica arguta.
Sia
chiaro. In quel mondo c’era l’oro e l’oro falso (si dice imitazione), i Pearl Jam ed i loro
cloni, il rock e lo pseudo rock, l’amore ed il falso amore (facciamo sesso, sì grazie), Dio
e la televisione. Poi c’era G e il G di facciata, quello delle buone occasioni.
Baci AntoXXX.
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PARTE QUINTA:
belladonna
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I
GIRO STUDIO.
Così la nominò G: si trattava di una mini tournée per trovare il/la giusto/a compagno/a di studio. In vista degli esami era fondamentale. G non sapeva esattamente come
mai ci fosse bisogno di un partner di studi. Lui che il poco tempo dedicato allo studio
lo aveva passato in perfetta solitudine. Ma qualcosa era cambiato, quella maturità aveva
mutato il suo animo, si era aggiunto qualcosa di nuovo. Qualcosa chiamata PAURA. E
quella PAURA G, da solo, non sarebbe mai riuscito a vincerla.
1° Tappa.
Giovanna.
Quale scelta migliore? La Giovanna era o non era la sua migliore amica? Magari
un’amica forzata, ma era comunque l’essere vivente della quinta A che sentiva più vicino.
Appuntamento alla biblioteca di porta Venezia, sita al primo piano di uno dei bastioni adiacente al circolo dei Socialisti Italiani (!!!).
Materia di studio: ragioneria applicata, la carissima maledetta ragio. G, in ritardo
della solita decina di minuti, venne accolto dal solito caloroso sorriso verniciato di nuovo. Un sorriso tenuto su con chissà quale misura di tasselli, un dolce sorriso che rimaneva appeso permanentemente, un gaio sorriso radioattivo. G non voleva essere cont agiato, non voleva correre alcun rischio, l’esperimento Giovanna durò un pomeriggio.
2° Tappa.
Claudio.
Il compagno di banco, G non poteva negarsi questo tentativo, era doveroso, una
regola. Con il compagno di banco si deve studiare assieme, da sempre è così.
“Alla biblio di via Oglio, precisi alle due, mi raccomando.”
Varcò l’ingresso della biblioteca più trendy dell’east coast milanese alle due e tredici
con aria svagata al fine di adeguarsi all’ambiente. Mancava l’elettrizzante sound di Gigi
D’agostino per rendere quell’oasi comunale un Tamarro party in piena regola.
Claudio non protestò per il ritardo, anzi, disse di essersi intrattenuto con una diciassettenne abbondantemente sviluppata: la indicò con un dito vantandosi.
Terminati i preamboli iniziò il terrore.
“Oh G, io ho PAURA, una fifa pazzesca. Dico, mancano quattordici giorni tondi al
tema, ed io sono immerso nel terrore.”
PAURA.
G si sentì rilassato per un paio di motivi. Primo: non era l’unico ad essere stato colpito da quella PAURA crescente, si sentiva in buona compagnia. A quel punto il NON
averla sarebbe stato preoccupante. Secondo: vedeva Claudio carico, voglioso di cultura,
ben pronto ad una full immersion. Aveva trovato l’uomo giusto.
Si misero al lavoro, testa china e via.
Alle tre e quindici arrivò il momento della pausa fumo. Si recarono nell’affollato
cortile condito da giovani fanciulle chiaramente in calore.
“Ah, le assumerei tutte.” Disse Claudio sognante.
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“Guarda che ci stanno anche senza cash.”
“No, non per quello. Ho qualcosa di più grande in testa.”
Riportò G dentro. Prese dal suo zaino un paio di cartellette.
“Appartiamoci.”
Si appartarono nel retro. Claudio spalancò le cartellette senza ritegno e mostrò il
contenuto.
G focalizzò.
“Claudio, ancora con questa storia! Cacchio hai quasi vent’anni suonati!”
“Ehi G, dosa le parole! Questi non sono i soliti pornazzi hard. Questo è il business
del futuro: il soft porno, sono soldi a palate. E’ il settore che tira di più.”
G quasi si incuriosì.
“Hard, soft? Claudio, lo stress fa brutti scherzi, lo sai?”
“Guarda che questo è un progetto serio. Il porno estremo non va più: animal, anal e
tutte quelle perversioni all’eccesso hanno stancato il pubblico. Il soft è il futuro. Donne
carine, giovani, nude, nudissime, maliziose, ammiccanti, niente di più, niente uomini
superdotati e superarrapati. Ho già studiato tutto, ho già in mente una testata intitolata
ragazze italiane!”
Claudio era determinato come non mai, era un affare serio.
“E vorresti assumere queste fanciulle. Questi visi trend, visi orecchiabili come le hit
dei Pizzicato Five, visi innocenti?”
“E proprio questo che cerca il mercato, ragazze normali e carine. Niente porcellone
pronte a qualsiasi acrobazia da circo. Cosa pensavi G, che io sarei diventato un ordinato
ragioniere, un contabile modello. Le lascio a voi queste prospettive. Io cerco la grana e
il successo, ed io credo in questo. La gente dice che il porno è volgare e da reprimere,
ma nell’intimo quasi nessuno può farne a meno.”
G non poteva dargli torto.
Claudio entrò nello specifico. Spiegò dettagliatamente le rubriche del suo ragazze
italiane, c’era tutto, anche la rubrica della posta. I suoi occhi brillavano, quel ventenne
sapeva il fatto suo, nessuno l’avrebbe mai fermato. Un semplice pornoaffare lo avrebbe
spedito nel suo olimpo privato. G avrebbe scommesso su Claudio, era lui il cavallo vincente.
“Che te ne pare, eh?”
G approvò senza riserve e scappò via. Non c’era altro da fare. Dentro la biblioteca
si stava per scatenare un party di intellettuali profumato di fragola. Nel cortile un affamato pornoimprenditore stava cacciando le sue prede per mutarle in ragazze italiane.
Intanto la maturità si affacciava all’orizzonte.
Via. Via. Via.
3° ed ultima tappa.
Frazza il bucato.
“Alle due e mezza allora.”
“Due e mezza, ok.”
Alle due e quarantasei davanti al prefabbricato dove aveva sede la biblioteca Calvairate apparvero le sagome di G ed il suo ultimo partner di studi: Frazza il bucato.
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Il profitto del soggetto sopraindicato era il più scoraggiante della quinta A. Frazza
pareva frequentare la scuola perché la mattina quello era il luogo meno noioso che potesse trovare.
G giustificò alla sua stressata coscienza la scelta sostenendo che anche dal peggio si
poteva ricavare qualcosa di positivo.
Non aveva trovato altro da dire.
Frazza il bucato: maschio, vent’anni, centottanta centimetri d’altezza, occhi e capelli
castani, carnagione pallida, lobi delle orecchie martoriati da sette buchi ripieni di piercing, braccia costellate da ematomi causati da chissà quali altri buchi.
Il fatto che Frazza volesse recarsi in una biblioteca sembrava un segnale incoraggiante.
Frazza arrivò senza zaino, senza nessun supporto cartaceo, ma con tanto ferro agganciato alle orecchie da far mandare in tilt qualsiasi metal detector.
“Frazza, i libri?”
“I libri? Sai quanti alberi ci vogliono per riempire la tua biblioteca in noce con tutti
quei libri di testo? Io no, almeno non esattamente. Ma so che sono troppi, e non intendo partecipare a questo omicidio. Basta barbarie!”
“Lo sai che tra poco incomberà nella tua candida vita un esame da sostenere, lo
rammenti? Come credi di rispondere alle bizzarre domande che ti verranno poste da dei
simpatici professori? Dove pensi di trovare le nozioni necessarie ad acquisire quel pezzo di carta chiamato diploma?”
“G hai ragione! Quel diploma è solo un pezzo di carta buono per farci il filtro dei
joint. E poi quello che ci hanno fatto studiare è solo frutto di un complotto istituzionale
che ci vuole indurre a pensare tutti nella stessa maniera. Ci vogliono massificare, ma
con me non funzionerà!”
Ma allora che sei venuto a fare. Ma la domanda di G si fermò sulla punta della lingua.
Sapeva che sarebbe stato inutile discutere contro i deliri del Frazza. L’interlocutore bucato avrebbe senza remore improvvisato un altro monologo sulla sua presenza saltuaria
nello stupefacente mondo scolastico, non c’era nulla da combinare: il Frazza la spuntava sempre.
Il sole aveva perso ogni timidezza rendendo l’aria soffocante. G provò ad avviarsi
verso l’interno del prefabbricato almeno per cercare un po’ di tregua per i suoi polmoni.
Frazza lo bloccò accendendosi un profumato joint, forse un nepalese, uno di quelli speciali che solamente lui sapeva creare, un Frazzajoint casereccio. G immaginava la stanza
del bucato come un artigianale laboratorio chimico dove erano segretamente sperimentati pericolosi intrugli stupefacenti; G desiderava poterla visitare solo per ascoltare il suo
odore, quel profumo che infestava le mura, voleva assaggiarlo.
Frazza fece un paio di tiri per poi offrirlo al collega.
Tossic boy.
Quest’ultimo mandò a cagare la sua coscienza insieme al suo senso del dovere e a
quel pomeriggio studioso e afoso. Accettò l’offerta sapendo bene quanto fosse eccezionale quell’evento: difficilmente il bucato condivideva le sue formule magiche, forse per
paura di far scoprire la sua ricetta segreta.
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Trovarono una panchina verde pisello nelle vicinanze dove si stravaccarono in perfetta tranquillità. Iniziarono così ad evolvere le loro dissertazioni toccando, senza timori, vertiginosi deliri e pennellate d’autentica follia.
“E’ giunto il momento G, caro collega, di porti un quesito che da incommensurabile tempo attanaglia i miei pensieri. Conosco la tua proverbiale saggezza e so che questa potrà liberarmi dal mio angoscioso dilemma.”
“Dimmi pure gentile amico. Sono qui per questo, o sbaglio? Ti prego, narrami pure,
senza alcuna incertezza di circostanza! Cercherò in ogni maniera di dissolvere le tue
nebbie.”
“Voglio ringraziarti immensamente anticipatamente, ma non intendo dilungarmi in
un oceano di ovvietà. Arrivo al dunque: sai che la Belladonna infesta i sogni e gli incubi
della nostra umile umanità da tempi remoti. A tuo parere, il Giovane che abita i nostri
giorni quale Belladonna gradisce con maggior passione tra le due specie sopravviventi.
Mi spiego: Belladonna intesa come esemplare superiore di femmina umana o Belladonna come allucinogeno velenoso estratto dalla pianta atropa belladonna, conosciuta anche come erba del diavolo. Risolvi, mio eletto, questo enigma angustiante che assilla la mia
anima! Di’ soltanto una parola ed io sarò salvato.”
Lo sguardo del Frazza si versò su G cercando un gesto di speranza. G sorrise e si
impadronì della parola.
“Il tuo verbo mi inquieta piacevolmente. Sarò molto lieto di trovare una risposta
adeguata, anche se sono consapevole di quanto sia arduo il mio compito. L’epoca nella
quale uccidiamo la nostra esistenza è per il Giovane intrisa di dubbi ed incertezze quasi
mai risolti. Quello che tu hai coraggiosamente posto è indubbiamente uno dei più ostici.”
Eseguì un paio di tiri potenti dal joint. Pareva cercare le parole nel filtro.
“Continua G, ti prego.”
“Belladonna: scegliere entrambi le possibilità sappiamo sia per il Giovane impossibile. Entrambi necessitano di doverose cure, costi cospicui, pazienza infinita, effetti
collaterali devastanti, ed un insospettabile coraggio. Unire il consumo delle due Belladonna sarebbe fatale per chiunque. E’ quindi sconsigliata questa scelta, anche se agli occhi del Giovane ingenuo può apparire la più allettante.”
“Allora?”
La voce del bucato divenne spaventata. Forse nemmeno il saggio G sarebbe riuscito
a districare l’enigma spaccaencefalo. Le vie d’uscita si chiusero ermeticamente.
“Caro Frazza, tu stai dubitando! Lo leggo distintamente nei tuoi occhi ghiacciati. Sai
bene che questo è un torto che non puoi esercitare ai danni della mia persona, non te lo
perdonerei mai!"
“Mi scuso immensamente caro G. Ho peccato e me ne pento…”
G interruppe le scuse del Frazza con un gesto intriso di benevolenza.
“Fammi terminare il mio eclettico pensiero, te ne prego Frazza. A mio parere
l’estratto della pianta atropa presenta nella sua assunzione numerosi vantaggi che surclassano il suo avversario. Mi appresto dunque ad elencarne alcuni in ordine assolutamente sparso: la pianta di cui trattiamo non desidera uscire ogni sera, non odia il calcio,
non critica un abbigliamento sportivo, non è mai frigida, non cornifica, non obbliga alla
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visione dei film di George Clooney, non distrugge i sogni con tonnellate di sadismo,
non è una borghese esponente del pragmatismo, non tarda di mezz’ora fissa. Credo sia
abbastanza per dichiarare senza alcuna ombra di dubbio che il Giovane non può che
orientarsi verso la forma vegetale di Belladonna. Cosa te ne pare, amico Frazza?”
il viso del bucato s’illuminò stupefatto. Faticò a trovare un po’ d’aria per prendere
fiato.
“Oh divino G, ti ringrazio per le stupende parole che mi hai donato: parole ordinate
in maniera magnifica, ti sarò riconoscente per tutta l’esistenza su questo pianeta.”
G fermò ancora le parole del Frazza. Si accorsero che un riverbero rosso aveva infestato il cielo preannunciando un tramonto insanguinato: l’impianto luci del Signore
Iddio funzionava a dovere. La dimensione che abitavano aveva una misura di tempo
accelerata rispetto alla normalità. Era giunta l’ora di ritirarsi nelle proprie abitazioni.
Non c’era tempo per altre mielose lodi o accese discussioni sull’identità del miglior
batterista dei Pearl Jam (G preferiva di gran lunga Dave Abruzzese, Frazza il fracassone
Jack Irons).
Il fumo avanzato dal Frazza divenne un lieto omaggio per G, che ringraziò euforico. Poi ognuno prese la propria strada.
Il giro studio di G era terminato, forse non nel modo desiderato, ma comunque
fantasticamente.
Lo studio somigliava al sesso, almeno per G: Solitario non era il massimo, ma era la
via più semplice e garantiva sempre un buon risultato.
Contento lui.
II
Prova scritta d’italiano.
G la ‘matura’ la immaginava in modo diverso da come gli si presentò. Il giorno del
tema era un dì come gli altri. Il sole nacque regolarmente, il cielo milanese era sempre di
un azzurro indeciso e inibito, i grandi andavano a lavorare con le solite giacche e cravatte.
Così strano proprio perché normale.
Nella sua fantasia i giorni della maturità, la sua maturità, erano giorni cruciali, dominati da un’eclissi permanente che adombrava il mondo intero. Tutto si fermava, niente
lavoro, niente spesa, tutti ad attendere i risultati di G e la sua quinta A.
Ed invece quel giorno era come tutti gli altri. Unica differenza i banchi allineati nei
corridoi e le classi vuote. Nient’altro: nessuna crisi isterica, attacchi di panico, cabarettisti improvvisati, assassini scolastici. I venti della quinta A c’erano tutti. Nessuno si era
dimenticato di portare il vocabolario e la carta d’identità non scaduta, tantomeno le
penne nere e la faccia migliore.
G svolse il tema d’attualità, il primo dettato da una commissione tutta al femminile.
Controllò sul vocabolario ogni parola, per evitare grossolani errori d’ortografia.
57
Il contenuto era giustamente anonimo, il modo migliore per ottenere una sufficienza tranquilla. Se G avesse provato ad aggiungere del suo avrebbe reso la composizione
politicamente scorretta (termine alla moda) creando solo inutili problemi di comprensione. Meglio un tema freddo (quasi gelato), tanto freddo che al termine delle sei ore
aveva scordato totalmente il cont enuto della traccia.
A prova conclusa la sudata quinta A si fiondò al friends, il bar all’angolo, aperto anche in quei giorni (grande sorpresa per la fantasia di G). Scaricarono i litri di tensione
accumulata svuotando la bacheca delle sigarette posta vicino alla cassa. Ma erano solo
all’inizio, il tema era solo un antipasto particolarmente gustoso, ma nulla di più.
Il mattino successivo si entrava nel vivo, e tutti ne erano terribilmente consapevoli.
III
Seconda prova scritta: ragioneria.
Birilli.
Così divennero quindici ventesimi della sconvolta quinta A dopo un’oretta di torchio sul tema di ragioneria.
Il fantasma anfetamina aveva lanciato la palla da bowling colpendo i quindici birilli
predeterminati, i quindici abusatori.
STRIKE!
Maximiliam, preparatore atletico delle menti con poca professionalità aveva equilibrato le dosi senza tenere conto degli effetti collaterali perfettamente determinabili.
I quindici posarono le teste sui rispettivi banchi convinti che nessuno le avrebbe ritirate su. Si fecero avvolgere da quella piacevole sonnolenza che li tentava, con ogni
probabilità, da parecchi giorni. Era giunto il momento del riposo, il riposo dei giusti,
spegnete tutto, buonanotte.
La commissione, dopo un periodo di paralisi causata dal panico, aprì un affannoso
dibattito per trovare una soluzione. Vennero somministrate forte dosi di caffè nero, furono interrogati dotti, medici e sapienti. Quelle quindici teste coatte dovevano
resuscitare.
G, che insieme alla dotta Anto Bernie Lisa e Renzo era uno dei sopravvissuti della
quinta A, propose la prova anti doping al termine della maturità. Gridò allo scandalo,
non si sentiva tutelato, aveva paura, voleva il 60/60 politico.
Il saggio G forse avrebbe dovuto avvisarli per tempo, sapeva bene quali fossero le
controindicazioni di quelle capsule magiche.
Avrebbe evitato con questa precauzione informativa l’imbarazzante contrattempo.
Ma G, che era all’oscuro dell’esistenza dei sensi di colpa, non seppe far altro che divertirsi. Stava assistendo allo show più sensazionale della sua vita. Tutto dal vivo, tutto
in diretta! Giurò di raccontarlo ai suoi nipoti ed all’intera stirpe.
GUARDATE I MATURANDI! IL FUTURO DEL MONDO! I GRANDI DEL
DOMANI! IL BASTONE DELLA NOSTRA VECCHIAIA! GUSTATE LO SHOW,
NIENTE REPLICHE IN PROGRAMMA, AFFRETTATEVI! DISTINTI CAFONI
DA ASSAGGIARE.
58
Giunsero con discreta tempestività i soccorsi. Le quindici teste ripiene allo speed riemersero dalle tenebre lentamente, ma alla fine tutti erano di nuovo pronti alla battaglia.
Dopo un paio d’ore di pausa e terrore la seconda prova scritta riprese con una certa
regolarità, anche se il saggio G e gli altri superstiti erano irrimediabilmente contagiati da
una forma di ilarità acuta.
Per la cronaca. Il tema di ragioneria era per G incomprensibile, ma quella non era
una sorpresa. Copiò qualche stralcio dal Tarallo, anche se non sapeva il grado di preparazione del candidato seduto davanti alla sua postazione. Improvvisò poi qualcosa che
trovò annebbiato nella memoria. Fuori il sole illuminava una giornata da vivere
all’aperto sbattendosi da un angolo all’altro del divertimento. Consegnò per primo e
scappò via da quella prigione, non c’era tempo da perdere: il mondo, quello vero, attendeva radioso la sua presenza.
Ringraziò la vita.
IV
PROVA ORALE.
G portò come prima materia da martoriare scienze delle finanze. Non era la sua
preferita, più semplicemente la meno peggio.
“Bene signor G, iniziamo. Beh, scelga pure lei l’argomento.”
G si sentì un eletto. La percentuale di richiesta di un argomento a piacere si aggirava
all’incirca intorno al dieci per cento. Una volta tanto un po’ di culo. Sdottrinò la pappardella astutamente preparata e si ritenne più che soddisfatto. La PAURA era passata,
si sentiva a suo agio come in un salotto tra amici immersi nel fumo.
Se la cavò con un paio d’argomenti aggiuntivi, poi un liberatorio per me va bene recitato dall’austera insegnante che sciolse a sorpresa un sorriso tutto per il candidato.
Secondo orale: italiano.
Pessimismo cosmico del giovane Leo(pardi), Ossi di seppia appena pescati, freestyle
su Dante e via. Anche la seconda mattonata era andata ed il candidato aveva retto il
colpo.
Ora toccava al quintale della presidentessa di commissione.
Quello era il Jolly, poteva con massima libertà estrarre dal cappello delle idee di
qualsiasi genere, conigli, approfondimenti fuori programma, dissertazioni sociali, cotillon.
Rullo di tamburi.
“Allora ci dica… cosa vuol fare da grande?”
G quella domanda l’aveva già sentita, e non solo in quella sede. Provò a contare le
volte, ma era un calcolo troppo complesso, e quello non era il momento adatto per simili statistiche.
Si concentrò sulla domanda. Gli era andata ancora bene, qualsiasi risposta poteva
andare, non si poteva sbagliare, non c’era possibilità.
Oppure…
Un inganno.
59
Non poteva scartare l’ipotesi. Magari il quintale umano là davanti faceva il doppio
gioco. Perché no? D’altronde i professori campavano per fregare gli studenti, loro il
martello, lo studente l’incudine. Qualcuno in quell’esame doveva lasciarci le penne, perché non G? Era un soggetto adatto per la scritta NON MATURO sui cartelloni fuori
della scuola: spettinato, vestiti fuori moda, aria svagata, occhio mai troppo acceso, tossico
boy.
Ma lui non si sarebbe lasciato fregare, almeno non così facilmente. Era il momento
di far girare le rotelline nella testolina che aveva in dotazione. Li doveva stupire, far vedere alla commissione ed al mondo intero che lui non era l’ultimo fesso arrivato. Infinocchiarlo non sarebbe stato così semplice, ci voleva ben altro.
“Sicuramente la domanda che mi avete posto, nonostante l’apparenza la trovo
molto complessa se la inseriamo nel contesto sociale nel quale noi Giovani trascorriamo
l’esistenza.”
Si ricordò del Frazza e di tutte le cazzate che si erano sparati nei giorni precedenti.
Gli sembrò il modo migliore per disorientare quel gruppo di truffatori travestiti dietro
una cattedra da dotti insegnanti.
“Comunque ritengo nel mio caso di poter offrire una risposta esaudente. Penso di
avere delle idee abbastanza schiarite in merito.”
Prese fiato, un bel po’, doveva sputare il rospo.
“Nel mio prossimo futuro penso di partecipare ad un talk show.”
Stavolta fu la presidentessa, il quintale umano, ad attingere una consistente porzione
d’aria per il suo fetido fiato.
“Abbiamo capito bene. Talk show. Intende quei particolari spettacoli destinati alle
chiacchiere?”
“Avete recepito bene. Talk show. Ma intendo precisare la mia affermazione. Non
intendo partecipare ad un talk show per narrare eventi riguardanti la mia vita privata,
non ne sarei capace, sono troppo riservato per far ciò. Racconterei invece tutte le confidenze narratimi dai miei colleghi nell’arco di questo quinquennio. Lo condurrei volentieri un talk show, inviterei tutta questa scuola, tutta la mia scuola. E con la mia rinomata saggezza risolverei tutti i problemi, diverrei un benefattore per tutti i miei coetanei
ed i loro rispettivi genitori. Sarebbe un grande show, così diverso da quello di Maurizio,
Maria, Daria e tutti gli altri spettacoli plastificati e ben impacchettati, colmi di aberrante
buonismo. Diverrei un innovatore, finalmente un talk show duro e crudo come la realtà.”
Sui visi della sacra commissione nacquero prima dei sorrisi ironici, poi un velo di
perplessità. Iniziarono a credere che il monologo del candidato non fosse per niente
ironico.
“E ci dica. Ha idee sul titolo di questo rivoluzionario talk show?” Stavolta a parlare,
in modo divertito, era la professoressa d’italiano.
“Beh, non so. Potrebbe essere Cazzi Vostri, oppure un neoclassico G Show, od un
violento Rabbia Contro La Macchina.”
“Interessante. Ma come le è nata questa idea che, converrà con noi, è veramente
bizzarra.”
60
Mise a fuoco ciò che stava accadendo. Rimase inorridito. Si accorse che le sue parole provenivano sì dal suo cavo orale, ma non era per certo il suo cervello ad inviare gli
input. Decise che non aveva importanza, probabilmente prima o poi capitava a tutti.
Continuò a ruota libera.
“Colpa dei miei colleghi. Mi hanno gonfiato di complimenti, sulla mia saggezza,
l’intelligenza, le mie idee brillanti. Ho iniziato a crederci, e ora penso sia ingiusto per
l’umanità sciupare un simile talento.”
“Può andare.”
V
42/60.
Si realizzò la migliore previsione.
G lesse il voto una decina di volte, controllando che fosse veramente allineato con il
suo nome. Tutto era in regola, G era MATURO, a norma di legge, aveva tagliato
l’ambito traguardo.
Si era iscritto (lo avevano iscritto) ufficialmente al club dei Grandi. G, un Giovane
Grande. Poteva scegliere il proprio avvenire in perfetta autonomia stoppando tutti gli
ostacoli che fino a quel ieri lo bloccavano.
Futuro prossimo.
Quasi tutta la quinta A sarebbe finita in qualche ateneo. L’università era l’oasi dello
scazzo assoluto, era arduo trovare una panchina migliore. G aveva pensato seriamente a
quel parcheggio, eccome: era tentato da quell’istituto universitario di lingue moderne
scelto dall’intelligente Anto (54/60). Poteva risparmiarsi questa meraviglia? Sì, lo fece. Il
babbo quella scelta non gliela avrebbe risparmiata, poco ma sicuro. Al minimo sgarro, al
primo diciotto, gli avrebbe rinfacciato il fatto che fosse lui a finanziare lo scazzo, che lui
si incorniciava il mazzo dalla mattina alla sera, che gli doveva essere riconoscente per il
resto della vita, che si doveva ritenere fortunato, che nell’universo c’era molta, troppa
gente che stava peggio.
Non sarebbe stata vita quella.
Così mentre tutti tentavano di rosicchiare un posto fisso a sedere in delle aule gigantesche per ascoltare una voce asettica che sbottava parole intorno alle scienze politiche, G si scelse un futuro decisamente più pragmatico, un ruolo più adulto che abbinava alla grande con la sua saggezza: quello del disoccupato.
VI
Arrivò il momento del congedo, dei saluti.
Tutti maturi, tutti contenti, folate di euforia allo stato puro, di nascosto qualche lacrima. Si ballava davanti ai cartelloni senza limitazioni. G sapeva solo vantarsi: aveva
surclassato Bernie (39/60), il Tarallo (40/60), il Gallo (37/60) eccetera eccetera.
Proclamava il suo quarantadue come un premio Nobel.
61
Poi saluti. Ci furono solo arrivederci, nessun addio, quelli d’altronde ci sono solo
nei film.
“Ci vediamo a settembre”. Era la frase di rito, chissà quanto valore potesse avere.
E a G toccò salutare anche la morbida Anto. Ebbe l’occasione di poter assaporare
la morbidezza delle sue guance e della sua felpa blu estiva che contrastava tanto bene
con la solidità dei suoi piccoli seni. Poteva essere l’ultima volta, ne era consapevole, ma
non volle pensarci molto per non rovinare quel momento.
Le venti anime denominate quinta A si divisero senza troppi dolori, senza nemmeno farci caso. Era la natura, c’è sempre un inizio e, inderogabilmente, anche una fine.
VII
All’orizzonte si disegnava un estate da riempire con una vacanza strameritata, visto
l’obbiettivo appena raggiunto.
Due mesi di vacanze, due lunghi mesi, come dire per sempre vacanza.
G però passò due settimane di ripiego con un cugino coetaneo residente a Roma.
La meta designata fu l’incantevole Riccione, la località meno vergine d’Italia.
Il convento non passava altro.
Chi s’accontenta gode, pensò G, non era quello il motto? A volte quella filosofia
spicciola, che si spacciava come il motore della vita, si rivelava una stronzata pazzesca.
Alloggiarono in un ostello della gioventù, o meglio, in una baracca che si spacciava
come tale. A G parve il preambolo del servizio di leva: cibo animato da bizzarri insetti,
lenzuoli giallognoli, servizi igienici anneriti da chissà cosa, personale alberghiero inesistente, pagamento anticipato, grazie e arrivederci.
Donne. Già perché l’estate è sinonimo di conquiste fugaci e impossibili se paragonate con quelle delle altre stagioni. L’estate era fatta di donne, è così per tutti tranne che
per il caro cugino di G che non si era dimenticato di portarsi dietro la sua memorabile
timidezza.
Jacopo, questo era il suo nome, era l’essere dotato di più vergogna in tutto
l’universo conosciuto, senza dubbio.
G attribuiva la sua magrezza, vicina alla trasparenza, al timore di chiedere il cibo alla
madre. Figuriamoci abbordare una donna, un essere così diverso: NON SIA MAI
DETTO! VERGOGNA! AIUTO!
G si chiese il perché avesse accettato quella vacanza: d’accordo, il babbo non aveva
dato altre scelte, ma forse non sarebbe stato meglio rimanere nella Milano da bere? Un
ripiego cittadino si poteva trovare.
Cosa fatta capo ha. G si ritrovò a trasportare quell’ameba che non sapeva far altro
che divorasi le unghie e chiedere con la sua vocina annegata nella paura: “Dove andiamo G? dove andiamo, su dai, dimmelo.”
G taceva sopportando e sbavando dietro tutto quel ben di Dio chiamato donna che
circolava.
Una notte soltanto riuscì ad infilarsi in una vagina. Accadde in uno di quei fabbricati chiamato discoteca: pagò l’ingresso per lui ed il caro Jacopo. Parcheggiò il cugino in
62
un angolo lasciandolo imitare la tappezzeria e si tuffò nella mischia a caccia di qualunque cosa, sperando che non fosse troppo tardi.
Trovò Rossa. Il rumore non riuscì a fargli comprendere il nome di quel metro e ottanta che gli capitò come per magia tra le braccia. La chiamò Rossa, ma non per il colore dei capelli, bensì per il suo temperamento. Si stuprarono a vicenda su un divanetto
blu.
G gradì. Durante il concitato scambio di fluidi intravide anche il caro Jacopo: stava
guardando proprio verso di lui e la sua Rossa con gli occhi pericolosamente sporgenti
dalle orbite. Poi, scoperto, corse via verso i bagni, magari per urinare, magari no.
Allo scadere delle sue settimane G prese il suo trenino e se ne tornò buonino a casa,
non prima però di aver salutato il carissimo cugino segaiolo. Gli strinse quel mollusco
che possedeva al posto della mano, gli inviò un gentile sorriso di rame, addio. A volte
gli addii esistono anche nella realtà.
VIII
Conclusasi la concitata estate G si ritrovò in un habitat del tutto inedito. Si trattava
nello specifico di una distesa pianeggiante infinitamente vuota, nient’altro. G rimase
immobilizzato lì in mezzo, senza bussola o altri strumenti orientativi. Nessun appiglio,
nessun riferimento.
Riuscì solo a denominarlo come Il meraviglioso Mondo della Disoccupazione: quel vuoto
somigliava ad una melma soffocante che non lasciava scampo, poteva solo rassegnarsi
alla sua esistenza e tentare una improbabile convivenza.
Neanche alla naja poté pensare. Era stato lasciato a casa per esubero. Un gran culo:
si diceva.
La sua fortuna parve annacquata. Diplomaticamente disse di voler prendere una
pausa di riflessione, un anno (circa) sabbatico: quale scusa migliore per non far nulla?
Qualcuno azzardò il quesito: “Ma non dovevi condurre un memorabile talk show?”
63
PARTE SESTA:
spegnete il buio.
64
I
Sognò.
Una sera di settembre ricca di aria serena ed estiva, un settembre non ancora ingiallito con Linate che segna venticinque gradi all’ombra come massima.
G sognò, senza fretta di svegliarsi.
Un settembre che difficilmente si sarebbe immaginato migliore, in una Milano tuffata ancora nella reminiscenza delle vacanze appena trascorse, in assenza di frenesie e
querimonie.
Un odore diffuso di quell’estate che cola tra le gambe.
Difficile sognare di meglio.
G si ritrova all’interno di un elegante pub arredato nel migliore stile irlandese. Il locale è periferico, affettuosamente appartato. L’ambiente sta toccando una vertigine
d’euforia difficilmente ripetibile.
L’euforia sopracitata è causata da venti anime brille al punto giusto. Non è difficile
intuire l’identità: naturalmente la quinta A annata 97/98 rilegata a festa per resuscitare le
imprese appena trascorse. Il trauma dei maturandi non è ancora assorbito del tutto e
questo non può che aumentare l’eccitazione.
Un sogno addobbato alla perfezione.
G è naturalmente seduto al fianco della splendida splendente Anto. Nei migliori sogni accade sempre così. Lei mantiene la stessa bellezza della realtà, lo stesso sguardo
soffocante, lo stesso garbo da principessa.
Un sogno che si mette bene.
G sorseggia un ultraipersupercocktail d’ultima generazione: incolore, insapore, inodore, solo ed esclusivamente alcolico.
“Cacchio G, ti è andata veramente alla grande! Quel quarantadue è un bel sogno,
eh?”
A parlare è Bernie; non ha ancora mandato giù il tradimento di G ai danni dei bassifondi scolastici dai quali proveniva e di cui Bernie era leader incontrastato. Quel sorpasso in volata oltre il quaranta/60 ha lasciato un segno indelebile.
G non risponde, non reagisce alla provocazione, pensa non gli convenga, si limita a
proporre un sorriso circondato da una bella faccia da culo.
Il sogno avanza.
I discorsi della tavolata s’intrecciano, ruotano alla velocità della luce per poi disperdersi in un fumo d’ovvietà. G si limita a brevi interventi dispensando la loquacità.
Nemmeno nei sogni più nobili pare riesca a perdere quella irritante moderazione. Al
suo fianco troneggia la sua favola privata, un’indimenticabile Anto, ma nonostante ciò
si limita a contemplarla come una pretenziosa divinità Etrusca. Divinità che presto rivela il dono della parola.
“G, credevo che avresti intrapreso una brillante carriera universitaria, ed invece…”
la cattivissima Anto non dimentica di lanciare uno di quei massacranti sorrisi. G viene
colpito in pieno stomaco, trova a fatica il fiato per un riscatto.
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“Ho voglia di crescere, molto velocemente. L’università mi pareva un ostacolo per
il mio iter di invecchiamento. Preferisco il paese della disoccupazione, sto in buona
compagnia.” Sostò pensando di aver sbagliato: “spero di non averti delusa.”
La divina Anto non risponde, nemmeno sorride, sembra che G abbia sbagliato risposta.
Un semplice contrattempo onirico.
La conturbante Anto ed il deficiente G si fissano per una manciata di secondi, che
nel mondo dei sogni equivalgono ad un paio di secoli. G si gusta quel momento, ogni
singola unità di quel momento rimanendo in apnea e pregando Dio, o quello che è, affinché quel momento non termini mai, che quel sogno non termini mai. Della realtà,
della nuda e cruda realtà non gli importa più nulla.
Il sogno però continua per conto suo, senza interpellare nessuno.
Allora G tenta di gettarsi nella mischia aiutandosi con un po’ di sana retorica. Ne
conserva un pozzo senza fine.
“Bé signori, ditemi, cosa intendete fare da grandi. Non ne avete la più pallida idea…
chi vuole iniziare?, le iscrizioni al dibattito sono aperte.”
L’euforia si spegne tutta d’un fiato, senza preavviso. Viene sostituita dal gelo, un
gelo incurabile. Meno male che si tratta d’un sogno, perché G stavolta ha cannato in
maniera mastodontica. Non è proprio da lui commettere certi errori.
L’emozione da sogno.
Nessuno della quinta A intende farsi carico di mandare a cagare lo sbrillato G.
Prova a salvarsi in corner: “Scusate se ho toccato un tasto dolente, prometto di non
farlo più.” Prende il bicchiere contenente l’esplosivo cocktail e lo alza verso il lampadario: “Brindisi? Questo non potete proprio negarmelo!”
Il sogno non intende, per ora, suicidarsi.
Giunge anche il momento di alzare le chiappe e tornare ognuno alla propria tana.
Iniziano i saluti di rito, mi raccomando rimaniamo in contatto, ci sentiamo presto,
smack smack smack.
Per G arriva il momento di cercarsi un passaggio, la patente è ancora un miraggio. Il
babbo è stato chiaro: “La patente la sovvenzionerai con il grano da te sudato. Così ho
fatto io, così farai tu, non transigo!”
“Ti accompagno io?”
Il suono di quella voce, una voce linda e conosciuta, rimbomba nell’apparato acustico di G, quasi voglia rifiutare quei suoni in parole. G si gira ricercando l’emissario di
quel messaggio/proposta di speranza.
“Ti accompagno io, va bene?”
E’ la cordiale Anto a ripetere l’invito. G, dopo aver evitato in pochi istanti collasso
ed infarto, recita un cenno affermativo, le parole in questo momento sono un optional
esaurito.
“Andiamo dai!” gli indica il luogo dove la meravigliosa 306 Roland Garros è posteggiata. G l’ammira, è bella come la sua padrona, sgargiante anche all’una di notte, un
miracolo.
Ogni sogno è un miracolo.
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Provò un po’ di disagio. In genere i ruoli erano invertiti: era il Giovane che accompagnava la Giovane nel suo covo, così era scritto nel Grande Libro della Vita redatto da
G.
“Cacchio! Sono l’unico diciannovenne della città senza patente, dovrei vergognarmi.”
“Perché non guido bene? Non sarai uno di quelli che definiscono le femmine non
idonee alla guida?”
“No, no, anzi sei brav…”
“Adesso non riempirmi di complimenti, non ci crederei.”
“Agli ordini signora!”
Attenzione.
Il sogno potrebbe terminare da un momento all’altro, giocate le vostre ultime fiche
signori o ve ne pentirete per l’eternità.
Dunque.
G si trova accomodato su un elegante sedile di pelle; è da solo, con la donna della
sua vita. È notte, ma una notte ancora giovane, mille e una notte favole da inventare.
Sogno o realtà, un’occasione del genere non può accadere mai più, nemmeno le
probabilità matematiche danno speranze.
Questa notte deve accadere qualcosa. Quell’apoteosi Anto ha opzionato tutti i suoi
pensieri al punto che G desidera appellarsi alla commissione antitrust per togliere a
quella femmina il monopolio delle fantasie.
Rimugina un sacco d’idee per agganciare la preda, ma l’impresa si rivela ardua.
Certo, può saltarle addosso, non ci vuole molto, ma forse lei non gradirebbe (anche se
alla signora piacesse, lo rifiuterebbe per evitare di fare la figura della sgualdrina: ci manca solo quello).
Il tempo di udire un paio di deliri di tale Vasco Rossi, che aggrada tanto l’udito della
Giovane, ed i due si ritrovano in via Pacini, davanti al portone in frassino dove è sito il
trilocale di G.
“Complimenti Anto, bella scelta. Quest’auto dà soddisfazione.”
Ritornano a fissarsi, i loro sguardi si scontrarono violentemente. Nessuno però
prova dolore.
Sbrigatevi, il sogno è agli sgoccioli, non lasciate solidificare tutto questo silenzio.
“Ti ringrazio Anto. Beh, ci vediamo, non scomparirò.”
Cerca la maniglia per aprire la portiera, l’oscurità nasconde ogni cosa, a parte gli
sguardi dei due passeggeri.
“Mi saluti così, non è molto carino.”
Ancora quello sguardo instancabile. Ancora carenza di fiato per G. Ancora oscurità,
una valanga.
“Se aspetto te, mi sa che una vita non basta.”
L’illuminata Anto è diversa, o forse è la stessa, è l’udito di G che è cambiato.
G trova qualche parola. La spiattella subito.
“Una vita? Per cosa?”
67
Le parole sono terminate, per entrambi s’intende, almeno per quella sera, almeno
per quel sogno. Non che le parole siano mai servite veramente, sono solo una giustificazione per la presenza.
L’intraprendente Anto decide di non aspettare più, è stanca. È stufa di quel Giovane tanto orgoglioso da non esporsi nemmeno nei sogni.
Provate a darle torto. Provate a conoscere un Giovane come G. Provate a parlarci
per un quarto d’ora consecutivo senza avere un attacco d’isterismo causato dalla sua timidezza emancipata, dalla paura di sorridere, dalla perpetua diplomazia che non sbilancia il suo giudizio nemmeno su una squadra di calcio. Provate a condividere quei tentennamenti tanto volontari quanto odiosi, provate un giovane con la G maiuscola. Provate G.
E l’annoiata Anto è stufa, stavolta veramente. Scioglie il nodo dei suoi fianchi e
s’impossessa delle membra di G, iniziando a lavorarsi le labbra come da regola.
G è preso in contropiede, non si capacita di quello che accade, nonostante sia un
sogno, nonostante sia quello che lui ha sempre desiderato. La pelle della frammentaria
Anto tiene fermo il tempo, i secondi, i minuti, gli anni che lo faranno grande.
Il sogno realizza i desideri, giustizia è fatta.
Così cominciava l’amore o un suo simile, il ragazzo felice e sbalordito, lei felice e non sorpresa affatto (alle ragazze nulla accade a caso, MAI). Era l’amore o un suo simile tanto atteso da G e adesso
inaspettatamente giunto, e così bello da non capire come mai lo si potesse immaginare bello prima. E
della sua bellezza la cosa più nuova era l’essere così semplice, e al ragazzo in quel momento pare che
debba essere così.
G pensa a quando si sveglierà e si ritroverà nella sua piazza e mezza con il corpo
bagnato di sudore e chissà cos’altro.
Poi nel sogno s’intromette un altro sogno. G è a casa di Anto, un appartamento
borghese, TV, videoregistratore, hi-fi d’ultima generazione, soprammobili egiziani, tappeti arzigogolati. G parla con i genitori di Anto: racconta loro che ha intenzioni serie,
che non scherza affatto, che desidera dare solo il meglio alla loro figliola. Poi nella stanza entra Anto: sorpresa! Un vestito bianco la rende eclatante come un’apparizione. Poi
riso, confetti, l’odore dei gigli e una torta grattacielo. G affina la vista, guarda meglio: la
candida Anto è circondata da una selva di bebé confusionari, urlano, corrono e lo
chiamano papà. Affina ancor di più il suo apparato ottico: vede sul tavolo un contratto
d’assicurazione caso morte. Contraente ed assicurato: G. Beneficiario: la giudiziosa e
previdente Anto.
G pensa all’odio razziale ininterrotto e plurimillenario tra l’etnia maschile e l’etnia
femminile. Pensa al motivo per il quale stava in quel luogo, in quell’istante, in compagnia di quell’essere chiamato Anto. G pensa che l’atto di pensare fotte. Meglio lasciar
perdere.
Poi di nuovo foschia, tanta nebbia.
Godetevi il presente, il futuro ora non vi riguarda.
G segue il consiglio e torna al presente. Hanno tutti ragione, è ora di muoversi, e
poi è un sogno, non ci perde nulla.
Così passa al contrattacco, alza il tiro e non solo quello. G naufraga nel sud della
bollente Anto. I due accendono più stelle possibili per illuminare la loro passione.
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Dev’essere tutto perfetto, non si può sbagliare nei sogni, G questo lo sa. Per questo si
stacca violentemente dalla sognante Anto che sputa istintivamente un “Ma sei scemo!”
G non risponde, ma inizia a fare il suo dovere. Rovescia la testa sul dorso mentre
batte con forza i denti creando un suono inquieto. Si guarda intorno, fuori dai finestrini
per cercare qualcuno o qualcosa, un invasore, un rompicoglioni, un guardone, qualsiasi
cosa. Scende dall’auto di scatto: inizia a battere i piedi rivestiti da anfibi sull’asfalto, quasi come se cercasse di strappare il catrame dal manto stradale. L’operazione chiaramente
non gli riesce. Continua a perlustrare la zona circostante l’auto cercando un nemico. La
femmina in macchina è la medicina giusta per la sua esistenza, G lo sa bene, e per questo è meglio tenersela, chiuderla in cassaforte. Nessuno in vista, via libera, un ultima occhiata per essere sicuri. Poi, dopo qualche istante, assicuratosi perfettamente di non
avere intrusi, rientra nell’abitacolo: la discreta Anto lo fissa, ma tace esponendo solo un
viso spaventato. G sembra fregarsene. Ricomincia di nuovo a rovesciare il capo sulla
schiena con un’espressione felice. La cara Anto non fa altro che fissare l’essere seduto al
suo fianco. G non bada alla sfigata Anto e comincia a battere i denti mantenendo la
stessa espressione compiaciuta. L’antonelliana Anto lo fissa ancora per alcuni secondi
fino a che sul viso si disegna una nuova espressione: sembra aver capito quello che G
intende comunicare, non ne è completamente sicura (come si può esserne!), ma pare
che quel rito abbia un significato intrinseco bello e buono.
A questo puntola sconvolta Anto può fare una cosa sola. Non perde tempo, inizia
ad imitare G: batte i denti più forte che può e rovescia ritmicamente la sua bella testolina.
Un vero delirio onirico.
Tutta colpa della Giovanna.
Giovanna e la sua curiosità, Giovanna e la sua voglia di contagiare G con le sue conoscenze, Giovanna e i suoi riccioli d’oro, Giovanna e la sua enciclopedia degli animali.
Già perché un giorno qualunque la gaia Giovanna si recò nei pressi del banco di G
per narrargli le sue ultime scoperte naturalistiche. Gesti e comportamenti erano il tema del
giorno. Giovanna partì con il linguaggio del corpo del meraviglioso mondo animale, cioè
precisi atteggiamenti, gesti, comportamenti che trasmettono segnali di disponibilità sessuale, ma anche di minaccia, di sottomissione e di varie altre bravate. L’etologa Giovanna narrò in particolare il comportamento delle cicogne. Disse a G che nel corso del
corteggiamento e della nidificazione la cicogna assume atteggiamenti assai curiosi, insomma, da non perdere (!!!). Nella cerimonia di saluto, per esempio, l’uccello rovescia la
testa sul dorso mentre batte sonoramente i due rami del becco; per manifestare la sua
aggressività nei confronti d’avversari, guardoni, invasori del territorio strappa l’erba tenendo il collo steso in orizzontale e le ali aperte. Ma non è tutto. Quando i componenti
della coppia sono particolarmente eccitati, gioiscono insieme rovesciando il capo sulla
schiena e completano la cerimonia ponendosi fianco a fianco, battendo il becco
all’unisono e incrociandolo con quello del compagno. Quando il maschio e la femmina
si separano, infine, si salutano secondo un rituale che prevede inchini ad ali aperte, con
la nuca esposta in segno di sottomissione.
“Mooolto interessante Giovanna!” Esclamò ironicamente G mandando a cagare la
compagna con un gesto della mano d’indubbio contenuto. Come al solito Giovanna se
69
ne andò delusa, ma forse consapevole che qualcosa, magari involontariamente, rimaneva nella testa dell’amico. E non sbagliava, tanto che G quelle conoscenze se le era trasportate nel suo sogno preferito. E quale migliore occasione per provare questi linguaggi del corpo.
La lampeggiante Anto e G seguono l’iter alla perfezione: incrociano i loro becchi,
pardon, bocche e riprendono la consumazione da dove avevano interrotto per il delirio.
Ora il campo è libero.
Nella testa di G iniziano a scorrere milioni di pensieri accavallati in stile Koyaanisqatsi. Si promette di esplorare ogni angolo del corpo della sua favola con ogni angolo
del suo. È un sogno, e dev’essere un sogno perfetto.
È forte, potente, poteva reggere il cielo.
Che marmellata di sogno!
Poi inizia a sussurrare nella testa un suono somigliante ad uno squittio:
“Spegnete il buio.”
L’unicellulare Anto continua tranquilla il suo lavoro interpretando la sua parte alla
perfezione.
“Spegnete il buio, per favore!”
La tentacolare Anto tocca, scava, morde, ansima, colpisce, morde, ancora morde,
morde molto, non smette, non intende smettere.
“Spegnete il buio! Spegneteilbuiospegneteilbuiospegneteilbuio!!!”
L’affamata Anto morde forte. Troppo forte. Il dolore presto sveglierà G, pazienza.
“Spegnete il buio! Avete capito, o no!?”
Succhia il respiro, succhia.
In G si forma un pensiero inedito che distrugge gli altri, mentre l’evanescente Anto
continua a mordere.
“Perché non mi sveglio?”
Complimenti per la domanda. Forse è rimasto intrappolato all’interno della più
bella realtà onirica mai conosciuta. G intenderebbe domandare alla stregona Anto il
perché di quella trappola, ma la vede troppo occupata. Occupata a mordere. Meglio lasciar perdere.
Il buio non ha intenzione di spegnersi, G sa bene che non si spegnerà mai completamente, G sa bene che non è affatto un sogno, ma un bello spaccato di realtà. Vede i
vestiti sgualciti bagnati dal sudore e dal suo sperma precoce, da quello stupido sperma
che non sa aspettare. Questa è realtà.
La cacciatrice Anto e la sua preda terminano la loro consumazione in una mezz’ora
buona. S’inchinano con le braccia aperte e con la nuca esposta in segno di saluto.
Sogno o son desto: qualche differenza?
70
II
In verità G e la sua favola non si frequentarono più dopo il fattaccio. Non che
l’esperienza non fosse piaciuta, anzi: G in quella notte scoprì lettere nuove dell’alfabeto
e nuovi colori dell’arcobaleno, un itinerario emozionale irripetibile. Ma fu proprio G a
dissolvere i rapporti con la mordente Anto: un’operazione chiaramente effettuata con
eleganza per non renderla troppo dolorosa e maleducata. La ex Anto non oppose resistenza, assecondò il volere implicito del Giovane amico senza remore. Parevano due
professionisti del settore.
Un sogno che divenne realtà per poi tornare sogno dissolto nel passato.
III
Ma non furono solo la desta Anto e G a perdersi di vista. Il tempo sciolse tutti i
componenti della quinta A indirizzandoli ognuno verso il proprio destino. Ogni singolo
cavaliere e donzella della quinta A percorse un futuro liscio come un bicchiere d’acqua
del rubinetto di casa vostra. Destini come i dischi dei Dire Straits: su e giù dal rock al
pop con quelle divagazione jazz tanto per dire sono bravo anch’io.
Nessuno di loro sarebbe stato buono per alimentare un best-seller od una sceneggiatura hollywoodiana: niente grossi colpi di scena, nessuna perplessità né presenza di
segreti ombrosi.
A G capitò di ascoltare di straforo le loro storie, magari per sentito dire, magari per
caso. Ecco il resoconto: Bernie collezionò nell’arma dei Carabinieri giornate storiche assaggiate con violenza gratuita. Maximiliam alloggiò sbattuto in angoli periferici fatto
d’acidi e solitudine. Frazza tappò tutti i buchi, anche quelli nel cervello, stupendo anche
se stesso. Claudio navigò nel successo (fu l’unico della classe) grazie alla sua idea pornosoft, realizzando anche il suo sogno d’attore protagonista in una delle sue pellicole.
Giovanna, persa l’amicizia con G, trovò una nuova vittima alle sue paranoie in Marco,
suo marito. Tarallo dopo il conseguimento di una laurea in economia e commercio
frutto di un decennale corso presso la Cattolica, stonò nello studio di commercialista finanziato dal suo volenteroso e danaroso papino. E la favola Anto: G non seppe mai
nulla d’ufficiale, ma la seppe immaginare immersa in una scontata quotidianità troppo
stretta per una favola. Delusa come una canzone del Blasco.
E G? Naturalmente vibrò sul blues virtuoso di John Lee Hooker.
IV
Io sottoscritto G D., nato a Milano il 10 giugno 197X ed ivi residente in via Pacini nr.45, mi
permetto di sottoporVi il mio curriculum, onde possiate verificare l’opportunità di prendere in esame la
possibilità di instaurare un rapporto di lavoro.
71
Sono in possesso del diploma di Ragioniere conseguito nel 1998 presso l’Istituto Tecnico Commerciale Pietro Verri di Milano e sono stato esonerato dall’obbligo di leva.
Potendo ora disporre senza incertezze del mio futuro sono disponibile ad esaminare
proposte di lavoro soprattutto se impegnative e stimolanti, non disdegnando contratti a tempo determinato, purché d’adeguato contenuto professionale.
Restando a disposizione per eventuali ulteriori chiarimenti e fiducioso nella possibilità
di un colloquio informativo, colgo l’occasione per porgerVi distinti saluti.
G D.
V
Una brutale confidenza legò G al suo curriculum per un bel po’ di tempo.
Ne passò di tempo nel quale si permetteva di sottoporlo a prestigiose e blasonate
aziende. Ne passò di tempo nel quale, disponendo senza incertezze del suo futuro, fu
disponibile ad esaminare proposte di lavoro, soprattutto se impegnative e stimolanti: sì,
perché gli toccava assumere le sembianze della persona educata e affidabile, uno cui
non mancava la voglia di sgobbare adeguatamente. Ne passò di tempo nel quale restò a
disposizione (seduto sul divano davanti a MTV) per eventuali ulteriori chiarimenti. E ne
passò anche di tempo: durante il quale immancabilmente coglieva la ghiotta occasione
per porgere alla nobile azienda distinti saluti.
Ed il tempo non si scordava di scorrere, camminava sadico per la sua via senza
guardare in faccia a nessuno, tantomeno a quella dell’incompreso e scomodo G.
VI
“Caro affezionato, ora ti tocca senza remore definire la tua breve esistenza maturata
in questo pazzo pazzo mondo di tasse! È gradita una risposta concisa ed esauriente.”
A parlare era G, localizzato al centro della sua camera sportivamente arredata, circondato da decine di dischi compatti pronti a sparare ore ininterrotte di fastidioso e
scorbutico rock’n’roll.
Un’inedita tempesta di paranoia lo aveva investito costringendolo ad un bilancio
vitalizio di salvataggio: G non negò la volontà.
Si domandò chi fosse quel G che conosceva da circa vent’anni. Andò per esclusione. Non era il tipo che si difendeva con la cultura sfoderando citazioni sonnolente, anche perché la sonnolenza provoca dipendenza.
E la dipendenza provoca sonnolenza.
E nessuno (per giunta) sa il perché.
G non era nemmeno un duro.
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Amava (in fondo in fondo, in un angolo nascosto) i lieto fine. Non era proprio un
duro, mugugnava spesso. A volte si commuoveva senza paura e dentro un ospedale gli
era capitato di svenire.
Non era un duro e non si vergognava di non esserlo.
Osservava la sua sconfinata discografia aspettandosi un’improvvisa spettinata sonora. Rimaneva fermo ad adorare quelle colorate custodie di plastica meravigliato dal suo
amore incondizionato per loro, o meglio, per il loro contenuto.
E prima di abbandonare la folle impresa il suo sguardo fu agganciato da una delle
sue meraviglie che pareva molto simile ad una soluzione del quesito.
Psychocandy dei Jesus and Mary Chain datato 1985: quell’album, una professione di
fede nella musica pop degli anni ’60 ma anche un attentato all’apparato uditivo, somigliava gravosamente ai suoi 19 anni di passione su questo pianeta. E non solo per le
melodie zuccherose oppresse dagli effetti delle chitarre o per il nichilismo dei testi, bensì per la cozzaglia di quelle quindici tracce unite dal disordine.
Era soddisfatto della scelta. I Jesus and Mary Chain non facevano musica per duri.
E poi quella era una testimonianza degli anni ottanta: sapeva bene che non si usciva vivi
dagli anni ottanta, non si usciva vivi da quegli anni rampanti, artefatti e volgari. Si promise che da quel giorno si sarebbe fatto promotore dell’opera sopracitata e del duo (i
fratelli Reid) leader del gruppo. All’istante brevettò nella testa il giusto spot pubblicitario.
Signore e signori! Degustate senza timori Psychocandy: avrete la piacevole impressione di un album dei Beach Boys suonato dagli annoiati Velvet Underground!
Cosa si poteva volere di più dalla vita?
Non poté far altro che caricare il suo ipertecnologico impianto d’alta fedeltà. Ballò e
si emozionò senza timore con quell’intruglio di note.
73
PARTE SETTIMA:
il succo del nocciolo
(ovvero il mondo dei bambola)
74
I
Un mattino di marzo dell’ultimo anno del millennio, il postino depositò diligentemente nella cassetta della famiglia D. residente in via Pacini 45, una busta elegante indirizzata proprio al signor G.
G aprì la busta verso mezzogiorno, quando rincasò da una delle passeggiate senza
meta tipiche dei personaggi del meraviglioso mondo della disoccupazione. L’elegante
busta conteneva un altrettanto elegante cartoncino ben ricamato. Un dorato messaggio
vi era iscritto con estrema delicatezza: si era lieti d’annunciare che quel cazzone di Kikko (voce dei defunti Bambola) sarebbe convenuto a giuste nozze. Si aggiungeva che si
era invitati il giorno 15 aprile p.v. in una chiesetta di Cologno Monzese e che conclusa
la cerimonia si sarebbe pranzato nel ristorante Da Renzo in via…
II
DRIIIN
“Pronto.”
“Cazzo G, sono Fabio! Hai ricevuto l’annuncio?!”
“Ah ciao Fabio, sì sto abbastanza bene, e tu?”
“E’ pazzesco! Ma, hai visto? Kikko, quell’incredibile cazzone, quello sbarbato di
vent’anni si sposa, hai capito, Kikko si sposa!”
La voce di Fabio era molto vicina ad un collasso.
“Sono contento che anche tu stia bene, è un bel po’ che non ci si sente, vero?”
“E con chi poi? Con Marina, quella troia di Marina. Hai presente mica chi sia quella?”
“Si ci potrebbe vedere, che ne dici? Magari domani sera, una birra al Batik, eh?”
“Senti G, a mio modesto parere ci deve essere qualcosa sotto, quel cazzone l’ha
combinata grossa, un bel guaio certamente. Sono pronto a scommettere che l’ha riempita di seme fino a metterla in cinta. Non ci sono altre possibilità plausibili, o sbaglio?
Non lo so G, e tu come fai ad essere così tranq”
La comunicazione s’interruppe per cause sconosciute.
III
DRIIIN
“Pronto.”
“Ciao G, ciao. Sono Walter.”
Il tono era sottomesso come se Walter fosse appena uscito da una seduta di frustate.
Sadomaso. Anche questo, Walter, che schifo!
75
“Walter, non ci credo, ancora vivo? Come te la passi.”
“Hai saputo di Kikko, hai ricevuto l’invito?”
“Walter, cacchio, è veramente un casino che non ci si vede, sei sparito così nel nulla, sai mi sono preoccupato, veramente.”
“Non so proprio se andarci al matrimonio, dopo quello che è successo al Pao Pao,
non lo so davvero, volevo un consiglio. Che ne dici?”
“Perché non ci vediamo, che ne so, venerdì sera magari, una pizzata, che ne dici?”
“E’ da quando ho ricevuto quella busta che non faccio altro che pensarci. Non andare sarebbe triste e scortese, ma allo stesso tempo credo che andare sareb”
La comunicazione s’interruppe per cause sconosciute.
IV
DRIIIN
“Pronto.”
“G, sono Kikko.”
“Kikko! Che sorpresa, veramente, quanto tempo! Come te la passi, cazzone!?”
“Senti, ti ho chiamato per chiederti un favore, uno di quelli giganteschi, prepara le
orecchie.”
“Che ne dici di vederci dal vivo per fare due chiacchiere, magari sabato pomeriggio,
due passi in centro, non sarebbe una buona idea?”
“Ascoltami bene. Che ne pensi se per il mio matrimonio non resuscitiamo i Bambola. Giusto quattro o cinque pezzi dopo il pranzo di nozze, una schitarrata tranquilla, roba per famiglie.”
Silenzio.
“G? pronto G! ci sei, G?!”
La comunicazione s’interruppe a causa dello svenimento del bassista dei Bambola.
V
A G toccò versare un litro buono di volontà.
Non poteva proprio negare il favore a quel cazzone di Kikko. Un tentativo doveva
pur farlo. Promise a Kikko che ci avrebbe provato, ma non garantiva nulla: in caso di
buona riuscita sarebbe stato il suo regalo di nozze, altrimenti avrebbe ripiegato su un
vassoio d’argento.
Partì col piede giusto. In un paio di giorni organizzò una rimpatriata nella soffitta di
Walter, la storica e polverosa sala prove dei Bambola, collettivo rock evanescente. Un modo
per riagganciare le quattro anime e schiodare gli strumenti. Una serata rumorosa.
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V
I quattro redivivi componenti dei Bambola bazzicavano allegramente per il solaio del
condominio ove risedeva il generoso Walter. Magie delle magie: i quattro suonavano
senza troppe parole, escludendo i testi delle canzoni gridate da quel cazzone di Kikko.
Stilarono, senza accapigliarsi troppo, la scaletta per il giorno del matrimonio: quattro pezzi secchi, uno dietro l’altro, senza pause ricreative, senza paura. Nello specifico si
trattava di tre pezzi propri più una cover, All i want is you degli U2, la canzone che doveva far commuovere la sposa.
“Bon, signori! Per oggi suppongo sia andata discretamente.” Buttò Fabio.
“Mi associo pienamente.” Sostenne G.
“Adesso non esageriamo signori, non spompiniamoci troppo, non è proprio il caso.” Strappò Kikko.
Il nervosismo lo stava letteralmente divorando. Era mutato in ogni atteggiamento:
non si trovava più il Kikko perennemente nervoso, eccentrico, insomma, quel cazzone
di Kikko pareva scomparso. Era stato avvicendato da un bravo ragazzo in tutto e per
tutto.
Ma, d’altronde, era più che comprensibile: mancava meno di un mese al lieto evento. Lieto all’apparenza, naturalmente. A tale proposito Kikko diede le dovute delucidazioni riguardo a quell’improvvisa decisione: in effetti quell’ex cazzone di Kikko aveva
combinato il guaio pronosticato, gli mancava poco all’investitura di padre, e per
quell’incarico si doveva essere anche marito della madre, il suocero non transigeva.
Così a Kikko toccò maturare tutto d’un botto scordando le trasgressioni dovute ad
una faccia da rockstar come la sua.
Rinunciò anche all’addio al celibato scuotendo le coscienze dei rimanenti Bambola, al
punto di festeggiarlo comunque da soli: Fabio, G e Walter si recarono in un dignitoso
locale specializzato in lesboshow dove accumularono materiale per qualche anno delle
peggiori fantasie erotiche. Intanto il giorno del lieto evento si avvicinò violentemente
sino a presentarsi.
VI
Vuoi tu Kikko, ex cazzone, prendere e possedere come tua sposa la qui presente marina, lurida
bocchinara di prima scelta?
Dalle viscere di Kikko sgorgò un SI’ decisamente indeciso.
E vuoi tu Marina, vezzosa zoccola di periferia, unirti in matrimonio con questo ex cazzone, per
scoparlo e sbocchinarlo a dovere, nella ricchezza e nella povertà, nell’impotenza e nella frigidità, finché
morte o corna non vi separino?
Un SI’ deciso e incisivo: ma non della sposa, bensì del padre seduto dietro di lei in
prima fila, quel padre che l’aveva trascinata all’altare, quel padre che avrebbe pagato
l’affitto del monolocale nel cuore di Cologno Monzese.
Marina non obbiettò.
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Intervallo
Masturbazioni mentali
Perché anche G, nella hall del suo cervello, si disegnava talvolta un destino personalizzato, non se
ne vergognava.
Ed allora fantasticava le sue giornate travestito da affermato commercialista, adepto alla religione
senza nome che adorava quel dio gironzolante a bordo di uno Z3 nei pressi del bar del quartiere. Nel
frattempo sbrodolava con la Paola di turno, fingendo palpitazioni cardiache pericolanti, raccontando a
quella Paola qualsiasi che tanto somiglia a quelle canzoni dei Depeche Mode che si ascoltano in notturna, quando la gastrite fa urlare lo stomaco e le pasticche di Malox sono scadute. Intanto i capelli si
sarebbero argentati, la quinta A divenuta un ricordo annebbiato, le vacanze in Grecia ennesime delusioni e la Paolamania una routine assassina.
In verità G sapeva che poteva anche non essere tutto così facile, non doveva esserlo. Si poteva anche
sbandare un attimo, uscire da quel seminato appestato. Scappare da quel calvario era una parola
d’ordine, un must religioso, integralista, vitale.
VII
“Ciao belli, ci siete tutti, sì?”
Fabio, G e Walter giunsero al ristorante ben accravattati con al seguito i loro strumenti ben lucidati ed accordati per la circostanza.
I tre avevano i volti ricoperti d’emozione: era sì il matrimonio dell’ex cazzone, ma
anche e soprattutto il ritorno dei Bambola.
“Ok belli! Accomodate pure gli strumenti in quell’angolo e sistematevi bene nel palchetto. Avete visto quanto spazio vi abbiamo riservato?” Chi li accolse fu il direttor Silvano, padre di Kikko.
Appena lo vide G capì il perché Kikko fosse sempre stato così cazzone: con un padre del genere non si poteva essere normali. Il direttor Silvano era dirigente di un blasonato istituto bancario toscano, ma nonostante la carica che ricopriva non riusciva a
guarire dalla sindrome di Peter Pan.
Il direttor Silvano era un rampante dirigente anche in quella giornata: schizzava da
un angolo all’altro del ristorante disponendo gli invitati ed i carrelli delle portate.
“Congratulazioni direttore!”
“Congratulazioni direttore!”
“Congratulazioni direttore!”
Il ritornello era sempre quello. La risposta anche.
“Grazie, ma non sono io il festeggiato,” risata sonora, “Purtroppo ci sono già passato, ed anche da un sacco di tempo!” Altra sonora risata.
“Belli, se avete bisogno di una mano chiedete pure. Anch’io qualche tempo fa suonavo in un gruppo, qualcosa rammento ancora.”
Ho fatto tutto nella vita, io.
“Grazie, se avremo bisogno non faremo complimenti.” Rispose Fabio, ma il ‘direttor’ era già distratto ad accalappiare le chiappe di un sfintizia scosciata; di seguito
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guardò il tavolo dove aveva parcheggiato la moglie per sincerarsi di non esser stato scoperto.
“Beati voi che siete ancora liberi come gabbiani. Mi raccomando non seguite le orme di mio figlio.”
A proposito di Kikko. G girò lo sguardo per la sala alla ricerca del festeggiato: lo
intravide in mezzo ad una selva di invitati che eseguivano senza sosta il ritornello delle
congratulazioni. Gli fece pena: quel matrimonio a vent’anni, quel divenire padre a
vent’anni. Si sentì fortunato e lo perdonò per tutto. Desiderò che tutti lo perdonassero.
E come si poteva non farlo: con un padre del genere, come si poteva non giustificare
quella cazzonaggine, quella perpetua frustrazione. Andava lasciato perdere. E poi, per
certi aspetti (solo per certi), lui era arrivato, era riuscito ad agguantare un obbiettivo.
Era diventato Grande, ma Grande sul serio. Stava per intraprendere l’attività di promotore finanziario (naturalmente sotto la supervisione del babbo Silvano), stava mettendo su famiglia, forse un po’ in anticipo rispetto alle aspettative, però stava costruendo qualcosa di reale. Non gli era andata poi così male. Quella scuola di praticità male
certamente non gli faceva. Sul suo orizzonte privato si era iniziato a disegnare un piccolo abbozzo di futuro. Forse poteva anche essere invidiato.
Certo, sarebbe stato costretto a chiamare amore quella Marina, magari gli avrebbe
anche regalato dei fiori ad ogni anniversario, avrebbe dovuto dispensare al mondo intero sorrisi di approvazione, va tutto bene Signori, invidiatemi, sono il più felice dell’universo: era
un promotore finanziario e mentire stava diventando il suo destino.
I tre componenti dei Bambola scapoli rattopparono come potevano lo stage per
l’esibizione, poi si diressero verso i tavoli alla ricerca di tre buchi liberi.
A proposito di buchi.
“Buongiorno signori!” Ecco il cazzone, come un’apparizione. “Ci siete anche voi!
Vedo che avete già messo tutto a puntino. Ora trovatevi una postazione strategica. Qui
vi assicuro che non manca la merce: mi raccomando, vi obbligo a non andare in bianco,
trovate dei bei fori da riempire col vostro grande amore.”
E G pensò a Walter. Di quella storia non si era più parlato, nessuno ne voleva parlare, probabilmente per carenza di coraggio: era molto più facile fuggire da quelle storiacce.
“Oh Kikko! Hai trovato i tuoi amici. Su belli sedetevi, mangiate e poi sparateci il
vostro sapiente rock’n’roll!” Il direttor Silvano accompagnò le parole con una smorfia
accattivante, ecco il ragazzino di cinquant’anni con una stempiata oceanica e due fondi
di bottiglia sugli occhi che aveva creato e coltivato un mostro chiamato Kikko. Proprio
a Kikko il direttor tirò un’occhiata supplementare che tirò verso il basso lo sguardo del
festeggiato.
Ricordati che sei un fallito. Guarda che casino che hai combinato. Vergogna!
“Dai belli! Non vediamo l’ora di gustarci la vostra performance.”
Inconvenienti del rock’n’roll, pensò G. Com’erano precipitati in basso, suonare ad
un matrimonio, certo, non un matrimonio qualunque, ma era comunque sempre…
Meglio smettere.
Il momento si avvicinava, era il momento del riscatto, era il momento di non sbagliare.
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VIII
“E’ questo il succo del nocciolo!” Proclamò Walter.
Era stata appena servita la macedonia di frutta quando Walter insegnò al mondo la
teoria del succo del nocciolo.
Tema: il rock.
Intervengono: Walter e Felix, cugino di secondo grado di Kikko, genere abbronzatura-perenne, un anarchico figlio di papà, o meglio, figlio di un industriale proprietario
di un colosso dell’hinterland milanese nel campo della litografia.
Conduce: G.
“Non siamo noi a scegliere il rock, ma è lui a scegliere noi, non ci sono cazzi.” Ribadì con fierezza e severità Walter.
“Già. Adesso gli americani hanno colonizzato il nostro subconscio!” Ironizzò questo Felix torturandosi il suo pizzetto unto dalla salsa di pomodoro che condiva i sudici
ravioli ricotta e spinaci.
Il succo del nocciolo?
È meglio esplicare il percorso che portò alla formazione di questa teoria. Walter,
partendo dalla concezione del succo del discorso, aveva esteso certe sue congetture
analizzando anche il nocciolo della questione. Dopo lunghi e attenti studi riuscì a trovare una mirabile sintesi: il succo del nocciolo, uno straordinario strumento di lettura
dell’intero scibile umano. Insomma, se gli scienziati erano riusciti ad isolare le particelle
più elementari della materia, come l’atomo, Walter era riuscito ad individuare il succo del
nocciolo attraverso cui dava un’interpretazione ad ogni manifestazione del pensiero umano e non.
Non mancò quindi di scovare il succo del nocciolo anche sul rock’n’roll ed i suoi adepti.
Ma il discorso piegò precipitosamente.
“Ma cosa perdo tempo a fare con un anarchico puzzolente. Guarda che i soldi non
ti danno ragione!” Walter era partito con le offese e non pareva volesse fermarsi presto.
“Smetti di cagare stronzate dalla bocca e tagliati quei peli sul mento che somigliano
sempre più ad una discarica.”
“Penso che sia opportuno cambiare binario signori, ricordiamoci che siamo qui per
festeggiare un matrimonio.” G, da bravo conduttore, tentò di placare gli animi. Felix
però non cambio binario, ma deragliò. G si preparò a degustare un bel rissone da matrimonio di cui lui possedeva l’esclusiva per la cronaca.
Sul più bello però, proprio mentre quel birichino di Felix si apprestava a partire di
testa per confondere i connotati di Walter, intervenne il direttor Silvano.
“Signore e signori, un attimo di attenzione!” Conquistò il popolo del ristorante, camerieri compresi, con la sua brillante verve tipica del manager in carriera montato meglio della panna.
“E’ giunto il momento bollente della giornata, escludendo chiaramente la cerimonia. Dopo una lunga pausa di riflessione torna a suonare, in esclusiva per noi, la band in
cui milita il mio caro figliolo. Spero non ci rovineranno la digestione!” Prese fiato senza
staccare il suo sorriso.
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“Ecco a voi…”
Poi quel sorriso scomparve. Il direttor Silvano si girò verso il figlio e parlottò con
un filo di voce infuocato.
“Come kazzo vi chiamate, dannazione!”
“Bambola, cacchio babbo, Bambola!”
Il direttor Silvano non dimenticò di sganciare un altro dei suoi sguardi verso il caro
figliolo.
Guarda che mi tocca fare per te, fallito. Attento che la mia pazienza ha un limite.
Poi il sorriso tornò.
“Ed ecco a voi, solo per voi, i BAMBOLA!!!”
Partì un applauso, come un riflesso incondizionato, quasi un obbligo.
Fabio, G e Walter si alzarono di scatto e si diressero a testa bassa verso il palchetto.
L’emozione li ricopriva visibilmente. Inforcarono chitarra, basso e bacchette. Si guardarono in faccia, dritti in faccia, dentro la faccia, dritto nel cervello. La parola a Fabio.
“Allora, questa è l’ultima volta, giusto?! Quindi è giunto il momento di buttare fuori
il massimo, far esplodere i coglioni, senza risparmiare.”
Quella era l’ultima esibizione dei Bambola, si era deciso così, ed era giusto così, senza
rimorsi. Tutti e quattro erano coscienti che sarebbe stato inutile ricominciare, mancavano stimolo, voglia, feeling ed eleganza. Mancavano le rockstars.
Tutto era pronto, almeno tecnicamente.
Un altro sguardo, l’ultima parola.
“Rumoreggiamo!”
G raggruppò una manciata di pensieri, un tentativo, + o – sensato di ricarica.
La voglia di rumoreggiare
-3
un pizzico di vendetta
-2
un po’ della saporita Anto
-1
e poi ORA o MAI più
VIA!
IX
Attaccarono tutti disordinatamente, nessuno ci azzeccò. Il frastuono provocato
somigliava allo splendido hit OBSOLETO. Non che fosse un pezzo da matrimonio,
tutt’altro, ma era la canzone giusta per celebrare il grande ritorno. I tre parevano rassegnati. G guardava i colpi di Walter per seguire il tempo; Walter faceva lo stesso con le
dita di G. Si inseguivano a vicenda senza incontrarsi mai. Fabio se ne sbatteva altamente
e marciava per conto proprio, non sapeva che altro fare.
Dopo qualche riff confuso dal tavolo centrale lo sposo si alzò con in mano un microfono. Lanciò un sorriso al pubblico, poi attaccò il lamento in mezzo a quella furia di
suoni, sperando che qualcuno riuscisse a sentirlo.
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OBSOLETO
Testo e musica: Bambola
Statico
Così statico
Mentre tu continui a bruciare
Semplice e lontana come al solito
Statico
Così statico
La mia indole complicata ad ogni costo
Cose semplici e banali
Per riconciliarmi
Statico
Così statico
Così obsoleto
X
Obsoleto si concluse in cinque minuti. Nonostante il disastro nessuno dei Bambola
diede segni d’insofferenza, rabbia, furia omicida o simili. Nemmeno quell’ex cazzone di
Kikko, che nel frattempo aveva raggiunto il palco, protestò contro il disastro sonoro.
Aspettò l’attacco del secondo pezzo, un pezzo blues scritto anch’esso dagli stessi Bambola, basato su un giro blues di Bo Diddley, vecchia icona degli anni ‘50, una bella chicca
nel repertorio della quasi defunta band milanese.
L’attacco toccava al quattro corde di G. Il proprietario del basso fissò una ad una le
facce dei suoi compagni per constatare il loro stato: assodò che tutti erano ancora coscienti. Allora partì
Bzz
Già.
Quel disturbo all’amplificatore si rifece vivo con un tempismo sadico senza paragoni.
Bzz
Più forte che mai.
Fabio, Walter, quell’ex cazzone di Kikko, il direttor Silvano, tutto il ristorante,
clienti, camerieri, dio, o quello che era, si risvegliarono in un inferno inedito, tutto offerto dall’amplificatore di G.
Il proprietario della macchina infernale emanatrice di suoni diede un occhiata al
paesaggio del ristorante grondante retorica.
Bzz
Che diavolo avevano da guardare!
Bzz
Che volete voi!
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Bzz
Anto torna ti prego! Vienimi a salvare!
Bzz
Perché non torni? Perché sei fuggita!
Bzz
Niente. Nemmeno del buon rock’n’roll da succhiare. G fu rapito dallo sconforto
venato però da un’allegria masochista che lo reggeva in piedi. Forse avrebbe resistito
per tutta la durata del concerto.
Bzz
E dopo? Lo spettacolo doveva continuare anche dopo quel concerto, anche fuori
da quel ristorante, c’era uno show chiamato vita che lo attendeva.
Bzz
C’era un pubblico che attendeva i suoi errori per castigarlo a dovere con fischi, insulti, e perché no?, bastonate che avrebbero piegato la sua spina dorsale. La chiamano
vita.
A G non rimase che stravaccarsi su di essa aspettando il vaccino contro la noia.
Bzz
Forse era il male di vivere o forse il troppo caffè. Serviva una valigetta elegante per
tenersi legati alla realtà? Nessuno rispondeva mai.
La chiamano vita. Ingresso gratuito. Consumazione obbligatoria.
Bzz
Bzz
Bzz
Bzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz
EPILOGO
Questa è una storia d’amore.
M.D.G.
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