Donne in catene e libertà negate

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Donne in catene e libertà negate
Donne in catene e libertà negate
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Donne in catene e libertà negate
Desirée Pangerc, Padova
Il traffico di esseri umani designa il reclutamento, il
trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza, attraverso la minaccia o il ricorso alla forza o ad altre forme di
coercizione, attraverso il rapimento, la frode, l’inganno,
l’abuso di autorità o di una situazione di vulnerabilità, o
attraverso l’offerta o l’accettazione di pagamenti o di vantaggi per ottenere il consenso di una persona che esercita
un’autorità su un’altra ai fini di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, almeno, lo sfruttamento della prostituzione altrui, altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o le pratiche analoghe
alla schiavitù, la servitù o il prelievo di organi.1
Come si può evincere dalla definizione adottata dalle Nazioni Unite, risulta evidente che il reato sia perpetrato perlopiù nei confronti delle cosiddette fasce deboli della società, ovvero quei gruppi di persone che si
trovano in una posizione di vulnerabilità e di svantaggio
rispetto al contesto sociale “normale” di riferimento.
Nel traffico di esseri umani, queste fasce deboli sono formate per la maggioranza da donne e bambini. Le
donne, in particolare, rappresentano una percentuale
consistente delle vittime tanto che l’approccio di genere
si rivela strumento primario ai fini di una compiuta analisi del fenomeno. Grazie alle testimonianze delle trafficate, è possibile ricostruire le rotte utilizzate dai criminali, individuare le modalità di selezione e di accoglienza delle ragazze, descriverne il successivo trattamento.
1
Cfr. articolo 3 del Protocollo volto a prevenire, reprimere e punire la tratta di
persone, in particolare di donne e bambini, ONU, 2000.
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Le donne vengono usate soprattutto a scopo di sfruttamento sessuale, laddove questo concetto sta a indicare un fenomeno diverso dalla prostituzione come comunemente intesa. Infatti, queste donne non possono
essere definite “prostitute” stricto sensu; piuttosto sono
delle “prostituite”, 2 o meglio “fatte prostituire”, costrette attraverso violenze fisiche e psicologiche a vendere il proprio corpo.
Le testimonianze di queste vittime sono spesso essenziali ai fini dello smantellamento delle organizzazioni criminali che trattano esseri umani. Ma chi sono queste trafficate? Di seguito vengono riportati quattro casi
emblematici che verranno analizzati nel corso della trattazione, affinché sia chiaro cosa si intende nel XXI secolo con il termine “nuove schiavitù”.
Almira
Il 21 aprile 2009 viene condannato a 12 anni di reclusione e al pagamento di un’ammenda di 144.000 euro
Tasim Kučević, boss mafioso bosniaco dedito da anni al
traffico di persone e al riciclaggio dei proventi da questa
attività illecita.
In quel momento io mi trovo a Sarajevo, sto seguendo il processo alla televisione. Le telecamere iniziano a filmare il criminale già fin dal suo arrivo presso
il tribunale della capitale bosniaca. E lo filmano anche
quando, poco prima dell’entrata in aula, viene avvicinato da una donna che si presenta come giornalista.
Di primo acchito, Kučević si dimostra molto disponibile ma, ad un certo punto, la presunta reporter gli
sottopone delle fotografie, fotografie che ritraggono
una bella bambina di forse 4 o 5 anni. La donna inizia
dunque a incalzare il boss con fitte domande su quella
2
Cfr. Da Pra Pocchiesa, M. - Grosso, L. (a cura di), Prostitute, prostituire,
clienti. Che fare? Il fenomeno della prostituzione e della tratta di esseri umani, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2001.
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fanciulla: “Te la ricordi? Non lo vedi quanto era piccola? E dolce?!”
Chi è in realtà la signora? È la zia della piccola ritratta nelle foto e il nome della bimba è Almira Čajić,3
una delle vittime del mafioso. Nel 1996, all’indomani
del conflitto che per anni ha devastato la Bosnia Erzegovina, Almira viene spostata da un campo di rifugiati
in Croazia verso l’Italia. Durante quel tragitto, viene intercettata dal mafioso che la rapisce, la trattiene e la costringe alla prostituzione. Dal 1996 al 1998, quindi,
Almira è apparentemente una delle tante prostitute che
lavorano in Italia; in realtà, è una schiava che deve rendere conto e portare guadagno al proprio padrone.
Il suo corpo, che ormai è diventato solo merce, si
deteriora: questo sia a causa delle scarse condizioni igieniche, che per la denutrizione e le torture cui è sottoposta dal proprio “datore di lavoro” e dai clienti. Dopo due anni passati in questo modo, Almira è “scaduta”,
non è più carne fresca e il suo aguzzino decide perciò di
lasciarla andare: mantenerla comporta solo dei costi inutili.
La ragazza telefona alla madre: sta finalmente per rientrare nella sua Sarajevo ma… Il trauma è pesantissimo: tornare nella propria città distrutta nell’animo e nel
corpo? E raccontare cosa? E se arrivasse un altro sfruttatore, anche più spietato, più crudele? I dubbi e i timori attanagliano e non concedono tregua alla giovane che,
una settimana dopo quella telefonata e poco prima di
prendere il volo che la riporterà a casa, s’impicca.
A distanza di anni, la zia di Almira ha la possibilità
di guardare l’uomo responsabile del suicidio della nipote negli occhi. Kučević, continuando a ripetere che
quella ragazzetta non l’ha mai vista – Nikad u životu,
Mai nella mia vita –, inizia a stizzirsi. Ormai è chiaro
che la donna bionda che gli sta di fronte non è una
3
Questo è quanto riporta il canale televisivo FTV nel suo magazine politico 60
minutes.
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giornalista. La reazione è molto violenta: le telecamere
inquadrano uno schiaffo di potenza tale da far cadere a
terra la zia di Almira.
Ci sono un sacco di persone lì attorno: sgherri del
boss, altri giornalisti, qualche funzionario del Tribunale,
ma nessuno aiuta l’aggredita a rialzarsi. Piangendo, essa
continua a gridare al boss Assassino! Solo una giovane
giornalista della TV federale FTV, Vildana Duran, riesce a divincolarsi dalla stretta di alcuni uomini che intendevano impedirle di andare a soccorrere la donna a
terra, e aiutare quest’ultima a rialzarsi.
Danica
Nell’estate del 2005, a Derventa,4 Danica, 15 anni,
viene avvicinata da una compagna di scuola di nome
Maya, lungo il tragitto che la sta conducendo a casa. La
presunta amica la invita a bere un succo di frutta nel bar
della località, il bar Del Capo, dicendole che le vuole
svelare il nome di un ragazzo che si è preso una cotta
per lei. Mentre le due ragazzine stanno terminando la
loro bibita, arriva un uomo che si rivolge a Maya: Ora si
va. Danica chiede spiegazioni alla compagna la quale le
risponde: Stiamo andando a Bosanski Brod.5 Là c’è questo ragazzo che ti aspetta.
I tre arrivano in un ristorante di Bosanski Brod e
Danica osserva come il “ragazzo” in realtà sia un signore “che poteva essere mio padre”. E se la prende a Maya,
nel più completo panico: Ma cosa mi hai combinato?! Io
devo rientrare a casa!. L’altra le replica con estrema
freddezza: Cosa ti impedisce di dormire con lui per 50
euro?. Danica si sente minacciata, è sera tardi e si trova
lontana da casa: vede il fatto di accondiscendere alla ri4
Nella zona centro-settentrionale della Bosnia Erzegovina, a 10 km dal confine con la Croazia.
5
Il nome della località che costituisce la zona di confine tra Bosnia Erzegovina
e la Croazia, non molto distante da Derventa.
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chiesta come unica soluzione possibile.
La minorenne conduce questa vita parallela per quasi due anni. La madre, Milodanka, inizia però a notare
degli strani comportamenti da parte della figlia; cerca di
fornirsi delle spiegazioni, trova le cause nella pubertà,
in possibili cotte adolescenziali. Ad un certo punto arriva a proibirle di uscire e Danica di rimando le urla:
Vuoi che ci uccidano tutti? Se è questo che vuoi, resterò a
casa!.
Nel frattempo, i trafficanti non smettono di vessare
e torturare la ragazzina: un pomeriggio Milodanka rientra e trova il piccolo appartamento completamente
messo a soqquadro e Danica con una profonda ferita da
arma da taglio sulla gamba, Mi sono tagliata per sbaglio
con un bicchiere. La donna si insospettisce e finalmente
riesce a farsi confessare tutto dalla figlia nell’ottobre del
2007: Mamma, mi vergogno… Se ti racconto cosa succede,
mi vorrai ancora bene? Per favore, non odiarmi. Viene
avvertita la polizia locale, la quale preleva e trasferisce
Danica in una casa-rifugio. La famiglia viene messa sotto protezione dalle forze di polizia, ma Milodanka sa
che dovrà lasciare Derventa per ricostruire la propria
vita assieme ai figli.
Victoria
Nel 2003, in seguito ad alcune indagini e incursioni
effettuate dall’International Police Task Force,6 avviene
la liberazione di una trentina di ragazze ridotte in
schiavitù e costrette a prostituirsi nei bordelli della Bosnia settentrionale. 7 Una di queste ragazze si chiama
Victoria, ha 20 anni ed è giunta in Bosnia dalla Molda6
La missione di polizia condotta sotto l’egida delle Nazioni Unite e creata in
base all’Annesso 11 degli Accordi di Dayton del 1995.
7
Cfr. l’articolo di Andrew Cockburn: “21st century slaves”, apparso sul National Geographic e disponibile al link: http://ngm.nationalgeographic.com/
ngm/0309/feature1/.
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via tre anni prima, nel 2000.
A Chisinau, la capitale moldava, una volta interrotto
il proprio percorso di studi, la diciassettenne intraprende la difficoltosa ricerca di un mestiere senza successo.
Victoria non sa che fare: ha estremo bisogno di denaro,
per lei e per la sua famiglia. Decide quindi di affidarsi a
un amico, almeno io lo credevo tale, il quale afferma di
poterle trovare un posto di lavoro in fabbrica in Turchia.
La giovane non ci pensa due volte e parte con
l’uomo: insieme attraversano la Romania ma la meta,
invece della Turchia, risulta essere la Serbia. Quando
Victoria se ne rende conto, ormai è troppo tardi. Giunti
alla frontiera rumeno-serba, l’uomo la consegna ad altri
individui i quali, dopo averla fatta entrare nel Paese a
piedi, la sottopongono a violenze fisiche e continue
minacce.
Dopo alcuni giorni, la ragazza viene affidata ad altri
“sorveglianti” che la scortano fino in Bosnia Erzegovina.
Qui Victoria inizia a passare di mano in mano, di bordello in bordello. L’acquirente di turno può comprarla
al prezzo medio di 500 dollari. Dopo tre anni di questa
vita, incinta di quattro mesi e con il timore che i padroni possano costringerla ad abortire, si decide a fuggire.
Trova rifugio a Mostar, nella Bosnia sud-occidentale,
grazie all’aiuto di un gruppo di donne bosniache.
Nadia
Nadia vive in Moldavia: a 18 anni è già sposata con
un uomo benestante ed ha un figlio. Purtroppo il marito viene ucciso e la giovanissima vedova si vede sprofondare nella miseria più desolante.8 Assieme a un’amica di infanzia, entra in contatto con Ivan, un “uomo di
mondo” che procura alle due ragazze dei documenti
falsi e le accompagna in Ungheria.
8
Cfr. il rapporto Life Stories prodotto da AHTNET, 2007.
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Lì, dopo botte e torture, vengono vendute sempre
in coppia ad alcuni albanesi: i nuovi padroni le portano
in un capannone in Albania insieme ad altre ragazze.
Prima di essere trafficate in Italia, hanno bisogno di essere ben istruite su quello che dovranno fare. Nadia
passa un mese d’inferno, non crede di uscirne viva; infine parte alla volta di Torino, questa volta senza l’amica.
Arriviamo a Torino, nella loro casa: è la prima sera e
già ci chiedono di prepararci, quasi nude, truccate da schifo.9 I primi giorni Nadia vomita sempre: un’altra delle
ragazze cerca di soccorrerla, suggerendole di scordarsi
di avere un corpo. E la giovane donna prende il consiglio alla lettera: non si cura più, non si lava più. I padroni iniziano a provare ribrezzo per quella “merce
guasta”, i clienti non si avvicinano: è giunto il momento
di rivenderla.
Viene trasferita a Milano e tutto ricomincia daccapo: clienti, botte, minacce, infezioni, perversioni e umiliazione. Il nuovo padrone albanese la sorveglia da vicino, è impossibile compiere qualsiasi mossa senza che
egli ne venga a conoscenza. Nadia però nota che c’è un
pezzo del tragitto che quotidianamente esegue per arrivare sul “posto di lavoro” in cui riuscirebbe a sottrarsi
alla vigilanza del criminale e dei suoi sodali: sono pochi
minuti, ma potrebbero bastare.
Un giorno fortunatamente vede un poliziotto, lo
avvicina e gli chiede aiuto; l’agente sa quanto tempo ci
vuole prima che Nadia giunga alla sua destinazione. La
segue una prima volta e inizia a farsi raccontare la
drammatica vicenda. La sera successiva la segue nuovamente, questa volta con altri due colleghi. I tre poliziotti le propongono di collaborare, di fare da esca, se Nadia acconsente. La donna accetta.
Una mattina, gli agenti irrompono nell’appartamento dove Nadia si reca regolarmente proprio nel
momento in cui avviene la consegna del denaro tra la
9
Cfr. ancora il rapporto Life Stories, op. cit., 2007.
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prostituta e il suo padrone. Colto dunque in flagranza
di reato, l’albanese viene arrestato.
Per Nadia però il calvario non è ancora terminato:
deve testimoniare al processo contro il criminale e convincere le altre ragazze a fare altrettanto. Tutte – eccetto una – si presentano in tribunale e l’uomo viene condannato. Nadia può finalmente ritornare a casa e riabbracciare il figlio.
Almira, Danica, Victoria e Nadia sono solo quattro
delle tante donne vittime del traffico di esseri umani.
Tutte le testimonianze presentano molti elementi in
comune: innanzitutto delle condizioni di partenza caratterizzate da povertà e indigenza, perciò dalla necessità di trovare un lavoro e di guadagnare del denaro.
Le metodologie attraverso cui le vittime entrano i
contatto con i trafficanti 10 variano dagli annunci sui
giornali o affissi nei bar da parte di agenzie che offrono
lavoro all’estero come cameriere, ballerine, assistenti agli anziani, colf o da parte di agenzie di copertura quali
quelle matrimoniali; alle offerte di lavoro e prospettive
di altissimi guadagni da parte di conoscenti comuni agli
sfruttatori e alle vittime;11 alla compravendita effettuata
direttamente dalla famiglia di origine della ragazza, talvolta ritenuta legittima e conforme al diritto consuetudinario; 12 al coinvolgimento delle ragazze da parte di
sedicenti fidanzati che, giunti nel Paese di destinazione,
le obbligano alla prostituzione; infine, al rapimento vero e proprio.13
Una volta incappate nelle maglie della criminalità
organizzata, queste donne diventano schiave; nello specifico, diventano merce. La loro dimensione corporea
viene desoggettivata, fino ad essere completamente rei10
Come evidenziato anche dalla Conferenza europea sulla tratta delle donne
a fini di sfruttamento sessuale tenutasi a Vienna, tra il 10 e l’11 giugno 1996.
11
Cfr. l’articolo di F. Gatti, Così vengono vendute le ragazze dell’Est, Corriere
della Sera, 26 aprile 2000.
12
Un esempio: il Kanun albanese.
13
Cfr. E. Kermol, Le frontiere della prostituzione, op. cit., CLEUP, 2003, pag.
52.
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ficata: non si tratta più di esseri umani dotati di dignità
che dovrebbe essere loro garantita, bensì si tratta di
carne venduta e comprata in base a delle leggi di mercato illegale regolato da un rapporto tra domanda e offerta.14 Come ogni altro tipo di merce, il corpo di queste
donne è soggetto a deterioramento, deprezzamento e
quindi scadenza.
“Scaduta”, la trafficata viene lasciata libera o, nella
peggiore delle ipotesi, uccisa. Spesso, a causa dei profondi traumi subiti, è essa stessa a suicidarsi. Rari sono
invece i casi in cui essa riesce a fuggire. Ad ogni modo,
appena si rompe il rapporto asimmetrico creatosi tra
carnefice e vittima, quest’ultima entra in crisi, una crisi
psicologica che ne rende molto difficoltoso il reinserimento all’interno del tessuto sociale.
Diviene a questo punto imprescindibile sia per gli
operatori sociali che giudiziari applicare un approccio
multidisciplinare focalizzato sulla centralità dello status
di vittima.
In particolare, le strategie di maggior successo risultano essere quelle che si concentrano sulle cause profonde e sulle vulnerabilità caratterizzanti il traffico di
persone, che si propongono di rafforzare il quadro giuridico volto a perseguire i trafficanti e che mirano a
sensibilizzare l’intera società civile, assicurando alle vittime un ruolo predominante nelle attività di countertrafficking.
Insomma, per prevenire e combattere il fenomeno
criminale, è necessario uno sforzo congiunto di tutti gli
attori sociali coinvolti: secondo uno dei manuali adottati dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni,15 rispondere al traffico di esseri umani si configura
14
Disarmanti le parole proferite da uno dei boss mafiosi bosniaci dediti al traffico di esseri umani, Milorad Milaković: “Davvero è un delitto vendere donne? Ma
scusa, non si vendono forse anche i calciatori?”, cfr. l’articolo di A. Cockburn, op.
cit.
15
La principale organizzazione intergovernativa in ambito migratorio, fondata
nel 1951.
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senz’altro come un compito estremamente arduo, ma la
comunità internazionale ha il dovere di continuare ad
affrontarlo con misure di contrasto sempre più efficaci
e interconnesse.16
La libertà è un sistema basato sul coraggio.
(Charles Péguy)
Abstract
Desirée Pangerc
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“Almira torna a casa!”, questo dev’essere stato l’urlo di
gioia della madre bosniaca che aveva appena parlato con la
figlia in Italia attraverso il telefono. Sembrerebbe un lieto fine, sembrerebbe il termine di anni di violenze fisiche e psicologiche, di soprusi. Ma chi è Almira? Almira è una delle
tante “trafficate” che le organizzazioni criminali scelgono,
utilizzano e poi magari anche scartano per le loro attività illecite: sfruttamento a fini sessuali, piccoli furti, accattonaggio, e non solo. L’articolo si propone di dare voce a queste
giovani schiave, specificando le modalità attraverso le quali
esse vengono reclutate, le terribili vessazioni cui vengono
sottoposte, gli sporchi lavori a loro affidati. Grazie alle importanti operazioni giudiziarie e alle tempestive segnalazioni
degli assistenti sociali, alcune di queste donne vengono liberate e “potrebbero” farcela; sfortunatamente, la libertà non
necessariamente tornerà loro la dignità di cui sono state private e questo potrebbe causare grossi pericoli sia per la donna stessa che per altri attori sociali. Nel mio scritto, dunque,
tratteggerò alcune figure di queste donne, svelandone i timori, raccontando le loro testimonianze, spiegando le difficoltà
di inserimento una volta uscite dalle maglie della criminalità
organizzata.
16
Cfr. IOM, Handbook on performance indicators for counter-trafficking projects, 2008,
www.iom.int/jahia/webdav/shared/shared/mainsite/published_docs/brochure
s_and_info_sheets/pi_handbook_180808.pdf.
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Parole chiave: criminalità organizzata – dignità – libertà –
schiave – sfruttamento – testimonianze
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Women in chains and denied freedom
“Almira is coming home!” This must have been the cry
of joy of Almira’s mother, after having spoken to her daughter in Italy through the phone. It would seem to be a
happy ending, the conclusion of years characterized by
physical and psychological violence and abuses. But who is
Almira? Almira is one of the many trafficked women chosen,
exploited - sometimes perhaps discarded - by criminal organizations for their illicit activities: sexual exploitation, thefts
and pilferages, begging, and not only. This article aims to give voice to these young slaves, by focusing on the procedures used to recruit them, describing the tortures they are subjected to and the dirty work they are forced to do. But,
thanks to the effective judicial operations and the social
workers’ timely reports, some of these women are set free
and they could make it; unfortunately, freedom will not necessarily give again the dignity of which they were deprived.
This could cause serious difficulties both to the woman herself and to the other social actors.
Therefore, in my piece of writing I will outline some cases, revealing these women’s fears, relying on their evidence,
explaining their difficulties of re-integration once saved
from the organized crime networks.
Keywords: organized crime – dignity – freedom – slaves –
exploitation – victim’s evidence
Desirée Pangerc, Docente di Criminalità Economica presso il Campus Universitario CIELS di Padova; Dottoressa di Ricerca in Antropologia ed Epistemologia della
Complessità presso l’Università degli Studi di Bergamo.
([email protected]).