Istituto MEME: Laboratorio musicale per adolescenti

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Istituto MEME: Laboratorio musicale per adolescenti
Istituto MEME
associato a
Université Européenne
Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
Laboratorio Musicale per adolescenti
Scuola di Specializzazione: Musicoterapia
Relatore: Dott.ssa Roberta Frison
Collaboratori: Francesca Curti ed Ingrid Baraldi
Contesto di Project Work: Ipsia “F. Corni” di Modena
Progetto “Spazi attrezzati”
Tesista Specializzando: Ilia Montani
Anno di corso: Primo
Modena: 30/05/2009
Anno Accademico: 2008 - 2009
ISTITUTO MEME S.R.L.- MODENA ASSOCIATO UIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
Ilia Montani - SST in Musicoterapia A.A. 2008/2009
Indice dei Contenuti
Premessa ............................................................................................................. pag. 3
Prima parte
Descrizioni, osservazioni e riflessioni progetto laboratorio musicale …………. pag. 4
1. L’adolescenza ………………………………………………………………... pag. 8
2. Adolescenza con sindromi e disturbi psichici e comportamentali …………... pag. 10
3. Accoglienza e condivisione musicale ………………………………………... pag. 13
4. Il nostro ISO di gruppo ………………………………………………………. pag. 16
5. Le proposte di gruppo……………………………………………….. ………. pag. 20
6. La restituzione……………………………………………….. ………………. pag. 25
Seconda parte
Descrizioni, osservazioni e riflessioni interventi individuali …………………... pag. 29
7. Organizzazione delle sessioni individuali ……………………………………. pag. 30
8. Ipotesi ed obiettivi…………………………………………………………...... pag. 32
9. Programmazione e metodo …………………………………………………... pag. 34
10. Premesse epistemologiche della tecnica …………………………………….. pag. 37
11. Strumenti e suoni……………………………………………………………. pag. 40
12. Tecniche e dialogo sonoro…………………………………………………… pag. 43
Conclusioni………………………………………………………………………. pag. 46
Bibliografia ……………………………………………………………………… pag. 48
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Premessa
L’intento che mi propongo nella stesura di questa tesi è quello di riflettere
sulla mia prima esperienza di musicoterapia in qualità di tirocinante,
focalizzando l’attenzione su quei punti che ritengo importanti per il mio percorso
formativo. La tesi sarà strutturata in due parti: nella prima cercherò di delineare il
processo musicoterapico di gruppo, nella seconda mi concentrerò nel lavoro
individuale svolto. A tutto ciò va premesso che le mie osservazioni e riflessioni
non riusciranno mai ad esaurire l’infinita ricchezza del “qui ed ora” di quegli
incontri. Ritengo opportuno esprimere la mia gratitudine fin da subito: ringrazio
le mie colleghe di tirocinio, Francesca ed Ingrid, le cui preziose risorse hanno
arricchito le mie; ringrazio i ragazzi che hanno partecipato al progetto, che mi
hanno insegnato ad allentare le tensioni con la dolcezza ed hanno saputo farmi
mettere in gioco. Infine ringrazio la pazienza che hanno saputo concedermi sia le
colleghe che i ragazzi.
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Prima parte
Descrizioni, osservazioni e riflessioni progetto laboratorio musicale
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Introduzione
Gli incontri di questo progetto di musicoterapia si sono tenuti presso il
laboratorio dell’Istituto IPSIA “F. Corni” di Modena, ogni lunedì mattina dalle
9:30 fino alle 11:30. Il ciclo di sessioni è iniziato il 9 febbraio 2009 e si è
concluso il 20 aprile 2009, per un totale di 10 incontri. Risulta riduttivo definire
univocamente la tipologia d’intervento richiesto e/o necessario, poiché sono
spesso uno confinante nell’altro in virtù della complessità dei fattori
concomitanti che possono favorire il miglioramento della vita di una persona.
Tuttavia possiamo stabilire che l’intervento promosso da questo Project Work
fosse prevalentemente formativo, perché si svolgeva in un contesto scolastico.
Infatti gli utenti di questo nostro tirocinio sono state persone adolescenti, seppure
di diversa età, che sostituivano le prime lezioni del lunedì con il “laboratorio di
musicoterapia”. Il gruppo era formato inizialmente da 12 ragazzi e ragazze, per
poi accrescersi progressivamente a 14 persone. Le patologie e i disturbi che si
distribuivano nel gruppo erano di diverso genere. Erano presenti varie tipologie
di ritardi mentali, sia lievi che gravi e spesso accompagnati da tratti autistici,
sindrome di down, sindrome di Landau-Kleffner, autismo e psicosi. Si trattava
quindi di capire come un adolescente con queste problematiche potesse vivere la
propria adolescenza, e prima ancora capire le personalità che avevamo davanti.
Analizzando la richiesta, ciò che il contesto si proponeva con questo
laboratorio era quella di stimolare i ragazzi e permettere loro di sperimentarsi con
diversi canali espressivi. Nei suoi presupposti generali, ciò che abbiamo
individuato come bisogno non era in contraddizione con la richiesta. Infatti nella
nostra società, come vedremo più avanti, per “adolescenza” si intende una fascia
d’età che concentra profondi cambiamenti fisici, psichici, emozionali ed
intellettuali; in questo senso è considerata un’età “critica” e delicata per tutta la
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popolazione. Molti disturbi, quali ad esempio il ritardo, si accentuano proprio in
questo periodo e/o si rendono ancora più evidenti in relazione allo sviluppo dei
coetanei che non presentano patologie di questo tipo. La difficoltà di espressione,
già presente in molti disturbi, può dunque aggravarsi proprio quando le esigenze
comunicative aumentano. Sperimentarsi e comunicare con canali espressivi
extra-verbali ed acquisire eventualmente nuove competenze può rappresentare
per queste persone (come per tutti, del resto) sia uno strumento in più mediante il
quale sviluppare la propria personalità e identità, che una fonte di soddisfazione
personale così da favorire un miglioramento della qualità della vita.
Per quanto riguarda l’analisi della richiesta e del bisogno è necessario
aggiungere un’ulteriore osservazione. Se da un punto di vista generale tra i due
termini non sussisteva contraddizione, nel particolare non si può affermare la
stessa cosa. Infatti l’eterogeneità delle persone a cui è stata proposta la
partecipazione a questo progetto ha portato con sé bisogni altrettanto eterogenei,
alcuni dei quali spesso si rivelavano poco coerenti e conciliabili sia tra loro che
con la richiesta. A mio avviso, la causa principale di questo limite è rintracciabile
nell’ esasperata dicotomia tra “normale” e “non normale” da un punto di vista
epistemologico del contesto. Come ogni dualismo, anche questa dicotomia
nasconde le interdipendenze che connettono queste due categorie, che hanno di
gran lunga più elementi in comune rispetto a quelli che le divide; ma soprattutto
queste categorie dicotomiche acquistano più importanza rispetto a ciò per cui si
sono sviluppate, che è l’individuo nella sua particolarità. In questo senso, molti di
questi “spazi” (dai laboratori di questo genere alle strutture intermedie
psichiatriche) portano l’implicita richiesta di essere una sorta di contenitori di
persone accomunate soltanto da una definizione socialmente riconosciuta di
disagio. Ovviamente questa osservazione non vuole sminuire l’importanza di
questi tipi di intervento, la cui esistenza è sicuramente sintomo di un problema
sentito. L’eterogeneità del nostro gruppo, d’altra parte, ha rappresentato per i
ragazzi un’opportunità di confronto con persone con disturbi diversi dai propri,
offrendo stimoli in più nell’elaborazione delle relazioni con i coetanei con o
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senza patologie. Inoltre è proprio in virtù della varietà delle problematiche del
gruppo che si sono attivate delle risorse altrimenti inesplorate.
Gli strumenti presenti nel setting sono stati: lo strumentario ORFF,
comprendente anche di congas e xilofono, una tastiera, una chitarra, un flauto
dolce, un clarinetto, uno jambè ed un kazù. A questi strumenti musicali
tradizionali si sono aggiunti quelli che Benenzon chiama strumenti “corporali” e
“creati”(1), utilizzando anche oggetti di uso quotidiano. Un altro elemento nel
setting di notevole importanza è stato l’uso della voce. Infine, nello strumentario
faceva parte anche un computer portatile con due piccole casse adibito a lettorecd.
Il tirocinio è stato portato avanti da tre persone: io, Francesca ed Ingrid.
Oltre al setting, era solito vederci ogni settimana per vagliare le nostre ipotesi (e
modificarle se necessario) ed elaborare mano a mano la programmazione del
setting. Abbiamo precisato degli obiettivi da conseguire sia rispetto al gruppi che
per ogni singola persona, così da poter coordinare l’intervento anche nel lavoro
individuale. Indirettamente le nostre riflessioni ci hanno condotto anche ad un
confronto con i nostri rispettivi feedback relativi all’esperienza del setting.
Questo è stato molto utile non solo per la mia formazione, ma anche per ritornare
di volta in volta a ad un atteggiamento neutrale rispetto a forti cariche emotive
personali (non terapeutiche) e ai processi di contro-transfert.
Dopo questa presentazione generale, sarà opportuno proporre una breve
analisi sull’adolescenza, per capire meglio come possano essere vissuti alcuni
disturbi in questa età.
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1.
Benenzon, La nuova musicoterapia, Il Minotauro, 2006, Roma, pp. 30-32.
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1. L’adolescenza
La “scoperta dell’adolescenza” inizia in Europa verso la fine del XIX
secolo soprattutto nelle classi agiate e diventa già nella prima metà del XX secolo
un fenomeno culturale ampiamente riconosciuto. L’idea dell’adolescenza è
quindi il frutto delle trasformazioni storico-culturali del tempo e, da un punto di
vista psico-pedagogico, è la risposta dell’altrettanto importante “scoperta
dell’infanzia”, avvenuta a partire dal XVII secolo per poi diffondersi in tutta la
società nel XIX secolo. Per “adolescenza” si intende quella fase intermedia che
collega e separa il mondo dell’infanzia da quello dell’adulto. In questo senso è
facile capirne le profonde trasformazioni psico-fisiche che si sviluppano in
questa età.
Erickson (1902-1994), autore che si è concentrato sulle tappe della
costruzione del senso dell’identità dell’individuo, distingue otto fasi psicosociali
del ciclo di vita.
Ciò che l’Io si chiede nell’età tra i 13 e i 18 anni,
corrispondente alla quinta fase, può essere così schematizzato: “ho una posizione
chiara e coerente o non so bene chi sono?”. Emerge come l’attenzione
dell’adolescente sia volta alla costruzione della propria identità, e come questa
sia relazionata ai ruoli che si delineano nel proprio contesto. Per Freud (18561933), che individua invece le tappe psico-sessuali dello sviluppo della persona,
denomina l’età che va dai 12 ai 18 anni come “fase genitale”, caratterizzata dal
risveglio dell’interesse sessuale che si era attenuato nella fase precedente.
L’approccio freudiano mette in risalto un altro aspetto molto importante
dell’adolescente, che è appunto la trasformazione anche fisiologica della persona
verso l’acquisizione e la scoperta di una sessualità matura, che differisce
profondamente da quella infantile, vissuta prevalentemente come gratificazione.
Piaget (1896-1980) si concentra invece sugli stadi cognitivi dello sviluppo di una
persona; se un ragazzo dai 12 ai 16 anni comincia ad interpretare la realtà a
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partire da principi e ragionamenti (periodo delle operazioni formali), dopo i 16
anni l’adolescente estende i propri ragionamenti anche a situazioni ipotetiche e
comincia ad adottare dei procedimenti metodici e sistematici. I cambiamenti
dell’adolescente riguardano quindi anche la sfera intellettuale ed i relativi
atteggiamenti verso il mondo.
Sebbene gli approcci di questi autori possano risultare anacronistici
rispetto al contesto attuale (anche se il loro contributo teorico continua tuttora ad
essere d’ausilio), ai fini di questa riflessione si rivelano molto stimolanti. Infatti
ognuno si concentra su un aspetto emblematico dell’adolescenza: la ricerca del
senso della propria identità in relazione al contesto sociale, lo sviluppo psicosessuale e lo sviluppo cognitivo. La concomitanza di questi fattori intellettuali,
fisici ed emozionali porta l’adolescente a dover risolvere molti problemi. Il
rapporto genitore-figlio si trasforma in seguito soprattutto all’ingresso della
componente sessuale e alla necessità crescente di autonomia dell’individuo. Il
ragazzo si trova a sperimentare nuove relazione d’attaccamento al di fuori del
nucleo familiare, e ad integrare queste con il proprio desiderio sessuale. Si
attivano quindi strategie volte sia alla scelta delle relazioni più intime che alla
gestione di una rete sempre più complessa di rapporti interpersonali. Anche il
contesto risulta sempre più ampio, che si estende dalla scuola al lavoro, fino agli
spazi virtuali che sempre più sono utilizzati per esprimersi (a discapito della
comunicazione analogica). Inoltre l’adolescenza, in virtù dell’ampliamento dei
propri strumenti cognitivi, riflette sul proprio sé con una maggiore esigenza di
coerenza, malgrado i cambiamenti fisiologici dei livelli ormonali e del
funzionamento del sistema nervoso. Sicuramente il vissuto di un adolescente è
molto intenso ed è per questo che la tematica dell’adolescenza merita molta
attenzione. Il ragazzo può, ad esempio, adottare strategie estreme, può essere
soggetto a forti sbalzi di umore, può ridurre la gamma di espressione della
propria personalità oppure può chiudersi rispetto agli stimoli circostanti. Si
presentano tante difficoltà quante sono le circostanze e le persone, ma
individuare le problematiche condivise dell’adolescente permette di tracciare
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delle linee guida e degli strumenti per orientarsi nella comprensione di queste
persone.
A questo breve scenario descritto, va ora aggiunta un’analisi relativa alle
sindromi e disturbi psichici e comportamentali vissuti in adolescenza.
2. Adolescenza con sindromi e disturbi psichici e comportamentali
Come già accennato, l’intervento di cui ha bisogno un adolescente con
patologie psichiche e comportamentali non si può stabilire a priori. È necessario
tenere in considerazione il tipo di malattia che presenta la persona (che spesso si
tratta della coesistenza a diversi livelli di più disturbi), la sua storia, la sua rete
relazionale, la sua personalità ed infine il contesto in cui si inserisce l’intervento
stesso. Mi proporrò dunque di rielaborare alcune considerazioni che ho tenuto
presente nella mia esperienza e che ho utilizzato come concetti orientativi
nell’approccio con i ragazzi.
Come per i propri coetanei, anche l’adolescente con disturbi psichici e
comportamentali è alle prese con le proprie trasformazioni fisiche, emozionali ed
intellettive (che sono elementi interdipendenti). Inoltre gli stessi mutamenti dei
coetanei, che rappresentano sicuramente parte del loro contesto di riferimento,
apportano nuovi stimoli ed esigenze con cui doversi confrontare e a cui dover
rispondere (e viceversa per i coetanei senza disturbi). Ritengo opportuno
precisare che non necessariamente un adolescente con questo tipo di problemi
vive la propria età in modo travagliato, o perlomeno non più travagliato di quella
che può vivere un ragazzo “sano”. Spesso infatti alcuni disturbi sono considerati
un problema non tanto per chi ne presenta i sintomi quanto piuttosto per
l’ambiente circostante. Sicuramente però è possibile individuare almeno un paio
di problematiche che un ragazzo con disturbi psichici può avvertire come
difficoltose.
In primo luogo, come accennato, la tematica dei ruoli che si ricoprono nel
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proprio contesto è di notevole importanza per la formazione dell’identità
dell’adolescente. Infatti, mediante le posizioni e gli incarichi che un ragazzo
assume nella famiglia, nella scuola, nel lavoro, nel gruppo di pari e nelle
associazioni a cui un ragazzo può aderire, l’adolescente comincia ad esplorare e
delineare se stesso. Ciò che contraddistingue invece una persona con disturbi
psichici e comportamentali è la mancanza di assunzione di un ruolo ben definito
all’interno della società. In tal senso è interessante notare come il termine
“idiota”, categoria che comprende trasversalmente sia soggetti “sani” che quelli
“malati”, derivi dal greco “idiòtẽs”, che significa “uomo privato”, cioè colui che
non ricopre cariche pubbliche e sociali ma che sviluppa solo una vita privata;
altrettanto interessante è notare come questo termine abbia assunto una valenza
dispregiativa nella nostra società. Ovviamente non avere un ruolo non significa
non interagire con il proprio sistema di riferimento, anzi, significa immettervi
quella quantità di caos che è alla base di ogni meccanismo di rigenerazione del
sistema stesso. In questi termini la costruzione dell’identità dell’adolescente con
disturbi psichici e comportamentali procede per meccanismi più complessi
rispetto a quella dei coetanei senza disturbi. In questa età la discriminante tra chi
avrà accesso al sistema in modo “ordinato” o “disordinato” diventa più
accentuata. Questo aspetto, a mio avviso, al di là dei problemi di frustrazione che
si possono più o meno presentare, porta con sé una diversa percezione psicofisica di se stesso, da cui un adolescente con disturbi sviluppa la propria identità.
Di fatto, capire come queste persone si percepiscono e come si vorrebbero
percepire rimane una delle questioni più difficili.
In secondo luogo, ciò che un adolescente con disturbi può avvertire come
problematico sono la comprensione e gestione delle proprie trasformazioni
fisiche ed emozionali che esperisce. Come tutti gli altri, si ritroverà alle prese con
i propri cambiamenti ormonali ed avvertirà maggiormente l’impulso sessuale; per
alcuni potrà trattarsi di una sessualità infantile, altri però possono tendere ad una
sessualità matura. Soprattutto in quest’ultimo caso è possibile (o meglio
probabile) che si vivranno anche degli innamoramenti, i quali possono essere più
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o meno compresi, più o meno corrisposti, più o meno consentiti. Ciò che può
essere vissuto come un problema da parte di questi ragazzi probabilmente non è
tanto l’eventuale incapacità di realizzare la propria sessualità, quanto piuttosto la
difficoltà nell’assumere quei comportamenti stereotipati che permettono
l’ingresso al “mondo della sessualità matura”(2). Mi permetto di aggiungere che il
vero problema non è tanto nella sessualità di queste persone, poiché la sessualità,
in quanto necessità fisiologica, non può di certo essere di per sé un problema. Un
grosso limite è rintracciabile piuttosto nell’eccessiva rigidità degli schemi
sessuali consentiti e immaginati dal sistema “normale”, e in questo senso si tratta
di una tematica che riguarda il contesto piuttosto che le singole persone.
Emerge da sé come l’intervento musicoterapico permetta di sondare e lavorare
sulla percezione psico-fisica del ragazzo. Inoltre offre un canale di espressione
capace di comunicare e condividere l’enorme carico di tensioni emotive che
stanno vivendo e promuove nuovi stimoli con cui poter affrontare i compiti che
sono in qualche modo richiesti a persone con questi disturbi. Nel setting erano
presenti diverse patologie e sindromi, delle quali abbiamo avuto informazioni a
livello informale, mediante un colloquio che ci siamo proposte di fare con gli
educatori dei ragazzi. In generale, come abbiamo già accennato, i disturbi con cui
ci siamo confrontate sono stati: un caso di sindrome di Landau-Kleffner; due
sindromi di Down di cui una con tratti autistici; ritardi mentali di gravità lieve,
_________________________________________________________
2.
Mi permetto di aggiungere che il vero problema non è tanto nella sessualità di queste persone,
poiché la sessualità, in quanto necessità fisiologica, non può di certo essere di per sé un
problema. Un grosso limite è rintracciabile piuttosto nell’eccessiva rigidità degli schemi sessuali
consentiti e immaginati dal sistema “normale”. Molto si dovrebbe dire sull’emancipazione
sessuale di tutte quelle persone che non rientrano nella categoria dei “normali”. È sbalorditivo il
fatto che ci si mobiliti per la promozione della salute omettendo di fatto un aspetto di
fondamentale importanza come quello della sessualità. Una delle cause necessarie (ma non
sufficiente) è rintracciabile a mio avviso in una concezione stereotipata della sessualità; si tratta
però di un problema molto complesso e di ampia portata, non è certo questa la sede in cui deve
essere approfondito.
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media e grave, alcuni dei quali con compromissione significativa del
comportamento e/o con tratti autistici; disturbi generalizzati dello sviluppo;
autismo; un caso di psicosi. Oltre alla diversità di problematiche, il gruppo si
componeva anche di diverse età, il che è molto sentito in adolescenza.
Inizialmente sembravamo ognuno un mondo a parte ed era necessario capire qual
era il punto d’incontro delle nostre orbitazioni.
3. Accoglienza e condivisione musicale
Il primo incontro è stato memorabile perché ha spiazzato qualsiasi
aspettativa. Avevamo disposto delle sedie in cerchio con tutti gli strumenti al
centro, impegnandoci di creare un ambiente quanto più accogliente possibile con
ciò che avevamo a disposizione. L’unico elemento nel setting che risultava fuori
dalla nostra struttura circolare era il computer portatile con le casse attaccato alla
presa elettrica e messo sopra il tavolo più lontano dalla porta. Aspettiamo i
ragazzi con dei sorrisi a 180° e armate di buoni propositi. Arrivano, li salutiamo,
entrano: destrutturazione immediata del setting. Chi si mette per terra, chi si getta
a perlustrare gli strumenti, chi decide di stanziarsi nella zona-computer e, colpo
di scena, chi si mette vicino alla porta con il braccio sugli occhi e decide bene di
rimanerci per tutto il setting. Nel giro di pochi minuti si erano creati due
“focolari”, quello centrale rispetto alla stanza e quello vicino la porta (che nel
nostro gergo di lavoro sarebbe diventato “il gruppo della porta”). Quello centrale
si muoveva in due centri, verso il computer e verso le sedie. Ancora non
sapevamo che questa configurazione si sarebbe mantenuta per tutto il nostro
laboratorio, che avrebbe avuto trasformazioni significative e che avremmo visto
il passaggio di quasi tutti in tutte le aree del setting. Negli incontri successivi
abbiamo disposto il setting in modo da rendere comunicanti tra loro questi
focolari delineatisi, e la struttura circolare iniziale è diventata semicircolare.
La presenza di tutti gli strumenti è stato per noi un modo per sondare le
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persone che avevamo davanti, le sonorità che producevano e che cercavano, i
loro ritmi, la loro armonia o disarmonia, il loro ascolto di se stessi e degli altri.
Ho avuto modo di appurare, come vedremo anche più avanti, come il ritmo e
l’armonia prodotta da un gruppo possano essere intesi direttamente proporzionale
alla quantità di ordine presente nel sistema. Tuttavia, la scelta di mettere a
disposizione tutti gli strumenti non posso considerarla felice, perchè ha scatenato
un’energia caotica che sembrava si alimentasse mano a mano che le persone
suonavano. Abbiamo dovuto lavorare sul contenimento di quella carica prima di
poter procedere con il nostro intervento e questo passaggio è stato ripetuto spesso
e in diverse sedute, come se questa energia, una volta innescata, aveva bisogno di
espandersi come una fiamma sul legno secco. Tuttavia abbiamo avuto modo di
capire la necessità di lavorare sull’ascolto e sul silenzio, e successivamente
abbiamo gestito diversamente gli strumenti. Ho avuto modo di vedere come
l’accoglienza e il primo incontro possa dare la prima impronta a tutto il percorso
musicoterapico che si intraprende. Nel corso del tempo, è stato introdotto una
sorta di rituale per cui ad ogni inizio-seduta si cantava il nome di ognuno sopra
un giro d’accordi in maggiore fatto sia con la chitarra che con la tastiera. Questa
idea è venuta a Francesca nel corso di un incontro, quando doveva richiamare
l’attenzione, ed abbiamo osservato l’effetto benefico che aveva sui ragazzi il
sentire cantato il proprio nome. Ognuno diventava a turno il punto d’attenzione
nel gruppo, e l’armonia in maggiore rendeva molto solare l’atmosfera. Abbiamo
quindi deciso di iniziare ogni seduta in questo modo.
L’uso dei riproduttori di suoni in musicoterapia è spesso sconsigliato
perché sia il terapeuta che il paziente rimangono passivi rispetto al processo
sonoro. Benezon nota come l’uso della musica registrata sia frequente soprattutto
quando la relazione con il paziente genera ansia o angoscia, come ad esempio nei
casi in stato di coma(3).
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3.
Benenzon, La nuova musicoterapia, il Minotauro, 2006, Roma, p.35.
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Non posso certo escludere l’ipotesi per cui, soprattutto da parte mia, fosse
presente uno stato d’ansia superiore a quanto la situazione richiedeva; tuttavia
ritengo che l’uso del computer in quel contesto sia stata un’ottima scelta.
Abbiamo chiesto ad ognuno di portare i propri cd, così da poter conoscere e
condividere ciò che ognuno ama ascoltare (anche se in realtà all’inizio hanno
proposto le canzoni e noi ne abbiamo fatto un cd). Questo momento è diventato
una fase ben strutturata nei nostri incontri. Se all’inizio ognuno proponeva la
propria musica per una gratificazione personale, nel corso delle nostre sedute si è
potuto condividere insieme i gusti musicali di ognuno e spesso è successo di
ballare e cantare sulle musiche proposte. Anche in queste situazioni si sono
verificati dei bei colpi di scena. Ad esempio un ragazzo che non parlava quasi
mai e definito come affitto da gravi disturbi di comunicazione e di espressione,
portava sempre gli auricolari in questi laboratori; ritengo che con questo suo
gesto volesse manifestare la sua passione per la musica piuttosto che una
dichiarazione di isolamento. Non era molto propenso a togliersi le cuffie, quando
finalmente ha accettato di mettere la sua pen-drive piena di musica nel computer.
Deve essere stato molto bello per lui sentire che la musica che prima risuonava
solo sulle sue orecchie si diffondeva ora su tutta la stanza. Tutte noi ci
chiedevamo che cosa potesse ascoltare, e dalle casse sono uscite canzoni quali
“nessuno mi può giudicare” e canzoni di Andrea Bocelli. Tutti hanno apprezzato
quella musica e si avvertiva un clima di festa. Ho potuto osservare come un
gesto, seppur piccolo, riesca a riversare agli altri l’intensità emotiva che ha
delineato quel gesto stesso, senza bisogno di alcuna spiegazione.
Già dal primo incontro alcune persone ci avevano dimostrato di essere
delle persone adulte e mature, e come tali volevano essere trattate, a differenza di
altre che invece chiedevano un accudimento più materno. Un ragazzo in
particolare aveva manifestato distintamente questa caratteristica, e avevamo
deciso di proporgli già dal secondo incontro l’affidamento della gestione del
computer. In questo modo, seppure si mostrava una persona molto riservata,
avrebbe avuto una sua modalità con cui poter condividere quel momento. Più
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tardi avremmo saputo che la sua passione principale è l’elettronica e che sono
stati individuati in lui problemi relazionali e difficoltà con ciò che è nuovo.
Questo ragazzo ha accettato e apprezzato la consegna, e nel giro di poco tempo
ha condiviso anche lui con gli altri la propria musica, arricchendo l’ISO di
gruppo perché proponeva dei generi diversi rispetto a quelli presenti.
Inizialmente non rispondeva ai nostri inviti musicali e, sebbene la proposta gli
venisse sempre fatta, non eravamo mai insistenti e gli lasciavamo massima
autonomia. Per quanto riguarda l’uso comportamentale degli strumenti, si può
dire che il computer rappresentasse per questo ragazzo un oggetto difensivo(4),
poiché gli permetteva di occultare le proprie pulsioni interne. La nostra risposta a
questo comportamento è stata quella di assecondare questo meccanismo e forse
ad accentuarlo, perché insistevamo sul fatto che lui doveva gestire il computer.
Come una specie di rimedio omeopatico (o mediante l’infallibile tecnica dello
sfiancamento), forse stanco di stare su siffatto computer, un bel giorno ha deciso
di accettare l’invito e di esordire con la chitarra per la prima volta in tutta la sua
vita.
Inizialmente questo momento di ascolto era un modo per conoscerci
reciprocamente; progressivamente è diventato prima un momento di scambio
musicale e poi un momento di condivisione effettiva della musica. Non tutti
hanno portato la propria musica, ma sicuramente tutti hanno condiviso quella che
era presente in quel momento. Questa parte del laboratorio riservato alla
condivisione musicale è stato anche un modo per rafforzare il nostro intento di
promuovere l’ascolto reciproco, fornendo l’ossatura dell’ISO di gruppo che man
mano si delineava e di cui sarà opportuno spendere alcune parole nel paragrafo
successivo.
4. Il nostro ISO di gruppo
La nostra identità sonora come gruppo si è formata incontro dopo
_________________________________________________________________
4.
Ibidem, pp. 35-38.
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incontro, ed è difficile poterla definire in modo univoco. È possibile, in grandi
linee, individuare tre livelli in cui si è sviluppato il nostro ISO, anche se in realtà
si tratta di processi interdipendenti e difficilmente scindibili l’uno dall’altro. In
primo luogo si sono delineati dei gusti musicali ben precisi, con strutture
ritmiche, armoniche e melodiche di riferimento. Nella formazione di questo
aspetto ha avuto un ruolo fondamentale l’influenza dell’ISO culturale. In secondo
luogo, si sono esplorate e create delle sonorità che sono state spesso associate a
immagini e a movimenti, e quindi a sensazioni sinestetiche e cinestetiche. Infine,
come terzo punto, la presenza stessa di ognuno di noi apportava quella peculiarità
di movimenti e di sonorità che con il tempo ha formato e contraddistinto la nostra
identità sonora collettiva. In questi ultimi due processi sono rintracciabili
influenze sia dell’ISO universale che di quello gestaltico.
Per quanto riguarda i gusti musicali di riferimento del nostro ISO, i generi
principali sono stati il pop, il rock leggero e l’hip-hop hardcore. Pertanto si è
lavorato su delle composizioni musicali di struttura strofica prevalentemente
sviluppate in 4/4 e in 2/4. L’armonia di queste canzoni si basa sul sistema tonale
e la melodia, come del resto tutta la musica occidentale, è fondata sul sistema
temperato. Alcuni brani maggiormente condivisi sono stati: Più bella cosa non
c’è di Eros Ramazzotti, Senza Parole e Alba chiara di Vasco Rossi, Bella e
Ragazzo fortunato di Jovanotti, Di sole e d’azzurro di Giorgia, Invece no di
Laura Pausini, La luna bussò di Mia Martini, Nessuno mi può giudicare di
Caterina Caselli, alcune canzoni della colonna sonora di The fast and furious;
sono seguite Walk this way dei RUN DMC in collaborazione con gli Areosmith,
Con te partirò di Andrea Bocelli, ed altre canzoni di Gigi D’Alessio e Hannah
Montana. Si è lavorato anche con musica di genere diverso e misto, ascoltando
alcune canzoni dei Bollywood Brass Band e di Lhasa. Questi pezzi hanno
perturbato lievemente il livello d’ascolto ed hanno permesso di introdurre nuovi
elementi sonori; tuttavia il genere proposto da questi musicisti non può essere
inteso come parte costitutiva dell’ISO di gruppo, poiché è stato presentato e
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accolto in modo marginale rispetto agli altri generi suddetti.
Per quanto riguarda invece le sonorità che si sono sviluppate nel corso del
laboratorio, sono emersi degli elementi meno schematizzabili rispetto ai
parametri musicali usuali. Il movimento sonoro più frequente nel nostro ISO può
essere individuato nel battito, cioè nel gesto di percuotere direttamente con i
piedi e con le mani o mediante l’uso di un oggetto (come ad esempio una
bacchetta) un elemento che poteva essere uno strumento a percussione, un tasto
del pianoforte, uno strumento non convenzionale o il proprio corpo. Spesso la
successione di questi battiti ha prodotto andamenti molto irregolari per quanto
riguarda sia il ritmo che l’intensità del suono. Questa irregolarità ha
rappresentato un elemento molto rilevante per la nostra identità sonora e la si può
intendere come una sorta di costante a cui il gruppo tendeva spontaneamente. Se
penso alla soddisfazione con cui i ragazzi si immergevano in questo caos e alla
sicurezza con cui suonavano, tuttora mi domando se in realtà sia stata io a non
saper ascoltare ciò che per alcuni sarebbe potuta essere la nuova avanguardia
musicale (se così fosse, non vi preoccupate, hanno avuto modo di esprimersi).
Tuttavia si presentavano dei momenti estremamente regolari, scanditi da un
ferreo 4/4 con andamenti che sembravano designare delle vere e proprie melodie.
Inoltre, prendendo come tempo di riferimento i 2/4 del battito cardiaco umano o
un 4/4, diventava quasi spontanea la coordinazione di tutte le persone che
stavano percuotendo uno strumento o battevano le mani sul proprio corpo. Ho
avuto modo di osservare come nel semplice gesto del battere si canalizzino molte
tensioni e cariche emotive: per alcuni è stato fonte di piacere e addirittura l’unico
modo per interagire, mentre altri hanno avuto un approccio più problematico a
questo movimento. Una ragazza aveva deciso di partecipare al laboratorio di
musicoterapia malgrado avesse dichiarato il suo terrore per i tamburi. È riuscita a
suonare un sonaglio associando il suono dei piattini a quello dell’acqua, e
muovendo lo strumento come se fosse un setaccio.
Dal ritmo binario del 2/4 e dal suono dell’acqua sono rintracciabili le influenze
dell’ISO universale. Infatti questi elementi sono ritenuti universali in quanto si
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originano già dal rapporto feto-madre. Per Benenzon il ritmo binario è la cadenza
principale che penetra nel feto perché è collegato al battito cardiaco della madre,
che il bambino percepisce e da cui dipendono la sua ossigenazione, il suo
nutrimento e la sua termoregolazione(5). Pertanto questo ritmo è strettamente
collegato alla soddisfazione o meno del piccolo ed è un ritmo la cui variazione
segnala la vita o la morte del feto stesso. Infatti, in ambito musicoterapico, questo
ritmo provoca degli stati di regressione riconducibili all’epoca fetale. Anche
l’acqua per Benenzon è strettamente connessa alle sensazioni cenestesiche che il
feto prova quando è immerso nel liquido amniotico del ventre della madre e per
questo è considerato tra gli elementi più ricchi di stimoli ai fini della terapia.
Un aspetto di fondamentale importanza è stato l’uso della voce. Anch’essa è
riconducibile sia all’ISO universale che a quello gestaltico ed è forse per questo
che per comunicare con alcuni ragazzi è stato necessario modulare la propria
voce come una nenia materna. Una ragazza in particolare si mostrava
particolarmente sensibile sia al battito che alla voce. Questa ragazza, seppure
abbia delle movenze molto morbide, tendeva sempre ad assumere dei
comportamenti aggressivi verso gli oggetti, verso gli altri e verso se stessa.
L’unico modo con cui riuscivamo a contenerla (approssimativamente) era il
parlarle con voce dolce e con il canto. Per comunicare con lei era di
fondamentale importanza il battere qualcosa (lei aveva il suo bicchiere blu con
un cucchiaino giallo che lo suonava come un sonaglio) e riuscivamo ad
agganciarla quasi sempre con il suono delle battito delle mani. Ho avuto modo di
osservare come il canto sia in grado di riequilibrare lo stato psico-fisico non solo
della singola persona, ma anche del gruppo stesso.
Tra le sonorità che hanno costituito il nostro ISO non vanno tralasciati gli accordi
con la chitarra e il suono della tastiera. Questi due strumenti hanno
accompagnato tutto il laboratorio ed hanno permesso di introdurre la sensazione
dell’armonia, ovvero la percezione di più suoni sovrapposti in modo consonante.
_________________________________________________________________
5.
Ibidem, si veda il primo ed il secondo capitolo.
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Un ragazzo in particolare, che suonava già il pianoforte e che è arrivato più tardi
rispetto all’inizio del laboratorio, ha arricchito l’ISO di gruppo suonando molti
pezzi con questo strumento e apportando nuovi stimoli. Accanto a queste sonorità
possono essere ricordate altre che hanno invece perturbato l’ISO di gruppo, quali
ad esempio il suono del flauto dolce, che imponeva il silenzio per poter essere
ascoltato, il suono del clarinetto, con cui sono state proposte volutamente delle
melodie più orientaleggianti e il suono del Kazù, che destava sempre un certo
stupore ed entusiasmo.
Infine, il nostro ISO di gruppo era contraddistinto prevalentemente della
presenza stessa di ogni individuo. Ognuno, con i propri tratti tipici ed i propri
andamenti, apportavano una coloritura che rendeva il nostro gruppo unico in
quanto tale. Alcune delle caratteristiche che hanno contraddistinto la nostra
identità sono state, ad esempio, i balli e i salti periodici del “gruppo della porta”,
il fragore degli oggetti lanciati da A., i mugolii vocali che sostituivano le parole
di D., il La minore e il Mi minore di L. alla chitarra, la dinamica crescente ed
esplosiva che accompagnava tutte le azioni e le parole di M., il lieve rumore della
sedie che C. faceva scivolare verso il tavolo anziché verso il focolare del gruppo,
gli schiamazzi delle ragazze, il 4/4 alle congas di D., e quant’altro. Infine la voce
di ognuno è stato ciò che ha reso ancora più unica l’identità del nostro gruppo.
5. LE PROPOSTE DI GRUPPO
Nel corso del laboratorio sono state presentate molte proposte che
riguardavano il gruppo. Prima di addentrarmi nel merito dell’argomento è
necessario ribadire che in questo caso con la parola “gruppo” non intendo uno
stato di cose effettivo per cui è dato un insieme più o meno organizzato di
persone, quanto piuttosto la ricerca stessa di questo stato di cose. Sottolineo
questa sfumatura semantica perché se da una parte la presenza di ognuno è stata
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parte integrante del sistema-setting, dall’altra la partecipazione attiva alle
consegne di laboratorio non era sempre costante da parte di tutto l’insieme delle
persone. In sintesi le nostre “proposte di gruppo” si muovevano a diversi livelli
di partecipazione, tutti di fondamentale importanza ma alcuni più difficilmente
traducibili in linguaggio verbale. Può essere indicativa la constatazione per cui le
proposte di gruppo più riuscite sono state quelle in cui si sono fusi i due focolari,
che è accaduto non più di un paio di volte.
Inizialmente queste proposte erano volte a far mettere in gioco e a dare a
tutti la possibilità di sperimentarsi; successivamente ci siamo concentrate sulla
necessità di ascoltare se stessi e gli altri, così da poter facilitare la modulazione
dell’intensità della propria esecuzione e permettere il dialogo sonoro tra il
gruppo. Nei primi incontri si è lavorato su due versanti, da una parte sul canto
delle canzoni che i ragazzi stessi proponevano e dall’altra sull’uso degli
strumenti. Progressivamente questi momenti si sono unificati ed il lavoro
specificatamente canoro è stato approfondito dalla sezione delle ragazze. Per
quanto riguarda il lavoro con gli strumenti, sono stati provati molti tentativi
prima di riuscire a creare le condizioni necessarie per uno scambio musicale
effettivo. Inizialmente abbiamo proposto dei giochi come la presentazione di
ognuno con uno strumento musicale a cui sarebbe seguito il passaggio di mano in
mano degli strumenti. In questo gioco i momenti in cui ci doveva essere il
momento del passaggio degli strumenti e quello dell’esecuzione era scandito
dall’accensione e spegnimento della musica riprodotta dal computer, mansione
affidata ad L. L’esercizio che a mio avviso è stato cruciale per l’avvio di un
effettivo scambio musicale è stato quello di far suonare a turno uno strumento in
risposta al suono dello jambè, che batteva dei tempi in 2/4 o in 4/4. Sono state
eseguite delle brevi botta - e - risposta a livello percussivo in cui ognuno ha
interagito con il proprio strumento e con il proprio interlocutore musicale.
L’aspetto importante di questo esercizio è che tutti ascoltavano quanto i due
esecutori stavano facendo ed ognuno aspettava il proprio turno prima di suonare.
Con questa esercitazione è stato anche possibile sondare con maggiore precisione
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le sonorità di ognuno e delinearne le caratteristiche ed i relativi bisogni. Per
quanto riguarda me personalmente, queste esecuzioni hanno indirizzato un
discorso sonoro con ciascun ragazzo che è stato portato avanti per tutto il
tirocinio, seppur in modo forse discontinuo. Nell’ultimo incontro, come vedremo
più avanti, abbiamo provato a proporre un breve gioco d’improvvisazione
musicale tra coppie di ragazzi, a cui è stata affidata quindi sia la proposta che la
risposta della frase musicale, in riferimento ad una pulsazione regolare eseguita
sullo jambè. Tra gli strumenti a disposizione, oltre a quelli convenzionali, c’erano
anche quelli da noi costruiti e che avevamo consegnato ed esplorato nella
mattinata stessa. L’intento era quello di promuovere l’ascolto reciproco e di
verificare il livello finora raggiunto. Per quanto mi riguarda, non posso dire che
le mie aspettative siano state realizzate; tuttavia con questo gioco i ragazzi
mettevano molta attenzione a ciò che stavano facendo e cercavano di
armonizzarsi alla pulsazione di riferimento. Posso dire insomma che sebbene non
si sia verificato un vero e proprio ascolto reciproco, è stato esperito l’ascolto di se
stessi.
Accanto a questi esercizi strumentali, ci siamo poi concentrate sulla
sperimentazione dei suoni del proprio corpo. L’intento era quello di fornire nuovi
stimoli per la comprensione e la consapevolezza della propria percezione psicofisica. L’elemento nuovo di questa fase di laboratorio è stato il silenzio. Infatti
l’uso della musica registrata era riservato solo alla prima parte dell’incontro per
l’ascolto delle canzoni che di volta in volta i ragazzi portavano, e gli strumenti
venivano accantonati e ripresi successivamente. Io personalmente ho anche
proposto degli esercizi di rilassamento prima di cominciare questa sezione, ma
non hanno avuto un buon esito (come molte altre proposte). Abbiamo lavorato
dai piedi fino alla testa, sui suoni e sui ritmi riproducibili battendo o sfregando gli
arti. Ci siamo concentrati sul nostro rispettivo battito cardiaco, che è stato sentito
solo verso la fine dei nostri incontri. Abbiamo analizzato i suoni che la nostra
testa emette più o meno involontariamente, come gli starnuti o gli sbadigli. Da
questi esercizi sono nate delle combinazioni che si sono riprodotte più volte
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anche negli incontri seguenti, accompagnando alcune canzoni nei momenti della
condivisione musicale, come ad esempio battere due volte le mani sulle cosce ed
una sui palmi. Anche in queste esplorazioni si procedeva più o meno a turni e
tutti erano invitati a proporre un suono.
La proposta successiva di questo percorso è stata quella di introdurre gli
strumenti con cui simulare i suoni corporei finora esplorati. Abbiamo intrapreso
questo passaggio riproponendo l’ascolto del proprio cuore accompagnati da un
giro d’accordi in minore eseguito alla tastiera. Mentre la modalità degli accordi
presentati per l’accoglienza era rigorosamente in maggiore, abbiamo scelto qui la
modalità in minore per promuovere un approccio più introspettivo e per
permettere di arrivare con più facilità nella sfera più intima ed emotiva. Sebbene
le sensazioni prodotte dalla musica siano molto soggettive, ci siamo avvalse dei
parametri psico-musicali dell’ISO culturale europeo. Dopo questo ascolto
ognuno ha scelto uno strumento con cui simulare il proprio corpo ed è stata fatta
una prima turnazione in cui ciascuno ha eseguito questa consegna. A questo
punto è stato chiesto di associare il proprio suonare a qualcosa di fantasia che
fosse stato consono ad una storia, con l’intento di sonorizzare una narrazione.
Chi aveva preso l’albero della pioggia ha deciso di suonare appunto la pioggia;
chi aveva preso i bastoni ha rappresentato musicalmente una camminata; chi
percuoteva i sonagli di vimini ha designato un serpente a sonaglio; con la chitarra
è stato espresso il volare; con il sonaglio a piattini è stato rappresentato un lago;
con una bottiglia d’acqua è stato rappresentato un ruscello; con il kazù è stato
rappresentato un gufo e così via.
In grandi linee la trama della storia era già stata preparata, e la tematica
principale sarebbe dovuta essere l’amore, la sua bellezza e le sue difficoltà e la
trasformazione. La storia che è emersa è questa:
“C’era una volta Pierfy, un ragazzo che non poteva parlare e che un giorno si
innamorò. Non sapeva come fare per poter dire del suo amore e in un giorno di
pioggia (suono), pensieroso, si mise a camminare (suono). Riusciva a sentire le
cicale (suono) e incontrò un ruscello (suono) ed un lago (suono); camminando
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ancora sentì anche un gufo (suono) e vide un serpente a sonaglio (suono).
Malgrado tutto era ancora molto triste, allora chiuse gli occhi e immaginò di
volare via (suono). Gli sembrò di sentire il vento in faccia (suono). Quando tornò
ad occhi aperti (era ancora un giorno di pioggia ecc…), sentì un esplosione
morbida al cuore, e si chiese: “Come si può esprimere l’amore quando non si può
parlare?”.
A questo punto ognuno ha turno ha emesso un suono che potesse
esprimere l’amore senza parlare. Una ragazza in particolare ha emesso grandi
sospiri. La storia continua:
“Pierfy sentì un’emanazione dal cuore, che saliva… saliva su fino alla
laringe, poi verso la bocca e cominciò a cantare. In seguito Pierfy sarebbe
divenuto un cantante, ma questa è un’altra storia”.
Nell’ultimo incontro, in cui avevamo deciso di svolgere solo il lavoro di
gruppo escludendo quello individuale, abbiamo approfittato del fatto che
avevamo portato degli strumenti creati per agganciarci al concetto di
trasformazione, per mostrare come ogni cosa si possa trasformare in qualcosa di
diverso e come anche il rispettivo suono possa mutare in un altro. Abbiamo
tentato di simulare con gli strumenti alcune atmosfere e alcuni ambienti, quali ad
esempio un prato ed il mare. L’idea era quella di cercare delle sonorizzazioni che
potessero essere funzionali alla storia che questa volta sarebbe dovuta essere
improvvisata da tutti, senza prepararne una traccia. Non è stata una scelta felice,
perché è risultato impossibile in quel momento inventare e suonare una storia. A
ciò va aggiunto che la prima ora di questo incontro è stata elettrica, come spesso
è accaduto, ed il setting si è ristabilizzato solo nella seconda ora. Comunque, la
narrazione che ne è emersa è la seguente:
“Un giorno due ragazzi, Francesca e Cicciobello, litigano con i genitori e
scappano di casa, perché hanno deciso di sposarsi. Di fatto riescono a sposarsi e
ad avere dei figli”. A questo punto si delineano due filoni narrativi, il primo vuole
che i nostri sposi abbiano un solo figlio, per altri invece che ne abbiano ben
quattro. “Il loro figlio/Uno dei quattro figli si ammala di varicella”. Qui la
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contrapposizione tra le ormai ben strutturate scuole di pensiero si fa aspra: per
alcuni questo figlio guarisce, per altri invece no, lasciando quindi intendere una
morte certa.
Non bisogna dimenticare che la storia non è stata narrata da tutti, ma solo
da chi aveva più facilità nell’uso del linguaggio. Tuttavia, poiché tra i ragazzi si
sono istaurate delle relazioni e delle modalità di comunicazione specifiche e
poiché il tempo riservato a questa proposta sia stato piuttosto breve, penso che
possa essere stato fonte stimoli anche per chi stesse ascoltando o comunque
interagendo sul piano non verbale. Questa storia è indicativa perché mette a
fuoco diversi nodi cruciali dell’adolescenza, come ad esempio il rapporto
conflittuale con i genitori, la ricerca di autonomia rispetto alla propria famiglia, la
ricerca dell’amore e di una figura di attaccamento nuova rispetto a quelle già
esistenti. Poiché la storia è stata inventata da adolescenti con disturbi psichici e
comportamentali, forse l’elemento della varicella mostra la presenza nel loro
immaginario dell’idea di malattia che accompagna più o meno consapevolmente
la loro vita. In tal senso l’adolescenza può rappresentare un momento delicato per
queste persone proprio perché per alcuni si delinea con maggiore consapevolezza
la propria identità rispetto ai propri coetanei, e si cerca una risposta del perché la
propria vita differisce in alcuni aspetti da quella degli altri. Il lettore però non si
deve rattristare, perché la storia è stata raccontata con un atteggiamento
provocatorio atto a stupire chi la stava ascoltando, senza nessun sentimento di
rassegnazione o di malinconia. Posso dire che nell’adolescenza, con o senza
disturbi, sia implicito un approccio di sfida verso il mondo che a mio avviso è di
fondamentale importanza.
6. LA RESTITUZIONE
Come restituzione finale di tutti i nostri incontri abbiamo deciso di portare
degli strumenti creati da noi, che avremmo utilizzato nel setting per le nostre
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proposte, per poi lasciarli ai ragazzi come un ricordo con cui dirci addio (anche
se in realtà alcuni nostri strumenti ci hanno salutato definitivamente già nella fase
esplorativa). Ecco lo strumentario che avevo portato io:
Uno strumento a corda, composto di elastici tesi attorno ad un sottovaso in
plastica, il quale era inserito in un vaso più grande che fungeva da cassa di
risonanza; un tubo di plastica con inserito nella sua estremità un imbuto con cui
poter indirizzare la voce su un orecchio o sull’altro (possibilmente i propri); 2
Kazù costruiti con il tubo di cartone degli scottex e della carta igenica con una
piccola fessura, con attaccato all’estremità uno strato di carta d’alluminio fissata
con un elastico; una maracas realizzata con un vasetto di una crema per il viso
con dentro del riso; una sorta di maracas che io ho chiamato “lo strumento di
stagione”, composto da una scatola di cotton fioc con al suo interno i semi alati
di acero; una sorta di nacchere costituite da due cucchiai di legno fissate con un
elastico e con attaccato con un altro elastico un campanellino; un tamburo fatto
con un vaso di plastica, la cui pelle era una tovaglia trasparente tirata con uno
spago, il quale era agganciato ad un anello (un portachiavi) disposto sotto il vaso
(questo strumento è durato circa una ventina di minuti nel setting); infine avevo
fatto dei battenti con i bastoncini per gli spiedini, alla cui estremità avevo messo
del cotone ricoperto con dello spago.
Gli strumenti di Ingrid sono stati: uno strumento a percussione simile,
composto da un tubo ricoperto di un velo verde alla cui estremità erano attaccati
due sacchettini color avana con dentro delle conchiglie che si sarebbero colpiti
reciprocamente nella roteazione dello strumento, il tutto decorato con dei
nastrini; una maracas di forma allungata anche questa ricoperta di un velo verde;
un tamburo fatto con una scatola di metallo e la cui pelle era di carta da pacco,
con tanto di battente la cui estremità era composta da un nastro arrotolato; una
maracas fatta da una bottiglia da bagno con all’interno dei pezzi di vetro colorati
levigati dal mare.
Gli strumenti di Francesca sono stati: un beauty-key per il suono della
lampo; una collana per il suono dello sbattere delle perle; una lametta per le
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unghie con una palettina da manicure per simulare il raschiatoio; due smalti per
simulare i bastoni; un astuccio morbido di color arancione con dentro delle
monetine per riprodurre un suono simile ad un sonaglio o ad una maracas; un
foulard giallo per il rumore del vento; una bottiglia di tonico per il rumore
dell’acqua; un tamburo fatto con un barattolo di latta; un souvenir sonoro fatto da
un cd con degli elastici.
Tutti i ragazzi sono rimasti entusiasti di questi oggetti ed ognuno ha
esplorato e scelto uno o più strumenti. Solo un ragazzo, N., che quel giorno è
stato molto irrequieto, non ha preso nessuno strumento e si è limitato a battere
due colpi di tamburo in risposta al mio invito (episodio non certo scontato);
tuttavia durante il setting ha ballato e questo gesto è sempre stato fonte di gioia
per il gruppo. Sono state inventate anche nuove modalità di suonare quegli
strumenti, ad esempio il ragazzo M. suonava il tamburo tradizionale usando
come battente la maracas fatta con il vaso della crema da viso, e l’esecuzione è
stata molto interessante (poi lo stesso ragazzo ha deciso di ampliare il suo
strumentario con una foto-quadro della scuola che si scarrozzava in giro insieme
al resto degli strumenti e pareva essere divenuta la sua fonte d’ispirazione). È
interessante notare come D., il ragazzo con sindrome di Landau-kleffner, abbia
scelto il sacchettino delle monetine che muoveva e suonava tra le mani. Le mani
hanno un ruolo fondamentale nella percezione e sembra che abbiano più ricettori
sensoriali delle orecchie stesse; alcune pratiche psicofonetiche, ad esempio, si
servono delle mani per l’ascolto delle vibrazioni della propria voce. Pertanto è
facile capire come l’uso delle mani sia d’aiuto per chi presenta delle difficoltà
uditive.
Come restituzione, abbiamo fatto anche un riepilogo delle canzoni e dei
percorsi che sono stati intrapresi durante tutti gli incontri. Francesca ha
rielaborato una canzone dedicata specificatamente ai ragazzi e l’ha cantata
accompagnandosi con la chitarra. Quel giorno stesso il ragazzo appassionato di
elettronica ha portato il suo computer e ci ha mostrato alcune foto; non è un
esagerazione dire che il valore di questo gesto è pari ad un pizzico di polvere
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d’oro che può regalare un orefice. Ci siamo salutati e, all’uscita, ci siamo un po’
trattenute sul corridoio salutando anche gli educatori e scambiandoci gli ultimi
saluti e abbracci con i ragazzi.
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Seconda parte
Descrizioni, osservazioni e riflessioni interventi individuali
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7. ORGANIZZAZIONE DELLE SESSIONI INDIVIDUALI
I nostri incontri quasi da subito si sono divisi in due momenti principali:
nella prima ora svolgevamo attività di gruppo, nella seconda suddividevamo i
ragazzi in tre sottogruppi e svolgevamo dei lavori più specifici che ognuna di noi
tirocinante portava avanti in autonomia (dopo aver condiviso l’ipotesi su
ognuno). Inizialmente l’idea era quella di far ruotare di incontro in incontro
questi sottogruppi, cosicché avremmo potuto lavorare con tutti. Con il passare del
tempo abbiamo sentito la necessità di una maggiore continuità nei nostri
rispettivi percorsi, e si sono delineate delle formazioni più rigide, in cui però è
stato sempre possibile un margine di scambio in base alla contingenza.
La distinzione tra i momenti individuali e quelli di gruppo non è mai stata
molto netta, perché a causa della configurazione tripartitica/bipartitica del setting,
spesso anche nella prima ora erano necessari degli interventi specifici volti ad
occuparsi di quelle persone che non rispondevano troppo alle proposte di gruppo.
Io personalmente per il primo mese circa, mi sono occupata specificatamente di
una ragazza down che tendeva ad assumere comportamenti aggressivi. Questa
ragazza ed un altro ragazzo partecipavano al laboratorio solo nella prima ora e ci
salutavano quindi alle 10:30 di ogni lunedì. Oltre a lei, richiedevano
un’attenzione più mirata il “gruppo della porta” e alcune persone che
“svolazzavano” in giro per tutto il setting. Quest’ultime sono state tra gli
elementi del setting che maggiormente hanno apportato caos nel sistema e che,
paradossalmente, hanno permesso di riorganizzare in continuazione il setting
favorendo lo scambio tra persone e tra focolari. Tendenzialmente la linea guida
che abbiamo perseguito nella gestione dello spazio del setting era che ognuna di
noi, durante il lavoro di gruppo, faceva riferimento sia al gruppo stesso che ad
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una sezione in particolare, tenendo conto di tutte le variazioni del caso (che sono
state tante). Per quanto riguarda noi come tirocinanti, abbiamo fatto un lavoro di
coordinazione che sembravamo una squadra di pallavolo: quando una persona
schiaccia (e quindi propone la consegna del giorno) le altre si mettono in
posizione di difesa per coprire la parte scoperta ed evitare la risposta del muro.
Sappiamo che in musicoterapia lo spazio e il tempo assumono dei
connotati specifici e risultano essere dei processi dinamici con cui abbiamo
dovuto confrontarci. In un setting lo spazio è definito da Benenzon (che cita a sua
volta Fiorini) come quel campo apparentemente vuoto che comincia a formarsi a
partire dall’interazione tra due o più persone; questo è formato a sua volta dallo
spazio vincolare, che si forma tra due persone solo a partire dagli sforzi
comunicativi di entrambi(6). In quest’ultimo confluiscono tutte le energie
comunicative sia verbali che analogiche ed è in questo contesto che si sviluppa il
cosiddetto processo terziario, processo in cui le energie si scaricano e si
ricaricano simultaneamente, in cui il transfert ed il contro-transfert viaggiano da
un estremo all’altro e in cui le esperienze passate e presenti e i desideri futuri
coesistono insieme (transtemporalità)(7). Nel setting (come del resto per la fisica
stessa) non è possibile intendere lo spazio ed il tempo come categorie a priori, ma
si tratta di processi spazio-temporali dinamici non scindibili dal sistema nella sua
interezza. Nella nostra coordinazione del setting abbiamo dovuto tener presente
le dilatazioni e le contrazioni del sistema di cui facevamo parte e che
designavano delle andature più o meno regolari. Nei suoni e nella musica sono
rintracciabili dei meccanismi di rigenerazione del sistema necessari sia per il
lavoro di gruppo che per quello individuale.
Ora mi accingerò a trattare nello specifico il mio percorso portato avanti
sia con i sottogruppi che individualmente.
_________________________________________________________________
6.
Ibidem, p. 53.
7.
Ibidem, p. 53.
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8. IPOTESI ED OBIETTIVI
Con ogni persona ho portato avanti degli obiettivi specifici e, quando ho
lavorato con i sottogruppi, ho cercato di procedere cercando di armonizzare le
reciproche e peculiari esecuzioni. Con alcuni è stato possibile portare avanti degli
obiettivi in modo continuo, con altri si è trattato di brevi interventi durante il
lavoro di gruppo. Le persone con cui ho lavorato con maggior continuità sono
stati i ragazzi (alcuni dei quali non sono potuti sempre venire e che spesso
preferivano la compagnia di alcune ragazze del laboratorio) e quindi soprattutto
con D. e L., la ragazza S., la ragazza A., in misura minore la ragazza C.
Le ipotesi condivise relative ai bisogni dei singoli ragazzi con cui ho
lavorato più nello specifico, in breve, sono state le seguenti:
 per E. ci siamo proposte di trovare una modalità musicale che
trasformasse le sue permormances in un’interazione effettiva con gli altri.
 Per DD., che riscontrava grosse difficoltà a comunicare malgrado la
grossa carica emotiva che manifestava nei suoi comportamenti, era
necessario trovare una modalità espressiva che non solo facilitasse
l’espressione di se stesso, ma che scaricasse anche le tensioni accumulate.
 Per D. si trattava di “entrare” nel suo mondo e quindi, inizialmente, di
stabilire un contatto.
 Per N., poiché avvenivano talvolta dei contatti, ma con l’intensità e la
durata di un lampo, si trattava di mantenere quei brevi incontri e
svilupparli.
 L. era necessario farlo mettere in gioco e perturbare un po’ il suo ordine,
per introdurre dei nuovi canali espressivi che permettessero di esprimere
le proprie cariche emotive.
 Per M., che dava l’impressione di non avere ben chiari i confini tra se
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stesso e il mondo (a mio avviso un illuminato) sembrava necessario farlo
concentrare su se stesso.
Per quanto riguarda le ragazze le ipotesi sono state le seguenti:
 Per S. sembrava necessario riuscire a trovare delle modalità che
permettessero di incanalare in modo equilibrato le proprie emozioni, così
da facilitare anche la concentrazione e le relazioni con gli altri.
 Per C. si trattava di stabilire un contatto e di fornire degli stimoli sonori
(dei quali era particolarmente appassionata) con cui mantenere alto il
livello di attenzione verso il mondo esterno.
 Per A. le ipotesi sono state molteplici. Tra i tanti bisogni ipotizzabili,
sicuramente il più urgente era il nostro, e cioè quello di trovare il modo di
contenerla per poter salvaguardare l’incolumità del gruppo. Accanto a
questo, che è stato prioritario, la formulazione ultima della necessità che
abbiamo individuato può essere la seguente: trovare delle interazioni con
l’ambiente che la gratificassero e che fossero fonte di piacere, così da
rendere meno conflittuale il rapporto con gli altri e con se stessa.
In generale, l’obiettivo di fondo di tutto il percorso era rivolto alla ricerca di un
dialogo sonoro e ritmico sia con me che con gli altri ragazzi. Gli obiettivi iniziali
che mi sono proposta erano centrati prevalentemente su esercitazioni ritmiche,
che permettessero di trovare un tempo comune in cui ognuno avrebbe avuto la
possibilità di interagire con gli altri da un punto di vista percussivo (o sonoro).
Con le persone con cui era necessario stabilire un contatto, inizialmente ho
cercato degli stimoli sonori che potessero destare interesse (sia strumentali, che
vocali che ritmico-gestuali), con l’intento di riuscire a trovare un qualsiasi
dialogo sonoro. In alcuni casi, soprattutto con S. e con M., si è lavorato molto
sulla modulazione consapevole dell’intensità del suono, sia percussivo che
vocale. All’aspetto prettamente ritmico, progressivamente è stato affiancata
anche l’armonia, mediante l’uso di accordi, e alcuni aspetti più melodici, cioè
legati alla successione di note. I motivi per cui sono stati introdotti questi nuovi
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elementi è stato per accogliere i gusti e gli interessi che mano a mano si
delineavano nei ragazzi e per ampliare le possibilità di interazione musicale. Si
tratta ora di vedere più da vicino come sono stati portati avanti questi obiettivi.
9. PROGRAMMAZIONE E METODO
Come già accennato, il lavoro rivolto alle singole persone è stato portato
avanti quanto più possibile sia nelle attività rivolte al gruppo che nelle sessioni
riservate ai sottogruppi, i quali sono stati formati in base alle affinità
dell’intervento e delle persone stesse. Prima di entrare nel merito di tutto il
percorso, sarò opportuno delineare in grandi linee come si è delineata la
programmazione di questi momenti. Abbiamo intrapreso il percorso individuale a
partire dal secondo incontro (16 febbraio 2009) e lo abbiamo portato avanti fino
alla penultima seduta (6 aprile 2009). Soprattutto nei primi incontri i sottogruppi
erano organizzati in maniera piuttosto aperta, quindi i ragazzi erano più liberi di
spostarsi da un sottogruppo all’altro. L’idea era quella di far scegliere ai ragazzi
come avvicinarsi alle attività proposte e da parte nostra c’era il desiderio di poter
lavorare con tutti. Con alcuni ragazzi che rimanevano in disparte abbiamo scelto
di farli avvicinare aspettando i propri tempi, per cui si trattava di un lavoro che
doveva tener conto degli avvicinamenti e allontanamenti delle persone a cui era
volto l’intervento. Per alcuni abbiamo ritenuto utile che sperimentassero a modo
loro le relazioni con i propri coetanei, lasciandoli liberi di gestirsi nel setting
come volevano. A ciò va aggiunto il fatto che si sono verificate sia delle assenze
(sembrerebbe per motivi di salute) che nuove presenze che riorganizzavano
continuamente la nostra programmazione del giorno. Tuttavia, man mano che il
laboratorio procedeva, questa modalità si è rivelata inadeguata e dispersiva e
abbiamo delineato, nei limiti del possibile, una struttura più rigida.
 Il 16 febbraio la mia sessione si è suddivisa in due sottogruppi, nella prima
mezz’ora ho potuto lavorare con L., E. e DD. (detti i “ragazzi”), mentre la
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seconda parte è stata riservata a D. e N (appartenenti al “gruppo della
porta”). Con i primi mi sono concentrata sull’espressione ritmica,
utilizzando le congas ed il jambè. Con i secondi ho utilizzato sempre le
percussioni, ma prevalentemente l’attività era rivolta a cercare stimoli che
potessero destare interesse.
 Il 23 febbraio e il 2 marzo, quindi, ho continuato a lavorare con i ragazzi e
con il “gruppo della porta”, portando avanti il discorso dell’espressione
ritmica. Il 2 marzo si è aggiunto un nuovo ragazzo, M., e anche con lui mi
sono servita dell’ausilio delle percussioni, seppur concentrandomi
inizialmente sulla modulazione dell’intensità del battito.
 Il 9 marzo sono stata sia con il gruppo dei ragazzi che solamente con D. In
questa giornata è stata introdotta l’armonia mediante la chitarra e il lavoro
è stato incentrato sulla coordinazione di tutte le esecuzioni. Con D. invece
si è lavorato soprattutto sulla ricerca vera e propria di un dialogo sonoro
mediante lo xilofono.
 Il 16 marzo ho lavorato dapprima con L., S., e M., poi con C., D., e N., il
quale per la prima volta si è messo seduto nel “focolare” centrale alla
stanza, accolto da Ingrid (con la quale è rimasto appoggiato e abbracciato)
e che nella seconda ora si muoveva tra un semigruppo all’altro. Con i
primi ho aggiunto l’elemento vocale accompagnato da un gioco con gli
elastici, con i secondi abbiamo continuato a lavorare con lo xilofono e con
una bottiglia d’acqua.
 Il 23 marzo ho continuato il percorso già delineato con S. e L. e, a
distanza, con N.
 Il 30 marzo ho lavorato di fatto solo con D., perché S. ha deciso di tornare
dalle ragazze e L. non aveva voglia di suonare.
 Il 6 aprile il sottogruppo è stato composto da S. e L., continuando il
percorso intrapreso e aggiungendo l’ascolto del flauto dolce.
Durante la prima ora della prima metà circa del laboratorio, e quindi durante il
lavoro di gruppo, ho avuto modo di lavorare nello specifico soprattutto con A.,
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presente soltanto nella prima ora, con la quale sono stati provati vari tentativi di
interazione. Inizialmente ci siamo accorte della sua sensibilità al canto e alla
voce, ed è stata Francesca a calmarla cantandole una canzone (della colonna
sonora di Aladino). Da qui è seguita tutta una ricerca sull’aspetto sonoro del
linguaggio, modulando la voce in modo materno. Poiché era necessario un
approccio molto fisico con lei, volto sia a contenerla che a tranquillizzarla, anche
la gestualità assumeva molta importanza. Il percorso è stato prevalentemente
incentrato sul corpo stesso e sulla nostra comunicazione corporale. Ad esempio,
si era instaurata tra me e lei una postura specifica con cui forse ci prendevamo
entrambe una pausa dalla nostra reciproca presenza: poiché lei si metteva sempre
per terra con il suo tappetino (disposto al posto di una sedia nella curva del
cerchio vicino alla porta e da cui lei andava poi sia al centro del cerchio che fuori
dalla porta), io mi mettevo seduta per terra alle sue spalle (così da evitare gli
sputi e gestire le tirate di capelli) e lei si appoggiava con la schiena al mio torace.
Questa pratica accadeva nei momenti in cui lei diventava particolarmente
irrequieta ed era volta a favorire le attività di gruppo, di cui lei stessa faceva
parte. Da qui era possibile fornire degli stimoli sonori e ritmici o battendo le
mani o accarezzandole le spalle e la testa a ritmo di musica. Una delle tecniche
che ho tentato consisteva nel creare tutta una serie estemporanea di giochi ritmici
mediante le nostre interazioni fisiche, cioè ripetendo e rispondendo ai suoi
movimenti accentuando delle cadenze che potessero indicare un ritmo, una sorta
di danza. A mio avviso nelle sue movenze era rintracciabile un andamento
morbido e scandito e l’ho vista molte volte mimare con le braccia la musica che
ascoltava. Ho cercato di lavorare molto su quello che credo sia stato il suo
oggetto di incorporazione, ovvero un bicchiere di plastica con un cucchiaino che
percuoteva e/o lanciava e che rappresentava per lei un elemento quasi
imprescindibile per il suo benessere. Tuttavia, considerando il fatto che con
questo bicchiere ha cominciato a rispondere agli stimoli sonori, probabilmente
questo stesso oggetto si è trasformato in un oggetto intermediario, capace quindi
di canalizzare le energie comunicative. Ho provato anche con uno strumento
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percussivo creato con il giornale, così da lavorare sul ritmo senza il rischio di
danneggiare qualcuno, ma non è stato funzionale. A mio avviso tra me e lei si era
instaurata una relazione troppo carica, probabilmente a causa di errate ipotesi di
analisi del bisogno e di una scarsa comprensione dei processi di transfert e
contro-transfert. È stato necessario per me allentare il rapporto. “Lasciandola”
(nei limiti del possibile) ho avuto modo di osservare la sua ricerca di stimoli e di
interazioni con l’ambiente; un giorno si è seduta alla tastiera con Ingrid e,
sebbene tra l’esplorazione di un tasto ed un altro volesse anche sperimentare il
lancio della tastiera, non se ne voleva più andare. Nell’ultima seduta abbiamo
finalmente suonato insieme il tamburo a quattro mani, ma il caso di A. rimane
ancora pieno di problematiche non risolte.
10. PREMESSE EPISTEMOLOGICHE DELLA TECNICA
La centralità dell’uso delle percussioni e/o quello di suonare in modo
percussivo in queste sessioni è stata suggerita dall’idea per cui questa modalità
permette un contatto immediato tra il proprio corpo e la produzione sonora.
Prima di tutto il suono del battito è strettamente collegato alla pulsazione del
cuore, e pertanto è una sonorità il cui andamento influenza l’equilibrio psicofisico dell’individuo. Infatti la tipologia di ritmo può influenzare lo stato d’animo
delle persone con i movimenti ed i gesti connessi; mentre il tempo del ritmo può
sia accelerare che diminuire il metabolismo corporeo. La frequenza ritmica è uno
degli stimoli a cui il corpo risponde più istintivamente: basti pensare a quando
capita di trovarci a picchiettare dei ritmi o ad ondeggiarci durante l’ascolto di una
composizione musicale senza neanche accorgersene. Si potrebbe addirittura
intendere il movimento stesso del corpo e la sua coordinazione tra le parti come
se fosse scandito da una pulsazione (o più pulsazioni) di fondo, da cui si
delineano andamenti e cadenze gestuali, facilmente rintracciabili in tutte le nostre
azioni. È facile osservare, ad esempio, il tempo sostenuto che coordina e
mantiene una semplice camminata.
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Il gesto ed il suono del battere permette di esprimere, canalizzare e
scaricare le proprie dinamiche e pulsioni interne, di trasmetterle agli altri in un
codice immediatamente riconoscibile e, infine, di riorganizzarle e modificarle a
partire dal processo stesso di esecuzione. La sensibilità e l’empatia che le persone
riscontrano nei ritmi sonori e gestuali rendono l’uso delle percussioni una valida
modalità con cui raggiungere il tanto ambito dialogo musicale in un contesto
musicoterapico. Inoltre, se è vero che ogni gesto corporeo è scandito da un
andamento che può essere letto in chiave ritmico-musicale, allora si apre un
orizzonte di azione con cui poter interagire con un'altra persona già a partire dai
ritmi designati dalle movenze proprie e dell’altro. Per quanto riguarda il gruppo,
sarebbe facilmente rintracciabile una frequenza ritmica che funga da terreno
comune su cui interagire, così da facilitare gli scambi ad un livello psico-fisico
tra gli individui stessi.
A mio avviso, in un’ottica più generale, ogni entità si delinea in relazione
all’altra e tutto è regolato attraverso tutto in un incessante movimento; l’identità
stessa di ogni cosa, e quindi la stessa qualità della permanenza su cui si fonda
l’idea di materia, è rintracciabile in connessioni dinamiche trasversali rispetto
alle usuali (ovvero pre-relativistiche) categorie del tempo e dello spazio. Se si
considera lo spazio-tempo e la sostanza come fattori interdipendenti e dinamici,
anziché come strutture a priori, ne emerge come la natura delle cose possa essere
rintracciata nel movimento stesso di queste relazioni di cui è tessuto l’universo.
Si può dunque immaginare l’universo come una tela dinamica i cui “filamenti” si
connettono a livello quadridimensionale e l’autogenerazione dell’universo stesso
è data dal continuo movimento di queste tensioni di cui è tessuto. Nell’idea di
movimento è implicito un andamento con cui questo può dispiegarsi e, in questi
termini, il movimento può essere paragonato ad una sorta di danza immanente al
reale che segue delle cadenze ritmiche che possono essere indagate. Se così
fosse, allora la musica può rappresentare una vera e propria chiave di lettura
epistemologica, e può essere intesa sia come l’espressione delle dinamiche e
delle relazioni in continuo movimento che intrecciano l’universo, che uno
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strumento con cui interagire in qualche modo con la danza stessa del divenire (da
qui il connotato anche terapeutico della musica). Ovviamente questo approccio
non deve essere ritenuto un punto d’arrivo, quanto piuttosto un’ipotesi di
partenza ed una chiave di lettura preliminare con cui iniziare degli studi e delle
ricerche. Il ritmo binario, ad esempio, è una cadenza ritmica che si ripropone a
vari livelli nell’accadere e, da un punto di vista prettamente umano è alla base
della vita, poiché è quello del battito cardiaco e della respirazione. Questa
cadenza è di grande impatto non solo nell’apertura al dialogo sonoro, ma nella
coordinazione del setting stesso. Se si intende quest’ultimo come un sistema di
relazioni in movimento (in questi termini l’identità stessa della persona in quanto
tale risulta essere un complesso dinamico di queste relazioni trasversali), si può
ipotizzare che una coordinazione ritmica agevoli i “flussi ed i riflussi” di quelle
tensioni in movimento di cui è composto il “sistema setting”. In quest’ottica
risulterebbe chiaro perché l’organizzazione del setting sembra essere
proporzionale alla coordinazione ritmica e musicale del gruppo.
Un altro aspetto di fondamentale importanza nell’atto di suonare uno
strumento a percussione è il contatto con le mani. Queste rappresentano nell’atto
di percuotere il momento di contatto tra la carica che genera il colpo
dell’esecutore e il momento in cui questa si scarica nello strumento. Le mani
possono dunque essere intese come il ponte che accentua la relazione tra il
mondo “interiore” e quello “esteriore” all’individuo. Poiché le mani
rappresentano le parti del corpo a cui è affidato la sperimentazione e la
manipolazione dell’ambiente esterno da parte dell’individuo, l’idea per cui esse
siano il punto di maggior contatto tra il confine (probabilmente relativo) tra l’Io
ed il non Io può essere applicata in generale, non solo per quanto riguarda l’uso
delle percussioni. Infine, da un punto di vista prettamente sensoriale, il tatto
partecipa a quel complesso olistico di sensazione con cui viene percepita il
movimento e come tale è molto utile nelle tecniche che utilizzano procedimenti
sinestetici.
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11. STRUMENTI E SUONI
Gli strumenti che ho utilizzato maggiormente, come abbiamo già visto,
sono stati: jambè, congas, tamburo, xilofono e chitarra. Gli strumenti che invece
ho usato come fonte di nuovi stimoli sonori sono stati: il kazù, il flauto dolce e il
clarinetto. A questi vanno aggiunti degli strumenti creati che ho usato durante i
vari tentativi volti a stabilire dei contatti laddove la comunicazione risultava più
difficile: due bottiglie con acqua in cui su una era aggiunto anche del riso, dei
lacci da mettere ai piedi o ai polsi con inseriti dei campanellini, un giornale con
attaccati dei campanellini che sarebbe dovuto essere percosso da un battente
anch’esso fatto da carta di giornale arrotolata (quest’ultimo è stato uno strumento
particolarmente infelice). Infine, durante l’uso della voce, ho utilizzato degli
elastici che avrebbero dovuto rappresentare tatticamente e visivamente la propria
voce.
Da un punto di vista analitico-proiettivo, gli strumenti ed il loro rispettivo
uso (che può essere non convenzionale) possono rappresentare gli elementi
femminei o mascolini e quindi si possono classificare in fetali, materni, paterni
ed ermafroditi. Gli strumenti materni sono tutti quelli che si servono di una cassa
di risonanza (in relazione alla cavità uterina) e che prevalentemente vengono
usati direttamente con le mani (es. tamburi); gli strumenti paterni sono quelli che
rievocano un elemento fallico sia nel modo di suonare, come ad esempio l’uso
delle bacchette, che nella costituzione stessa degli strumenti, come gli strumenti a
fiato; gli strumenti ermafroditi riescono invece a contemplare sia aspetti maschili
che femminili, come il gong o il pianoforte(8). Questa classificazione, nei suoi
presupposti, è stata molto marginale per me sia nelle lavoro svolto che nelle
riflessioni postume. Tuttavia mi sono servita molto nella mia ricerca di sonorità
da proporre dell’idea degli strumenti fetali. Questi rievocano le sensazioni
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8. Ibidem, pp. 45-46.
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percepibili dal feto immerso nel liquido amniotico e sono tutti quegli strumenti
che producono sonorità “liquide” e fruscianti, come ad esempio gli strumenti
centrati sul suono dell’acqua e le maracas. Gli strumenti da me costruiti nei primi
incontri, volti a cercare un contatto con alcune persone, sono stati ispirati da
questa categoria di strumenti. L’ipotesi era quella di proporre degli strumenti che
si adeguassero nel loro uso alle movenze caratteristiche delle persone in
questione (come ad esempio il laccio con i campanellini che avrei voluto legare
alle caviglie di N. perché era solito togliersi le scarpe all’improvviso e mettersi a
ballare) così da riprodurre sonoramente le loro cadenze. Inoltre la ricerca di un
suono “fetale” era volto a stimolare una sensazione di accoglienza e di benessere.
In realtà, come vedremo tra un po’, l’esito è stato diverso ed inaspettato. N. non
ne ha voluto sapere di prendere questi laccetti che in compenso venivano
accuratamente smontati da D., il quale si adoperava con strabiliante e inaspettata
dedizione a questa operazione. Il suono dell’acqua ha avuto un interessante
risonanza a livello di gruppo piuttosto che sul lavoro individuale. Lo strumento di
giornale (fatto riutilizzando quei campanellini) era evitato rigorosamente da tutti,
ed ho capito che anche in questi contesti l’occhio vuole la sua parte.
Gli strumenti a fiato sono stati usati soprattutto per fornire nuovi impulsi
sonori e sono stati di grande impatto. Spesso ho avuto l’impressione che quel
suono in diretto contatto con il respiro umano riuscisse a dare respiro anche alle
dinamiche del sistema-setting. Nel lavoro portato avanti in questo progetto mi
sono concentrata soprattutto sull’aspetto ritmico, che lo ritengo un elemento
imprescindibile a qualsiasi movimento e aspetto musicale, ma non certo perché
lo ritengo più efficace o più importante rispetto alle altre tecniche.
L’immediatezza delle percussioni mi ha permesso di interagire anche con le
persone che partecipavano al laboratorio in modo meno attivo. Con altre persone
è stato necessario e spontaneo introdurre elementi nuovi, e precisamente
armonici e melodici. Posso sostenere che le sonorità degli strumenti a fiato, i
fraseggi melodici ampi e lunghi ed il canto riescano a favorire in qualche modo
l’equilibrio sia della persona che del gruppo. Probabilmente, sia che questi
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vengano ascoltati che eseguiti, questi si connettono direttamente alla
respirazione, favorendo l’ossigenazione del corpo. In molti casi queste modalità
hanno rappresentato una vera e propria rigenerazione in quelle situazioni in cui le
tensioni in gioco si stavano facendo “sature”. Inoltre l’uso di alcuni suoni risulta
essere degenerativo, a differenza dei suoni che fanno riferimento ad un campo
armonico e che si propagano in modo continuo nel tempo. Ad esempio, se si
ascolta per molto tempo il suono dei campanellini, esso promuove da una parte la
regressione a stati psico-fisici molto “arcaici”, dall’altra però abbassa
notevolmente l’attenzione e la concentrazione. L’ascolto di un battito irregolare
può promuovere uno stato molto confusionale anche se in alcuni casi può
risultare il punto di partenza di un dialogo sonoro. Invece l’ascolto della
consonanza e della ripetizione di un periodo musicale promuove e rigenera
l’attenzione e la concentrazione. Interessante è notare come anche un suono ricco
di armonici risulta essere rigenerativo per quanto riguarda il livello psico-fisico,
come se la stratificazione dei suoni agissero in modo altrettanto stratificato nella
persona.
Il suono del Kazù ha rappresentato un suono curioso e che risvegliava
molto interesse; inoltre è stato uno strumento che stava per rappresentare per
alcune persone il punto di passaggio dall’espressione strumentale all’espressione
vocale. In particolare risultava molto efficace e divertente per E. (lo imitavo con
il kazù o ci urlavo dentro), ma per tutta una serie di contingenze non è stato
possibile sviluppare questo passaggio. L’uso della voce risulta essere di
fondamentale importanza sia a livello di gruppo che individualmente. Intanto è
tra le modalità di trasmissioni di emozioni più potenti e cantare risulta essere
generalmente piacevole. La voce è identificabile con la presenza stessa della
persona ed è la manifestazione immediata e profonda dell’individuo. Nel gruppo
l’uso della voce permette di far fluire in modo equilibrato le tensioni
comunicative presenti nella situazione e stimola quella gestualità ritmica che
abbiamo già trattato. Per quanto riguarda l’individuo, l’uso della voce mette in
relazione tutte le parti del corpo. Il suono emesso dall’individuo è collegato al
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respiro, alle risonanze nelle varie aree e a come il corpo gestisce queste aree, agli
organi interni, alle tensioni psico-fisiche, alla propria percezione e molto altro.
Un percorso di estremo interesse è portato avanti dalla psicofonia, che si
concentra sulle connessioni profonde tra la voce e gli aspetti psicofisici
dell’individuo e a cui mi sono ispirata per alcuni esercizi.
Con alcune persone mi sono avvalsa dell’uso della voce con l’intento di
far canalizzare l’attenzione su se stessi e sulla modulazione delle proprie cariche
emotive. In questi esercizi, oltre alla voce, ho utilizzato degli elastici con cui
rappresentare il suono emesso, tirandoli quando il suono era acuto e lasciandoli
quando il suono diventava grave. L’uso delle mani, in questo caso, è stato di
fondamentale importanza perché rappresentavano l’esteriorizzazione di una
dinamica interna e non visibile. Io personalmente, con i sottogruppo, ho usato la
voce per introdurre dei vocalizzi melodici durante le nostre esecuzioni. Le
sonorità degli ultimi incontri sono state arricchite dagli accordi di la minore e di
mi maggiore con la chitarra, che venivano eseguiti con andatura pacata, regolare
e costante e da piccole guerre combattute a suon di xilofono.
12. TECNICHE E DIALOGO SONORO
In ogni sessione con i semigruppi, ho cercato di portare avanti sia un
lavoro specifico con ognuno che un suonare insieme volto ad uno scambio
effettivo. Nel primo incontro L. non voleva suonare e partecipava attivamente
solo durante l’uso del computer. Tuttavia non mostrava insofferenza e conteneva
benissimo l’eventuale noia percepita e, malgrado non percuotesse nessuno
strumento, era attento a quanto accadeva. Nel primo incontro E. aveva subito
preso l’unica chitarra e, per agganciarlo, ho ritenuto necessario riservargli l’uso
delle congas, strumento che spicca per dimensioni rispetto agli altri ed è definito
talvolta come uno degli “strumento leader”. Tra DD. e me ci siamo passati più
spesso i nostri rispettivi strumenti con molta fluidità. Sia E. che DD. avevano un
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ferreo senso della pulsazione e l’intensità del suono era modulata e costante.
Durante i giochi di gruppi della prima ora, ad E. è stato affidato il compito di
battere il tempo sulle corde della chitarra. DD. sembrava particolarmente
soddisfatto di usare le percussioni. Abbiamo sia suonato a turni di botta-erisposta che tutti insieme contemporaneamente. Ci siamo inoltre esercitati sul
forte e sul piano. Con i ragazzi abbiamo continuato a lavorare su quest’onda
anche nei brevi lavori successivi.
Con N. e D. ho iniziato tutta una serie di avvicinamenti. D. era solito
riportare a posto tutti gli oggetti che gli mettevamo davanti e sembrava invitarci a
non prenderli più, prendendoci la mano ed allontanandoci. Con lui ho iniziato
imitando il suono che era solito emettere (una “u” discendente), con cui
sostituiva le parole. Lui ha risposto alla mia imitazione. La volta successiva
abbiamo finalmente suonato lo xilofono (senza che lo portasse via) ed ha risposto
ad un suono che gli avevo proposto. Intanto D. e N. intrattenevano delle
comunicazioni tutte loro e sembrerebbe che ogni tanto si siano pure presi la
mano. Ho visto spesso N. guardare fisso D., il quale spesso si metteva a saltare
contento quando vedeva N. eseguiva dei movimenti accentuati, come ad esempio
mettersi a ballare. Con N. si trattava di una relazione basata principalmente sugli
sguardi e sulla reciproca esplorazione. Il 2 marzo gli ho portato i laccetti ma
abbiamo già visto come è andato il tentativo. Ho provato ad utilizzare il tamburo,
proponendo alcuni battiti e lui ha risposto a qualche stimolo ed ha riprodotto dei
colpi, ma tutto in modo molto breve. Durante la prima ora, quando sarebbe
dovuto essere il suo turno nell’attività che stavamo svolgendo, è stato chiamato
dalle ragazze e lui è stato contento ed ha riso (durante tutti gli incontri sarà
chiamato più volte ed LL, una ragazza, riuscirà a prendergli la mano e ad
accompagnarlo alla sedia insieme agli altri).
Il 9 marzo con i ragazzi è stato introdotta la chitarra, perché E. non voleva
suonare le percussioni ma tornare alla chitarra. La volta precedente tra i ragazzi
c’era stata una destabilizzazione: L. è entrato che era molto arrabbiato ed è
restato tutto il tempo con le cuffie al termosifone (vicino alla porta), e DD. gli ha
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fatto compagnia. Ad aggravare la faccenda per L. c’era il fatto che non avevamo
portato il computer perché volevamo provare a stare senza musica registrata ed
inoltre si era aggiunto un nuovo elemento, M., tra le persone più esplosive che io
abbia mai conosciuto. La volta successiva invece la situazione si è capovolta ed
abbiamo lavorato con un nuovo elemento. DD quel giorno durante la
condivisione musicale ha finalmente messo anche la sua musica, momento in cui
tra lui e SS si scambiavano lunghi abbracci. Nella seconda ora ha infatti preferito
lavorare con le ragazze. Inizialmente io ero alle percussioni ed E. alla chitarra,
ma muoveva solo la mano destra, senza l’uso della tastiera. Io non ho retto. A
quel punto ci siamo organizzati diversamente: io premevo gli accordi e lui
muoveva il plettro. Finalmente anche L. ha deciso di toccare uno strumento e di
suonare la chitarra, ed io aspettavo questo momento da diverso tempo.
Con D. è continuato il dialogo sonoro e gestuale con lo xilofono: la
dinamica di fondo era che mi voleva prendere la bacchetta dalle mani e le voleva
tutte lui. Ma ormai lo conoscevo e se voleva la guerra avrebbe avuto pane per i
suoi denti. Così ho preceduto in questa guerra per le bacchette un po’ per
imitazione e un po’ per botta-e-risposta. Lui stesso proponeva e c’era tutta una
sperimentazione sonora sui suoni alti e gravi, sullo strusciare della bacchetta su
tutti i tasti, ritmi di varia velocità e quant’altro. Ad un certo punto è schizzato via
perché dalla tastiera elettrica è partita una base rock e si è messo a saltare
entusiasta, poi abbiamo continuato. Durante i lavori di gruppo mi è capitato di
giocare con D. con le mani: io gli porgo la mano, lui la prende, poi io la tiro
verso di me e lui fa resistenza e la tira verso di sé.
Il 16 marzo ho lavorato con S., L. e M. Con S. avevo già intrapreso nelle
prime ore un percorso sulla modulazione dell’intensità del suono, cercando di
imitarla in alcuni momenti per poter poi arrivare insieme a suonare molto piano.
Abbiamo anche accarezzato la pelle del tamburo. L., alla chitarra, ha voluto
imparare ad usare anche la mano sinistra e suonava l’accordo di la minore,
accennando dei ritmi quali, ad esempio, un 4/4 in cui suonava tre colpi di
semiminime e l’ultimo quarto era silente. Tutti e tre hanno suonato lo xilofono
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(anche L., che ormai si era buttato) con l’intento di provare a coordinarci, ma non
posso dire di aver raggiunto l’obiettivo. Con M. l’idea sarebbe stata quella di
lavorare sulla concentrazione di se stessi, usando sia l’esercizio sull’elastico che
il tamburo. Mi sarebbe piaciuto provare ad intonare con lui sulle note basse e sul
contatto dei piedi a terra, perché dava l’idea stesse sempre a mezz’aria, ma non ci
sono riuscita. Ho lavorato anche con C. e D., con una comparsa di N., il quale si
è messo seduto vicino a noi ed ha preso l’acqua della bottiglia adibita a maracas
acquatica. Anche qui ho lavorato con lo xilofono ed è stato molto interessante
vedere come D. e C. si rispondevano. D. non l’ha mai cacciata, e C. adorava
qualsiasi suono. La volta successiva avrei dovuto stare con L., S., e N. Con L.
abbiamo eseguito anche l’accordo di mi maggiore, e mentre lui suonava io ho
cantato dei vocalizzi ed è stato bello perché si avvertiva finalmente una
consonanza di cui eravamo entrambi molto soddisfatti. Con S. ho introdotto
l’esercizio della voce con l’elastico di cui ho già trattato e questa volta era più
concentrata, ma c’è da aggiungere che le ho preso proprio le dita e muovevamo
insieme le mani. N. si avvicinava e si allontanava, ed ho giocato con gli elastici
(elemento nuovo), lanciandoglieli ogni tanto qualcuno. L’ultima novità che ho
introdotto nel percorso è stato il flauto dolce, che è stato suonato un po’ da S. nel
penultimo incontro.
CONCLUSIONI
Se fosse possibile, mi piacerebbe rivivere il laboratorio senza però
ricoprire il ruolo del terapeuta. Ancor più mi piacerebbe osservare cosa sarebbe
successo in quella stanza se gli incontri fossero stati autogestiti dai ragazzi stessi,
senza nessuna figura di riferimento. Mi domando quale equilibrio si sarebbe
trovato tra A. e gli altri e cosa avrebbero fatto tutti i ragazzi.
Alcuni studiosi(10) ricordano come ogni evoluzione sia il frutto di una
devianza riuscita, che dapprima disorganizza e riorganizza il sistemo stesso. Ogni
evoluzione procede per mezzo di questa destabilizzazione. Il sistema risponde a
questa devianza in base alla sua situazione interna, e può dapprima reprimerla
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oppure può lasciarla espandere finché non diventa così potente da produrre una
nuova normalità. Molte devianze, ad esempio, vengono spesso criminalizzate o
patologizzate. Alcuni psichiatri(11) mettono in luce soprattutto la tendenza a
patologizzare quegli gli elementi di cambiamento delle nuove soggettività, che si
sono poi rivelate essere delle variabili adattive alle modificazioni dell’ambiente
sociale-affettivo (come ad esempio la diffusione delle personalità borderline).
Attualmente sono in corso molti mutamenti sociali che incrementano una
percezione più “fluida” della propria personalità, come ad esempio la
destrutturazione del nucleo familiare, le modalità lavorative sempre più precarie
e lontane dalla produzione effettiva di qualcosa, l’introduzione di nuove forme di
comunicazione che creano degli spazi virtuali con cui occorre confrontarsi.
L’identità di una persona sembra non essere più determinata dal ruolo che si
assume nel proprio contesto ma da altro. In questo senso non è da escludere
l’ipotesi per cui le persone che si contraddistinguono per la loro “incapacità” di
assumere ruoli pubblicamente riconosciuti, come appunto le persone con
“disturbi e sindromi del comportamento”, non rappresentino quella devianza che
permetterà una nuova evoluzione biologica e culturale dell’umanità. Inoltre, a
mio avviso, non si può escludere il fatto che l’essere “non normali” non dipenda
in parte anche da una scelta intima che un individuo fa con se stesso. D’altro
canto, chi non ha a che fare con l’idiota che vive in noi?
10. Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione, tratto da Formare alla complessità.
Autori vari, Carocci, Roma, 2003, p.102.
11. Arturo Casoni, articolo L’adolescente post-moderno: nuove identità e nuove forme di
psicopatologie, tratto dal sito www.psycomedia.it.
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Bibliografia
 Benenzon, La nuova musicoterapia, Il Minotauro, 2006, Roma.
 Formare alla complessità, antologia a cura di Galli, Cambi e Ceruti,
Carocci, Roma, 2003.
 A. Bianchi e P. Di Giovanni, Psicologia in azione, Paravia, 2000, Torino.
 Materiale didattico Istituto MEME Scuola di Specializzazione Triennale in
Musicoterapia.
Sitografia
www.psycomedia.it
www.istituto-meme.it
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