Forme di vita, linguaggio e scrittura. Per una genealogia del biopotere

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Forme di vita, linguaggio e scrittura. Per una genealogia del biopotere
Kaiak. A Philosophical Journey, 1 (2014): Sottosuoli
Enrico Redaelli
Forme di vita, linguaggio e scrittura.
Per una genealogia del biopotere
La soglia del biopotere
Attraverso la nozione di «biopotere» Foucault ha avuto il merito di accendere un
faro su un campo problematico inedito, che potremmo sintetizzare in questa
formula: c’è, nella società moderna, un tentativo di regolazione della kinesis
vivente, un tentativo di gestire e controllare il movimento della vita.
Se questo è il suo merito, va però detto che egli non sembra aver adottato un vero
e proprio sguardo genealogico su questo orizzonte di problemi. Si potrebbe infatti
chiedere: come e perché sorgono a un certo punto una serie di tecniche e strategie
volte a gestire e regolare la kinesis vivente? Perché ora sì e prima no? Che cosa è
accaduto? Quali condizioni hanno reso possibile una serie di fenomeni,
tipicamente moderni, che per comodità poniamo sotto l’etichetta di «biopotere»?
Sul come e sul perché il metodo genealogico foucaultiano è parco di indicazioni.
Stranamente. Infatti, in Nietzsche, la genealogia, la storia l’autore delinea i
compiti di una ricerca genealogica: rinvenire l’origine non come Ursprung
(fondamento originario di un determinato fenomeno) ma come provenienza
(Herkunft) ed emergenza (Entstehung). Si tratta insomma di comprendere come il
fenomeno è divenuto ciò che è. Applicando tale approccio al campo problematico
che Foucault ha aperto innanzi a noi, dovremmo allora chiederci: da dove emerge
il biopotere? Come è diventato ciò che è?
Andrebbero dunque indicate, insieme, l’identità e la differenza. L’identità: ciò che
permane del passato, relativamente all’esercizio del potere, ossia quella continuità
storica su cui successivamente vengono a iscriversi le nuove e specifiche tecniche
biopolitiche. La differenza: ciò che si distacca da quella continuità, che rende
possibile uno spartiacque nelle pratiche di potere. Bisognerebbe cioè indicare
quelli che altrove Foucault chiama a priori storici a partire da cui qualcosa di
nuovo emerge.
Ora, nei corsi al Collège de France il filosofo mostra una grande abilità nel
mappare questo campo tematico, nel raccogliere dati storici ed eventi, anche
distanti gli uni dagli altri, e nel porli sotto i nostri occhi come un problema
unitario. Ad esempio, gli interventi da parte dell’amministrazione statale
nell’ambito dell’igiene pubblica, delle inabilità, della pianificazione e della
gestione dell’ambiente naturale. Egli però sembra poco propenso a ricercare gli a
priori storico-materiali che hanno reso possibili questi fatti, cioè: come questi
fatti si sono venuti facendo.
Non si tratta di una carenza casuale, ma di un problema metodologico, relativo al
modo di esercitare la genealogia (più che al modo di concepirla).
Dunque, se volessimo scavare nel sottosuolo e indagare il biopotere nelle sue
condizioni di possibilità, cosa dice Foucault relativamente non ai fatti, agli eventi
e ai dati, ma alla soglia che li circoscrive e li rende possibili? In merito, si possono
sottolineare due punti, a mio avviso entrambi problematici.
Data di pubblicazione: 09.01.2015
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Modernità?
In primo luogo, Foucault individua cronologicamente la soglia del biopotere nella
modernità. L’intento di regolazione della kinesis vivente sarebbe specificatamente
moderno, un fenomeno tipico della società occidentale a partire dal XVII-XVIII
secolo.
Si potrebbero sollevare molti dubbi su questo punto ed effettivamente sono stati
sollevati (tra gli altri, da Giorgio Agamben, Roberto Esposito e Jacques Derrida).
Si potrebbe osservare che le società antiche hanno sempre gestito la vita, plasmato
l’esistenza umana, impresso modelli e «forme di vita». Cosa sono il mito e il rito
se non dispositivi atti a formare, educare, modellare la vita umana? Lo stesso può
dirsi del potere sovrano nell’antichità, che al mito e al rito è strettamente
intrecciato.
Scrive ad esempio Agamben in Homo sacer: «Si può dire che la produzione di un
corpo biopolitico sia la prestazione originaria del potere sovrano»1. Tutta l’opera
agambeniana svolge questa operazione: una sorta di retro-datazione del biopotere,
che ne sposta la soglia di emergenza assai più indietro nel tempo rispetto al varco
della modernità. In questo senso la modernità e le sue specifiche forme di potere
si iscrivono in una continuità col passato, anzi, con la più sterminata antichità,
arrivando a toccare la «prestazione originaria del potere sovrano» e perciò le
origini della civiltà umana. Tralasciando l’articolato percorso agambeniano, qui
proviamo a dar conto di questa continuità seguendo una via parallela, procedendo
per rapidi cenni e fugaci pennellate, in funzione dei nostri più ristretti e modesti
scopi.
Il potere sovrano e la vita
Iniziamo da una semplice osservazione antropologica: il potere sovrano, da
sempre, si presenta come garante della vita. Motivo per cui, nel mito, il sovrano è
eminentemente prolifico.
Il mito greco vuole che Priamo, Tespio, Pallante, Egitto, Licaone fossero sovrani
eponimi ciascuno con cinquanta figli a testa (o cento, secondo alcune versioni).
Ma si considerino anche il signore dei Dragoni acquatici del Paese dei Lac, nella
mitologia vietnamita, Ramses II in Egitto, Vishnàmitra in India e Attila, re degli
Unni: figure all’origine di una dinastia, di una stirpe o di un intero popolo,
tutte con una prole spropositata (sempre cinquanta o cento figli). Perché cifre
così esorbitanti? Perché la prolificità del sovrano dimostra che egli conosce il
segreto della vita e della sua riproducibilità. E garantisce così prosperità alla
propria comunità.
Il termine «sovrano» deriva infatti da superanus, colui che supera tutti: in che
cosa? Nella «potenza sessuale come potenza generatrice e demografica», per usare
le parole di Derrida2, potenza esibita nella stessa rappresentazione della sovranità
(lo scettro quale simbolo di una «erezione assoluta»3).
Significativa, in merito, la figura del Re Ferito (o Re Pescatore), presente in
alcune opere del ciclo arturiano, a partire da Le Roman de Perceval ou le conte du
Graal di Chrétien de Troyes, come nel Parsifal di Wagner e in The waste land di
T. S. Eliot, ma ricorrente anche in altre tradizioni, come racconta Il ramo d’oro di
Frazer4. Il Re Ferito rappresenta il rovescio del re prolifico: si tratta di un sovrano
malato – ferito all’inguine o alla coscia – che regna su una terra desolata,
devastata da morte e corruzione. La ferita all’inguine, simbolo di sterilità, è una
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piaga che dal sovrano si propaga come per contagio a tutto l’ambiente circostante
e all’intera popolazione. Tant’è che nei testi del ciclo bretone, il Re Ferito
vorrebbe morire ed essere sostituito da un nuovo sovrano, sano ed integro, in
grado di restituire alla terra desolata l’originaria fecondità e di garantire la vita
alla comunità.
La prolificità del monarca, il suo surplus di generatività, è dunque, per tutti,
garanzia di vita (della prolificità dei sudditi e della fertilità della terra). A
condizione, però, che la popolazione iscriva la propria vita entro l’ordinamento
della comunità, plasmando la propria esistenza entro i suoi dettami, in un tessuto
di cui il rito, il mito e il potere sovrano costituiscono la trama. Questo potere non
si limita, cioè, a garantire ai membri della comunità la vita in generale, un
generico “lasciar vivere” (espressione su cui torneremo in seguito). Esso è semmai
un dispositivo, atto a riprodurre la vita entro una determinata “forma”.
Nome, marchio, soggettivazione
Leggiamo nel Genesi: «A centotrenta anni Adamo generò come sua somiglianza
secondo la sua Immagine» (Gn 5,3). L’atto generativo umano perpetua
l’immagine (l’eidos, la “forma”) del padre, in questo caso Adamo, a sua volta
creato a immagine e somiglianza di Dio. Non si riproduce mai la semplice e
generica vita, ma sempre una vita iscritta nella forma, nell’eidos, ossia una “forma
di vita”: vita siglata nel Nome, scolpita nella Legge, plasmata nel mito ed educata
nel rito.
Il Nome è insomma il primo dispositivo biopolitico: il primo “marchio” che
iscrive la vita ancora anonima all’interno della comunità e delle sue leggi. La
nominazione («Tu sei Pietro») produce infatti soggettivazione: nei termini di
Lacan, il Nome è il «tratto unario» che soggettivizza5, sicché l’essere vivente, nel
momento stesso in cui viene alla luce come soggetto, «non può che essere erede
dell’Altro, indebitato nella sua provenienza dall’Altro»6. In questo senso, il Nome
è sempre anche Nome del Padre, segno del debito che si ha verso la propria
provenienza: verso il dio, la comunità, la famiglia. Nel momento stesso in cui si
riceve il Nome, cioè un’identità, si è quindi iscritti in una relazione di debito o,
per dirla con L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari, in una catena di «alleanze» e
«filiazioni»7, che implica un ruolo specifico all’interno della comunità e precisi
obblighi nei confronti dei suoi membri.
Ma se il Nome è il primo dispositivo biopolitico è perché, in quanto “forma”, è la
vera garanzia contro la morte. Infatti, la vita individuale è inevitabilmente
destinata al trapasso; non così il Nome, da intendersi come stampo che riproduce
la vita entro la stessa forma, come “marchio” che si perpetua nel tempo. Si radica
qui il sogno di vita eterna del mondo antico: «io morirò, ma il mio nome (il buon
nome, la fama, la gloria) saranno eterni». S’intende: se i figli sapranno portare
questo Nome, se cioè ricalcheranno le orme del padre, se la loro vita si plasmerà
nel calco di questa forma. Leggiamo nel Libro del Siracide: «suo padre è defunto,
ma è come se non fosse morto, perché ha lasciato dopo di sé uno simile a sé» (Sir
30,4). Grazie ai figli è come se non si morisse del tutto, la discendenza assicura la
sopravvivenza del Nome: eternità della “forma di vita” – al di là della morte del
singolo individuo – riprodotta nel Nome del Padre.
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Il potere patriarcale
Riprodurre la vita nel Nome del Padre significa dunque “marcare” e iscrivere il
vivente all’interno della comunità e delle sue leggi quale unica via per sconfiggere
la morte. Ora, da dove si origina questo sogno di “vita eterna” attraverso il Nome,
sogno che ha guidato l’umanità per millenni?
Direbbe Lacan: dal linguaggio. Cioè, dal sapere della morte. L’uomo è l’animale
che ha la parola. E dunque il sapere. Egli sa che deve morire. Gli animali non lo
sanno (non se lo possono dire). Ed è proprio la parola che nomina – il Nome – a
introdurre il sapere mortale8. Solo a partire dal Nome si rende visibile il cadavere
come resto inanimato abbandonato dalla vita. Perché la vita del defunto può
continuamente essere rievocata attraverso il Nome, anche quando del defunto non
vi è più traccia: magia del linguaggio, in grado di evocare in presenza anche ciò
che è assente. E in grado di evocare l’assenza per antonomasia: la morte, appunto.
Se il Nome (la parola che nomina) introduce la morte (il sapere della morte), è
sempre attraverso il Nome che l’umanità ha cercato di far fronte a questo sapere.
Tutte le civiltà umane sulla terra, almeno per quanto ne sappiamo, hanno cercato
nel Nome – nel tentativo di eternizzare il proprio Nome, il buon nome di famiglia,
la propria “forma di vita” – una garanzia contro la mortalità.
Conosciamo come funziona questo dispositivo nelle culture a sistema patriarcale
sviluppatesi a partire dalla rivoluzione antropologica del Neolitico 9: affinché il
Nome sia la forma eterna entro cui la vita si riproduce, per discendenza, sono
necessarie due condizioni.
La prima è che la discendenza sia di sangue. E poiché mater semper certa, pater
numquam, il possesso esclusivo della donna è l’unica garanzia della
consanguineità della prole. Analizzando il matrimonio israelitico, il biblista
Angelo Tosato conclude che «il matrimonio, nel garantire ad un uomo la esclusiva
e stabile acquisizione di una donna (fine giuridico primo ed immediato), mira in
definitiva a garantirgli preminentemente una discendenza legittima (fine giuridico
secondo e mediato)»10. Ma, nell’antropologia biblica, essere padre è più
importante che essere marito. Come nella metafisica aristotelica, il fine ultimo in
ordine cronologico, è primo sul piano logico: si diventa mariti per diventare padri.
Ossia, per garantire la continuità del Nome.
La seconda condizione è che gli eredi vivano, appunto, nel Nome del Padre,
proseguano cioè la sua opera, la sua vita, le sue regole. Riferendosi a Yoyakin, re
di Giuda deportato a Babilonia, dice Geremia: «Registrate quest’uomo come
sterile, uno che non è riuscito nella sua vita, perché della sua discendenza neppure
uno riuscirà a sedere sul trono di Davide e a governare su Giuda» (Ger 22,30).
Una prolificità indeterminata, un generico “generare” e “lasciar vivere”, equivale
insomma alla sterilità, se la prole non riproduce l’eidos paterno, se cioè non è
iscrivibile nell’ordine simbolico della Legge.
In breve, le due condizioni per sconfiggere la morte attraverso la reiterazione del
Nome, sono la disposizione esclusiva della moglie e la disposizione asservita dei
figli, ossia la patria potestas. Una delle più antiche forme di potere conosciute
dall’uomo nelle società patriarcali. Potere sulla vita per rendere eterna la propria
“forma di vita”.
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Evoluzioni del biopotere
Nel Nome, e nei legami sociali che esso comporta, sono in questione l’ordine e la
gestione della vita dell’intera comunità. Se infatti nel Nome risuona l’eidos del
padre, questo è iscritto nell’eidos divino, di cui il sovrano è rappresentante in
terra. Un’unica trama – un’unica oikonomia – tiene insieme cosmologia, politica e
relazioni familiari11. Come il dio è Padre creatore, così il sovrano è una sorta di
“padre” esteso all’intera comunità (se nel mito spesso è sovrano eponimo, nella
storia è “padre della patria”; anche nel mondo romano lo ius patrium e il potere
sovrano, pur appartenendo a registri diversi, sono strettamente intrecciati12). In
quanto prolifico, il monarca garantisce vita a tutto il popolo e, in quanto
rappresentante della Legge, garantisce che questa vita si riproduca nel Nome del
Padre, cioè – in ultima analisi – nel Nome del dio in cui la comunità si riconosce.
In breve, dell’ordine simbolico della Legge, in cui la vita viene iscritta, il padre è
garante a livello familiare, il sovrano a livello comunitario, il dio a livello
cosmologico. In questo senso – secondo un leitmotiv tipicamente indoeuropeo – il
Nome imprime alla vita ancora indistinta (matrice “femminile” della generazione)
la forma della Legge (lo stampo “maschile” che mette ordine al caos): «tu sei
figlio di x, quindi appartieni a questa comunità e alle leggi dei suoi dèi».
Il tentativo di regolazione della kinesis vivente, almeno per quanto riguarda la vita
umana, cioè la sua riproduzione in un eidos, è dunque in cammino dalla più
sterminata antichità: tentativo «umano troppo umano» di sconfiggere la morte
perpetrando la vita nella «forma».
E che cos’è il biopotere, messo in luce da Foucault, se non un tentativo di gestire
la vita per garantirne la riproducibilità secondo una determinata forma?
Non è questo, in fondo, il sogno e il progetto implicito della biologia
contemporanea? Impossessarsi del segreto della vita, scoprirne il codice, per
poterlo riprodurre a proprio piacimento e assicurarsi così l’eternità (trapianto delle
anime nei corpi). Sostituirsi a Dio, nel senso proprio di diventare quella vita
eterna tradizionalmente attribuita al divino.
Ma allora, a fare la differenza sulla soglia della modernità, non è il tentativo di
regolazione della kinesis vivente, in quanto tale, semmai le diverse modalità in cui
questo tentativo si declina. In età moderna assistiamo a un salto di qualità nel
tentativo di gestire la vita (di protrarla e riprodurla in una determinata forma). Un
salto – possiamo già anticipare – dovuto ai diversi mezzi materiali resisi
disponibili in età moderna. Mezzi che però – Hegel e Heidegger insegnano – non
sono mai «semplici mezzi», ma finiscono per retroagire sulle finalità che li
animano riplasmando tali fini e riconfigurandone l’orizzonte di senso. Non «meri
mezzi», dunque, ma a priori storico-materiali in cui le antiche pratiche di vita si
sono venute iscrivendo e intrecciando tra loro, ridisegnando quell’originario
dispositivo antropogenetico che le muoveva al fine di garantire la vita eterna.
Lasciar vivere?
Prima di affrontare questo punto, apriamo una parentesi. Non è allora vero, come
afferma Foucault nella Volontà di sapere, che il potere sovrano, anticamente, sia il
potere di «far morire o di lasciar vivere»13. Questo «lasciar vivere» sembra
doversi intendere in questi termini: permettere una vita «nuda» senza imprimerle
una forma. Ma, stando a quanto sin qui detto, si potrebbe osservare: non c’è mai
stata una «nuda vita», tra gli uomini, vi è semmai sempre stata una vita «vestita»
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(investita) dal Nome. La «nuda vita» è piuttosto un effetto retroflesso della forma,
l’ombra che questa proietta dietro di sé, il suo residuo. A livello familiare, ad
esempio, il figlio illegittimo o il figlio che non segue le orme del padre; a livello
della comunità, l’homo sacer, l’individuo messo al bando o colui che ha tradito la
Legge. Come osserva anche Agamben, la nuda vita è lo scarto prodotto dal potere
sovrano, dalla macchina politica, e resta perciò vincolato a questa nella forma di
una «esclusione inclusiva»14.
In breve, potremmo dir così: non c’è un generico «lasciar vivere», perché l’uomo
ha la parola. Il linguaggio, nella sua primitiva funzione nominante, è un
dispositivo biopolitico di soggettivazione – o, più precisamente, di antropogenesi:
è la soglia a partire da cui la vita naturale (zoé) è già da sempre vita culturale
(bios). La vita umana è sempre una «forma» siglata dal Nome (l’ordine simbolico
della Legge) e questo è ciò che la differenzia dalla vita animale («fatti non foste a
viver come bruti»). Sin dalla più remota antichità, per l’uomo si è sempre trattato
di vivere secondo una determinata forma: altro che «lasciar vivere»!
«Codice» e «forme di vita»
Il biopotere s’iscrive dunque in questo antico cammino dell’umanità: gestione
«economica» della vita (oikonomia) per assicurarsi dalla morte (per garantire,
cioè, l’eternità sovra-individuale della «forma» evocata nel Nome). Sin qui la
continuità. Si tratta ora di far emergere la differenza (sempre procedendo per
rapidi cenni che meriterebbero ben altra trattazione e un più proficuo
approfondimento).
Dicevamo, in età moderna vi è un salto di qualità: è quello che, a suo modo,
Foucault avverte quando afferma che la modernità ha sviluppato «poteri di
universalizzazione giganteschi»15. Il moderno biopotere, nota il filosofo, ha effetti
di totalizzazione e di individualizzazione mai visti prima, esercitandosi su tutti in
modo omogeneo e su ciascuno in modo mirato (contra omnes et singulatim16).
Ciò che preoccupa Foucault, e in cui consiste questo salto di qualità del potere
moderno, potremmo allora definirlo con questo termine: codificazione. Nella
modernità è in atto una codificazione della vita, che è altro dalla sua semplice
regolazione attraverso la forma.
Vi è infatti differenza tra codice e forma di vita.
La forma di vita, come qui la intendiamo, è, nei termini di Wittgenstein, un
«paradigma»: una forma singolare che, esibendosi come exemplum, si ripete per
via metamorfica generando una catena analogica in cui ogni anello è modello dei
successivi (come le foglie nella goethiana Metamorphose der Pflanzen)17. Si
tratta, perciò, di un modello che muta ad ogni sua applicazione, producendo
variazioni paradigmatiche: così funzionano il dispositivo del Nome (il figlio porta
il Nome del Padre, ma declinerà tale “forma di vita” a partire da una differenza, a
sua volta paradigma di variazioni successive) e il dispositivo, a esso correlato, del
mythos, il racconto dell’origine della stirpe che accompagna il Nome (in quanto
tramandato oralmente, il mito non ha una versione standard predefinita, ogni sua
rievocazione è perciò un exemplum per le sue occorrenze successive, soggette a
continue modifiche).
Il codice, invece, non è una “forma di vita”, ma un modello astratto, cristallizzato
una volta per tutte, che viene a “stamparsi” sulla vita sempre nello stesso modo.
Ed è proprio perché astratto e non vivente (non soggetto alle modificazioni della
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vita, alla sua kinesis diveniente) che produce e riproduce sempre la stessa forma,
generando omologazione (ciò che Foucault chiama normalisation).
Le discipline sono sempre esistite – come sa bene Foucault, dedito, negli anni ‘80,
a indagare le «tecniche del sé» dell’antichità. A destare la sua preoccupazione è
semmai la codificazione delle discipline. Se quelle antiche sono – come anche il
Nome e il mythos – dispositivi di soggettivazione «paradigmatici» (basati su
modelli «esemplari»), quelle moderne sono dispositivi «codificati» (basati su un
codice), atti a produrre meccanicamente soggettivazioni omologhe (le regole delle
carceri, come quelle degli ospedali, preventivamente codificate, si applicano
automaticamente e indistintamente a tutti i soggetti coinvolti e a ciascuno in modo
mirato: omnes et singulatim).
Ma allora si ripropone la domanda: che cosa ha determinato questo salto di
qualità? Qual è il suo sottosuolo genealogico? Quali sono, cioè, le condizioni di
possibilità della codificazione? Diamo prima uno sguardo alle possibili risposte di
Foucault.
Il «muro» del teleologismo asoggettivo
Se dovessimo cercare una spiegazione attraverso le analisi del filosofo francese,
dovremmo dire che, nella modernità, vi è stato un cambiamento nelle tecniche e
nelle strategie del potere. Ed è questo il secondo aspetto problematico, da un
punto di vista genealogico, dell’impostazione foucaultiana.
Nella concezione del potere che Foucault sviluppa negli anni Settanta vi è un
evidente teleologismo: «intenzionalità», «calcolo», «strategie», «obiettivi»
vengono attribuiti al potere in modo non metaforico. Nella Volontà di sapere, ad
esempio, troviamo due espressioni con cui egli definisce le relazioni di potere:
queste sono «non soggettive» e «intenzionali»18.
Perché «non soggettive», è chiaro: per Foucault il soggetto è, nietzschianamente,
un risultato, l’esito di un gioco di forze. Nelle Parole e le cose Nietzsche, Marx e
Freud sono citati proprio in questa funzione. Nell’Archeologia del sapere l’autore
sottolinea come sia dalle pratiche e dai loro a priori storici che si configurano
correlativamente un oggetto e un soggetto. E nella Microfisica del potere
l’individuo è definito un «relais», un ingranaggio. Il soggetto è cioè un «ruolo»
che ogni pratica istituisce in una «forma» specifica e sempre determinata19. Le
relazioni di potere non sono dunque riconducibili né ai soggetti che le subiscono
né a quelli che le agiscono (il medico come il paziente, la guardia come il
carcerato, il pastore come le sue «pecore» sono egualmente soggettivizzati, sono il
prodotto di pratiche e relazioni di potere, mai la loro fonte).
Perché – o in che senso – le relazioni di potere siano invece «intenzionali» è meno
chiaro. O meno ovvio. Queste, leggiamo nella Volontà di sapere, sono
«attraversate, da parte a parte, da un calcolo: non c’è potere che si eserciti senza
una serie di intenti e di obiettivi»20. Questo telelogismo asoggettivo è adottato
dall’autore per evitare – come indicato nella stessa pagina – che le relazioni di
potere vengano ricondotte, ridotte o spiegate a partire da altre istanze.
Tecniche e strategie di potere costituiscono cioè un punto di partenza dell’analisi
genealogica foucaultiana, anziché un punto di arrivo. Con l’assurdo risultato che
il genealogista, che dovrebbe indicare la provenienza (Herkunft) del senso e delle
sue configurazioni in un’eterogeneità costitutiva, è costretto a presupporre delle
«intenzioni» – per altro mai formulate da alcuna mente umana – la cui emergenza
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(Entstehung) resta misteriosa e non è mai resa oggetto d’interrogazione. Proprio
questa emergenza è invece ciò su cui ci stiamo qui interrogando.
Se l’«archeologia del sapere» assume una prospettiva a-teleologica, che vede ogni
finalità emergere da una concatenazione di effetti, la «microfisica del potere»
muove viceversa da strategie già fatte e finite, assunte come punto di partenza per
un’analisi del potere. Se insomma dal piano del sapere Foucault muove
genealogicamente indietro per rintracciarne gli a priori storici, dal piano del
potere non retrocede di un passo.
Il che, per certi aspetti, è paradossale. Perché Foucault è proprio colui che ha
smontato la concezione tradizionale del potere suggerendo di «tagliare la testa al
re»21. Ha frammentato, moltiplicato, dilatato la nozione di potere, sino a farla
sostanzialmente coincidere con quella di storicità. Il termine «dispositivo», che
gioca un ruolo centrale nella sua analisi del potere, è infatti costruito sulla nozione
di «positività» – assai ricorrente nell’Archeologia del sapere – che in Hegel indica
l’elemento storico nel suo carattere coercitivo (in Illuminismo e critica Foucault
parla infatti di «effetti coercitivi delle positività»22). Le positività sono cioè
elementi storici che fungono da a priori coercitivi in quanto dispongono del
soggetto, lo immettono entro pratiche di vita (usi, costumi, regole, credenze) e
perciò stesso lo istituiscono come un «ruolo».
Foucault ha dunque aperto la strada per concepire le relazioni di potere in termini
di pratiche storicamente determinate, asoggettive e acefale, che mutano col mutare
dei loro a priori storico-materiali. Ma l’ha anche immediatamente chiusa, nella
misura in cui la sua analisi presuppone delle tecniche e delle strategie di potere,
cioè pratiche «intenzionali» guidate da un fine, che non sarebbero però ad altro
riconducibili (come se non avessero una loro «provenienza» ed «emergenza», cioè
dei loro specifici a priori).
Il timore di Foucault è chiaro e, per certi versi, comprensibile: egli teme che,
riconducendo il potere ad altre istanze, si finirebbe per reintrodurre dalla finestra
quel soggetto che è stato cacciato dalla porta. Ma la prospettiva che così viene a
tracciarsi pone un problema metodologico relativo alla genealogia del biopotere:
dovremmo infatti concluderne che nella modernità vi sia stato un «mutamento»
nelle strategie di potere, senza poterne ulteriormente indagare il senso, cioè le
condizioni storico-materiali che lo hanno reso possibile (se non introducendo
misteriose «intenzioni»). Se si segue Foucault su questa strada non si riesce
insomma ad andare oltre quel muro che egli stesso ha eretto nella sua concezione
del potere.
La retroazione del «pratico-inerte»
Vorrei dunque avanzare una diversa prospettiva genealogica per approcciare il
problema del biopotere. Si tratta di sciogliere interamente la nozione di potere
entro quella di storicità (seguendo una via già tracciata da Foucault, sebbene da lui
non percorsa sino in fondo23). E, dunque, sciogliere la nozione di «dispositivo»
entro quella di «prassi» (ogni pratica produce soggettivazione).
Un aiuto può venire in questo senso dal secondo tomo della Critica della ragione
dialettica di Sartre. Secondo l’autore, le finalità che guidano pratiche, tecniche e
strategie sono sempre sottratte al soggetto da dinamiche anonime che sono il
frutto imprevisto della sua stessa attività24. Come le macerie fumanti rimaste su un
campo di battaglia: non un mero ammasso di resti, destinato all’oblio, senza più
alcuna influenza sulle vicende che lo hanno prodotto, ma qualcosa che retroagisce
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sui progetti delle fazioni in lotta, fornendo informazioni sulle modalità dello
scontro, inducendo gli eserciti a spostarsi e gli strateghi ad aggiornare i loro piani.
Sono ciò che Sartre, già nel primo tomo della Critica, chiama «pratico-inerte»,
quale oggettivazione della prassi umana che devia dai progetti originari e
costringe a continui riposizionamenti. Il soggetto è dunque ogni volta riplasmato
dal prodotto della sua stessa azione: è soggettivizzato dalle sue stesse
oggettivazioni.
Nel secondo tomo della Critica, soggetto e oggetto sono cioè pensati come effetti
transitori di una prassi sempre in corso e in costante divenire. Originaria è perciò
proprio la prassi, il farsi comune dei due poli25. Questo è poi ciò che pensava
anche Foucault quando, nell’Archeologia del sapere, intendeva le pratiche come
ciò a partire da cui soggetto e oggetto si co-istituiscono in reciproca relazione. In
questo senso, ogni pratica è un dispositivo di soggettivazione.
Ma poi ogni pratica, nella sua strategia e nei suoi fini, è essa stessa un effetto del
divenire. Il finalismo asoggettivo, assunto da Foucault per parlare del potere,
ricorda quello più vetusto, stigmatizzato da Goethe, di chi pensava che la natura
avesse dotato il toro delle corna perché potesse caricare (o, nell’ironia di Voltaire,
avesse dotato l’uomo del naso perché vi potesse appoggiare gli occhiali). Anziché
in termini finalistici, questo divenire sempre in corso, con i suoi effetti di
soggettivazione, sarebbe più proficuo pensarlo come un anonimo processo di
exaptations26.
Questa diversa prospettiva ci permette di guardare alle strategie e alle tecniche del
moderno biopotere non come finalità istituite dai soggetti, né come asoggettive
«intenzioni» o punti di partenza misteriosi nel loro costituirsi, ma come pratiche
storicamente determinate che, di volta in volta, emergono da altre pratiche
sottostanti, le cui oggettivazioni, retroagendo sull’origine, ne riconfigurano
continuamente il senso e la fisionomia.
Scrittura algebrica, statistica, demografia
In questa prospettiva, si può ora comprendere da dove emerga la codificazione
quale elemento discriminante del biopotere «moderno» rispetto a quello «antico».
Essa è strettamente legata alle pratiche di scrittura che si diffondono in età
moderna. Ma, anzitutto, in che senso «scrittura»?
Scrittura non come «mero mezzo», strumento in mano a soggetti, ma come pratica
anonima e acefala che soggettivizza i propri fruitori a partire dalle oggettivazioni
che essa stessa produce. In secondo luogo, scrittura in un senso assai ampio, come
traccia o incisione di un supporto.
Come evidente, senza scrittura non vi sono né diritto, né scienza, né burocrazia,
né amministrazione. E neppure vi può essere «oggettività», come già notava
Husserl nell’Origine della geometria27. In breve: senza scrittura non vi è
codificazione, con tutto ciò che questa rende possibile. È la scrittura a produrre un
codice, cioè una «forma» definita, un eidos astratto (sganciato) dalla vita vivente,
fissato una volta per tutte e valido per tutti in modo mirato (omnes et singulatim),
con inedite possibilità di gestione e di controllo (possibilità che il linguaggio orale
non può garantire, ma neppure tentare o immaginare)28.
Sin dal suo primo sorgere, nella Mesopotamia del IV millennio a. C., la scrittura
ha prodotto una codificazione delle pratiche di vita, con effetti su tutta la comunità
e sul suo «ecosistema» materiale e culturale (terra, uomini, animali, dèi), divenuti
oggetto di un’amministrazione e di una gestione complessiva del vivente29.
Data di pubblicazione: 09.01.2015
Kaiak. A Philosophical Journey, 1 (2014): Sottosuoli
Ma il vero salto di qualità avviene con la scrittura matematica, segreto motore
della modernità. La rivoluzione operata dalla scienza moderna, come illustrato da
Husserl nella Crisi delle scienze europee, è stata resa possibile dalla galileiana
«matematizzazione della natura» e dalla cartesiana «algebrizzazione della
geometria», ampliando le possibilità di previsione, gestione e controllo dei
fenomeni naturali e della vita nel suo complesso.
In «Bisogna difendere la società», Foucault afferma che la biopolitica si occupa di
grandi numeri, di fenomeni globali, di eventi aleatori, imprevedibili nei dettagli
ma caratterizzati da costanti30. In Sicurezza, territorio, popolazione parla
dell’oggetto «popolazione» come di un reticolo di variabili e di costanti31. Ora,
che cosa sono variabili e costanti se non il risultato di un certo modo di scrivere?
Esse sono il prodotto di quella particolare scrittura matematica che è l’analisi,
sorta nella seconda metà del XVII secolo grazie agli studi di Newton e Leibniz sul
calcolo infinitesimale. È entro la pratica di tale calcolo che emergono nozioni
come serie, variabile, costante, tutte ruotanti attorno a quella di funzione. Ma,
prima ancora di essere «nozioni», queste «cose» sono segni grafici sulla carta,
rappresentazioni geometriche tracciate sul piano cartesiano. Si tratta di
oggettivazioni che finiranno per retroagire sul senso e sulle finalità della pratica
che le ha generate. E dunque sui soggetti che, esercitando quella pratica, ne sono
soggettivizzati.
È infatti a partire dalla disponibilità di questi oggetti e della loro scrittura che nel
XVII secolo iniziano a svilupparsi la demografia e la statistica moderne, quando i
registri della mortalità – elenchi fatti di carta, segni alfabetici e qualche numero
indicante date di nascita e di morte – vengono trascritti da John Graunt entro la
pratica scritturale del calcolo delle funzioni. Nascono così nuovi oggetti come la
«funzione di sopravvivenza» o la «probabilità di morte», specifiche formule
algebriche che, in quanto oggettivate sulla carta, restano a disposizione per altre
pratiche: questo «pratico-inerte» retroagisce dunque sulla prassi amministrativa
cambiandone le finalità. L’amministrazione dello Stato, ora, non opererà più solo
con registri della mortalità, ma con un complesso calcolo di funzioni algebriche:
sorgono così nuove istanze, nuovi problemi, nuove soluzioni.
Conclusione
Il dispositivo della scrittura riconfigura quello del linguaggio, riarticolandone
finalità e funzioni. In particolare, esso genera l’illusione che la vita (già catturata
dal Nome, cioè prodotta e poi assunta come oggetto retroflesso dalla pratica
linguistica) possa essere fissata e «tenuta ferma» nel codice. Sogno di un mondo
in cui l’eternità è garantita non più socialmente (il Nome come “forma di vita” che
si tramanda attraverso generazioni) ma individualmente (anima cibernetica che si
trapianta nei corpi). Un sogno che rende più comprensibile l’altrimenti
inspiegabile fenomeno del calo delle nascite: per interi millenni la prolificità è
stata un valore, nonché un vanto, in tutte le civiltà umane conosciute, mentre nella
moderna società occidentale non si fanno più figli.
L’antica funzione sovrana di garantire la vita assume nella modernità compiti
inediti, delineati dalle nuove pratiche di scrittura, che incalzano il potere sovrano
con istanze differenti, finendo per configurare nuovi interventi di gestione del
vivente e della sua oikonomia. Se dunque nella modernità lo Stato assume nuove
tecniche «biopolitiche», ciò avviene non perché il «potere» ha intenzionalmente
«cambiato» strategia (un modo di dire che, di per sé, non spiega niente): la
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strategia emerge da un intreccio di pratiche storicamente determinate, dalle loro
oggettivazioni e dal modo in cui queste retroagiscono sull’intreccio di partenza.
Per comprendere come mai sorga in epoca moderna qualcosa come una «strategia
biopolitica» andrebbe dunque riportata in luce, nei suoi cammini tortuosi e nei
suoi intrecci imprevisti, questa serie di pratiche e di operazioni materiali – che si
snodano dai calcoli di Cartesio, Newton e Leibniz sino alla loro applicazione in
ambito scientifico, tecnico e amministrativo – considerando che ognuna di queste
pratiche produce non soltanto nuovi oggetti, trascrivendo oggetti precedenti entro
una nuova forma, ma anche nuovi soggetti. Vale a dire: nuovi «ruoli», nuovi
habitus, nuove finalità. Considerando, inoltre, che gli effetti risultanti dalla
scrittura del demos e dalla scrittura del bios cambiano col cambiare della grafia.
La genesi e lo sviluppo della biopolitica sono inscindibilmente intrecciati al
succedersi storico delle demo-grafie e delle bio-grafie.
Pensare genealogicamente, vale a dire esplorare il sottosuolo della modernità in
termini di pratiche e di a priori storico-materiali – anziché in termini di
«intenzioni» e «strategie» di potere – può forse delinearsi come una migliore via
per porre il pensiero all’altezza dei problemi che incalzano il presente e
prefigurano il futuro.
1
G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995, p. 9.
2
J. Derrida, La bestia e il sovrano. Volume I (2001-2002), Jaca book, Milano 2009, p. 270.
3
Ibidem. Osserva ancora Derrida: «Il re, il monarca, l’imperatore è maggiorato, eretto […] a
un’altezza maestosa, maggiorata, aumentata, esagerata» (ivi, p. 269); questa maggiorazione
(majestas deriva da magnus, major) è l’attributo essenziale della potenza sovrana, il suo tratto
distintivo: «è il più, l’economia del più, l’economia del surplus» (ivi, p. 327).
4
Cfr. J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Bollati Bringhieri, 1973, p. 412 e sgg.
5
Lacan ne parla nel Séminaire, Livre IX, L’identification (1961-1962), inedito, su cui cfr. M.
Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina, Milano
2012, p. 343 ss.
6
Ivi, p. 345.
7
Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, Einaudi, Torino 1972.
8
Cfr. C. Sini, Il simbolo e l’uomo, Egea, Milano 1991, p. 252 ss. e id., La virtù politica.
Filosofia e antropologia, Jaca book, Milano 2004, p. 205 ss.
9
Sulla genesi del patriarcato (o processo di «virilizzazione neolitica») cfr. J. Cauvin, Nascita
delle divinità, nascita dell’agricoltura. La rivoluzione dei simboli nel Neolitico, Jaca book,
Milano1994.
10
A. Tosato, Il matrimonio israelitico, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1982, p. 120.
11
Sulla nozione di oikonomia cfr. G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia
teologica dell’economia e del governo, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
12
Cfr. G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995, pp. 97-101.
13
M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 19785, p. 120.
Data di pubblicazione: 09.01.2015
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14
Cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 112.
15
M. Foucault, «Io sono un artificiere» in Conversazioni. Interviste di Roger-Pol Droit, Mimesis,
Milano 2007, p. 55.
16
Cfr. id., «Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica», in Biopolitica e
liberalismo, Medusa, Milano 2001.
17
Sulla nozione di «paradigma», cfr. R. Fabbrichesi, Cosa significa dirsi pragmatisti. Peirce e
Wittgenstein a confronto, Cuem, Milano 2002 e G. Agamben, Signatura rerum. Sul metodo,
Bollati Boringhieri, Torino 2008.
18
M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 84.
19
Cfr. M. Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault III,
Feltrinelli, Milano 1998, p. 283.
20
Id., La volontà di sapere, cit., p. 84.
21
Cfr. ivi, p. 79.
22
Id., Illuminismo e Critica, Donzelli Ed., Roma 1997, p. 61.
23
Cfr. E. Redaelli, L’incanto del dispositivo. Foucault dalla microfisica alla semiotica del
potere, ETS, Pisa 2011.
24
Cfr J.-P. Sartre, L’intelligibilità della Storia. Critica della ragione dialettica Tomo II,
Marinotti, Milano 2006, p. 91 e sgg.
25
Cfr. F. Cambria, La materia della storia. Prassi e conoscenza in Jean-Paul Sartre, Ets, Pisa
2009.
26
Il termine exaptation è stato coniato da S. J. Gould e E. Vrba all’interno degli studi
sull’evoluzionismo (cfr. S. J. Gould e E. Vrba, Exaptation. Il bricolage dell’evoluzione, Bollati
Boringhieri, Torino, 2008). Sull’uso filosofico di questo termine in relazione al metodo
genealogico, cfr. A. Parravicini, Il pensiero in evoluzione. Tra darwinismoe pragmatismo,
ETS, Pisa 2012 e R. Fabbrichesi, Plasmare il materiale ‘uomo’ per nuovi usi: un confronto tra
genealogia e evoluzionismo, in id., In comune. Dal corpo proprio al corpo comunitario,
Mimesis, Milano 2012, p. 195 e sgg.
27
Cfr. l’Appendice III di E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia
trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961.
28
Sulla nozione di codice in relazione alla pratica di scrittura cfr. E. Redaelli, L’incanto del
dispositivo, cit., p. 115 e sgg.
29
Il tema è approfondito in ivi, pp. 138-173. Cfr. anche C. Sini, Del viver bene. Filosofia ed
economia, Jaca book, Milano 2011.
30
Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 2009, p. 212.
31
Cfr. id., Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978),
Feltrinelli, Milano 2005.
Data di pubblicazione: 09.01.2015