ancora le fiabe

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ancora le fiabe
ANCORA LE FIABE ?
CAPITOLO 1
L’uomo secondo Moscovici si trova all’interno di situazioni reali piene di continui cambiamenti, e
spesso si trova a dover dare senso a tutto ciò che gli capiti, nonché a tutti gli stimoli. Ogni
dimensione nuova viene, quindi valutata e confrontata con quanto il soggetto già possiede, ed agisce
in base al suo patrimonio esperienziale. In questo quadro di assegnazioni di significati, le
rappresentazioni sociali svolgono il ruolo da codificatori. Ogni nuova esperieza, però, si aggiunge ad
una realtà predefinita, dal momento che la nostra mente non è libera dagli effetti del
condizionamento, perchè noi pesiamo per mezzo di una lingua, organizaiamo i nostri pensieri in base
alle nostre rappresentazioni influenzate dalla cultura d’appartenenza. Moscovici, ritiene che, le
rappresentazioni sociali si costruiscono attraverso: l’ancoraggio e l’oggettivazione.
L’ancoraggio, consiste nell’agganciare un’informazione, una teoria, una persona ecc, ad una
categoria già posseduta, in altre parole si parla di categorizzare qualcuno o qualcosa secondo
paradigmi immagazzinati nella memoria.
L’oggettivazione, invece consiste nel rendere oggettivo e concreto una nozione in un immagine o un
oggetto maturo, reale e quindi osservabile.
Quindi le rappresentazioni sociali vengono costruite al fine di classificare eventi e persone offrendo la
possibilità di orientarsi nell’ambiente sociale e di interagire con i membri del gruppo di appartenenza
e in più permettono di creare, mantenere e modificare tutte le norme, le regole e i valori di
comportamento che caratterizzano ciascun gruppo contribuendo all’identità dei singoli, il sistema
delle norme così diventa lo schema di riferimento con cui ogni individuo interpreta la realtà e valuta
l’accettabilità degli atteggiamenti e dei comportamenti propri ed altrui.
CAPITOLO 2
Nella costruzione delle rappresentazioni sociali giocano un ruolo importante i modelli educativi
familiari. Per prima cosa è necessario sostituire la locuzione
<< educazione ricevuta >> con << educazione scambiata >>, perché ciò che riceviamo altro non è
che il prodotto delle interazioni che avvengono non solo tra genitori e figli ma tra genitori stessi e tra
questi con i figli insieme all’ambiente sociale. In questa cornice, il clima appare come fondamentale,
visto che il clima familiare è la caratteristica che definisce e differenzia ciascuna famiglia. In tale
ottica si ben posizione la concezione del modello bioniano. Bion parlava di
<< contenitore>> e di <<contenuto>>, la relazione contenitore-contenuto, il cui punto di partenza
è la relazione madre-lattante è riconducibile a qualsiasi tipo di rapporto. Il contenimento materno
consiste nella capacità empatica della madre di entrare in sintonia con gli aspetti emozionali del
bambino, di comprendere le sue angosce e insieme di aiutarlo a strutturare il suo pensiero: le azioni
dell'ascoltare, comprendere, essere presenti sono condizioni indispensabili alla 'salute mentale' del
bambino. Dunque per contenitore ci si riferisce a noi stessi, capaci di riuscire a incrementare,
sopportare, contenere o meno i vari contenuti che sono tutti gli aspetti e le esperienze che la vita ci
impone.
Restando in un contesto educativo, Reiss esprime il concetto di <<paradigma familiare>>, inteso
come variabile sistemica che assolve ad una duplice funzione: quella di orientare i componenti
familiari nelle interazioni della vita di tutti i giorni e quella di fornire loro un punto di riferimento che
serva a fronteggiare il nuovo. Le dimensioni che caratterizzano il paradigma familiare, riguardano:
a. Le idee che la famiglia ha del mondo sociale, questa prima dimensione viene definita
attraverso il termine configurazione, cioò la famiglia può percepire il mondo o come
ordinato, controllabile e conoscibile o come caotico ed imprevedibile;
b. Le idee che la famiglia ha di se stessa, questa dimensione denominata coordinazione, fa
riferimento al modo in cui si concepisce la famiglia stessa cioè se unitaria o meno;
c. I comportamenti che risultano tipici nella soluzione dei problemi, questa terza dimensione
chiamata chiusura richiama il modo di concepirsi aperti o chiusi all’informazione e quindi al
nuovo.
In base a queste dimensioni si possono distinguere le seguenti tipologie di famiglia:
1. famiglie sensibili al consenso;
2. famiglie sensibili alla distanza interpersonale;
3. famiglie sensibili all’ambiente;
4. famiglie sensibili al risultato.
Kantor e Lehr relativamente al paradigma aperto, chiuso, casuale e sincrono hanno formulato un
ulteriore classificazione:
il paradigma chiuso si caratterizza per l’adeguamento al principio d’autorità, la preminenza
dell’organizzazione gerarchica e l’importanza alla continuità, dunque l’interesse è rivolto alla famiglia
piuttosto che al singolo individuo, perché la famiglia è fonte di sicurezza e stabilità. Sul piano
temporale si preferisce il passato rispetto al futuro;
il paradigma aperto è più predisposto ad accettare il cambiamento, ritenuto indispensabile sia per la
famiglia che per l’individuo, sul piano temporale si preferisce il presente .
il paradigma casuale attribuisce identica valenza alla stabilità ed al cambiamento, funzionale
all’integrazione dei bisogni individuali e familiari perché coniugabili , e sul piano temporale il
passato, il presente ed il futuro sono ben integrati.
Il paradigma sincrono è caratterizzato dall’armonia e dalla tranquillità, infatti la soluzione dei
problemi risult secondaria rispetto agli scopi, obiettivi e modi di pensare dei componenti purchè
siano coincidenti ed omogenei.
I modeli sopra indicati rappresentano una sorta di griglia di lettura della realtà familiare.
La natura delle relazioni familiari sembra influenzare il comportamento del bambino già alla scuola
materna, relativamente alla capacità di iniziare e mantenere le relazioni con i propri coetanei.
Talvolta infatti, ci troviamo di fronte a comportamenti di disconferma che impediscono la costruzione
di interazioni con i coetanei. Nei comportamenti di diconferma in relazione al rapporto
madre/bambino tendono a venir meno atteggiamenti prosociali quali la condivisione dei giochi e dei
giocattoli, la soluzione dei problemi ecc.. Nei comportamenti di disconferma in relazione al rapporto
padre/bambino, invece, sono presenti eccessivi atteggiamenti centrati sul comando e sul controllo.
Appare dunque importante sul piano dello sviluppo emotivo, relazionale e cognitivo la cooperazione
che rende possibile l’instaurazione delle regole della reciprocità, la riflessione e l’obiettività.
Tuttavia molti autori ipotizzano l’esistenza di due differenti sistemi relazionali, quello adulto-bambino
e quello bambino-bambino, il primo, nel quale il bambino assume una condizione di passività,
imitazione e identificazione, è necessario perché egli possa apprendere le modalità adulte di agire e
comunicare tipiche della cultura e dell’ambiente in cui dovrà vivere; il secondo legato a relazioni
esplorative verso l’ambiente ed i suoi compagni, sembra indipendente dal comportamento adulto e
più teso ad una predisposizione innata. Nonostante ciò, l’adulto o l’educatore, talvolta più che una
possibilità costituisce un limite, nel senso che la sua attiva presenza di controllo e attenzione
costituisce un vero e proprio ostacolo. La stessa Mahler ritenenva che lo sviluppo del bambino
attraversa la fase autistica normale (1° mese), cui segue quella simbiotica, intorno al 4-5 mese
inizia il processo di separazione –individuazione che si articola in una prima sotto-fase:
differenziazione e sviluppo dell’immagine corporea e in una seconda sotto-fase: la sperimentazione,
che si articola in una prima sperimentazione nel periodo compreso fra i 14 ed i 24 mesi. Fu sempre
la Mahler a condurre una ricerca il cui risultato vedeva maturare ottime condizioni di sviluppo in
bambini le cui madri erano capaci di mantenere un buon contatto a distanza (durante le attività
ludiche) a differenza di quelle madri che invece mostravano intensi bisogni simbiotici.
Va tenuto presente che le rappresentazioni sociali tendono a modificarsi in base anche alla capacità
di decentrarsi e porre in discussione il proprio ruolo e le certezze acquisite. In tal senso il ruolo del
conflitto è fondamentale. Il tipo di gestione della conflittualità contribuisce a proporzionare la
dimensione cognitivo-emozionale. La presenza di uno spazio psicologico, all’interno del quale risulti
possibile mettere in gioco ed elaborare il conflitto, cioè il diverso o il perturbante, rende possibile la
metabolizzazione del conlitto stesso. L’assenza di tale spazio psicologico invece impedisce sia
l’elaborazione che la metabolizzazione del conflitto con conseguente povertà dell’alimentazione
psichica. In altre parole la capacità di mettere in discussione le proprie certezze e punti di vista altro
non è che il saper mettersi nei panni dell’altro, concedendo a ciascuno che parli con le parole che gli
appartengono.
CAPITOLO 3
Le rappresentazioni sociali, abbiamo detto, che contribuiscono a strutturare e rendere conoscibile e
chiara la realtà, però esse sono continuamente risistematizzate e modificate perché ogni
comportamento umano appare logico, giustificato o irrazionale ed inspiegato in relazione al contesto
in cui si inserisce e alle valutazioni di tipo morale, giuridico, etico, che l’uomo fa, e in relazione
anche allo spazio e quindi età cronologica e soprattutto psicologico-comportamentale corrispondenti
ai canoni sociali. In altre parole le trasformazioni che subiscono le rappresentazioni sociali seguono
un percorso ben preciso, ossia, dall’infanzia passando attraverso l’adolescenza fino all’età adulta. A
proposito dell’adulto, si è convenuto che in tempi recenti la rappresentazione dell’adulto va
assumendo sempre di più la connotazione di educatore anche se questi non la pratica
professionalmente, ma ciò deriva dal carico di resposabilità che l’adulto assume nei confronti del
bambino. L’agire educativo deve dunque rispettare le caratteristiche infantili, visto che l’adulto è in
grado di esercitare una forte influenza sul bambino, motivo per il quale il focus dell’attenzione si
sposta dal bambino o dall’adulto allo spazio della reciprocità cioè della relazione reciproca, che
dapprima è diadica (madre-bambino) poi sempre più poliadica.
Oggi nelle attuali società civilizzate vengono a mancare i cosiddetti riti di iniziazione. Questi riti
anticamente segnavano il passaggio da un età ad una altra, o meglio da un periodo, quale l’infanzia,
all’adolescenza, per es. nell’antica Roma repubblicana una volta raggiunta la pubertà il giovane
deponeva la toga praetexta e la bulla, per indossare la toga virilis segno inconfutabile della sua
maturità civile. Nelle odierni concezioni l’adolescenza viene interpretata come uno spazio psicologico
e temporale che si trova nel mezzo tra un’età in cui il soggetto passa dalla richiesta/offerta di
dipendenza (tipica dell’infanzia) ad un età definita dall’autonomia e dall’indipendenza. L’adolescenza
però viene contrassegnata come l’età conflittuale, l’età della trasformazione, di transizione o di
passaggio.In questa fase il giovane attua una energica relazione tra se e l’oggetto, che può essere il
motorino, capi firmati, scarpe alla moda ecc.. uno dei primi conflitti adolescenziali si realizza per tali
ragioni. Infatti si assiste ad una reazione di vincolante irrinunciabilità, con toni imperativi da parte
dei giovani e un atteggiamento critico, pessimista e denigratorio degli adulti. Purtroppo gli oggetti e i
comportamenti di consumo divengono strumenti per rendere intellegibile e socialmente visibile
l’identità e la partecipazione dell’adolescente nei vari ambiti socio-relazionali. Anche il rapporto con
la sottocultura massmediale occupa un ruolo importante, perché il gruppo dei pari appare incapace
di elaborare una cultura che sia espressione de reali bisogni degli stessi membri. Pertanto agli occhi
dei genitori, degli insegnanti e degli adulti in genere sembrano più tesi a raggiungere mete e a
soddisfare bisogni subdoli quale un jeans firmato. Anche se l’atteggiamento educativo sebra andare
contro cultura ai giovani, gli adulti devono però ricordare che sono carichi di responsabilità in
riferimento alla gestione del presente e del futuro, alla modalità di utilizzo (spreco o no) delle cose,
alla perdita, o alla conquista, ecc…senza però trascurare che l’adolescente sente il bisogno di
rispecchiamento nelle immagini, nelle valutazioni, negli atteggiamenti dei genitori, che servono per
la costruzione dell’autostima personale e dell’identità sociale.
Nel periodo storico di fine ‘800 il tipo di vita offerto/imposto ai bambini corrispondeva alla realtà
storica del tempo e si contraddistingue fortemente dalla realtà storica dei giorni nostri. Un tempo i
bambini, che avevano raggiunto l’età scolare (6-7 anni) erano mandati nei campi per aiutare la
famiglia soprattutto quelle contadine che vivevano di raccolti. Questo trattamento riservato ai
bambini trovava le sue radici nei tempi della società medievale, dove il sentimento dell’infanzia non
esisteva, ed esisteva una concezione che ad oggi risulta brutale, perché i bambini venivano
paragonati ai selvaggi per le loro caratteristiche e comportamenti: mancanza di disciplina nel lavoro
e capacità di programmare, assenza di sentimenti vergogna, motilità incontrollata, ridotto controllo
delle emozioni, facoltà intellettive poco sviluppate, ecc.. un aiuto a favore dei bambini cominciò a
venie dalla fondazione di alcuni ordini religiosi perche fondati sull’insegnamento rivolto ai bambini, fra
i quali ricordiamo i Gesuiti e gli Oratoriani.
CAPITOLO 4
L’adulto spesso crede che il bambino debba necessariamente crescere, e che questo crescere segua
un percorso del tutto naturale e spontaneo, anche se talvolta questo percorso viene scombussolato
dalla presenza di ritardi nello sviluppo. Durante il periodo di regolare crescita, l’osservazione assume
un ruolo fondamentale sia per il bambino che cresce che per l’adulto che o aiuta a crescere. E’
necessario, però, distinguere i vari tipi di osservazione, esiste infatti l’osservazione come metodo di
indagine, proprie delle ricerche scientifiche, e l’osservazione semplice intesa come sguardo e
scambio di informazioni quotidiane che avvengono tra l’adulto e il bambino. All’attenta osservazione
del mondo e della realtà esterna ne consegue che il bambino cominci a porsi e a porre delle
domande che esigono delle risposte. Domandare, quindi, non solo per sapere cioè per avere
risposte, ma anche per vivificare lo sguardo, il rapporto e la relazione adulto-bambino.
Con l’avvento della psicoanalisi e le teorie freudiane, si assiste ad una nuova visione e concezione
del bambino e del mondo dell’infanzia in genere. Rileggendo l’autore sembra che l’adulto sia gravato
dal peso di grani responsabilità, dal momento che i bambini (specialmente se piccoli) non fanno che
mettere continuamente in pericolo la propria vita, in tale direzione sembra che la qualità della vita
del bambino dipenda dall’adulto e complessivamente anche dal suo atteggiamento educativo
Il bambino viene trattato scientificamente da molti autori, alcuni e tre in particolare hanno definito il
bambino <<logico>>, <<culturale>>, e <<transazionale>>.
<<Il bambino logico di Piaget>>: per P. spiegare l’evoluzione della crescita significa posi nella
dimensione polare eredità/ambiente definita dall’autore come “via del tertium” (via terza). Il
processo di crescita si sviluppa a partire dal sistema innato dei riflessi, il cui esercizio rende possibile
il processo di maturazione procedendo per stadi. Nel primo stadio senso-motorio il bambino diventa
capace di coordinare le proprie azioni, raggiungendo la connessione mezzi-fini; nel secondo stadio
simbolico-rappresentativo il bambino inizia a interiorizzare il linguaggio e rappresentare l’oggetto
anche in sua assenza; nel terzo stadio operatorio-concreto le azioni mentali si coordinano, sono
caratterizzate da reversibilità e si ha la coordinazione di punti di vista diversi dal proprio; nel quarto
stadio operatorio formale si sviluppano le operazioni mentali su astrazioni e simboli. La crescita
implica l’interazione sociale e in tale contesto l’adulto gioca un ruolo fondamentale. Quindi
l’interazione e la trasmissione sociale diventano necessari per lo sviluppo cognitivo.
<<Il bambino culturale di Vygotskij>>: per V. il linguaggio svolge una funzione sociale e
comunicativa immediata, solo dopo diventa interiore nonché guida e controllo del comportamento,
introduce il concetto di zone di sviluppo prossimale intendentole come le potenzialità che il bambino
potrebbe sviluppare se guidato da un adulto competente. Il linguaggio può essere infatti considerato
come intrinsecamente legato al contesto di interazione sociale o come, almeno in parte, autonomo
da esso. Il linguaggio per Vygotskij è il principale motore dello sviluppo in quanto media la
partecipazione del bambino alla vita intellettuale e sociale che lo circonda, e quindi lo sviluppo
cognitivo non è indipendente dai segni linguistici che il bambino incontra.
<<Il bambino transazionale di Bruner>> : con tale definizione B. intende che nel bambino tutti gli
elementi psichici non sono precostituiti bensì determinati dalla partecipazione e interazione attiva del
soggetto agli eventi con cui interagisce. Il tutto è favorito dall’intervento attivo dell’adulto che crea
un contesto di sequenze interattive (FORMAT), consentendo al bambino di individuare i segnali di
significato e di agire. La costruzione dei significati avviene in una continua ricontestualizzazione che
va dall’esterno vero l’interno e viceversa.
PENSIERO METARAPPRESENTATIVO E LA COMPRENSIONE INFANTILE DELLA MENTE
Piaget innaugura il filone di ricerca relativo alla rappresentazione infantile del mondo (teoria infantile
della mente, cioè come il bambino concepisce i processi mentali che gli permettono competenze in
età precoce. Si tratta di un tipo di pensiero interpersonale, che il bambino acquisisce per adeguare il
suo comportamento nelle varie circostanze. In atre parole la metarappresentazione altro non è che
la rappresentazione momentanea e soggettiva del bambino. Oltretutto la metarappresentazione è
utilizzata dal bambino nelle attività ludiche e più specificatamente nei giochi di finzione. Da rilevare
che molti autori sostengono che ci siano capacità mentale anteriori alla formazione del pensiero
metarappresentativo. Butterworth sostiene che anche il processo di natura cognitivo emozionale
definito empatia si sviluppa precocemente nel bambino.
LA TEORIA DELLA MENTE SECONDO DAVID STERN
Stern è un grande studioso di matrice psicoanalitica che messo al centro dei suoi studi il bambino,
integrando le indicazioni della psicoloia evolutiva con quelli della psicoanalisi e ponendo al centro
della sua indagine il “senso del Sé”.
A tal proposito identifica per ogni periodo d’età la formazione di un Sé diverso:
il senso del Sé emergente: che si forma nei primi mesi di vita, la cui formazione è data dalla
percezione amodale, cioè da quella capacità che l’autore definisce innata, e che permette il
riconoscimento visivo di un oggetto già sperimentato, queste stesse capacità permettono al
bambino di costruire una rappresentazione dell’esperienza soggettiva precoce, favorendo per
l’appunto la costruzione del senso del sé emergente.
Il senso del Sé nucleare: si froma intorno ai 5 mesi, sulla base del senso del sé emergente e
attraverso la produzione di nuovi comportamenti e capacità.
Il senso del Sé soggettivo: si forma intorno ai 7-9 mesi, in conseguenza delle conquiste
posturali, locomotorie ecc., in più è quello che gli permette di operare nell’ambito della
relazione intersoggettiva.
Il senso del Sé verbale: si forma tra i 15-18 mesi grazie al gioco simbolico e all’introduzione
nonché uso del linguaggio.
Il senso del Sé narrativo: si forma intorno ai 3-4 anni, mediante il quale il bambino risulta
capace di raccontarsi storicamente.
Stern applicando metodi osservativi e sperimentali ha studiato il costruirsi del mondo relazionale del
bambino nei primi mesi di vita, nella prospettiva della strutturazione del Sé e della costruzione del
mondo interno come correlato mentale del mondo reale. S. presenta un bambino che interagisce
attivamente con l’ambiente umano circostante fin dalla nascita e che struttura le sue immagini
interne e il suo senso del Sé attraverso un processo di integrazione di dati percettivi e non
fantasmatici. Egli ha contribuito a spostare l’approccio psicoanalitico da un impostazione
individualistico-pulsionale a una relazionale, evidenziando l’enorme importanza delle relazioni
strutturanti di base. Secondo s. il neonato è in grado di integrare i segnali sensitivi in entrata in
sistemi percettivi e di pensiero e mostra una capacità mnestica di tipo episodico, in cui l’evento e
non il singolo dato rappresenta l’unità mnestica di base. Un posto di rilievo per la strutturazione sia
del senso del Sé sia del significato emotivo-cognitivo delle esperienze vissute occupa la
comunicazione transmodale nel rapporto con la madre, per cui, per es. la modalità comunicativa
mimico-gestuale del bambino è accompagnata e incoraggiata da espressioni vocali della madre
(modalità sonoro-acustica).
PARTE SECONDA
CAPITOLO 1
La libertà e la capacità di integrarsi con i propri simili sono date dalla conquista e dall’uso del
sistema verbale che serve a definire, identificare e comunicare insieme alla deambulazione. L’uso
della parola testimonia la presenza consapevole di un <<pensare>> e di un <<sentire>>. Tale
strumento deve possedere alcune caratteristiche, per es. non deve appartenere a nessuno (cioè non
è una identificazione) ma appartenere a tutti (cioè deve essere un identità.); deve esprimere una
soggettività che riesca al contempo a collegarsi alla socialità; la parola non deve essere un emozione
o un pensiero ma deve saper esprimere un emozione ed un pensiero; deve essere un simbolo.
A proposito del simbolo, etimologicamente parlando esso rappresenta un segno di riconoscimento. Il
simbolo può essere considerato come un derivato della simbolia, ossia quello studio che si occupa
dell’identificazione dei simboli e dei suoi significati, preceduta dall’anfibolia, ovvero l’esatto opposto,
vale a dire ambiguità, equivoco e dubbio. In conclusione possiamo dire che per arrivare alla simbolia
(o al simbolo) è necesario passare attraverso l’anfibolia, in più l’anfibolia spesso viene interpretata
come incapacità di simbolizzare tipica del soggetto psicotico. Dunque il linguaggio rappresenta quel
ponte che collega la realtà con le proprie categorie semantiche permettendo la continua crescita e
conseguente espansione. La produzione della prima parola da parte del bambino rappresenta
l’avvenuta traduzione simbolica della realtà sulla dimensione fenomenologica.
Oltretutto la parola rappresenta il fondamento dell’interazione che permette di stabilire la distanza
tra me o il mio io e l’altro differente da me. Grazie all’interazione adulto/bambino, il bambino
acquisisce una serie di significati che via via diventano sempre più convenzionali, costituendo il
codice linguistico, il linguaggio in sé. Il linguaggio ha funzione sociale e socializzante, inteso come
soggettivazione ed interazione, e a causa della sua capacità di trascendere riesce a superare barriere
spaziali e temporali (secondo Berger e Luckmann).
CAPITOLO 2
In merito alla qualità della verbalizzazione dell’adulto e la conseguente costruzione del linguaggio
infantile, vi sono stati diversi autori che hanno contribuito in tal senso, per es. Chomsky sosteneva
che nel bambino era presente un meccanismo innato, il cosiddetto LAD (dispositivo di acquisizione
linguistica) che permette al bambino di acquisire singole parole, o produzioni di intere frasi di una
lingua così come un’altra, rendendo il bambino fino all’età di circa 3 anni un essere poliglotta.
Bruner, nella sua teoria sul bambino transazionale, spiegava sulla base di un approccio
interazionista, che il bambino oltre a possedere il LAD possedeva anche il LASS, cioè un dispositivo
di supporto svolto dal ruolo dell’adulto. A conferma di ciò sono esemplificative le ricerche
condotte sul Motherese (quel particolare linguaggio che le madri utilizzano nei confronti dei
bambini), sul baby talk (il linguaggio deli adulti o dei bambini più grandi utilizzato con i bambini
piccoli) e il fatherese (il linguaggio paterno nei riguardi del bambino). Queste indagine hanno
dimostrato che le attenzioni da parte degli adulti in genere, influenzano profondamente lo sviluppo
del linguaggio infantile. Infatti dopo si è dato maggiore spazio all’analisi delle competenze
comunicativa, sia sul piano sintattico-grammaticale che su quello socio-relazionale del linguaggio. Il
problema, dunque non riguarda tanto il bambino nell’imparare a parlare, quanto l’adulto
nell’insegnare principalmente le parole e successivamente insegnare a contestualizzare
correttamente a motivare il bambino in tal senso. Qui si fa riferimento alle cosiddette <<intenzioni
comunicative>> che si traducono in una serie di attività prima prevalentemente gestuali, poi sempre
più di tipo linguistico. Il linguaggio non può essere acquisito da spettaore ma attraverso l’uso o
meglio il tipo di uso che se ne fa. Altro aspetto estremamente importante riguarda il fatto che il
linguaggio non può essere neutrale, perché esso impone un punto di vista. Ciò significa che
insegnare ad un bambino a parlare vuol dire fornirgli contestualemente il <<punto di vista>>, la
modalità di lettura, dimensioni che il bambino crescendo e attraverso anche l’esperienze tenderà a
trasformare, grazie anche come dice Bruner alle continue transazioni e rinegoziazioni. Il linguaggio
dunque è uno strumento di rappresentazione del mondo o della realtà su cui verte la comunicazione,
in questo senso è inteso il modo in cui uno parla che finisce per diventare il modo in cui rappresenta.
Le rappresentazioni, in altre parole sono influenzate dal linguaggio, e in particolare dalle specifiche
competenze semantiche, sintattico-grammaticale, emozionale, relazionale.
COMPETENZA SEMANTICA
Se analizziamo il lavoro che i bambini fanno nella costruzione del linguaggio, condividiamo a pieno
ciò che lo stesso Macnamara sostiene, e cioè che il linguaggio il bambino, lo costruisce per gradi.
Inizialmente associa le parole come nomi degli oggetti e la continua ripetizione di tali nomi va a
formare il lessico, successivamente il ambino presta attenzione ai significati delle signole parole per
poi allargare il significato di tali parole al contesto in cui esse stesse si collocano, in tal modo il
bambino diventa progressivamente capace di costruire la cosiddetta <<competenza semantica>>
(cioè l’attribuzione dei significati alle parole). Molti autori in merito a tale competenza ritengono che
l’ambiente linguistico familiare è il maggiore responsabile della costituzione di questo tipo di
cometenza, pertanto da esso dipende la qualità della competenza semantica.
COMPETENZA MORFO-SINTATTICA
Lo sviluppo della grammatica appare quando il bambino possieda un vocabolario sufficientemente
ricco (tra le 50 e le 100 parole in soggetti normali e 100/600 parole in soggetti precoci secondo
Camaioni). I sottosistemi della grammatica sono costituiti dalla morfologia e dalla sintassi, che
riguardano la forma delle parole e i modi di combinarli in insiemi verbali. Infatti la competenza
morfologica riguarda l’uso dei suffissi e prefissi con cui si formano il singolare/plurale
maschile/femminile, la coniugazione dei verbi. La competenza sintattica attiene alla capacità di
assemblare le parole rispettando le regole che le governano, all’interno di un periodo o frase. Bruner
in proposito afferma che la sintassi viene acquisita sulla spinta del desiderio di ottenere certi
risultati: chieder, indicare, stabilire rapporti di filiazione, protestare, asserire, possedere e così via.
Ne consegue che quanto più articolata e complessa è la competenza sintattico/grammaticale, tanto
più elaborata ed elaborabile sarà la capacità di gestioe delle relazioni interpersonali.
COMPETENZA EMOZIONALE
Gli studi condotti sulle emozioni, relativamente all’età infantile, sembrano indicare come i bambini
molto precocemente siano capaci di riconoscere le emozioni espresse dagli altri e di reagire ad esse.
E’ certo che se l’emozione è accompagnata da una forma di verbalizzazione suscita maggiore
interesse e risposte differenziate. Le emozioni acquistano il proprio carattere qualitativo per il fatto
di essere contestuali con la realtà sociale che lo produce. Anche l’approccio psicoanalitico considera il
linguaggio come lo strumento fondamentale per raggiungere la dimensione affettiva talvolta
profonda ed inconscia. In altre parole il linguaggio traduce ed elabora la dimensione affettiva
dandole forma, continuità spazio-temporale e significato.
COMPETENZA RELAZIONALE
Nel sistema linguistico la competenza relazionale presuppone la ricerca di equilibri reciproci tra
adulto e bambino. Questa interazione però avviene attraverso l’acquisizione della competenza
interattiva, simbolico-linguistica e sociale. Il tutto risale all’apprendimento dei sistemi di turnazione
che Kaye, individua durante il periodo dell’allattamento, cioè quando le madri interagiscono
sincronicamente con il bambino, rimanendo silenziose durante la suzione ed interagendo
attivamente, parlandogli o accarezzandolo, durante la pausa. Questi sistemi di turnazione
introducono il bambino a individuare e rispettare le norme o le regole. Questo significa che la
competenza relazionale del bambino si fonda sulla qualità dialogica dell’adulto che mentra informa
(fornendogli contenuti verbali specifici), forma il piccolo il piccolo ad una corrispondente modalità di
rapporti relazionali. Una specifica modalità di relazione è poi, quella che attiene al modo di porsi
dell’adulto circa il linguaggio del bambino. In questo contesto si fa riferimento alla dimensione
accettazione/rifiuto che il bambino acquisisce in relazione al trattamento ricevuto dall’adulto. E’
chiaro che nelle prime performances verbali il bambino non utilizzerà forme linguistiche corrette,
pertanto l’adulto deve porsi in posizione di ascolto senza rispondere con atteggiamenti correttivi, che
potrebbero essere lette dal bambino come limiti.
CAPACITA’ DI ANALIZZARE E PROGETTARE IL FUTURO
La qualità della verbalizzazione adulta incide anche sulla costruzione di quella capacità di percepire e
progettare il futuro. In altre parole, insegnare ad analizzare il reale, utilizzando per esempio un
linguaggio di ipoteticità e negozialità, favorisce la capacità di progettare il futuro. Lo stesso Andreoli,
a tal proposito e riferendosi alla classe adolescenziale, ritiene che senza la percezione del futuro
l’uomo perde le sue caratteristiche principali cioè pensare e costruire in una dimensione spostata nel
tempo. Percepire il futuro vuol dire desiderare, e l’atteggiamento di attesa spinge a migliorarsi. Su
questo specifico tema, Bernstein, ha condotto delle ricerche sul linguaggio dievrso che le madri, a
seconda della provenienza sociale, rivolgono ai propri figli, in relazione non solo alla quanlità del
vocabolario, sintattica, ecc, ma anche in riferimento all’offerta degli stili comunicativi.
PARTE TERZA
CAPITOLO1
La funzione principale della fiaba è quella di colmare temporaneamente nel bambino delle lacune
dovute inevitabilmente alla mancanza di esperienza e di informazione per i pochi anni vissuti. Allo
stesso tempo, la fiaba permette al bambino di cominciare a controllare il caos interno fra tendenze
aggressive - cattive e tendenze buone. Le prime vengono così proiettate su una strega o su un
lupo, soddisfacendo il proprio impulso quando questi personaggi fanno una brutta fine; mentre le
seconde - i sentimenti buoni- le può indirizzare su una principessa o su un eroe, permettendo a se
stesso di identificarsi con questi personaggi. Spesso ci si interroga sull’utilizzo delle fiabe e delle
favole nella prassi educativa dei propri figli, chiedendosi se è giusto esporre il proprio bambino ad
emozioni forti ma contemporaneamente “negative”; i genitori vorrebbero presentare ai propri figli
solo racconti positivi che vanno incontro ai loro desideri. In realtà, come dicevamo, così facendo si
commette un'errore, in quanto il bambino non vivrà in una realtà “tutta rose e fiori”, dovendosi
invece destreggiare tra gli ostacoli della vita alle quali deve essere preparato, disponendo del più
ampio numero di “cartucce”. A ciò va aggiunto un altro aspetto di non minore importanza: il
bambino ha spesso pensieri distruttivi e/o aggressivi, del tutto normali all’interno del suo processo
di crescita; egli, tuttavia, non sa che questi sentimenti sono “normali”, perciò se gli vengono
presentati esclusivamente modelli positivi si alimentano automaticamente i suoi sensi di colpa. La
paura deve essere scoperta dal bambino nella favola, così come la temporanea vittoria del nemico.
In questo modo, ciò che avrà appreso potrà essere utilizzato nella quotidianità, consapevole
dell'esistenza di eventi negativi (ostacoli e problemi) nella vita di tutti i giorni. A tutto questo va
aggiunto che, identificandosi con il personaggio buono o con l'eroe, il bambino comprende che,
sebbene sia normale trovare delle difficoltà sul proprio cammino, egli riuscirà a superarle. Questo
viene rinforzato anche dalla frase conclusiva di ogni favola: "e vissero tutti felici e contenti"
assicura il bambino sia sul lieto fine (della storia e della sua vita) sia sul fatto che egli non rimarrà
mai solo. Pensate ad esempio alla favola di Hansel e Gretel: essa permette di far sperimentare il
sentimento di solitudine (i due protagonisti che si perdono) e che può accadere nella vita di tutti i
giorni. Ci si sente perduti e senza via d'uscita. Poi, come nella fiaba in cui i due protagonisti
superano il difficile momento con le prorie forze (sconfiggono la strega e tornano a casa), così
anche nella realtà si ha la speranza del lieto fine. Questo elemento è tanto importante nel
bambino, quanto nell'adulto in un momento della vita negativo, come può essere ad esempio dover
affrontare la fine di una storia d'amore o un lutto. Si ritorna quindi al discorso che la fiaba spesso
assume una valenza terapeutica.
perchè è tanto importante una fiaba per il bambino:
Ø Come le fantasie, la storia inizia in maniera realistica: una madre dice di andare dalla nonna
(Cappuccetto Rosso), una famiglia povera (Hans e Gretel) ed il bambino è stimolato da queste
situazioni, ricercando quella che maggiormente si avvicina a lui, comprendendo il perché
accadono alcune cose e come risolverle.
Ø Allo stesso tempo la storia non parte dalla realtà fisica del bambino (sedere in mezzo alla
cenere come Cenerentola o rimanere nel bosco come Hans e Gretel) perché sarebbe
insopportabile e la fiaba ha al contrario la funzione di confortare.
Ø La fiaba aiuta il bambino nello sviluppo di una propria identità, suggerendone i passaggi
fondamentali. In linea generale il messaggio che trasmette è che la vita è gratificante,
sebbene gli ostacoli siano tanti, ma importante è superarli.
Ø La possibilità di due personaggi opposti nella fiaba (buoni e cattivi) permette al bambino da
un lato di conservare l’immagine di una madre buona anche se in realtà non lo è e dall’altro,
di non alienarsi dalle sue grazie, madre non matrigna.
Ø Dopo i cinque anni le fiabe diventano importantissime. L'utilità per il bambino nell'ascoltare
fiabe coinvolge vari aspetti: intellettivo, relazionale e morale. Il bambino prova piacere ad
ascoltare la voce dell'adulto ed inoltre, facendo parlare i sentimenti, viene interrotta la rigidità
generazionale. Per ciò che concerne l'etica, a 6-7 anni si inizia a strutturare il Super-Io. Il
portatore della morale è il protagonista della fiaba con il quale il bambino si identifica.
Ø Le fiabe rispecchiano l'immagine interiore che il bambino ha di se stesso, cosi ora emerge
l'ansia dell'abbandono (Hansel e Gretel) o il complesso edipico (Biancaneve) o la rivalità
fraterna (Cenerentola).
Ø Ascoltando il racconto di una fiaba, si contribuisce a sviluppare nel bambino la capacità di
ascoltare l’altro nella vita di tutti i giorni.
Bettheleim consiglia di raccontarla più che leggerla, affermando che le storie illustrate lasciano
poco spazio all’immaginazione del bambino su come egli stesso possa rappresentarsi il racconto
ascoltato. Pensiamo ad esempio ai diversi modi con cui può essere immaginato un lupo… Allo
stesso tempo per raccontare senza leggere, anche l’adulto deve utilizzare la fantasia, lasciarsi
trasportare, trasmettendo al bambino l’empatia e il sentirsi coinvolto. Si crea quindi un importante
punto di incontro tra l'adulto-genitore e il bambino-figlio in cui l'emozioni circolano liberamente e
l'atmosfera diventa magica. Abbiamo detto che ogni fiaba insegna qualcosa alla persona, ancora di
più al bambino. E' facile quindi domandarsi: Quale fiaba devo raccontare al bambino? Non
possiamo sapere a quale età è importante una determinata storia, possiamo tentare iniziando a
raccontare la storia che ci sta più a cuore adesso o quando si era piccoli: se al bambino non
interessa, significa che i temi affrontati da quella fiaba non sono significativi per lui in quel dato
momento. Questo è l'lemento più importante. Bisogna ascoltare i bisogni del bambino. La richiesta
di sentire la stessa storia, significa quanto questa sia importante per lui in quel momento. Ad un
certo punto, una volta preso tutto ciò che la favola può offrirgli, oppue nel momento in cui i
problemi che l’hanno reso recettivo ad essa sono superati, richiederà una seconda fiaba. E’
importante seguire l’interesse del bambino, non guidarlo. Per lui è fondamentale non solo che il
genitore si appassioni a ciò che racconta (come se la favola preferita fosse di entrambi), ma anche
che i suoi intimi pensieri siano ignoti al genitore finchè lui stesso non voglia esplicitarli. In questo
senso è importante:
• non interpretare i suoi bisogni, ma lasciarsi guidare da lui stesso
• non spiegare la storia, ognuno trae il suo significato a seconda della personalità e del
momento di vita
• non deve mai essere rivelato al bambino il motivo per cui gli piace la fiaba. Il significato
dei simboli della fiaba nella realtà della sua vita deve rimanere segreto
Anche Freud così come tutti gli pscoanalisti affermano che le situazioni delle fiabe richiamano
simbolicamente le ansie, le paure e le angoscie infantili che nel racconto trovano una soluzione
positiva e rassicurante.
CAPITOLO 2
Gabriele, bambino di tre anni e mezzo e figlio della prof., ha espresso che <<in ogni fiaba c’è una
realtà, magica>>. Questa espressione racchiude una verità che è stato oggetto di studio di molti
studiosi e in particolar modo di Winnicott, secondo il quale il bambino inizialmente vive in una realtà
costruita soggettivamente, dove tutto (compresa la madre) è sotto il suo controllo onnipotente
(onnipotenza soggettiva); in questa realtà il bambino crede di costruire la madre con i suoi desideri.
Gradualmente dovrà abbandonare questa visione edonistica per abbracciare una visione dello spazio
oggettivo condiviso, dove la madre esiste indipendentemente dalla volontà egoistica del bambino.
Ma tra le due forme di realtà ne esiste una terza, lo spazio transizionale, il quale è sia costruito
soggettivamente che percepito oggettivamente. L'esperienza transizionale (della quale fanno parte
gli oggetti transizionali), avendo la caratteristica di entrambe le forme di realtà, permette al
bambino di spostarsi verso una realtà oggettiva condivisa senza esserne traumatizzato. Inoltre
permette lo sviluppo della capacità di vivere nella realtà oggettiva riuscendo però a conservare il
nucleo dell'onnipotenza soggettiva, che permetterà l'espressione dell'originalità e della passione
nell'individuo. Per Winnicott l'esperienza transizionale è una sorta di luogo psichico dove il bambino
può giocare creativamente, e per questo motivo Winnicott assimila le esperienze culturali umane alle
esperienze transizionali. All'interno dello spazio transizionale acquista notevole importanza l' oggetto
transizionale. Questo termine denota un oggetto, generalmente di qualità tattile-pressoria (lembo di
coperta, peluche, pezzo di stoffa...) che viene acquisito dal bambino per aiutarlo nel suo sviluppo
psicologico; esso viene ad essere il primo oggetto acquisito dal bambino come "non-me". Tale
oggetto, rappresentando l'unione con la madre, ne permette anche il distacco e l'autonomia da essa.
Quindi l'oggetto transizionale permette l'ammortizzazione del passaggio dallo stadio dell'onnipotenza
soggettiva a quello della realtà oggettiva condivisa, e lo fa rappresentando in maniera pre-simbolica
l'area (o spazio) transizionale, uno spazio dove la madre non è nè costruita soggettivamente nè
esistente oggettivamente. Il fenomeno (o oggetto) transizionale non è quindi nè percepito
onnipotentemente nè visto come appartenente alla realtà oggettiva, venendosi a trovare in uno
spazio di mezzo, lo spazio potenziale, situato tra il sè e il non-sè. In tale prospettiva la fiaba dunque
viene vista come lo spazio transizionale per eccellenza.
All’interno delle fiabe troviamo una serie di caratteristiche, una fra tante è rappresentata dai
cosiddetti segnali di chiamata: <<c’era una volta>> <<e vissero felice e contenti>>, questi sono
dei veri e propri landmark cioè dei punti di riferimento facilmente identificabili, in altre parole grazie
a questi segnali di chiamata, il rischio di perdersi e non ritrovare più la strada del ritorno alla realtà è
minimo. I landmark non possono essere considerati né egocentrici né allocentrici, bensì
transcentrici, in virtù del fatto che costituiscono una sorta di segnaletica (di una terza realtà) che
svolge la funzione di separare la realtà dalla fantasia.
Le indicazioni offerte dalla fiaba favoriscono la costruzione dell’immaginario infantile, e più
specificatamente delle mappe sia cognitive che emozionali. Tali mappe permettono al bambino di
spiegare e prevedere la realtà. Dal punto di vista cognitivo, la fiaba stimola i processi cognitivi,
attraverso la raccolta, l’immagazzinamento, l’analisi, la valutazione e la trasformazione delle
informazioni o dati per poi utlizzarle in varie situazioni. In termini finalistici la cognizione permette di
adattare il comportamento dell’organismo alle esigenze dell’ambiente o di modificare l’ambiente in
funzione dei propri bisogni. Dalla dimensione emozionale, invece, la fiaba va a stimolare il desiderio
che assume una valenza affettivo-simbolica, ciò significa che: le fiabe sono considerate come
rappresentazioni di strutture relazionali, di rapporti sociali, di modalità di soluzione ai problemi, alle
quali il bambino analogicamente attinge per darsi una spiegazione. Peraltro l’uso dell’analogia come
modalità esplicativa è frequente da parte dell’adulto nelle situazioni più difficili, per esempio, quando
dobbiamo spiegare la funzione degli anticorpi spesso facciamo uso del ruolo delle sentinelle,
ricordiamo il cartone animato del corpo umano, che facendo uso delle analogie spiegano per bene e
in modo chiaro il funzionamento del corpo. Abbiamo fatto cenno alla fiaba come sistema di
rappresentazioni, le quali possono essere considerate in termini di immagini mentali, che
inizialmente sono di tipo riproduttivo, ma grazie alla costruzione degli schemi operatori diventano
anticipatrici, nel senso che non copiano la realtà ma portano alla soluzione dei problemi, ecco perché
spesso si identifica la fiaba come spazio d’origine delle immagini mentali. Il processo immaginativo,
dunque, produce ed elabora un oggetto di conoscenza senza che gli stimoli relativi siano
effettivamente presenti nel sistema senso-percettivo.
CAPITOLO 3
La fiaba costituisce un potente strumento con cui l’adulto indirizza, in senso lato, il comportamento
infantile, in base alla dimensione delle emozioni, soprattutto in riferimento alla comprensione delle
stesse e alle strategie di controllo emotivo. Nello specifico si ffa riferimento soprattutto alla
competenza sviluppata nella comprensione delle emozioni vissute, ma in relazione ai problemi del
controllo emotivo scatenato per esempio <<dagli incatesimi di un mago cattivo>>. E’ da precisare
che i bambini da noi presi in considerazione in questo contesto relativo alle fiabe, sono bambini
appartenenti alla fascia d’età compresa tra i 5 e i 7 anni, periodo in cui si avvia la costruzione del
super-io, cioè della morale e dei suoi contenuti. Inoltre la fiaba appare come il veicolo più autorevole
per la trasmissione dei valori culturali, delle norme sociali e di appartenenza, in particolar modo nei
confronti dei valori familiari. All’interno del libro si sono prese in considerazioni storie fiabesche
classiche e si sono escluse volontariamente fiabe come quela di Pinocchio o Peter Pan per la loro
complessa struttura sia conetnutistica che linguistica, indicate per bambini più grandi.
La fiaba e l’assetto originario della psicoanalisi hanno una caratteristica in comune, cioè quello
dell’orientamento bipolare o dualistico, amore-odio, istinto di vita-istinto di morte,
idealizzazionesvalutazione,
invidia-gratitudine, ecc.. che già presenti in Freud vengono ulteriormente approfondite
dalla Klein. Nella fiaba troviamo spesso la divaricazione buono-cattivo, lo stesso Bettelheim, ritiene
che la polarizzazione costituisce una base per comprendere le grandi differenze tra le persone, e che
quindi bisogna operare una scelta circa il tipo di persona che si vuole essere. Le fiabe scelte e
argomentate nel libro sono Cappuccetto Rosso e Biancaneve, al loro interno si riscontrano alcune
caratteristiche, quali:
coesistenza del buono e del cattivo;
prevalenza del cattivo sul buono;
difficoltà e sofferenza del buono;
sconfitta del cattivo per l’intervento di un salvatore.
Se prendiamo in esame la fiaba di Cappuccetto Rosso, che a parere di Fromm il cappuccio rosso
simboleggia le mestruazioni, e identifica il messaggio della fiaba in termini di conflittualità tra uomo
e donna, che si risolve diversamente rispetto al mito di Edipo, con la vittoria della donna sull’uomo,
notiamo che la bambina protagonista riceve dalla madre un incarico da portare a termine ed un
lunga serie di raccomandazioni relative al percorso che deve proseguire, al trattamento e cura delle
vivande che ha con sé, e a tutte quelle norme educative (tipo il saluto alla nonna) a cui deve
prestare attenzione. Il comportamento e le parole della madre nei confronti di cappuccetto,
sembrano dare dirette spiegazioni che il bambino stesso può facilmente riscontrare nella realtà nel
rapporto con la madre. Però nel corso della fiaba vi sono alcuni avvenimenti, quali l’incontro nel
bosco con il lupo che distoglie cappuccetto da quelle che erano le raccomandazioni iniziali, tanto che,
prestando attenzione a ciò che il lupo le dice, si dilunga nel bosco ritardando ad andare dalla nonna.
Di fatto ciò sottolinea intanto, l’aver dato retta ad un estraneo che per di più era un lupo (del quale
cappuccetto non temeva perché ignorando il carattere cattivo di questo animale, non provava alcuna
paura), e le conseguenze che ne derivarono. Infatti, l’incontro con il lupo fu determinante affinchè
questo potè realizzare le sue intenzioni, che erano quelle di mangiare dapprima la nonna e poi,
traendo in inganno cappuccetto rosso, anche lei. Il lieto fine della storia, grazie all’intervento di un
salvatore, che nel caso specifico era il cacciatore, evidenzia seppur in modo brutale l’evento della
morte (con la morte del lupo). Il tipo di morte inflitta al lupo nella versione dei fratelli Grimm così
come in molte delle loro fiabe è frequente individuare con chiarezza una colpa commessa ed un
colpevole che generalmente coincide con il cattivo che ha una pena da subire, è a parere di molti
studiosi una punizione eccessiva e brutale. Però l’uso di tale punizione testimonia che la dimensione
cognitivo/emozionale è fondata sull’eteronomia processo o modalità che Piaget considerava come
caratterizzata dall’io che doveva adeguarsi a quelle regole che erano al suo esterno per non
incorrere a conseguenze spiacevoli, con la formazione delle operazioni cognitive reversibili, invece,
cominciano a svilupparsi le modalità dell’autonomia in base alle quali le regole adesso sono
interorizzate.
*E’ da sottolineare che la fiaba di Cappuccetto rosso presa in esame qui non è la versione originale di
Perrault, la quale è una fiaba che contrariamente alla versione dei fratelli Grimm non ha un lieto
fine.
È, infatti, una fiaba per trasmettere alle bambine un contenuto molto speciale: imparare a
distinguere e quindi difendersi dai seduttori che potrebbero irretirle in giochi sessuali precoci e
distruttivi. Le bambine devono quindi in qualche modo venir spaventate e responsabilizzarsi,
imparando a conoscere, sapendo anche che non ci sono altri che possono difenderle, che sono loro a
dover respingere l'attacco stando lontano dai "lupi". Sapere dell'esistenza di simili individui già
rappresenta un atto di conoscenza che consente di differenziare, di operare i necessari distinguo tra
coloro che possono fare un complimento sincero e chi avvicina l'innocente per mangiarsela
sessualmente. Inoltre la confusione tra lupo e nonna sembra adombrare nella trama della fiaba che
la minaccia può essere camuffata attraverso la parentela o addirittura essere uno stesso parente
l'autore dell'approccio sessuale. L'originaria morale riportata da Perrault nella versione antica parla
molto chiaro. Utilissimo pertanto rileggerla alle bambine in questa versione ed eventualmente
cogliere l'occasione per rispondere alle loro domande utilizzando la stessa simbologia della fiaba. E'
eventualmente possibile raccontare anche la versione dei fratelli Grimm a lieto fine tenendo però
presente che il contenuto profondo cambia perché il verificarsi di quel lieto fine presuppone
l'intervento di un adulto quindi una deresponsabilizzazione del bambino nel processo di autodifesa.
Questa versione sarà perciò utile con i bambini più piccoli mentre con le preadolescenti (dagli otto
nove anni in su per esempio) è più opportuna la versione di Perrault. L'argomento dell'abuso
sessuale avvicinato in questo modo farà di certo meno paura a figli e genitori e le parole saranno
meno aride e dure perché il linguaggio della fiaba parla all'anima con facilità].
La fiaba di Biancaneve, invece, era la storia di una bambina che nata dalla moglie del re la cui
madre muore proprio dandola alla luce. Il re che sposatosi successivamente con un’altra bella ma
superba donna, è ignaro dei comportamenti che questa donna in veste di matrigna, riserva alla figlia
Biancaneve, verso la quale nutre dei sentimenti di odio, tanto da indurla a progettare una vera e
propria uccisione, perché ritenuta dallo specchio della matrigna più bella di lei stessa. I tentativi di
uccisione sono 3, i primi due andati a vuoto e l’ultimo andato in porto seppur alla fine risolto con
l’intervento di un salvatore che, a differenza della precedente storia, era un principe. Il lieto fine
della fiaba è racchiuso dalla morte e quindi sconfitta della cattiva matrigna e dall’avvicinamento
della figlia Biancaneve al padre ed il successivo innamoramento di questa col principe. Le
considerazioni relative all’interpretazione della suddetta fiaba, sono in prima battuta riferite alla
categoria del “bello” che appare rilevante in tutta la fiaba. Nella fiaba la dimensione estetica è
costante ma è diversamente connotata a seconda dei soggetti cui è riferita. Infatti ha valenza
sempre negativa se riferita alla regina, la quale si presenta bella e superba. E’ positiva se è riferita a
biancaneve, ad eccezione di alcuni episodi, quali quelli dei nastri o dei pettini o ancora della mela
(tutti e tre non fannoche sottolineare il senso della vanità e della golosità, facendo allusione
all’infantilismo della bambina Biancaneve che facilmente si lascia raggirare dall’astuta e cattiva
maturità della regina), in cui la categoria del bello viene utilizzata come strumento per raggiungereil
successo. La bellezza, dunque deve appartenere all’ordine naturale e non deve servire a qualcosa
diversamente provoca solo guai. Simbolicamente parlando l’immagine e l’uso dello specchio da parte
della regina, in quanto donna, riproduce la rappresentazione dell’ <<ALTRO>>. Il mirroring o il
rispecchiamento, nell’immaginario infantile svolge importanti funzioni di tipo cognitivo-relazionale,
dal momento che durante lo sviluppo psichico il bambino si rappresenta mentalmente mentre
comunica col suo sé. Altra caratteristica rilevante in questa fiaba è relativa all’emozione dell’invidia,
tipica della matrigna, che consiste nella protezione del proprio valore, nella difesa e protezione del
sé. Questa emozione è spesso elicitata in tutte quelle situazioni in cui si sperimenta un confronto
interpersonale vissuto come rischioso, poiché evocano vissuti di inferiorità, di insicurezza e
mancanza di controllo determinati dalla percezione dell’altro percepito come rivale. La presenza
dell’invidia nella matrigna scatenata dalla bellezza superiore della bambina rispetto ad ella stessa, va
conseguenzialmente ad intaccare il rapporto tra matrigna-figlia, favorendo una serie di conflitti.
In conclusione le fiabe rappresentano per certi versi, una forma incompiuta di crescita psicologica
che si ferma al primo stadio di sviluppo e non consente la nascita di quei processi di pensiero
sostenuti dalla capacità di decentramento che risultano fondamentali anche per la costruzione di un
atteggiamento di prosocialità. Come rileva lo stesso Piaget, è dominante al suo interno una logica
irreversibile sorretta da un egocentrismo che rende invisibile il punto di vista degli altri. Pertanto la
posizione egocentrica, secondo la visione piagetiana, ostacola la costruzione dell’atteggiamento
collaborativo e prosociale. Un ultima considerazione viene riservata alla rappresentazione della
giustizia, in cui la posizione della violenza appare per molti versi giustificata, anche se il trattamento
riservato al <<cattivo>>, non solo non prevede alcuna possibilità rieducativa, ma viene colpito da
punizioni brutali.
La fiaba del Brutto Anatroccolo, racconta la storia di un’anatra che cova una nidiata di uova che a
un certo punto si aprono tutte tranne uno. Quando quest’uovo si apre esce un grande e brutto
anatroccolo che rispetto ai propri fratelli e alla razza d’appartenenza in genere era completamente
diverso. La sua tale bruttezza demarcava sempre di più la sua diversità nei confronti degli altri del
gruppo, e sottomesso a continue prese in giro e maltrattamenti sia degli altri che della stessa
famiglia, si vede costretto ad andare via dal luogo di nascita, avventurandosi in posti sconosciuti con
animali e persone nuove. Fin qui la storia non fa che rilevare il problema relativo alla diversità e
quindi al rapporto io/altro. Queste vicende, rimandano alla mente il cambiamento fisico che
caratterizza l’età adolescenziale e alle difficoltà di auto ed etero-riconoscimento che possono icidere
significativamente sulla solidità dell’identità corporeo-personale.. in tal senso la fiaba incoraggia il
bambino a superare le difficoltà che derivano da un una immagine e stima di sé inadeguate. Anche
Fromm sottolinea l’importanza del bisogno di appartenenza per l’uomo attraverso il confronto con gli
altri percepiti come diversi. Questa diversità però è un’arma a doppio taglio, perché l’identificazione
può essere un inibitore dell’aggressività se ci si sente adeguati e uguali agli altri diversi da noi stessi,
favorisce l’aggressività nel caso in cui la propria identità manca di piena accettazione. In una delle
sue tante avventure il piccolo riesce ad approdare in uno stagno di anatre selvagge, le quali lo
accettano con la condizione che <<non prenda moglie nella nostra famiglia>>. Licciardello e De
Caroli durante una ricerca nell’ambito prima dell’ateneo catanese e poi in una scuola media
superiore, evidenziarono che, a proposito di distanza sociale, tra gli studenti stranieri e quelli
catanesi c’er una sorta di accettazione ma risultava meno approvata nel caso di parentela stretta.
Nell’ulteriore fuga verso il non so dove, l’anatroccolo si imbatte in un gelido inverno scampando a
morte certa grazie all’intervento di un contadino che se lo portò a casa, ma i modi rozzi dell’uomo
per il trattamento fecero indisporre l’animale a tal punto che non tentò di capire né le intenzioni né
le motivazioni e dopo un crescendo di pasticci fuggì ulteriormente. Situazioni simili nella quotidianità
capita spesso a tutte quelle persone che vivono continuamente su una frontiera psicologica, e
dovendo accettare situazioni sociali sempre nuove non sanno se verranno accettate veramente. Ciò
comporta che pur sperando in un cambiamento positivo, si attendono comunque tutto ciò che hanno
dolorosamente sperimentato in passato, mettedo in atto forme di comportamento inadeguate. Il
bambino a quest fiaba, partecipa commosso e intenerito, alla triste vicenda in cui prepotenza,
razzismo, pregiudizio, si intrecciao e si alleano, uniti nella chiusura inospitale di tutti i luoghi
possibili. L’anatrino si mostra capace solo di una grande capacità di sopportazione, atteggiamento
che però non produce effetti positivi. La risposta qui è la fuga, realizzata senza progettazione,
affidandosi solo al caso. Fuggire dai problemi, come metodo risolutivo, significa non ritenersi capace
di portare cambiamenti positivi nel proprio spazio vitale per cui si ha un locus of control esteriore,
significa cioè di reagire alle situazioni frustranti utilizzando una modellistica comportamentale
fondata sul <<decidere di non decidere>>. La mancanza di progettazione conferma la labilità della
scelta di fuggire, fine a se stessa, non funzionale che porta al continuo evitamento di qualcosa o di
qualcuno. Ritornando, invece, al tema dell’identità e del gruppo di appartenenza, la scoperta del
sentiento della propria identità avviene in relazione all’individuazione ed al riconoscimento del
proprio gruppo di appartenenza. La pecca di questa fiaba, però è che ci spinge a dimenticare l’amore
culturale e a cnsiderare simili solo coloro checi somigliano.
Molte fiabe contengono quello che è solito definire <<salto d’identità>>, causato da trasformazioni
magiche. Tali mutazioni servono a favorire la fuga o la vittoria dell’eroe, oppure sono il frutto di
maledizioni lanciate dai genitori o da esseri magici come punizioni per comportamenti inaccettabili.
In alcuni casi la riacquisizione della precednte identità si ha dietro grandi sofferenze, impegno,
fatica e rinunce. Però in questa sede si fa riferimento a tutte quelle trasformazioni e cambi di
identità che non sono ritornate alla riconquista dell’identità originaria, vuoi come dono dal cielo,
come nel caso di Cenerentola, vuoi come rischio personale, come nel caso della sirenetta..
In esame si prende la fiaba di Cenerentola, la versione di Perrault, che è quella più conosciuta.
Cenerentola, appare come una fanciulla rassegnata, orfana di madre, che non chiede nulla alla
dura matrigna, accetta tutto e perdona condividendo, peraltro, la gioia del coronamento del suo
amore con le persone che più l’hanno fatta soffrire, ovvero la matrigna e le sorellastre. Il padre
autoritario e vittima della matrigna è ignaro degli ordini e del trattamento impartiti sulla
primogenita. Presentandosi l’occasione del ballo organizzato da un principe in cerca di dama, la
piccola fanciulla si presta, obbligata, ad aiutare le sorellastre per la preparazione a tale ballo.
Cenerentola desiderosa di voler partecipare non chiede nulla e non fa nulla per potervi partecipare.
Ma grzie al’intervento della madrina che era una fata con la sua bacchetta magica opera una serie
di magie, e cenerentola po’ partecipare a questo ballo ma a determinate condizioni, cioè che rientri
entro la mezzanotte altrimenti l’incantesimo cessa. Da quanto detto cenerentola appare come una
bella fanciulla alla quale il destino, privandola dell’amore della madre morta e dell’autorevolezza
del padre (strumentato dalla moglie) ha riservato la sorte di serva. Una sorte che per certi versi
sembra accettare e rinforzare (dal momento che sedeva sempre sulla cenere del focolare, tanto da
soprannominarla “culincenere”). La rassehnazione di Cenerentola sembra dipendere dall’arroganza
e dalla forza della matrigna e delle sorellastre ma anche da una sua debolezza, equivalente a una
sorta di inadeguatezza che la fanciulla si attribuisce. Ciò è dovuto al ruolo che gioca l’autorità nel
rapporto interpersonale in cui una persona considera un’altra persona superiore a se stessa, e in
questo tipo di relazione Cenerentola non fa che rinforzare la superiorità della matrigna e delle
sorellastre. Si evince dunque una bassa autostima che la fanciulla ha di sé. Cenerentola non
provando ad ottenere la partecipazione all’evento, mette in atto un comportamento masochista. In
Cenerentola manca l’iniziativa, che secondo l’interpretazione eriksoniana si configura come senso di
inferiorità. Però grazie alla trasformazione della fata, da serva a dama, si assiste ad un
cambiamento nell’atteggiamento della fanciulla. Infatti il suo diverso apparire, provoca la
performances di attrice, fingendo di essersi svegliata da poco al ritorno delle sorelle dal ballo. Ciò
sta a significare che la piccola ha bisogno di un aiuto esterno che la collochi in modo preciso
fisicamente e psicologicamente, diversamente non sarebbe capace.
La Sirenetta è la storia di una strana bambina, quieta e pensosa, tranquilla e riflessiva, il cui
diletto maggiore era coltivare un’aiola a forma di sole (a differenza delle atre 5 sorelle che scelgono
forme marine – balene, sirene, ecc.) al centro della quale c’è una statua di marmo raffigurante un
fanciullo. Raggiunti i 15 anni, le sirene hanno il permesso di salire sulla superficie del mare e di
vedere il mondo degli uomini, che fino ad allora avevano conosciuto tramite i racconti della vecchia
nonna che le accudisce, e dopo un mese di vita terrena tornavano al loro mondo d’appartenenza.
La sirenetta aveva una gran voglia di vedere il mondo fuori dal mare e per questo aveva una gran
voglia di piangere ma non avendo lacrime soffrivano ancor più intensamente. Arriva il fatidico
giorno, salendo in superficie vide un gran bastimento sopra il quale vi era un principe dagli occhi
neri che l’affascinò sin da subito. Ma una intemperia colpì duramente la nave e la sirenetta non
curandosi di potersi ferire salvò da morte certa il giovane principe, del quale se ne innamora. Il
suo, però, era un amore solitario e struggnte, e pertanto spinse la nonna a spiegarle il destino
delle sirene, e le raccontò che le sirene dpo 300 anni muoino trasformandosi in spuma di mare
perché non dotate di anima immortale, per vare la quale l’unica condizione era l’amore profondo di
un uomo, che doveva durare in eterno. Durante un ballo organizzato dalla nonna, mentre la
sireneta cantava, udì il fischio di un bastimento che le fece ricordare il principe, e disposta a tutto
per conquistare il suo amore e l’anima immortale, si reca da una maga che trasforma le sue
sembianze marine in umane. Nonostante tutto il principe finisce per sposare un’altra donna. Il
mancato amore conduce la sirena a destino fatale, ovvero era destinata a morire prima di aver
trascorso i suoi 300 anni. Il nucleo centrale della fiaba consiste nella decisione, maturata
lentamente, di cambiare vita, di abbandonare le certezze consolidate, per entrare in un nuovo
mondo. Si evidenzia l’apertura verso il nuovo, che sembra caratterizzare tutti quei soggetti che
manifestano una elevata distanza tra il “Sé reale” e il “Sé ideale”. Tali soggetti avvertono l’esigenza
di viaggiare per conoscersi nel senso di sperimentarsi in assenza di persone che caratterizzano la
propria quotidianità. La sirenetta appare chiaro come si trovi in una condizione di totale
insoddisfazione del proprio Sé reale e quindi alla ricerca di un sé ideale profondamente diverso,
tanto da rinunciare al suo status, al suo corpo per andare incontro a ciò che non le appartiene. La
storia è volta tutta su una dimensione al femminile, dimensione peraltro demarcata anche dalla
presenza dell’acqua, che simbolicamente richiama l’immagine femminile.
L’analisi finora fatta, verte si fiabe centrate su singoli personaggi. Le fiabe che seguono sono
rappresentate non più da singoli personaggi autori del proprio destino, bensì da famiglie che
decidono il futuro dei protagonisti. Le tre fiabe che seguono rappresentano, la prima le condizioni
economiche che influiscono sui rapporti familiari, la seconda rappresenta come ci si rivolge più agli
obiettivi rispetto ai mezzi utilizzati, la terza verte sull’onnipotenza dell’amore materno.
Hansel e Gretel, è la storia di una famiglia, la cui madre dei bambini è morta, il padre un povero
taglialegna, è risposato con una donna cattiva, che non provava alcun amore verso i figli
dell’uomo. L’uomo in preda ad una carestia si preoccupa della loro fine e poi di quella dei figli.
Preso dal profondo sconforto si fa convincere dalla donna di abbandonare i figli nel bosco così le
bocche da sfamare erano meno. Hansel si prepara all’evento che aveva origliato, e grazie all’aiuto
dei sassolini che lascia nel sentiero del bosco, durante il tragitto, riesce insieme alla sorella a far
ritorno. La stessa situazione si presenta una seconda volta, però a differenza della precedente
Hansel non aveva più sassolini ma molliche di pane, che gli uccelli avevano beccato e perduti nel
bosco si misero in cerca di un rifugio. L’unico rifugio trovato fu una casa accogliente che ospitava
una vecchia strega cattiva che mangiava i bambini. Dopo alcuni giorni trascorsi in quella casa era
arrivata l’ora del pranzo da parte della strega, ma Gretel riusci ad ucciderla, e una volta liberato il
fratello decisero di svaligiare la casa affinchè questa roba di gran valore potesse permettere ai
bambini di tronare a casa, sollevando il padre da tutte le preoccupazioni economiche. Al loro
ritorno la matrigna era morta e il padre addolorato per la scomparsa ed abbandono dei propri figli
fu felice di averli lì con sé.