Osservatorio sulla giurisprudenza civile al 15 dicembre 2010 a cura

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Osservatorio sulla giurisprudenza civile al 15 dicembre 2010 a cura
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Osservatorio sulla giurisprudenza civile
al 15 dicembre 2010
a cura di Ottavio Grasso
1. Corte di Cassazione, Sez. Un., n. 24418 del 2 dicembre 2010: nullità di clausole di
interessi anatocistici; decorrenza del termine di prescrizione per l’azione di ripetizione
di indebito.
In questa interessante sentenza la Cassazione torna sul tema degli interessi anatocistici
occupandosi del termine a partire dal quale comincia a decorrere la prescrizione dell’azione
di ripetizione di indebito. Un soggetto aveva versato ad una banca, dopo la chiusura di alcuni
rapporti di conto corrente, con essa intrattenuti tra il 1995 ed il 1998, somme comprensive
di interessi computati ad un tasso extralegale e capitalizzati trimestralmente per l'intera
durata dei menzionati rapporti. Chiese quindi che, previa declaratoria di nullità della clausola
contrattuale inerente agli interessi anatocistici, la banca convenuta fosse condannata a
restituire quanto indebitamente percepito.
Investita del problema, la Corte risponde a due interrogativi.
In primo luogo da quando decorre il dies a quo per la prescrizione dell’azione di ripetizione
d’indebito relativamente ad interessi capitalizzati trimestralmente e maturati su un’apertura
di credito in conto corrente, essendo controverso se tale termine decorra dalla data di
chiusura del conto oppure da quando è stato annotato ciascun addebito per interessi. In
secondo luogo se, accertata la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale, gli
interessi debbano, a quel punto, essere computati con capitalizzazione annuale oppure
senza capitalizzazione.
Sul primo quesito, la Corte premette l’esistenza di un orientamento (risalente a Cass. n.
2262/1984) che aveva affermato che il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle
somme trattenute dalla banca indebitamente a titolo di interessi su un’apertura di credito in
conto corrente decorresse dalla chiusura definitiva del rapporto per la considerazione che
questo, sebbene articolato in una pluralità di atti esecutivi, andava visto unitariamente
cosicché solo con la chiusura del conto si stabilivano definitivamente crediti e debiti reciproci
delle parti. Tale orientamento non era andato esente da critiche perché si diceva che
l'unitarietà del rapporto giuridico derivante dal contratto di conto corrente bancario non
facesse si, per ciò solo, che il termine di prescrizione dovesse decorrere dalla chiusura del
conto e si faceva l’esempio dei rapporti di durata. In questi rapporti contrattuali, i quali
implicano prestazioni in denaro ripetute e scaglionate nel tempo (es. locazione,
somministrazione periodica di cose), l'unitarietà del rapporto contrattuale ed il fatto che
esso sia destinato a protrarsi ancora per il futuro non impediscono di qualificare indebito
ciascun singolo pagamento non dovuto, con la conseguenza che il diritto del solvens alla
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ripetizione e la relativa prescrizione dovrebbero iniziare a decorrere da quando avviene
ciascun pagamento indebito.
Pur riconoscendo la pregevolezza dell’argomento, le Sezioni Unite ritengono di mantenere
fermo l’orientamento sopra citato. La Corte precisa, anzitutto, che l’annotazione in conto di
ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati dalla banca al correntista, pur
comportando un incremento del debito di quest’ultimo o una riduzione del credito di cui egli
ancora dispone, non costituisce tecnicamente un pagamento indebito (come pretenderebbe,
invece, la banca). L’annotazione, infatti, in nessun modo si risolve in un pagamento (inteso
come atto giuridico con il quale si estingue un’obbligazione pecuniaria) perché non c’è
alcuna attività solutoria da parte del correntista medesimo in favore della banca. Che sia
così, prosegue la Corte, lo si ricava anche dalle modalità di funzionamento del contratto di
apertura di credito in conto corrente nel quale, ai sensi degli artt. 1842 e 1843 c.c., la banca
mette a disposizione una somma di denaro che il cliente può utilizzare anche in più riprese e
della quale può anche ripristinare totalmente o parzialmente la disponibilità, eseguendo
versamenti che gli consentiranno poi eventuali ulteriori prelevamenti entro il limite
complessivo del credito messogli a disposizione. Tali poste attive e passive, al momento della
chiusura del conto si compensano e, se questo è il funzionamento, continua la Corte, il
privato non realizza alcun pagamento, a meno che non si tratti di versamenti eseguiti su un
conto in passivo (o, come in simili situazioni si preferisce dire, "scoperto"), cui non accede
alcuna apertura di credito a favore del correntista, oppure quando i versamenti siano
destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento. Non è così, viceversa, in
tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite
dell'affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista
della quale il correntista può ancora continuare a godere.
Detto in altre parole, un versamento eseguito dal cliente su un conto il cui passivo non abbia
superato il limite dell'affidamento concesso dalla banca con l'apertura di credito non ha né
lo scopo, né l'effetto di soddisfare la pretesa della banca medesima di vedersi restituire le
somme date a mutuo (credito che, in quel momento, non sarebbe scaduto, né esigibile),
bensì quello di riespandere la misura dell'affidamento utilizzabile nuovamente in futuro dal
correntista. Non è, dunque, un pagamento, perché non soddisfa il creditore, ma amplia (o
ripristina) la facoltà d'indebitamento del correntista e la circostanza che, in quel momento, il
saldo passivo del conto sia influenzato da interessi illegittimamente fin lì computati si
traduce in un'indebita limitazione di tale facoltà di maggior indebitamento, ma non nel
pagamento anticipato di interessi.
Sul secondo quesito (se, dichiarata la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale
degli interessi, questi debbano essere computati con capitalizzazione annuale o senza
capitalizzazione alcuna) la Corte ritiene corretta la conclusione secondo cui, dichiarata la
nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori, non è estensibile
agli stessi la previsione di capitalizzazione annuale degli interessi creditori. Sulla base di
un’interpretazione sistematica del contratto, infatti, la clausola negoziale voluta dalle parti,
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relativa agli interessi creditori, era distinta e separata dalla clausola relativa a quelli debitori,
di conseguenza, una volta dichiarata nulla la capitalizzazione trimestrale dei primi, il
contratto resta privo di qualunque tipo di capitalizzazione relativamente agli stessi. D’altra
parte, di fronte alla nullità di una clausola, il giudice non può intervenire sul regolamento
negoziale fissato dalle parti, sostituendo alla clausola nulla altra causa che le parti non hanno
previsto.
2. Corte di Cassazione, Sez. Un., n. 23285 del 18 novembre 2010: la regola del “foro
erariale” non è applicabile ai giudizi di appello in materia di sanzioni amministrative.
La sentenza in commento (al pari di Cass., Sez. Un., nn. 23286/2010 e n. 23594/2010) risolve
una questione in materia di competenza a decidere in grado di appello sulle sanzioni
amministrative. In primo grado un giudice di pace aveva respinto l’opposizione ad una
sanzione amministrativa. La parte soccombente aveva proposto appello al Tribunale del
circondario, il quale, ritenendo che la competenza fosse del Tribunale capoluogo del
distretto, aveva dichiarato la propria incompetenza.
Decidendo sul regolamento di competenza sollevato dal Tribunale conseguentemente adito,
la Corte premette la ricostruzione del dato normativo. In passato gli artt. 22 e 23 della L. n.
689/1981 fissavano la cognizione esclusiva del pretore in unico grado, stabilendo la diretta
ricorribilità delle stesse in Cassazione. A seguito dell’introduzione della figura del giudice
unico, l’art. 22bis ha distribuito la competenza per materia e valore tra giudice di pace e
tribunale, lasciando inalterato il criterio di competenza per territorio in ragione del luogo in
cui è stata commessa la violazione. Nel 2006 è stato poi modificato l’art. 22 nel senso che le
sentenze e le ordinanze di convalida della sanzione sono appellabili.
Il punto controverso è se, essendo coinvolta nel giudizio un’amministrazione statale,
l’appello avverso le sentenze del giudice di pace debba essere proposto al tribunale del
circondario oppure a quello del capoluogo del distretto come disposto dall’art. 7 del R.D. n.
1611/1933. A favore della prima ipotesi è stato addotto il principio dell’‘ultrattività’ del rito
in virtù del quale anche in appello si applicherebbero le regole del primo grado, tra le quali
quella che stabilisce che le parti possono stare in giudizio personalmente e quella per cui
l’amministrazione può avvalersi anche di funzionari appositamente delegati, con la
conseguenza che in grado di appello non sarebbe necessario avvalersi della difesa erariale e
dunque non ci sarebbe l’attrazione al tribunale capoluogo del distretto.
La Corte esclude la regola del foro erariale in grado di appello sulla base, però, di argomenti
diversi.
La peculiarità delle regole di primo grado non è idonea, di per se sola, ad escludere la
valenza dell’art. 7 del R.D. n. 1611/1933. La norma di cui all’art. 22bis introduce, invero, solo
la regola dell’appellabilità dei provvedimenti che convalidano la sanzione, ma, nel dettare le
norme peculiari per il giudizio di primo grado non comporta senz’altro la deroga alla regola
del ‘foro erariale’; sarebbe stata necessaria, piuttosto, una norma speciale espressamente
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derogatoria in tal senso. Né, precisa la Corte, l’esclusione della competenza del tribunale
capoluogo del distretto può ricavarsi dalla possibilità che la p.a. statale stia in giudizio
mediante un proprio funzionario, dal momento che si tratta solo di una facoltà e che il
maggiore tecnicismo del giudizio di appello rende necessario il patrocinio professionale.
La ragione vera per la quale non sussiste la competenza del foro erariale va ravvisata
nell’esame ragionato del testo normativo già compiuto da Cass., Sez. Un., n. 18036/2008.
Secondo tale sentenza, cui la Suprema Corte manifesta di non volersi discostare, "le
controversie che, prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 51/1998, erano attribuite alla
competenza del pretore per limiti di valore e che sono oggi di competenza del tribunale in
composizione monocratica, sono soggette alle regole processuali del c.d. foro erariale di cui
all'art. 25 c.p.c. e art. 6 del R.D. n. 1611/1933. Ciò, però, non esclude che la disciplina del foro
erariale sia derogata, per effetto di specifiche disposizioni del legislatore (controversie
previdenziali, di opposizione a sanzioni amministrative, sulla disciplina dell'immigrazione, di
convalida di sfratto), ogni volta che sia manifesto l'intento di determinare la competenza per
territorio sulla base di elementi diversi ed incompatibili rispetto a quelli risultanti dalla regola
del foro erariale e, perciò, destinati a prevalere su questa”.
Le controversie di cui all’art. 22bis della L. n. 689/1981 erano esentate ab origine dal ‘foro
erariale’, non perché vi era la competenza per materia del pretore, ma per la considerazione
dirimente del legame con il territorio, in virtù del disposto normativo per cui la competenza
è del giudice ‘del luogo in cui è stata commessa la violazione’. Considerato che l'esigenza di
‘prossimità’ è rimasta anche dopo la soppressione delle preture, la Corte ritiene che
l'esenzione suddetta non è venuta meno.
3. Corte di Cassazione, Sez. III, n. 23273 del 18 novembre 2010: interessi usurari, clausola
penale e riduzione ad equità da parte del giudice.
La Corte torna sul tema della riduzione in via equitativa della clausola penale da parte del
giudice.
Una parte aveva stipulato un contratto di mutuo in data anteriore all’entrata in vigore della
L. n. 108/1996. I giudici di merito avevano rigettato la domanda volta a dichiarare la nullità,
l’annullabilità o la rescindibilità della clausola che fissava il tasso di interessi moratori nella
misura del 15%.
La Terza Sezione ribadisce principi già affermati in passato dalla Suprema Corte.
In primo luogo ricorda che la L. n. 108/1996, che, com’è noto, ha tra l’altro modificato il
testo dell’art. 18152 c.c. sancendo la nullità ‘secca’ della pattuizione di interessi usurari, non
ha valore retroattivo; d’altra parte, come precisato dalla successiva L. n. 24/2000, per
verificare l’usurarietà degli interessi occorre fare riferimento al tasso vigente al momento
della concreta pattuizione e non a quello del pagamento. Sulla base di questi richiami la
Corte ha escluso che al contratto di mutuo stipulato nella vigenza della disciplina
dell’originario art. 1815 c.c., si potesse applicare la nuova normativa dettata dalla L. n.
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108/1996, pertanto è risultata corretta la decisione dei giudici di merito che hanno rigettato
le domande di invalidità, poiché non sussistevano i presupposti per potere dichiarare
l’usurarietà del tasso di interesse praticato al mutuatario.
La Corte però accoglie il motivo di ricorso fondato sulla mancata applicazione dell’art. 1384
c.c.. I Giudici di Piazza Cavour affermano, infatti, che la convenzione con cui si determina la
misura degli interessi moratori possa, a buon diritto, essere assimilata ad una clausola
penale, in quanto essa predetermina l’importo dei danni conseguenti all’inadempimento di
obbligazioni pecuniarie (richiama a tal proposito Cass. n. 2538/1994 e n. 8481/2001) e che la
domanda di riduzione degli stessi era stata regolarmente proposta dai ricorrenti anche in
primo grado. Ma precisano che, in ogni caso (vedi Cass., Sez. Un., n. 18128/2005 e Cass. n.
8071/2008), la domanda poteva perfino essere proposta per la prima volta in appello, poiché
la riduzione della penale manifestamente eccessiva può avvenire, anche d’ufficio, da parte
del giudice, purché, però, le parti abbiano dedotto e dimostrato circostanze rilevanti al fine
di formulare il suddetto giudizio.
4. Corte di Cassazione, Sez. I, n. 24389 del 1° dicembre 2010: solidarietà passiva e azione di
regresso.
La Prima Sezione chiarisce a quali condizioni si possa parlare di obbligazione contratta
nell’interesse di tutti i condebitori in solido e la necessità che tale interesse permanga per
tutta la durata del rapporto ai fini della ripartizione tra di essi del debito.
Due coniugi avevano stipulato un contratto di mutuo con lo scopo comune di far fronte ad
un debito assunto con la madre della moglie, la quale aveva, a propria volta concesso loro in
prestito tali somme per la ristrutturazione della casa coniugale. Il mutuo veniva erogato
tramite accredito sul conto corrente personale del marito. Quest’ultimo, però, distraeva le
somme usandole a scopo diverso da quello convenuto ed in particolare impiegandole a suo
esclusivo vantaggio per finalità personali professionali. Poiché trattavasi di obbligazione
contratta in solido, nell’interesse di entrambi i coniugi, al momento del pagamento, il marito
chiedeva che nei rapporti interni la somma fosse corrisposta da ambedue i coniugi in pari
quota, secondo le regole del codice civile.
La Corte, però condivide le conclusioni della Corte d’Appello che aveva escluso la sussistenza
dei presupposti perché i coniugi rispondessero, nei loro rapporti interni, in pari quota al
debito contratto.
Anzitutto precisa che lo scopo comune (destinazione delle somme mutuate a coprire il
debito contratto per la ristrutturazione della casa coniugale) è entrato a far parte del
contratto, qualificandone la causa, dal momento che, alla contrazione del mutuo, è stato
correlato un patto interno che ha generato un collegamento negoziale che, con rilevanza
causale, ha specificato l’obiettivo concreto che le parti si erano prefisse. Con la conseguenza
di poter qualificare come comune l’interesse perseguito con la contrazione del mutuo.
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Se questo stato di cose fosse stato mantenuto durante la fase di attuazione del rapporto
contrattuale, si sarebbe certamente dovuto dare applicazione alle note regole di cui all’art.
1298 c.c. ed all’art. 1299 c.c. secondo il quale ultimo “Il debitore in solido che ha pagato
l’intero debito può ripetere dai condebitori soltanto la parte di ciascuno di essi”.
Sennonché, puntualizza la Corte, in tema di solidarietà passiva nelle obbligazioni contrattuali
e di rapporto interno di regresso tra condebitori solidali, la suddivisione del debito ai sensi
degli artt. 1298 e 1299 c.c. presuppone non solo che l’obbligazione in solido non sia stata
originariamente contratta nell’interesse esclusivo di alcuno dei condebitori e, dunque, che
sia sorta come d’interesse comune, ma anche che tale tipo di obbligazione non sia venuta
meno per diverso funzionamento concreto del rapporto.
Nella specie sussisteva uno specifico impegno, incidente nel sinallagma contrattuale con
rilevanza nel solo rapporto interno tra i due condebitori e convenzionalmente correlato
all’utilità oggettiva per entrambi all’erogazione, ma che di fatto è rimasto inadempiuto, e
dunque inattuato, a seguito dell’utilizzazione della somma mutuata per uno scopo personale
non previsto. Tutto ciò ha provocato la concreta configurazione funzionale di un mutuo
contratto nell’esclusivo interesse di uno dei coniugi e la perdita totale dell’utilitas che l’altro
coniuge, condebitore solidale, avrebbe dovuto ricavare, con l’ulteriore conseguenza, per
quest’ultimo, di potere agire in regresso per l’intero esborso indebitamente sostenuto
nell’interesse soltanto altrui.
5. Corte di Cassazione, Sez. VI, n. 24526 del 2 dicembre 2010: l’affidamento condiviso dei
figli costituisce la regola nel’assetto dei rapporti post-crisi coniugale.
La Corte, che, nel caso di specie, decide in camera di consiglio seguendo il procedimento
semplificato di cui al novellato art. 380bis2 c.p.c., conferma il proprio orientamento in
materia di affidamento dei figli dettato a seguito della L. n. 54/2006.
La Corte, in particolare, risponde a due quesiti: quello relativo alle condizioni in presenza
delle quali si possa derogare alla regola dell’affidamento condiviso dei figli e quello attinente
al se l’oggettiva distanza esistente tra i luoghi di residenza dei genitori sia di ostacolo a tale
forma di affidamento.
La Sesta Sezione, inserendosi nel solco già tracciato da propri precedenti arresti (Cass. nn.
16593/2008 e 26587/2009) ribadisce il principio che l’affidamento condiviso costituisce la
regola nell’assetto dei rapporti genitori-figli a seguito della crisi matrimoniale.
Nel caso di specie, a seguito di reclamo avverso il provvedimento che aveva disposto
l’affidamento esclusivo della figlia al padre, la Corte d’Appello, pur avendo rilevato che non
fossero in discussione le capacità genitoriali dei due genitori, entrambi adeguati e con un
buon rapporto con la figlia minorenne, aveva disposto l’affidamento esclusivo della minore
alla madre, per la ragione che l’oggettiva distanza esistente tra i luoghi di rispettiva residenza
dei genitori precludesse la possibilità di un affidamento condiviso e tenendo conto altresì del
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preminente superiore interesse della bambina, del suo forte legame con la madre e della
necessità di non turbare tale condizione di permanenza presso di lei.
La Suprema Corte, però, annulla tale decisione rilevando come essa si ponga in contrasto
con l’orientamento assunto con le pronunce prima menzionate, nelle quali si è affermato il
principio di diritto secondo cui alla regola dell’affidamento condiviso dei figli può derogarsi
solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”, con la duplice
conseguenza che l’eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da
una motivazione non solo più in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in
negativo sull’inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore.
Detto in altri termini, l’‘affidamento monogenitoriale’ è un’ipotesi certamente residuale
rispetto a quello condiviso e può ricorrere solo in presenza di comprovate circostanze tali da
far ritenere contrario all’interesse del minore l’affidamento condiviso per la ragione che
l’altro genitore sia manifestamente carente o inidoneo all’educazione ed istruzione dei figli.
In merito alla seconda questione i Giudici di Piazza Cavour affermano che l’oggettiva distanza
esistente tra i luoghi di residenza dei genitori non preclude la possibilità di un affidamento
condiviso del minore ad entrambi i genitori, potendo detta distanza incidere soltanto sulla
disciplina dei tempi e delle modalità della presenza del minore presso ciascun genitore (artt.
1552 e 155quater2 c.c.).
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