Breve riflessione sulla libertà e lo Stato - "Ferraris"

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Breve riflessione sulla libertà e lo Stato - "Ferraris"
Andrea Luppi1
Breve riflessione sulla libertà e lo Stato
Introduzione
La libertà è uno dei temi su cui i filosofi di ogni tempo hanno lungamente dibattuto.
Negli ultimi tempi, poi, le neuroscienze hanno riportato il tema alla ribalta e le posizioni
al riguardo si sono ulteriormente moltiplicate a causa delle implicazioni che le moderne conoscenze scientifiche hanno apportato: il problema riguarda essenzialmente la presunta incompatibilità del concetto di libero arbitrio con il rigoroso determinismo che molti scienziati
sostengono.
Lo scopo di questo breve scritto non è però cercare di mettere a fuoco se la libertà esista
in senso assoluto, quanto piuttosto cercare di provare a capire che cosa essa sia e se possa
sussistere nell’ambito di una società dotata di leggi.
Un primo approccio
Per discutere di un argomento così complesso e profondo è probabilmente opportuno, per
meglio comprendere ciò con cui si ha a che fare, partire da una semplice definizione. Tuttavia anche questa operazione risulta difficile perché nel corso del tempo le definizioni di libertà sono state numerose quasi quanto i filosofi che se ne sono occupati e non di rado incompatibili tra loro. Le stesse conclusioni di molti moderni scienziati erano infatti già state
anticipate e proposte da filosofi del passato, benché solo sul piano puramente speculativo:
basti pensare alle tesi meccaniciste o alla “libera necessità” di cui parla Spinoza nell’“Ethica
more geometrico demonstrata”.
Per avvicinarsi all’argomento conviene quindi partire da una prima e più rozza definizione di libertà, quella cioè che darebbe una persona qualunque: libero è chi può fare ciò che
vuole.
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Studente del Liceo Scientifico Statale “G. Ferraris”, classe V C, a.s. 2011 – 2012.
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Una definizione che non soddisfa
La definizione sopra esposta ruota attorno a due nuclei verbali, il “poter fare” e il “voler
fare”. Partendo dall’esame di quest’ultimo aspetto, si avrebbe il già citato problema della libertà come contrario della necessità, libertà che era dagli antichi (fin da Aristotele) definita
come l’essere causa sui, vale a dire essere fautore autonomo delle proprie decisioni. Infatti,
se anche potessi “fare ciò che voglio”, ma non fossi realmente io a determinare ciò che voglio, non sarei realmente libero. Proprio in questo senso sembrerebbe orientarsi la scienza
contemporanea, affermando che in realtà le decisioni sono prese inconsciamente in seguito a
processi fisiologici e che la nostra percezione dell’essere liberi non è altro che una illusione.
Queste conclusioni, benché ricche di implicazioni, non sono però rilevanti ai fini del presente scritto che vuole, invece, brevemente analizzare la libertà del fare dell’individuo all’interno di una comunità organizzata e dotata di apparato legislativo. La società si basa, infatti, sul presupposto che ciascun individuo sia dotato di libero arbitrio e che le sue azioni
derivino da una ben precisa volontà.
Se così non fosse le leggi che rendono possibile l’esistenza della società non avrebbero
più alcun significato, non essendo in grado di influenzare la volontà dei singoli, ma solo le
loro azioni. Il legislatore parte quindi dal presupposto che il singolo sia responsabile delle
proprie azioni e dunque di ciò che vuole (salvo casi particolari, debitamente presi in considerazione, quali la “temporanea infermità mentale”).
Sembrerebbe inoltre impossibile separare il concetto di libertà da quello di volontà, in
quanto una pietra, priva di volontà, non è in alcun modo considerata libera o passibile di diventarlo.
In altre parole, condizione necessaria (ma non sufficiente) perché un singolo si possa definire libero è che le azioni che compie siano conseguenza della sua volontà.
La volontà è dunque presa come un dato di fatto e sono le prevaricazioni nei confronti di
essa a costituire l’assenza di libertà (si cerca quindi di dare una definizione negativa della libertà).
Più interessante, a questo riguardo, è l’analisi del “poter fare”: questo implica l’assenza di
vincoli esterni a ciò che il singolo è in grado di fare (“esterni” perché bisogna comunque tener conto di tutti quei limiti strutturali che sono relativi alla natura stessa dell’uomo che è
inserito in una realtà spazio - temporale, a meno che non si voglia accettare la visione secondo cui solo un essere onnipotente, dunque divino, sarebbe realmente libero). In questo modo
si caratterizza la libertà come una “libertà da”, il che permette di giungere ad una seconda
definizione della libertà: libertà è non avere ostacoli nel realizzare ciò che si vuole e ciò che
si è in grado di fare, ma anche non essere costretti a fare ciò che non si vuole.
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Libertà, Legge e Stato
In una simile ottica, è evidente che la legge risulti assai lesiva delle libertà personali: da
un lato limita ciò che i cittadini possono fare e dall’altro li costringe a fare cose contrarie
alla loro volontà, come rinunciare a parte del denaro che hanno guadagnato sotto forma di
tasse. Una visione del genere, benché con alcune importanti differenze, è quella dei giusnaturalisti come Rousseau (ne “Il contratto sociale”), Hobbes (ne “Il Leviatano”) e Locke (nei
“Trattati sul governo”), secondo i quali l’uomo allo stato naturale è libero e lo Stato sorge
tramite un contratto sociale che i singoli sottoscrivono rinunciando a parte delle loro libertà
perché alcune, quelle ritenute fondamentali, siano invece garantite e tutelate.
Si attua dunque una sorta di classifica delle varie libertà (o per meglio dire i vari aspetti
della libertà), sacrificando quelle considerate minori per avere la certezza di conservare
quelle maggiori, che diventano “diritti”. Per questi pensatori non c’è comunque dubbio riguardo alle limitazioni che lo Stato impone alla libertà.
In pratica, lo scopo dello Stato di diritto viene ad essere quello di proteggere la libertà dei
cittadini da quella di altri cittadini più forti, tramite l’introduzione delle leggi. Ma questo significa che, secondo la nostra seconda definizione di libertà, la libertà dei cittadini forti viene repressa più di quella dei cittadini deboli. La libertà dei più deboli era infatti già limitata
dalla loro debolezza (ciò che erano in grado di fare era cioè poco).
Tuttavia la qualifica di “forte” o “debole” è in rapporto a qualcun altro: in assenza di altri
individui, il singolo non dovrebbe più temere di essere prevaricato da altri singoli più forti e
dunque non avrebbe più ostacoli a fare ciò che vuole, ovvero alla propria libertà per come
l’abbiamo definita, se non quelli imposti dalle sue stesse capacità, dal suo stesso corpo. In
una parola: da ciò che egli è.
Ad una simile condizione si oppone però il bisogno dell’uomo, anche biologico, di contatti con membri della sua specie (anche qui si potrebbe dibattere sull’essere questa una
mancanza di libertà). Lo Stato, inteso come forma evoluta di una qualsiasi società civile,
sembra pertanto un compromesso necessario all’uomo al fine di ottenere questi contatti in
condizioni di stabilità, senza dover temere o lottare per qualsiasi cosa, come invece accade
allo stato primordiale.
Le leggi, e lo Stato di cui sono il fondamento, hanno dunque il compito di delimitare uno
spazio all’interno del quale i cittadini possano muoversi in assoluta libertà e con la certezza
che questa libertà non verrà toccata.
Quale potrebbe essere una nuova e più calzante definizione della libertà che tenga conto
di quanto detto finora?
In seguito alla Rivoluzione Americana del XVIII secolo, la libertà venne definita come
“la possibilità di fare tutto ciò che non limita la libertà altrui”. Tale definizione, benché
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comprensiva della nozione del singolo in quanto cittadino e dunque non indipendente, ma
parte di una società, non è tuttavia soddisfacente. Essa, più che essere una vera definizione,
si limita a definire lo spazio d’azione della libertà, senza però spiegare veramente che cosa
essa sia. Ci si potrebbe infatti chiedere che cosa sia questa libertà altrui di cui si parla e subito la definizione diverrebbe priva di senso.
In seguito, però, Kant nell’opera “Per la pace perpetua” fornì una diversa visione della libertà, intesa come “facoltà di non obbedire ad altre leggi se non quelle a cui si sarebbe
dato il proprio assenso”. Questa definizione, ancora una volta negativa, arriva addirittura ad
implicare il fatto che l’individuo si muova e operi nel contesto di una società, come se la libertà non potesse esistere al di fuori di essa. Per comprendere ciò bisogna tenere a mente il
fatto che Kant vede la libertà dell’uomo come libertà di seguire o meno la propria morale,
non libertà assoluta, in quanto la libertà kantiana esiste solo nell’ambito del noumeno: il fenomeno, cioè la realtà come la percepiamo, è infatti regolato dal determinismo. Quello che
egli intende con la sua definizione è che l’uomo deve rispettare la propria legge morale e la
legge dello Stato non deve contrastare con essa. Eppure, si potrebbe muovere l’obiezione
che anche la legge morale sia una costrizione della libertà, in quanto non stabilita dal singolo, ma imposta, ancorché non da altri individui.
Verso una libertà positiva
Ma come giungere ad una definizione di libertà che sia soddisfacente e anche positiva?
Per farlo, l’unico modo sembrerebbe essere quello di andare a monte del problema del “poter fare” e tornare al problema del “voler fare”; se infatti si avesse un controllo su ciò che si
vuole, si potrebbe allo stesso tempo non volere altro da ciò che si può fare, intendendo questo poter fare nel duplice senso di esserne in grado e di esserne autorizzati. Ma l’unico modo
per dominare ciò che si vuole è tramite la volontà, il che sembrerebbe un paradosso.
Tuttavia la maggior parte delle decisioni si configura come una scelta, una scelta tra due
volontà contrastanti, ciascuna con i propri vantaggi e svantaggi. Un esempio: pagare le tasse
significa perdere dei soldi, e io non voglio, ma significa anche aiutare lo Stato e fare il mio
dovere, e questo io lo voglio. Quale è dunque il criterio che fa propendere per una delle alternative?
Se si tratta dell’istinto, allora l’uomo non potrà mai essere libero, almeno non all’interno
dello Stato, perché l’istinto è per sua natura principalmente egoista: la vita in una società richiede invece che questo egoismo di fondo passi in secondo piano rispetto alle esigenze della collettività.
Ma se invece il criterio di scelta fosse la ragione, e lo fosse per tutti, allora le scelte sarebbero dettate dall’interesse comune e soprattutto, se le leggi fossero sempre dettate dalla ragione, non vi sarebbe alcun conflitto tra queste e l’agire dei singoli. In tal modo la situazione prospettata dalla definizione kantiana non potrebbe nemmeno verificarsi, in quanto tra le
leggi dello Stato e ciò che i singoli vorrebbero ci sarebbe assoluta corrispondenza.
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Lo Stato diverrebbe quindi repressivo della libertà solo da un punto di vista strettamente
teorico, ma non più nella sostanza: nei fatti, le leggi risulterebbero solo una conferma ulteriore della volontà dei singoli.
Una società del genere presuppone però l’aderenza di tutti i suoi membri al criterio di
scelta della ragione e, sebbene questa sia presente in tutti, non tutti sono ancora giunti al
grado di maturità necessario (qualcosa di simile alla “uscita dallo stato di minorità intellettuale” di cui Kant tratta nel suo scritto “Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?”).
Fino ad allora lo Stato dovrà rimanere come effettiva limitazione alla libertà; tuttavia,
anche così esso svolge una funzione che non andrebbe sottovalutata: tramite la limitazione
delle libertà, esso permette di cogliere (benché in modo puramente negativo) che cosa sia la
libertà. Non la sua definizione, ma il suo significato profondo. In questo senso la funzione
dello Stato è fondamentale, in quanto spinge l’uomo a ricercare la libertà, per sé e, in base
alle considerazioni fatte, anche per gli altri, superando così l’egoismo.
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