Leggi l`elaborato - Fogli di Viaggio

Transcript

Leggi l`elaborato - Fogli di Viaggio
Immagini dal Giappone
Parte Prima: Punti di contatto
Kobe – Il ponte della modernità
Il Giappone che vuole essere moderno veste
all’europea e costruisce all’europea. L’impressione
che si ha camminando intorno alla stazione di
Motomachi, vecchio centro cittadino, è che questa
città possieda uno stile nettamente europeo. Dalle
architetture dei grandi palazzi e grattaceli ai grandi
e spaziosi viali, dai vestiti ai negozi tutto è molto
simile esteticamente ad una grande città europea.
Perfino i venditori di pane e cioccolata, che sono
molti in questa città, hanno nomi tedeschi. Non si
prova un grande senso di spaesamento, questa non
è ancora l’Asia carica di sogni dei viaggiatori di altri
tempi. Questa è l’Asia dei commerci, dei traffici
dell’incontro con gli europei.
Vicino alla stazione di Motomachi c’è anche
Chinatown, chiamata Nankinmachi. Il quartiere
appare abbastanza pacchiano nel complesso, il
rosso delle lanterne e delle insegne dei negozi è la
nota cromatica dominante insieme con l’oro delle
scritte nelle insegne. La zona è turistica e piena
zeppa di ristoranti, che affollano i vicoli disposti
rigorosamente ad angolo retto, quasi come una
città romana costruita intorno a cardo e decumano.
Il quartiere è ben delimitato dalle porte che ne
segnano l'ingresso ai quattro punti cardinali e che
gli conferiscono una sua unità visiva e urbanistica
ben definita.
Il porto oltre Chinatown è molto curato, pulito, non
tanto commerciale, ma più turistico. C'è aria di
grandi navi da crociera e grandi alberghi.
Il porto vivente e pulsante è però un'immensa rete
che si snoda sull'intera baia di Kobe e sulle isole
antistanti, alcune delle quali artificiali, e che si
unisce a quello di Osaka più a est. La parte verso
Osaka è più legata al trasporto delle merci. Il porto
di Kobe era negli anni Ottanta tra i più grandi del
Giappone per movimentazione merci, ora non si
vede più tutto questo traffico. All’epoca la zona del
porto era terra di yakuza, mi dicono alcuni locali,
ma ora anche loro si sono messi in giacca e cravatta
e pensano più alla finanza. Ci sono nuovi porti fatti
non più per le merci, ma per i soldi e gli strumenti
finanziari che sono più redditizi e rispettabili del
duro lavoro fra le gru e le banchine del porto.
La città vista dall'alto, grazie ad un’escursione sulle
colline che la circondano, rivela altri tratti della
città ponte tra il nostro mondo europeo e quello
giapponese. Molti signori e signore fanno la gita
della domenica, tutti in tenuta sportiva. La natura è
ancora un po' secca per l'inverno, ma le piante
sono in parte diverse dall'Europa e danno già un
tocco asiatico al paesaggio: palme e bambù e molta
“sasa”, un tipo di bambù di cui sono ghiotti i panda.
Le colline intorno si sfaldano e ci sono opere
idrauliche in cemento ovunque. In una valle dietro
la prima fila di colline si trova un enorme cimitero
cittadino che occupa un intero versante della valle.
Le tombe tutte piccole e uguali, nel tradizionale
stile giapponese fatto di una piccola stele con inciso
il nome del defunto e il suo simbolo di famiglia, si
susseguono senza soluzione di continuità nel grigio
delle loro pietre. Camminando tra le lapidi, colpisce
l’uguaglianza nella morte che viene adottata nello
stile delle sepolture. Questo dice molto sul
rapporto culturale con la morte di questo popolo,
in cui nessuno sembra avere un posto migliore, né
una decorazione più bella. Anche se in seguito
scoprirò che pagando a sufficienza i bonzi si
possono ricevere nomi migliori per il viaggio
nell’aldilà del proprio defunto. L’unica eccezione a
questa distesa monocrome e mono stilistica sono le
sepolture di alcune famiglie coreane, come si ricava
dai cognomi incisi nella pietra, di religione cristiana.
Queste tombe sono enormi per dimensioni se
comparate alle altre e sono ornate di statue, croci e
altre incisioni su grosse pietre, che segnano una
differenza netta e stridente di gusto rispetto alle
migliaia di altre tombe circonstanti. I missionari
sono avvertiti.
Narita è un po’ fuori città, l’altro aeroporto di
Tokyo, quello di Haneda, è invece vicino al centro.
Nel bus che collega i due aeroporti colgo alcuni
frammenti della città, da lontano, nella sera.
Grattaceli e luci. Mi sembra di vedere la sagoma di
una città di un film di fantascienza, ne più ne meno.
Per mia fortuna Blade Runner è il mio film preferito
e mi pare ora di guardarne il set.
Il socialismo giapponese delle sepolture non arriva
però in collina. Dove nei quartieri alti, le ville sono
enormi specie per le dimensioni medie delle case
giapponesi e alcune, costruite in stile nord europeo
con tetto a punta e legno che sembrano prese e
trasportate dalla Germania di inizio novecento, ma
con nome giapponese al cancello, sono addirittura
anche più alte della residenza del Tenno,
l’imperatore del Sol Levante, a Kyoto
Ci spostano di aeroporto a causa di una
cancellazione per neve, mi aspetto il peggio. Invece
mi sbaglio. La reazione giapponese di fronte
all'imprevisto è molto flessibile, cosa che gli
altrettanto organizzati tedeschi non mi sembrano
spesso capaci di fare. Specie all'aeroporto di
Haneda mi sorprendono per capacità di reazione.
Organizzano dal nulla una fila apposta per i
"dirottati" caricano al volo i bagagli su di un canale
speciale e pur in una sorta di tranquillità che
potrebbe sembrare eccessiva e che rispetta i ruoli
professionali al millesimo, tutto viene fatto in
qualche modo, sembra quasi da sé. Basta
mantenersi calmi, sorridere e non si viene mai
scaricati, la relazione in Giappone sembra troppo
importante. Forse si tratta di quel non voler
perdere la faccia di cui parlava Angela Terzani nei
suoi diari alla fine degli anni ottanta. Troppo poco
tempo per indagare ora, l’aereo è in partenza e
aspetta solo noi.
Tokyo – Imprevisti e elasticità
L’aeroporto di Narita è enorme, ma semplice. Tutto
è allineato in una lunga fila semplice e ripetitiva e
solo al centro si stacca, proteso verso le piste, il
centro dell’aeroporto, che è anche un centro
commerciale. Impossibile perdersi nella semplicità
estetica giapponese.
All’aeroporto c’è lavoro per tutti e ben organizzato.
Le squadre di lavoratori fanno ginnastica all’aperto:
tutti i lavoratori insieme fanno gli esercizi che il
capo squadra effettua di fronte a loro. Anche i vetri
si puliscono in squadra: tre uomini che lavorano
all'unisono su di una impalcatura mobile, il primo
lava, il secondo asciuga e il terzo guida il carrello,
tutto senza sosta. Alla fermata del bus ci sono i
facchini che dirigono le salite e discese dei
viaggiatori con una diligenza ed efficienza assoluta,
quasi militare. Non c’è traccia del disordine che ho
lasciato negli aeroporti europei alla partenza in cui
ognuno si arrangia come può a trovare dove ferma
il suo bus e a caricarsi i bagagli. La mano d'opera è
usata in modo abbondante ad ogni angolo e la
gentilezza è d'obbligo e massima ovunque.
L’elasticità stando a Nicolas Bovier nelle sue
Cronache Giapponesi viene dall’assenza dell’idea
del dover essere, ma solo dall’accettare i fatti, le
cose così come si presentano e reagendo quindi di
conseguenza, adattandosi appunto. Una risposta
che forse è in perfetta armonia con una natura
terribile di terremoti, eruzioni, tsunami, tifoni che
continuamente colpiscono l’arcipelago e di fronte
alla quale l’inflessibilità umana sarebbe più di
intralcio che di aiuto.
Così salgo a bordo di un "aereo pendolari" tra
Tokyo e Osaka. Le dimensioni dell’aeromobile sono
da viaggio intercontinentale, anche se il volo dura
solo un’ora. Tutti gli uomini in torno a me sono in
giacca e cravatta, tutto l’aereo ne è pieno. Sono i
famosi “sarari men”, gli uomini salario, i dipendenti
dei conglomerati e delle ditte giapponesi, la spina
dorsale dell’economia del paese. La maggior parte
dorme dopo la giornata di lavoro. Sono le otto,
forse saranno a casa per le nove e mezza in tempo
per la cena con la famiglia.
Parte seconda: L’anima antica del Giappone
Kumano Kodo – Traversata sui sentieri dello spirito
Una delle parti più selvagge del Giappone è la
prefettura di Wakayama, poco più a est di Osaka.
Questo è il luogo ideale per iniziare a cercare il
tratto nascosto del Giappone moderno, o meglio di
quel d’antico che ancora vive in esso.
Dal passo di Hyakken-guru si gode una grande
visuale sui tremilaseicento picchi, che gli danno il
nome. Siamo nel cuore della penisola del Kii nel
cuore della prefettura di Wakayama. Le valli si
susseguono una dopo l’altra cavalcando l'orizzonte
e nulla di abitato vi si scorge, nonostante i "picchi",
tra le catene del monto Oto a sud e il monte
Hatenashi a nord, abbiano altitudini comprese tra i
400 e i 1000 metri, di fatto delle colline. Qui ci si
spoglia del Giappone moderno, che vive nel futuro
delle sue brulicanti città e appena si esce dalla
razionalità verticale si accede a una di quelle parti
del paese che nasconde ancora qualcosa di
profondamente ancestrale. Basta guardare meglio
là dove si snoda quello stretto sentiero di pietre tra
la vegetazione.
L’Hyakken-guru è il passaggio più spettacolare di
un’antica via fatta di pietre intagliate usata,
soprattutto nel periodo Edo, come sentiero di
pellegrinaggio, un cammino di Santiago del Sol
Levante. Fu percorsa nel 1201 dal famoso poeta
Fujiwara Teika, che nel suo diario dello stesso anno
scrisse che "Questo sentiero è veramente selvaggio
e difficile. Difficile descrivere quanto duro sia
veramente." Affidarsi a un poeta come guida?
Forse è una buona idea, basta non prenderlo
troppo alla lettera.
L’inizio della via, costruita per intero in pietra, è
marcato da due immensi alberi guardiani coperti di
muschio verde, tra i cui grossi rami c’è abbastanza
spazio per stare comodamente seduti. Poco oltre,
al termine di una ripida scalinata che ha
un’altissima cascata sulla sua sinistra, vi sono uno a
fianco all’altro i templi shintoista e buddista dove i
pellegrini ricevono le benedizioni necessarie
all’impresa e dove colonne di fumo provenienti da
grandi vasi pieni di incenso si alzano nel cielo.
Salendo verso le cime, oltre i due templi, si ha la
grande distesa dell’oceano Pacifico alle spalle. Per il
viaggiatore europeo questo è veramente un
cammino alla fine del mondo.
Delle molte centinaia di chilometri coperte dai
tracciati dell’antica vie imperiale, scelgo il
passaggio tra Hongu e Nachi per godere di alcuni
on-sen, calde sorgenti termali, all’inizio e alla fine
del percorso. Lungo la strada dove ora si vedono
rovine coperte di vegetazione si trovavano molte
hatago, case da thè, piene di vita e di viandanti nel
periodo Edo tra il 1600 e il 1868. Un pellegrino del
diciassettesimo secolo descrive nel suo diario
l'invitante insegna di una di queste hatago:
"Abbiamo il tofu e il bagno è già pronto". Una di
queste, la Matsuhata nella prima parte del
percorso, è stata in uso fino agli anni sessanta dello
scorso secolo, mentre la maggioranza di esse è
caduta in disuso negli anni venti con la rapida
apertura del Giappone al vento della modernità.
I pellegrini non sono certo scoparsi. Ancora oggi
percorrendo il sentiero si incontrano molti uomini
giapponesi, soprattutto di mezza età e spesso in
tuta da ginnastica che camminano da soli assorti in
silenzio, non sono mai di grandi parole e appena
salutano il viaggiatore con un cenno, quasi con una
certa sorpresa. Non oso rompere il silenzio che
riempie questo cammino, e che dopo due giorni mi
è entrato nelle ossa come l’umido, per sfamare la
futile curiosità sull’origine di quella sorpresa. Le
case da thè non sono più lungo il percorso, ma in
quei rari villaggi che si devono raggiungere a prezzo
di lunghe digressioni si può ancora trovare
un’eccezionale ospitalità fatta di lauti pasti e
onorevoli bagni caldi, gli ofuro. Alcuni pellegrini
decisamente più puristi, vestiti con abiti rituali,
camminano in realtà anche la notte apprendo in
seguito da un documentario una volta tornato di
fronte alla civiltà a 16 pollici.
Tutto il percorso dei pellegrini è sorvegliato da
innumerevoli o-jizo-sama, piccole statue di
Bodhisattva compassionevoli che si sono salvate
dall'incuria e dal passare del tempo, quasi la natura
ne avesse anch'essa amorevole rispetto. O più
semplicemente perché una sapiente mano umana
le abbia curate, ma quante ce ne sono! Sarebbe
un'impresa monumentale. Ogni roccia, ogni albero,
ogni forra, ogni ruscello qui si crede abbia voce,
occhi e fiato. I locali, e per certo anche alcuni
giapponesi incontrati in città, credono che
effettivamente strane creature mostruose, gli Yokai,
popolino effettivamente questi luoghi. Ci sono tanti
Yokai quanti la fantasia ne possa partorire, ma le
storie di alcuni di questi originari proprio di questi
sentieri furono raccolte da Lafcadio Hearn, studioso
europeo che veniva da un’altra isola piena di magia,
l’Irlanda, all’inizio del secolo scorso e hanno ora
una certa celebrità.
La waroda-ishi, la grande pietra a forma di cuscino
muschioso situata ad un trivia nel bosco è uno di
quei luoghi dove, secondo la tradizione, sarebbe
particolarmente facile sentire le divinità naturali
discutere fra loro durante i loro appuntamenti.
Questa pietra offre uno scorcio della storia religiosa
del Giappone, segnata dal sincretismo tra
buddismo e shintoismo, che è qui evidente
nell’aver posto a fianco delle manifestazioni delle
tre divinità naturali shintoiste i relativi principi
buddici, di Kannon (la pietà), Yakushi (la guarigione)
e Amida (la Saggezza). Un po’ come il tempio
buddista all’inizio della via si trovava a fianco di
quello shintoista, che sia più a guida o più a guardia
di quel che vi si cela?
Kyoto e Nara – Nel bambù le radici dell’impero
del sole
I viaggiatori e gli scrittori occidentali che hanno
soggiornato in Giappone hanno spesso posto al
centro della loro opera la necessità di cercare
l’anima del Giappone, di trovare delle risposte,
delle definizioni univoche, un minimo comune
denominatore culturale per questa civiltà. C’è chi
ha lasciato il paese affranto per l’insuccesso, chi si è
rifugiati nella visione dell’enigmaticità di questo
popolo. C’è chi ha proposto lo Zen e chi ha perfino
paragonato i giapponese agli ebrei. Qualcuno ha
concluso che in fondo non c’è molto da cercare e la
verità è troppo modesta per spenderci anni della
propria vita. Questa ricerca se vuole essere tentata
va affrontata a partire da due città che hanno in
tempi diversi ospitato la sede imperiale del
Giappone e ne portano incisi in profondità i segni:
Kyoto e Nara.
È nelle sedi imperiali che si è formata l’anima
religiosa del paese, sviluppata attorno alla figura
del Tenno, l’imperatore, tradizionalmente
considerato figlio della genia del sole stesso. La
spiritualità pare sia qui solo formata e non creata,
perché la spiritualità in Giappone emerge dalla
natura stessa, venerata dai templi shintoisti e
indirizzata, guidata, educata, dalle scuole buddiste
e dallo Zen. Non è mai un messaggio a priori
derivante da un dio distante. I Kami, le divinità
sono dappertutto e ogni essere ha in sé stesso il
principio della buddità. Il viaggio nello spirito parte
dalla natura e dall’uomo, non dalla chiamata del
trascendente. Tutto si riduce al reale inutile cercare
risposte o fughe oltre a questo.
Nara – Alla presenza del Buddha
L’arrivo in stazione è già eloquente. In piazza c’è un
aria più tradizionale che in altre città del Giappone,
sarà forse per gli elementi decorativi e i tetti
arcuati. La città è piena di due cose: templi e cervi.
Entrambi portati qui dalla presenza imperiale
durata circa tre secoli. Fu questa infatti la prima
capitale stabile del Giappone. I cervi furono portati
quando l’imperatore, all’inizio del ottavo secolo
dopo cristo, decise di costruirsi una città modello
che rispecchiasse il paradiso in terra. Un po’ come il
suo omologo d’oltremare, il celeste imperatore
cinese, aveva fatto a Pechino per il suo Impero di
Mezzo.
Il cuore religioso della città è il Todaiji, “Il grande
tempio dell’est”. Un’enorme palazzo di legno
decorato, all’interno del quale si trova la grande
statua del Buddha, la cui effige è famosa in tutto il
mondo. Per rendersi conto dell’importanza del
luogo è un po’ come trovarsi in una San Pietro del
Giappone.
All’interno il gigantesco Buddha di bronzo con gli
occhi semiaperti è seduto in meditazione
circondato da statue di altre divinità, importate dal
continente, e qui suoi guardiani. La statua del
Budda è seduta su di un enorme fiore di loto
decorato con incisioni raffiguranti l’universo così
come descritto dalle sutre, antichi testi sacri
buddisti.
Il grande tempio si trova al centro di un complesso
religioso molto vasto, che ospita vari altri templi,
alcuni dei quali altrettanto antichi e venerati.
L’entrata all’intero complesso è guardata a vista
dalle due monumentali statue di legno di protettori
del Buddha, i Kongorikishi, scolpite dal monaco
Unkei otto secoli fa. I due guardiani sono scolpiti in
movimento nella loro piena espressione di forza e
secondo la tradizione nell’atto di pronunciare il
mantra “aum”, più nota come “om”. Sarà la
suggestione del momento, la sacralità del luogo o il
minor numero di persone, ma non appena varcata
la soglia si avverte la sensazione di una grande
calma rispetto all’esterno del grande portale.
Sempre all’interno del complesso in cima alla bassa
collina alla destra del Todaji c’è altro tempio
buddista molto antico, il Nigatsudo, tanto poco
visitabile, che perfino ai monaci stessi pare sia
interdetto visitare le statue del Budda conservate
nelle stanze più sacre. In alcune sere di marzo in
questo tempio si svolge una cerimonia durante la
quale lunghi bastoni infiammati vengono portati di
corsa intorno al tempio e le cui ceneri se toccate
avrebbero poteri miracolosi secondo la credenza.
La fila alle cinque del pomeriggio è già lunghissima
e il culmine della cerimonia è previsto per la mezza
notte, a quanto apprendo da alcune signore. La
collina su cui è posto il tempio ha una particolarità
interessante: ogni anno essa viene bruciata a
simboleggiare la morte e rinascita delle stagioni e
dell’esistenza.
Kyoto – L’imperatore dal palazzo di legno
A Kyoto il motto perfetto potrebbe scandire così:
“essere non apparire”. Questa è l’idea che ci si può
fare sia visitando la residenza-tempio
dell’imperatore il “Daikakuji”, sia il tempio Zen del
muschio, il “Saihoji”.
La casa-tempio del Tenno è semplice. Come il
quartiere intorno di case grandi , ma modeste.
Il tempio del muschio è un esperienza. “Essere” nel
tempio non tanto “vederlo” è il verbo che si addice
di più a questa visita che inizia ritualmente con la
scrittura in una sala del tempio dell’intera sutra del
cuore in Kanji, gli ideogrammi giapponesi. Il tempio
è costruito nel tentativo di disciplinare la natura
fino a poter scorgere nel gioco visivo che si crea tra
il muschio e le pietre dell’acqua in movimento.
Questo dovrebbe ricalcare il modello di un
esercizio Zen che riporta la mente al concetto di
impermanenza della realtà. I monaci curano 200
tipi diversi di muschio attorno al laghetto al centro
del parco che forma la sagoma dell’ideogramma
cinese xin, tre linee verticali e una linea come un
segno di visto, che significa cuore.
A Kyoto si respira ancora un atmosfera da
Giappone di altri tempi. Questo è quello su cui tutti
i viaggiatori sono concordi. Le zone di Katsura e
Amayana per esempio offrono molti scorci, case,
tetti, sculture il cui gusto riporta alla mente
qualcosa di diverso, qualcosa che si può
immaginare ancora intatto di un tempo passato.
Come forse pensano le molte ragazze che si
mettono in kimono e da molte parti del Giappone
vengono proprio qui ad indossarlo e si fanno un
giro della città in abiti tradizionali. Pare sia un rito
molto diffuso a certe età.
La foresta di Bambù, poco fuori città porta la
metafora migliore di questo paese così legato alla
transitorietà, che così bene si adatta alla dottrina
dell’impermanenza buddista. Il bambù cresce
molto in fretta, in appena tre anni si sviluppa fino a
diversi metri di altezza e bisogna tagliarlo spesso,
così che il ciclo ricominci.