qui in allegato, la traduzione italiana

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qui in allegato, la traduzione italiana
PROMESSE E CAMBIALI: DALLA CRISI AL COMUNE1
Il proiettile che ha trafitto il cuore di Alexis non era un colpo casuale partito dalla pistola di un
poliziotto verso il corpo di un ragazzino "indocile". Era la scelta dello Stato di imporre violentemente
sottomissione e ordine a quei contesti e a quei movimenti che resistono alle sue decisioni. Una scelta
precisa, fatta per minacciare chiunque intenda resistere alle nuove disposizioni dei padroni in materia
di lavoro, previdenza sociale, salute pubblica, educazione ecc.
("Niente sarà più come prima", volantino scritto e distribuito nel dicembre 2008 in Grecia)
CRISI: COS'È, COSA NON È
A cinquecento anni dalla nascita i capitalisti ci stanno dicendo, una volta ancora, che il loro
sistema è in crisi. E stanno pressando ognuno di noi a fare sacrifici per salvargli la vita. Se non
facciamo questi sacrifici, ci viene detto, affronteremo insieme la prospettiva di un comune naufragio.
Minacce di questo tipo dovrebbero essere prese sul serio. In ogni parte del pianeta i lavoratori stanno
già pagando il pezzo della crisi in termini di diminuzione dei salari, disoccupazione di massa, perdita
delle pensioni, pignoramenti e morte.
Per rendere più aggressive le minacce, ci viene quotidianamente ricordato che viviamo in un'era
in cui i nostri diritti sono ovunque sotto attacco e che i padroni del mondo non risparmieranno alcuna
atrocità se i sacrifici richiesti saranno rifiutati. Le bombe sganciate sulla popolazione indifesa di Gaza
sono state esemplari al riguardo. Esse cadono su noi tutti, perché abbassano la soglia di ciò che viene
considerato risposta legittima dello Stato alla resistenza. Elevano a potenza le intenzioni assassine
celate dietro il proiettile fatale con cui il poliziotto ateniese ha fatto fuoco sul corpo di Alexis
Grigoropoulos agli inizi del dicembre 2008.
Ovunque c'è la percezione che stiamo vivendo tempi apocalittici. Come si è sviluppata questa
crisi da “fine dei tempi” e cosa significa per i movimenti anti-capitalisti e per la giustizia sociale che
cercano possibili strade di fuoriuscita dal capitalismo? Questo pamphlet è un contributo al dibattito su
questioni che crescono d'intensità mano a mano che la crisi si approfondisce e le prospettive
rivoluzionarie emergono. Lo scriviamo con l'intento di penetrare la coltre di fumo che circonda questa
crisi e che rende molto difficile escogitare risposte e anticipare le prossime mosse del capitale. Troppo
spesso, anche all'interno della Sinistra, le spiegazioni sulla crisi ci conducono nelle rarefatte atmosfere
dei circuiti e delle contrattazioni finanziarie o negli intricati nodi delle operazioni dei derivati e dei
fondi speculativi che ci portano in un mondo incomprensibile alla maggioranza di noi, distaccato dalle
lotte che la gente sta facendo, al punto che diventa impossibile anche solo pensare una qualunque
forma di resistenza.
1
Abbiamo tradotto Promissory Notes con “Promesse e cambiali” per mantenere la doppia accezione su cui gioca il testo
originale, che riporta sia la definizione di promissory note (“cambiale”), sia quella di promissory: “aggettivo
prevalentemente utilizzato in Legge e implicante una promessa; nome arcaico indicativo di qualcosa là da venire, pieno
di promessa”. Abbiamo invece preferito rendere commons con “comune”, più raramente con “beni comuni”. Il concetto
di beni comuni indica quei beni, o risorse, che circolano (o dovrebbero circolare) al di fuori del mercato, non escludibili
e non sottraibili perché indispensabili alla sopravvivenza umana; quello di comune definisce invece tanto la ricchezza
comune del mondo materiale (di cui i beni comuni sono una parte) quanto la totalità della produzione sociale passata,
presente e futura. La differenza è tra qualcosa di già dato (e naturale) e qualcosa che invece si produce (e distrugge)
incessantemente. Per una genealogia critica del concetto di commons cfr. l'Appendice al testo.
Il nostro pamphlet ha una storia diversa da raccontare sulla crisi, perché comincia con le lotte
che miliardi di persone hanno fatto in tutto il pianeta contro lo sfruttamento del capitale e la
degradazione ambientale delle loro vite.
Non si può guardare alla crisi del ventunesimo secolo con gli stessi occhi del diciannovesimo,
che non sapevano cogliere le lotte di classe come fonte importante delle crisi ma consideravano queste
ultime come prodotti automatici e inevitabili del ciclo economico, causate dall'“anarchia della
produzione” capitalista. Il Novecento, secolo di rivoluzioni, riforme e guerre mondiali ha portato a un
nuovo sguardo. In primo luogo, è stata riconosciuta una distinzione tra un'autentica crisi epocale e una
recessione. Quest'ultima è uno stato di “squilibrio” (una delle dinamiche che il Capitale mette
periodicamente in atto per disciplinare la classe operaia). L’altra, una condizione di stravolgimento
dell’esistente che minaccia la “stabilità sociale” e la stessa sopravvivenza del sistema. Il
riconoscimento che le recessioni e le crisi non sono totalmente al di fuori del controllo umano ma
possono invece essere strategicamente provocate, posticipate, intensificate e precipitate ha
rappresentato un'ulteriore acquisizione.
La millantata tendenza del capitalismo a perseguire automaticamente il pieno impiego di lavoro,
capitale e terra è stata lungamente smentita dalla storia. Fin dagli anni Trenta, gli stessi economisti
borghesi si resero conto che, in momenti di crisi reali, per il governo potrebbe essere necessario
spingere, tirare e stimolare il sistema quando questo è inceppato e lontano dalle condizioni di pieno
impiego. Ma nell’escogitare piani per superare la crisi della Grande Depressione, si accorsero che
potevano anche pianificare crisi e recessioni. Le crisi non possono mai essere eliminate, ma possono
essere accelerate e rinviate dall’azione dei governi. Sebbene pericolose, possono essere usate come
opportunità per sferrare colpi nello scontro di classe al fine di tenere in vita il sistema. Sono le
“esperienze limite” del capitalismo, quando è percepita la possibile fine del sistema ed è unanimemente
riconosciuto che qualcosa di essenziale deve cambiare – o succederà altro.
L’ultimo secolo ha anche mostrato l’importanza della lotta di classe nel dar forma alle crisi,
perché i lavoratori (salariati e non-salariati, schiavi e liberi, rurali e urbani) sono stati in grado,
storicamente, di precipitare le crisi capitalistiche intensificando le contraddizioni e gli squilibri inerenti
al sistema fino ad un punto di rottura. Riconoscere questa capacità permette di comprendere il
potenziale rivoluzionario dei lavoratori: se non possono mettere in crisi il capitalismo, come potrebbero
mai avere il potere di distruggerlo durante un’apertura rivoluzionaria?
Tuttavia, una cosa rimane vera delle crisi autentiche, dal diciannovesimo secolo ad oggi: esse
sono occasioni di rottura rivoluzionaria. Come asseriva Karl Marx nel 1848, il “periodico ritorno delle
crisi mette alla prova, ogni volta più minacciosamente, l’esistenza dell’intera società borghese”. Ne
consegue che i cicli economici di cinque/sette anni sfociano in una crisi, quando ogni aspetto del
capitalismo viene messo in discussione.
Il termine “crisi” prende il proprio significato dalla sua originaria accezione clinica, “un punto
nel decorso della malattia in cui il paziente o muore o torna in salute”. In questo caso, il paziente è la
società capitalista. È per questo che Marx e i suoi compagni volgevano il loro sguardo attento e persino
gioioso all’approcciarsi di una crisi; ciò segnalava loro la possibilità di una rivoluzione. Erano convinti
che le crisi sempre più profonde del sistema avrebbero presto portato al rintocco della sua campana a
morto e all’espropriazione degli espropriatori!
È con questo sapere, da questa prospettiva e con cauta gioia che ci approcciamo alla crisi presente. La
nostra discussione è articolata in cinque sezioni:
1.
2.
3.
4.
5.
Le origini a lungo termine della crisi
Cause e conseguenze immediate
Le opportunità che essa offre a ogni classe
La costituzione del comune, cioè, le regole che ci diamo nel condividere le risorse
comuni del pianeta e dell’umanità
La natura delle lotte rivoluzionarie che emergono dalla e nella crisi
I. CRISI PASSATE E CRISI PRESENTI: DAL KEYNESISMO AL NEOLIBERISMO E ALLA
GLOBALIZZAZIONE
Spesso si traccia un forte parallelismo tra la crisi presente e la Grande Depressione e, per
estensione, si individua una possibile “soluzione” di parte capitalistica nella replica del New Deal. In
realtà, le profonde differenze tra la Grande Depressione e la crisi presente impediscono il ritorno alle
politiche del New Deal.
Certamente le similitudini tra le due crisi abbondano. In entrambe l'epicentro risiede negli
investimenti speculativi. Entrambe le crisi possono essere viste come il risultato del rifiuto dei
capitalisti di continuare a investire a fronte di rendimenti decrescenti. Soprattutto, entrambe possono
essere lette come conseguenze della sovra-produzione e del sotto-consumo, che hanno portato alla
saturazione del mercato e a un tasso di profitto decrescente, combinazione divenuta a sua volta causa di
un congelamento degli investimenti e istigazione alla stretta creditizia.
Molti analisti di sinistra hanno ipotizzato che queste tendenze, comuni nella società
capitalistica, hanno portato alla "sovra-accumulazione" o "stagnazione" – in altre parole, all'incapacità
dei capitalisti di trovare opportunità di investimento nella produzione di merci che garantisse un
adeguato tasso di rendimento. La tesi, in un certo senso, è che il capitalismo abbia avuto troppo
successo negli anni Ottanta e Novanta: ha distrutto il potere dei lavoratori statunitensi al punto che essi
hanno smesso di combattere per ottenere salari sufficientemente alti per comprare i beni prodotti,
causando saturazione, sovra-capacità produttiva, sotto-investimento, ecc. La teoria emergente a sinistra
sulla crisi presente enfatizza il fallimento commerciale del sistema, che ha portato ad una crisi dei
profitti. Questo viene spesso definito “problema della realizzazione", ossia le merci sono sovraprodotte e la domanda della classe operaia viene contratta (per preservare i profitti), portando a una
carenza di consumo e alla difficoltà a investire nelle industrie manifatturiere a un tasso di profitto
accettabile. L'impulso a ricavare profitti attaccando i salari dei lavoratori ha compromesso il
presupposto stesso della profittabilità, dal momento che le merci prodotte devono essere acquistate per
fare profitto!
Il risultato, è stato quindi affermato, è la "finanziarizzazione" del sistema economico dove,
sempre più capitale viene investito in prestiti speculativi e in complesse operazioni di diversificazione
del rischio, poiché l'investimento nella produzione non è più sufficientemente redditizio. Questa
finanziarizzazione ha beneficiato di e ha al contempo rafforzato il tentativo di monetizzare e
mercatizzare tutte le azioni all'interno della società, dal cenare al piantare i semi nell'orto.
In effetti, questo è stato il vero obiettivo della strategia economica dominante negli ultimi
trent'anni (chiamata "neoliberismo"): riportare l'economia mondiale ad uno stadio pre-New Deal di
capitalismo di libero mercato – da qui le similitudini tra le due crisi. In questo senso, oggi possiamo
anche dire che il capitale sta pagando il prezzo per il calcolato scollegamento che ha prodotto tra sovraproduzione e sotto-consumo. Idealmente, la sovra-accumulazione può essere corretta attraverso la
distruzione e/o svalutazione di alcune forme di capitale: merci non vendute, mezzi di produzione, salari
di milioni di persone. Roosevelt rifiutò questo percorso (suggerito degli economisti paleo-liberali che
consigliavano Herbert Hoover), perché temeva che l'esito della devastazione inflitta dalla svalutazione
avrebbe potuto essere la rivoluzione. Al contrario, Roosevelt propose il New Deal.
La soluzione del New Deal fu una combinazione di (1) integrazione istituzionale della classe
operaia attraverso il riconoscimento ufficiale dei sindacati, (2) stipulazione di un accordo sulla
produzione dove salari maggiori erano dati in cambio di una maggiore produttività e (3) stato sociale.
Attualmente non è tra le possibilità all'ordine del giorno. Il New Deal si materializzò negli Stati Uniti in
un contesto caratterizzato da una forza lavoro organizzata e ribelle, rafforzata da anni di manifestazioni,
da rivolte contro la disoccupazione e gli sfratti e da migliaia di persone pronte a marciare su
Washington con lo sguardo rivolto all'Unione Sovietica.
Ci troviamo ora in un mondo completamente differente. Anche se la lotta di classe continua,
non c'è possibilità per i lavoratori salariati e non degli Stati Uniti di oggi di raggiungere il livello di
potere politico e organizzativo cui giunsero negli anni Trenta. La politica keynesiana, che ispirò e
giustificò teoricamente il New Deal, venne spazzata via dal lungo ciclo di lotte dei lavoratori salariati e
non, che tra gli anni Sessanta e Settanta provarono ad "assaltare il cielo" e andare oltre il New Deal.
Queste lotte hanno circolato dalle fabbriche alle scuole, attraversato cucine e stanze da letto, investito
le aziende agricole nelle metropoli e quelle nelle colonie con scioperi a gatto selvaggio, sit-in negli
uffici del governo, azioni di guerriglia. Esse hanno messo in discussione la divisione sessuale, razziale
e internazionale del lavoro, con i suoi scambi diseguali e col suo portato di razzismo e sessismo. In
poche parole, il Keynesismo è stato smantellato dalla classe operaia (salariata e non) negli anni
Settanta.
È stato proprio in risposta a queste lotte che, a partire dalla metà degli anni Settanta, il capitale
ha conseguentemente dichiarato di propria sponte "la fine del Keynesismo" arrivando ad adottare, per
un breve periodo, un programma economico di "crescita zero". Questo ha rappresentato semplicemente
il preludio al peggioramento della crisi a partire dai primi anni Ottanta e alla riorganizzazione
strutturale che ha preso il nome di "globalizzazione neoliberista", concepita allo scopo di distruggere le
vittorie della classe operaia internazionale, dalla fine del colonialismo al welfare state. Di conseguenza,
la crisi che vediamo oggi è doppiamente lontana da quella che è culminata nella Grande Depressione. È
problematico usare il 1930 come guida per il prossimo futuro, dal momento che la composizione
politica della classe operaia negli Stati Uniti e a livello internazionale è cambiata in modo così radicale.
È più utile considerare il piano che la globalizzazione neoliberale era intenzionata a realizzare e
valutare come mai, solo tre decenni dopo, esso ha portato a una nuova crisi.
La principale soluzione del neoliberismo alla crisi del modello keynesiano è stata quella di
svalutare il potere del lavoro, ricostruire gerarchie di salario e ridurre i lavoratori allo stato di merci
depoliticizzate (come venivano considerati dall'economia borghese del diciannovesimo secolo). Il
neoliberismo ha preso molteplici forme in risposta alla differente composizione e intensità del potere
dei lavoratori: riallocazione dei mezzi di produzione, deterritorializzazione del capitale, crescente
competizione tra i lavoratori attraverso l'espansione dei mercati della forza lavoro, dissipazione del
welfare state ed espropriazione della terra (vedi MN 1997 2). Si è trattato di un preciso (e inizialmente
vincente) attacco ai tre grandi "patti" dell'era postbellica, che abbiamo definito in altri lavori (P.M.
19853): il patto A (patto della produttività keynesiana), il patto B (patto socialista) ed il patto C (patto
2
3
Midnight Notes. 1997, One No, Many Yeses (vedi bibliografia).
P.M. 1985, Semiotext(e), Bolo-Bolo (http://zinelibrary.info/files/p.m.__bolo%27bolo.pdf). Saggio utopistico nel quale
l'autore, già membro del Midnight Notes Collective, prefigura una futura società del comune.
post-coloniale).
[Patto A] Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, la battaglia di Reagan contro lo sciopero dei
controllori di volo del 1981 e quella della Thatcher contro lo sciopero dei minatori del 1985 sono state
seguite da un'orgia di campagne anti-sindacali e da continue minacce di sabotaggio alle pensioni sociali
e ad altre forme di sicurezza sociale (i cosiddetti "ammortizzatori sociali").
[Patto B] Il trionfo finale del neoliberismo è coinciso con il crollo dell'Unione Sovietica, il
collasso degli stati socialisti dell'Europa orientale e la decisione del Partito Comunista Cinese di
intraprendere "la via al capitalismo".
[Patto C] Nel "Terzo Mondo" le crisi del debito hanno dato alla Banca Mondiale e all'FMI la
possibilità di imporre i Programmi di Aggiustamento Strutturale, rivelatisi successivamente un processo
di ricolonizzazione.
In altre parole, con l'avvento del neoliberismo, ogni approccio precedente ai problemi viene
cancellato. Congiuntamente, questi sviluppi hanno portato alla fine del "riconoscimento reciproco" tra
classe operaia e capitale, fomentando la competizione tra lavoratori a livello mondiale attraverso la
creazione di un vero e proprio mercato del lavoro globale. Il capitale può così scegliere i lavoratori
come farebbe un’ape in un campo di quadrifogli.
La conseguenza di questi sviluppi combinati fu che, a partire dai primi anni Novanta,
cominciarono a comparire i primi segni di incapacità del sistema nel "digerire" l'immenso output che
fluiva dalle moltitudini di lavoratori sfruttati nelle fabbriche di tutto il mondo. Secondo questa tesi, il
culmine della crisi Asiatica del 1997 ha rappresentato lo stimolo per la piena finanziarizzazione del
sistema – il tentativo di "creare denaro da denaro" al livello più astratto possibile, dal momento che
creare denaro dalla produzione non era più sufficiente. Il balzo del capitale verso la finanziarizzazione
rappresenta un ulteriore avanzamento nel continuo sforzo neoliberista di spostare le relazioni di potere
a proprio vantaggio.
Probabilmente, costretti a confrontarsi con guadagni decrescenti nell'"economia reale" e con
un'incapacità di vendere i propri prodotti, i capitalisti hanno compiuto due importanti mosse: da un lato,
si sono spostati con un balzo nel mondo dei fondi speculativi e dei derivati; dall'altro lato, hanno
intensificato la disponibilità di accesso al credito per la classe operaia statunitense, per fare in modo
che i lavoratori statunitensi potessero comprare le merci che i lavoratori in Cina e altre nazioni (per lo
più asiatiche) continuavano a produrre a salari estremamente bassi (in relazione a quelli USA). Il
successo di questo gioco – il cui obiettivo principale era posticipare la crisi – dipendeva dagli alti
profitti che i capitalisti che operavano in Cina e nelle nazioni del Terzo Mondo potevano conseguire
grazie ai bassi salari che venivano a loro volta investiti nel mercato del credito negli Stati Uniti,
rendendo possibile la crescita del settore finanziario. Questo circuito è arrivato a conclusione solo
quando è giunto al punto in cui una quantità enorme di debiti (sia dei lavoratori che dei capitalisti) ha
portato i suoi sottoscrittori in una dimensione di panico.
Questa spiegazione fa capire molto, ma lascia fuori un dettaglio importante: pur ammettendo
che la sovra-produzione e il sotto-consumo riducono il tasso di profitto, perché questo tasso di profitto
ridotto sarebbe inadeguato per i capitalisti che vogliono re-investire? Prendiamo come esempio il
capitalista medio: se lui/lei vende tutti le merci prodotte nelle sua fabbrica, riceverà un tasso di profitto
del 100%; ma con il problema della "realizzazione”, riceverà solo un tasso del 50%. Questo tasso è
forse inadeguato? Anche a fronte del problema della realizzazione, che richiede la distruzione di metà
di ciò che è stato prodotto, i capitalisti potrebbero comunque raggiungere un adeguato tasso di profitto.
Questa "inadeguatezza" non è inerente al capitale in senso astratto. Piuttosto, è basata sulla
determinazione dei capitalisti a ricavare di più, per chiedere un'espansione sempre più rapida del
sistema e dei profitti dei suoi proprietari. Quando i capitalisti giudicano un campo di possibile
investimento come "inadeguato", significa che il tasso di profitto medio attualmente possibile è minore
delle loro aspettative basate sulle esperienze passate. In ogni caso, quali sono le cause di un declino
concreto nel tasso di profitto planetario?
Un declino concreto ha radici in diversi fattori, ma ve ne sono due che sono particolarmente
cruciali per noi: l'incapacità del capitale di (a) incrementare il tasso di sfruttamento con salari
decrescenti e (b) ridurre il valore del capitale costante (soprattutto materie prime naturali) che è
necessario per la produzione delle merci. L'ultimo punto è dovuto soprattutto all'incapacità di far
ricadere sui ai lavoratori il costo dei danni ambientali causati dall'estrazione delle materie prime e dalla
produzione delle merci. Questo è il motivo per cui gli impatti delle lotte "economiche" ed "ecologiche"
sul tasso di profitto medio sono difficili da distinguere in questa crisi.
Consideriamo le conseguenze di (a) e (b).
(a) La globalizzazione ha reso possibile la riduzione dei salari negli ultimi tre decenni negli
Stati Uniti, portando la produzione manifatturiera alle "periferie" (specialmente in Cina nell'ultimo
decennio), dove la maggior parte dei salari sono semplicemente una frazione di quelli dei lavoratori
negli Stati Uniti. Se i salari si fossero mantenuti bassi laggiù, il patto tra il capitale statunitense e cinese
sarebbe rimasto stabile. I lavoratori cinesi avrebbero procurato super-profitti per i capitalisti statunitensi
e merci super-economici per i lavoratori statunitensi al verde. In ogni caso, nonostante i salari siano
relativamente più bassi in Cina che negli Stati Uniti, essi sono cresciuti molto rapidamente. Il salario
nominale medio cinese è cresciuto di quasi il 400% nel decennio 1996-2006, mentre il salario reale
medio cinese è cresciuto del 300% tra il 1990 e il 2005, con metà di questo incremento prodottosi tra il
2000 e il 2005. Questo può avere effetti profondi sulla profittabilità molto prima che i salari in Cina
siano comparabili con quelli degli Stati Uniti.
Per comprendere il punto può aiutare guardare a un semplice esempio numerico ipotetico:
mettiamo che il salario di un lavoratore cinese sia un decimo del salario di un lavoratore statunitense e
che il tasso di profitto per un'industria con un investimento relativamente piccolo di macchinari in Cina
sia del 100%. Benché il raddoppio del salario del lavoratore cinese lo renda comunque solo un quinto
di quello del lavoratore statunitense, mantenendo le altre variabili costanti, il tasso di profitto sarà
caduto del 50%.
Quindi, un incremento dei salari può causare un calo drammatico del tasso di profitto senza che
i salari siano necessariamente uguali in termini di potere d'acquisto ai salari dell'Europa occidentale o
del nord America. Il primo assaggio su larga scala di questo fenomeno nel periodo neoliberista fu la
mobilitazione dei lavoratori in Corea e Indonesia che hanno costituito le basi per la famosa "crisi
finanziaria asiatica" del 1997 (riportato in "One No, Many Yeses", MN, 1997)
Il calo e la stagnazione dei salari medi negli Stati Uniti (sempre ad un livello relativamente alto
in una prospettiva globale) è stato accompagnato da un incremento nei salari dei lavoratori asiatici,
variazione che ha minato il tasso di profitto molto prima che questi diventassero equivalenti ai salari
negli Stati Uniti. Livelli di profittabilità altissimi possono scomparire molto prima che i sobborghi
residenziali, le auto e le borse di Gucci siano accessibili alle masse. Questo problema di "realizzare" il
plus-valore, sfidando in attuali o futuri scontri i lavoratori che combattono per salari più alti e per un
più grande potere sul luogo di lavoro, porta i capitalisti a calcare altre strade per guadagnare i tassi di
rendimento che essi desiderano. Ma c'è un problema nascosto anche in questa manovra: la possibilità di
incrementare il ricavo di interessi attraverso la finanziarizzazione è limitato dal plus-valore creato nella
produzione e riproduzione all'interno del sistema capitalistico globale. La crisi nel settore finanziario
nasce dallo scontro con questo limite. Dal momento che i guadagni finanziari sono – pure se
indirettamente – in ultima istanza anche estratti dal lavoro reale, si può capire facilmente come un
incremento modesto nei salari cinesi può soffiare sul castello di carte della finanza.
(b) Il momento ecologico/energetico della crisi appare qui più direttamente. La riduzione del
costo del capitale fisso può portare a un incremento del tasso di profitto, ma questo dipende in maniera
cruciale dalla possibilità di "esternalizzare" il danno che questo causa (ossia, forzare coloro che sono
danneggiati dall'inquinamento dell'estrazione di materie prime, dal cambiamento climatico causato
dalla produzione industriale o dalle mutazioni genetiche prodotte dalla diffusione di OGM a
sottomettersi silenziosamente e costantemente senza pretendere che tutto questo cessi). È solo quando
si verifica un rifiuto di massa a questa esternalizzazione che le istanze ecologiche diventano "urgenti" e
costituiscono un’"emergenza". A meno che non ci sia una lotta contro i danni e l'assunzione tacita dei
costi, il danno ecologico è un fenomeno estetico come lo smog in un dipinto di Monet.
Questa lotta è ora uscita dall’ombra e sta minacciando la profittabilità in tutto il sistema. C'è
ormai un riconoscimento diffuso a livello mondiale che non ci troviamo semplicemente in un ennesimo
round tra lavoratori e capitalisti per decidere come verrà organizzata l'economia; ci troviamo di fronte a
un cambio climatico catastrofico e a un crollo sociale e ambientale generalizzato, in un mondo in cui la
"civiltà del petrolio" ha collocato gran parte della popolazione mondiale in città e periferie degradate,
che stavano raggiungendo il loro punto critico ben prima che la crisi prendesse piede. Prendiamo il
caso del Messico, dove tante persone a malapena sopravvivono mentre lo Stato e gli altri oligopolisti
della violenza restano calmi sull'orlo del precipizio, con i migranti che ritornano dagli USA... per cosa
poi? Una comunità recentemente ha dato fuoco alle armi per togliere l'accesso all'acqua a un'altra che
essi pensavano ne stesse prendendo troppa. Cosa accadrà quando – come gli scienziati predicono – la
temperatura media a quelle latitudini sarà cresciuta di tre gradi, quando ogni estate sarà più calda della
precedente?
Affari così remunerativi non possono continuare. In fondo, nel suo zelo disciplinare, il
capitalismo ha minato le condizioni ecologiche per così tante persone che si è diffuso uno stato di
ingovernabilità globale, spingendo sempre più gli investitori a scappare nel mondo mediato della
finanza, dove sperano di fare guadagni considerevoli senza affrontare direttamente le persone che
devono sfruttare.
Ma questo esodo ha semplicemente posticipato la crisi, dal momento che le lotte "ecologiche"
sono combattute ovunque nel pianeta e stanno provocando un aumento inevitabile nel costo futuro del
capitale costante. Così, da entrambi i punti di vista, rispetto ai salari e alla riproduzione ecologica, le
lotte stanno portando a una crisi del tasso di profitto medio (e del tasso di accumulazione) imponendo
un limite al procedere della finanziarizzazione.
II. LA CRISI DEL NEOLIBERISMO: CAUSE E CONSEGUENZE
La globalizzazione neoliberista era un progetto ambizioso. Se avesse raggiunto il suo scopo, la
stessa definizione dell'umano sarebbe stata trasformata in quella di "animale che scambia e vende se
stesso/a al miglior offerente"; la forza lavoro sarebbe stata riportata alla condizione che aveva
nell'economia pre-keynesiana: quella di semplice merce che riceve il proprio valore dal mercato.
Perché la globalizzazione neoliberista ha fallito?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo tornare alle lotte che le popolazioni hanno
condotto. Anche ammettendo che i lavoratori statunitensi attualmente non esprimano lo stesso livello di
militanza che ebbero negli anni Trenta, in tutto il mondo sono sorti vasti movimenti che, a nostro
parere, vanno riconosciuti come cause della crisi. Certamente, questi non costituiscono gli unici fattori
e probabilmente neppure i più immediati. Non c'è dubbio, ad esempio, che la mancanza di
regolamentazione delle transazioni finanziarie abbia rappresentato uno dei fattori, nella complessità
non-lineare generata dalle operazioni finanziarie ad alto rischio sul mercato dei derivati, che ha reso
instabili "i mercati".
Tuttavia anche la de-regolamentazione finanziaria cominciata con Carter e continuata con
Reagan, Bush, Clinton e Bush jr. è stata un momento nella lotta di classe. La de-regolamentazione è
cominciata in risposta all'inflazione crescente legata – tanto nella realtà quanto nella mente dei decisori
politici – al potere dei lavoratori statunitensi di alzare il valore monetario dei loro salari abbastanza in
fretta da evitare, per tutti gli anni Settanta, che l'aumento dei prezzi da parte dei capitalisti (su cibo,
energia, ecc.) diminuisse il potere d’acquisto degli stessi. Tale forza ha indebolito l'auspicata
trasformazione dell'OPEC in un intermediario finanziario e la conversione dei petroldollari in strumenti
per trasferire valore dal reddito dei lavoratori a investimenti finalizzati al profitto.
I rapporti annuali dell'FMI di quel decennio rivelano che nel 1975 l'inflazione veniva
identificata come il problema numero uno dell'economia mondiale. Un fattore determinante di
quell'inflazione era rintracciato nella "rigidità strutturale del mercato del lavoro", espressione usata
dall'FMI per indicare il potere dei lavoratori. Nel momento in cui Carter e Volckers entrarono in azione,
l'accelerare dell'inflazione aveva portato molti tassi di interesse reali sotto lo zero, minacciando la
sopravvivenza dell'intero sistema finanziario. La strategia della de-regolamentazione includeva, tra le
altre cose, la rimozione in tutti gli Stati Uniti delle leggi anti-usura, per permettere d'innalzare i tassi di
interesse verso la doppia cifra. Questa fu una risposta al doppio potere che avevano i lavoratori: alzare i
salari e altre forme di reddito fino a minacciare i profitti – nonostante il ricorso del capitale alla
manipolazione dei prezzi dei beni primari e ai tassi di cambio flessibili – ma anche bloccare ogni
ripresa dei tassi di crescita in termini di produttività a livello della produzione.
Molte delle lotte prodottesi negli Stati Uniti degli anni Settanta sono state alla fine sconfitte, ma
da allora è sorta una nuova generazione di lotte contro la globalizzazione neoliberista che si sono
dimostrate decisive sia negli Stati Uniti che a livello internazionale.
Ci concentriamo su alcune di queste lotte per comprendere i nodi politici posti dalla Crisi.
Schematicamente, le fonti della crisi vanno rintracciate nel:
(1) fallimento dei cambiamenti istituzionali della globalizzazione neoliberista;
(2) fallimento del tentativo di ristrutturare secondo regole neoliberiste il settore
petrolifero/energetico;
(3) l'incapacità di controllare le lotte sul salario (specialmente in Cina);
(4) il sorgere di movimenti che reclamano terra e risorse (Bolivia, India, Delta del Niger);
(5) la finanziarizzazione della lotta di classe attraverso l'espansione dell'uso del credito negli
Stati Uniti per sopperire ai salari reali in diminuzione o in stagnazione;
(6) l'inclusione di neri, latini, immigrati di prima generazione e donne nella "società dei
proprietari", minaccia per la gerarchia di classe.
(1) La globalizzazione neoliberista dipende da un sistema di leggi e regole che eliminano le
barriere al commercio di beni e alle transazioni finanziarie, specialmente quelle che partono dagli Stati
Uniti, dal Giappone o dall'Europa occidentale. Il processo di eliminazione di tali barriere cominciò
nell'era keynesiana (con il GATT), ma ha preso forma istituzionale con la fondazione
dell'Organizzazione Internazionale per il Commercio (WTO) nel 1994. Il WTO aveva un'ambiziosa
agenda: realizzare la globalizzazione del commercio tradizionale e delle transazioni monetarie, ma
anche dei servizi e della proprietà intellettuale. Sembrava che nulla potesse fermarne la realizzazione.
Ciò invece accadde per la sorprendente convergenza di:
(a) rivolte contro i Programmi di Aggiustamento Strutturale che si espandevano dallo Zambia
nella metà degli anni Ottanta, a Caracas nel 1989, fino agli Zapatisti nel 1994;
b) il movimento anti-globalizzazione in Europa occidentale e nord America, con le sue
dimostrazioni di piazza e i blocchi agli incontri del WTO, dell'FMI, della Banca Mondiale e del G8;
c) i molti governi del Terzo Mondo che si sono rifiutati di cedere gli ultimi resti della loro
sovranità nazionale (specialmente sulla produzione agricola) in favore di organizzazioni come il WTO,
l'FMI e la Banca Mondiale, dominate da Stati Uniti, Giappone ed Europa occidentale. Le loro
motivazioni non erano semplicemente "patriottiche", ma avevano molto più a che vedere con il potere
del movimento degli agricoltori sui propri territori e con la minaccia che questi rappresentavano per la
loro stessa "sovranità nazionale". Il Doha Round del WTO alla fine è stato abbandonato soprattutto
perché i funzionari del governo indiano non potevano concedere più nulla in materia di agricoltura –
nonostante avrebbero volentieri accettato di sacrificare i loro contadini per qualche gingillo high-tech. I
movimenti indiani (ma anche gli agricoltori filippini, coreani e bengalesi) hanno mobilitato decine e
centinaia di migliaia di persone durante il decennio tra il 1998 e il 2008 per fermare il WTO.
Per quanto fossero spesso inconsapevoli gli uni delle azioni e degli intenti degli altri, queste
ribellioni, queste manifestazioni di strada e queste resistenze "dall'interno" hanno delegittimato
l'ideologia della globalizzazione secondo cui "la terra è piatta" e il tentativo ad essa connesso di
recintare4 quel che rimaneva dei mercati locali e dell'agricoltura di sussistenza.
(2) Il secondo fallimento è corrisposto al tentativo, dopo il 1999, di rivitalizzare il tanto
sbandierato progetto di globalizzazione neoliberista attraverso la guerra, in particolare con l'obiettivo di
trasformare le industrie del petrolio e del gas in attività neoliberiste ideali, attraverso l'invasione e
l'occupazione dell'Iraq (MN, 2002)5. Questo fallimento è stato causato da una resistenza armata che ha
inflitto decine di migliaia di perdite alle truppe americane, subendo a sua volta centinaia di migliaia di
morti e feriti. Questo ha avuto enormi conseguenze per la globalizzazione neoliberista. Per prima cosa,
dopo sei anni di guerra in Iraq, il più basilare dei suoi settori – quello petrolifero e del gas – è ancora
organizzato in Iraq come nel resto del mondo, secondo due modalità che rappresentano una bestemmia
per la dottrina neoliberista, con le compagnie petrolifere nazionalizzate ed il cartello internazionale
(OPEC) che cercano di influenzare il prezzo di mercato del petrolio. In secondo luogo, il leader del
progetto neoliberista, gli Stati Uniti, è stato molto indebolito da questo sforzo, sia dal punto di vista
militare che finanziario. Questo è diventato ancora più evidente quando il governo statunitense ha
dichiarato vittoria (grazie all'operazione "The Surge"6) mentre contemporaneamente gli veniva
4
5
6
Cfr. Midnight Notes 10. 1990, The New Enclosures.
Midnight Notes. 2002, “Respect Your Enemies—The First Rule of Peace: An Essay Addressed to the U. S. Anti-war
Movement”
Operazione con cui, nel gennaio 2007, il Presidente George W. Bush ordinò il dispiegamento di ulteriori 20.000 soldati
in Iraq, al fine di garantire la sicurezza nelle province di Baghdad e Al Anbar.
comunicato, dalle sue stesse “marionette” irachene, di lasciare il paese entro il 2011, smantellare le basi
e non aspettarsi di vedere una "legge sul petrolio" di tipo neoliberista tanto presto! Di sicuro le
"marionette" hanno parlato così duramente ai loro padroni perché temevano la reazione violenta del
popolo iracheno al tentativo di svendere gli idrocarburi donati da Allah.
(3) Il progetto neoliberista di "rifiuto dei salari" ha avuto abbastanza successo negli Stati Uniti,
dove i salari reali non hanno più raggiunto l’apice del 1973. Questo è il motivo per cui non si può
individure una causa della crisi attuale nella lotta statunitense per i salari, come si può fare per la crisi
degli anni Settanta. Negli Stati Uniti, tutti gli indicatori tipici di tale lotta (come gli scioperi) sono
diminuiti. Ci sono state alcune lotte di difesa che hanno avuto un certo successo nel limitare gli attacchi
al reddito non salariale, come ad esempio quelle sulla previdenza sociale, l’assistenza sanitaria e i
buoni alimentari. Vanno inoltre ricordate le lunghe lotte contro altre forme di attacco alla classe
operaia, come quelle sul terreno dei diritti delle donne, della protezione ambientale ecc.
In ogni caso, il progetto neoliberista dipendeva dalla possibilità di sfruttare la competizione sul
mercato internazionale del lavoro, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo. Questo progetto è
fallito, specialmente nei riguardi delle nazioni asiatiche. In Corea e in Indonesia abbiamo assistito al
suo fallimento durante la fase che ha condotto al crollo finanziario asiatico del 1997 (vedi MN, 1997).
Da allora il più grande fallimento di questa strategia si è registrato in Cina, dove il livello delle lotte
salariali ha assunto dimensioni storiche, con migliaia di scioperi e altre forme di blocco del lavoro,
giungendo talvolta a ottenere aumenti del salario a doppia cifra.
(4) Le "Nuove Recinzioni" hanno funzionato attraverso i Programmi di Aggiustamento
Strutturale, fomentando guerre che avevano lo scopo di espropriare i popoli del Terzo Mondo dal loro
attaccamento alla terra comune e alle sue risorse. Certamente, se è lecito assumere come indicatori la
crescita del numero di immigrati e rifugiati, esse hanno allontanato milioni di persone dalle loro terre e
dalle loro comunità in Africa e in molte parti delle Americhe. Ma c'è anche stata una forte risposta agli
attacchi alle terre e alle risorse comuni in tutta l'Asia (in particolare in India e Bangladesh), in buona
parte del sud America ed in alcune zone dell'Africa. Le guerre boliviane per l'acqua e il gas, svoltesi
nell'ultimo decennio, hanno dimostrato chiaramente che privatizzare risorse vitali è un'impresa ad alto
rischio. Il capitale si scontra con limiti simili nella produzione di petrolio nel Delta del Niger, dove è
ora in corso una guerra di riappropriazione intrapresa da gruppi come il Movimento per
l'Emancipazione del Delta del Niger (MEND); tali gruppi pretendono che le popolazioni del Delta, in
conflitto con il governo nigeriano e le grandi compagnie petrolifere, siano riconosciute come
proprietari comuni del petrolio che sta nel loro sottosuolo. In effetti, è stato raggiunto un limite politico
nella ricerca e nell’estrazione del petrolio che Steven Colatrella ha giustamente chiamato "la curva
politica di Hubbert"7.
(5) La funzione principale della finanziarizzazione del capitale è stata quella di poteggere
l'accumulazione dalla lotta della classe operaia, collocandola al di fuori della sua portata e fornendo una
7
La Curva di Hubbert, così chiamata dal geologo M. King Hubbert è una teoria scientifica che modella l'evoluzione
della produzione di una qualsiasi risorsa minerale o fonte fossile esauribile o fisicamente limitata.È stata inizialmente
intesa come modello per la stima della quantità di petrolio estraibile da un giacimento. Secondo questo modello, la
quantità del petrolio estratto, e quindi prodotto, è determinata dalla velocità nello scoprire nuovi giacimenti petroliferi.
Superato il punto di massima della funzione, (detto picco di Hubbert) si avrà un declino dell'estrazione di petrolio che
tenderà infine a zero. Hubbert applicò per la prima volta il suo modello alla produzione petrolifera degli Stati Uniti,
prevedendo con dieci anni di anticipo che questa avrebbe raggiunto il suo massimo all'inizio degli anni Settanta.
copertura contro di essa, rendendo possibile per i capitalisti di scommettere contro il successo dei
propri investimenti, per poi fornire un'assicurazione contro ogni imprevisto. Quale capitalista non
desiderebbe, in cambio di una piccola somma, proteggersi dalla drammatica svalutazione della valuta
del paese in cui sta investendo prodotta da un'ondata di scioperi generali o dalla bancarotta di una
compagnia con cui ha rapporti per le richieste salariali dei lavoratori?
Paradossalmente, però, il neoliberalismo ha spalancato una nuova dimensione di lotta tra il
capitale e la classe operaia sul piano del credito. Infatti, un intero pacchetto di strumenti creditizi e di
investimenti speculativi sono stati offerti ai lavoratori statunitensi: dai mutui sub-prime, ai prestiti
d'onore per studenti universitari, alle carte di credito, fino all'erogazione di 401mila fondi pensione. I
lavoratori li hanno usati come contrappeso alla loro incapacità di difendere il proprio potere collettivo
sul luogo di lavoro per conseguire aumenti di salario significativi, garanzie per la pensione o cure
mediche. Quest'impotenza li ha spinti ad affacciarsi nel mondo della finanza. Con lo smantellamento
del cosiddetto welfare state, i lavoratori negli Stati Uniti sono stati costretti a pagare una porzione
maggiore del costo della propria riproduzione (dalla casa al sistema sanitario all'educazione) nello
stesso momento in cui i loro salari reali stavano crollando. I lavoratori hanno cercato di far fronte alle
proprie necessità riproduttive attraverso il sistema creditizio. Questa disponibilità del capitale a
"condividere" con i lavoratori il valore accumulato, rendendolo disponibile attrvaerso il credito, ha però
una contropartita: i desideri dei lavoratori di accedere a questi mezzi di riproduzione (casa, auto,
elettrodomestici ecc.) devono uniformarsi ai desideri di accumulazione dei capitalisti. Ma la
"finanziarizzazione" non è semplicemente una trama capitalista; è essa stessa un processo e un prodotto
della lotta di classe. C'è sicuramente un elemento di bisogno nella risposta dei lavoratori all'attacco alle
loro condizioni riproduttive, ma senza bisogno non c'è neppure azione.
L'ingresso nel sistema creditizio non è certo un paradiso per i lavoratori. Il prestito e il
conseguente pagamento degli interessi comprime i salari, talvolta in modo consistente, così come il
credito lega i lavoratori alla proprietà immobiliare e ai mercati azionari. Detto ciò, è un traguardo
importante per i lavoratori poter "usare il denaro di qualcun'altro" per avere una casa senza
preoccuparsi dell'aumento degli affitti; pagare il mutuo e le tasse per poter soddisfare oggi stesso il
desiderio (vero o indotto) evocato da una merce; avere accesso a un'educazione che possa
permettergli/le salari più alti in futuro; avere un'auto che renda possibile accettare un numero maggiore
di lavori e stabilire una rete più ampia di contatti sociali nello scenario di solitudine che spesso
caratterizza la vita negli Stati Uniti. Questa pericolosa strategia della classe operaia oscilla tra l'utilizzo
del sistema creditizio per condividere il benessere collettivo e l'asservimento al debito!
In qualche modo, senza averne “coscienza” né in modo organizzato (come molte delle cose che
accadono nella società capitalistica), molti membri della classe operaia statunitense hanno
collettivamente cercato di rovesciare contro il sistema stesso il progetto neoliberista di trasformare tutti
in agenti "economici razionali", prendendo la retorica dell'amministrazione Bush sulla "società dei
proprietari" alla lettera. Così facendo, hanno portato il sistema alla crisi attraverso l'implicita minaccia
di rifiutarsi di pagare i propri debiti, lasciando ad esempio le chiavi nella cassetta delle lettere e
andando via. Come è stato sottolineato molto tempo fa, se devi alla banca 1000 dollari e non puoi
pagare, sei nei guai; ma se devi alla banca 1 miliardo di dollari e non puoi pagare, la banca è nei guai.
La cosa che spesso non si dice è che se un milione di persone devono alla banca ciascuno 1000 dollari e
non possono pagare, è sempre la banca a essere nei guai!
La finanziarizzazione è stata pensata per fornire al capitale uno scudo contro le imprevedibilità
della lotta di classe, ma ha accolto la classe operaia nel proprio seno. Questo tentativo del capitale
finanziario di giocare su entrambi i lati dell'equazione (far pagare il capitale per proteggersi dalle lotte e
allo stesso tempo includere gli agenti presumibilmente “addomesticati” di quella lotta nella macchina
finanziaria) è uno degli elementi alla base della crisi contemporanea. Vero è che, nonostante la quota
del debito totale nelle mani della classe operaia sia considerevole, essa è molto più piccola del debito
statunitense, delle multinazionali o dello Stato. La sua qualità è però differente. Il debito delle
multinazionali è intra-classe, ossia all'interno della stessa classe; il debito statale è onni-classe, ossia
spalmato sull'intera gerarchia di classe; ma il debito della classe operaia è inter-classe, ossia tra due
classi, ed è quello che potenzialmente crea la tensione più grande.
(6) Questo doppio aspetto della finanziarizzazione è stato intensificato dalla lotta dei lavoratori
precedentemente esclusi dall'accesso al credito (neri, latini, immigrati di prima generazione, donne
single e bianchi poveri) per entrare nel circolo incantato dei mutui per la casa, dei debiti studenteschi e
delle carte di credito. Il capitalismo finanziario nel ventunesimo secolo ha significativamente aperto le
sue porte a questi nuovi creditori, che prima potevano fare prestiti solo a condizioni molto più onerose
da strozzini e banchi dei pegni. Esso ha così risposto al loro desiderio di ottenere legalmente una casa,
l'auto, beni di consumo desiderabili e lavori meglio pagati, ingurgitando però una pillola amara: mutui
sub-prime i cui interessi si sarebbero gonfiati dopo tre anni, carte di credito i cui tassi di interesse si
avvicinano a quelli degli strozzini, prestiti d'onore per gli studenti che avrebbero trasformato la laurea
nella porta d'ingresso alla schiavitù salariata. La pressione di questi lavoratori per essere inclusi nel
patto neoliberista – ossia l'accesso alla ricchezza sociale solo su base individuale e attraverso un reddito
non salariale – ha ricevuto risposta positiva da parte del capitale nei primi anni del ventunesimo secolo.
Questo è stato il punto iniziale della destabilizzazione del sistema del credito.
L'approfondimento e la diffusione della circolazione del credito nella classe operaia mostrata ai
punti (5) e (6) può essere considerata “lotta”? Si può ben contestarne la formulazione, visto l'immediato
prosieguo della storia – milioni di pignoramenti e bancarotte ecc. Ma non c'è dubbio che c'è stata una
lotta sulle condizioni di pagamento e di bancarotta (estese ai lavoratori), così come ci sono state lotte
per una legislazione che "salvasse" i proprietari di casa dal pignoramento. Molti esponenti della Destra
hanno considerato questa "rivoluzione del credito" come la causa della crisi, dal momento che ha
permesso a troppi "immeritevoli" di entrare nel santuario del credito. Ma ciò non invalida la lotta
concreta lanciata dai lavoratori neri dagli anni Sessanta in avanti contro le “redlining”8 e altre forme di
discriminazione del credito. Dopo tutto, le lotte dei debitori sono state tradizionalmente centrali
nell'analisi della storia di classe fin dai tempi antichi. Perché l'analisi di classe del ventunesimo secolo
dovrebbe escluderle?
Non intendiamo dare un giudizio di merito su questi sei momenti di lotta. Insieme a molti fattori
congiunturali, essi si sono combinati nel creare una crisi di proporzioni storiche nel 2008. Il fallimento
congiunto delle dottrine neoliberiste sul Salario e sulla Guerra, della Globalizzazione, delle Nuove
Recinzioni, della Finanziarizzazione e della Crisi dell'Inclusione, non hanno prodotto solo la recessione
economica; ma la contraddizione logica che le infesta sta trasformando la presente recessione in una
crisi reale. È possibile che per tutto questo ci sia una "cura" nel futuro prossimo (come dimostrato dalla
crescita del PIL), ma se le contraddizioni si approfondiranno e i fallimenti s'intensificheranno, il
capitalismo potrebbe presto diventare "storia".
8
Si riferisce alla pratica bancaria di maggioranzione dei mutui verso individui appartenenti a una certa etnia, al fine di
penalizzarli.
IIIA. LA RISPOSTA IMMEDIATA DEL CAPITALE ALL'OPPORTUNITÀ DELLA CRISI
Questa crisi fornisce al capitale un'opportunità per almeno tre aspetti: (i) la riorganizzazione del
rapporto di forza tra il capitale finanziario e il resto del sistema, (ii) il disciplinamento della classe
operaia degli Stati Uniti nei ruolo di debitore e attore nel sistema finanziario e (iii) la giustificazione del
saccheggio ambientale, della riduzione dei salari e dell'espropriazione delle terre del Terzo Mondo
attraverso un revival del paradigma "crisi del debito". Prendiamo in considerazione i punti uno alla
volta:
(i) L'agonia del capitale finanziario o la sua rinascita?
Questa crisi inizia come una crisi finanziaria (ossia, come incapacità di saldare i debiti contratti
col capitale e gli interessi ad essi correlati o di pagare per le scommesse effettuate dal capitale su
grande scala e perse). Sebbene la maggior parte delle crisi abbiano un aspetto finanziario, questa è
chiaramente una crisi che pone sfide fondamentali sul destino del sistema, poichè rende inevitabile una
profonda trasformazione dell'ordine e della gerarchia all'interno dei settori e delle fasi del capitale.
Sarà forse questa crisi (in cambio dell'enorme quantità di capitale che il settore finanziario
pretende dallo Stato) l'occasione per chiedere una sospensione completa o almeno una
regolamentazione draconiana di molte delle pratiche finanziarie (in particolare le CDO, obbligazioni di
Debito Collateralizzato o le MBS, obbligazioni ipotecarie, i SIV, Veicoli di Investimento Strutturato, i
CDS, Credit Default Swap, i derivati creditizi di ogni genere e forse anche la pratica delle operazioni
bancarie offshore) il cui crollo ha messo in pericolo le operazioni quotidiane di attività industriali,
commerciali e dei servizi, grandi e piccole? O sarà il capitale finanziario a tenere il resto del sistema in
ostaggio con la minaccia di eliminare i canali di prestito e portare il sistema del credito a una battuta
d'arresto, a meno di non ottenere la garanzia sui propri debiti dal governo alle proprie condizioni?
Vediamo un aspetto di questo conflitto nella controversia tra il "salvataggio" delle "Tre Grandi"
aziende automobilistiche e il sostegno quasi unanime, al più alto livello di governo
(dall'amministrazione Bush all'amministrazione Obama), per le grandi banche (Citigroup), le
compagnie di assicurazione (AIG) e perfino le società d'investimento (Bear Stearns). L'enorme
polemica – e le condizioni, ormai potenzialmente fatali, imposte a GM e Chrysler – su quella che è
oggi una somma relativamente modesta rispetto ai miliardi rapidamente concessi per AIG, è un segno
che il capitale finanziario ha ancora il controllo sugli elementi più alti dello Stato.
Ma questo è solo il primo round di una battaglia di lungo periodo che porterà, se il capitalismo
sopravviverà, all'instaurarsi di un ventunesimo secolo ibrido tra due poli: (a) un regime normativo
particolarmente rigoroso imposto sulle innovazioni finanziarie, con il capitale liberato dal settore
finanziario e diretto verso una nuova ondata di investimenti in progetti di "energia verde" (dalle turbine
eoliche, alle tecnologie del carbone pulito, fino alle centrali nucleari) e biotecnologie, oppure (b) una
vittoria del settore finanziario, la definitiva "de-industrializzazione" degli Stati Uniti e la
riconciliazione universale con un regime di bolle speculative e crolli finanziari.
Il primo polo tratteggia un esito che ricorda precedenti periodi di recupero da momenti di
intensa "finanziarizzazione" e speculazione, come il "Bubble Act" 9 del 1720 in Gran Bretagna dopo la
9
Legge approvata dal parlamento della Gran Bretagna dopo il crollo della borsa del 1720, avvenuta in seguito alle forti
speculazioni sui titoli della South Sea Company. Il Bubble Act subordinava la creazione delle Società per Azioni
esclusivamente al parlamento, impedendo in questo modo la formazione delle Bubbles, SpA minori che, entrando nel
mercato finanziario inglese, esercitavano una forte concorrenza alla South Sea Co. e alle compagnie maggiori.
Bolla dei Mari del Sud e la riscoperta, da parte della borghesia francese, degli investimenti in oro
all'indomani della bolla del 1720 del Mississippi, fino al Glass-Steagall Act 10, successivo al crollo della
borsa del 1929. Si tratta di un ritorno al keynesismo ma con caratteristiche "verdi" e senza stati
comunisti armati di bombe nucleari, la cui esistenza è stata invero utilizzata dai lavoratori degli Stati
Uniti e dell'Europa occidentale come una minaccia costante per i capitalisti.
La seconda alternativa delinea uno scenario che realizza, amaramente, il lato inconsciamente
anticapitalista del motto di Margaret Thatcher ("Non c'è alternativa") quando questo viene applicato
all'egemonia del settore finanziario nel capitalismo neoliberale, con la sua infernale conclusione: il
mercato è il migliore (in quanto l'unico) modo di allocare le risorse del pianeta, anche se porta a un
ciclo sempre più accellerato di boom economici, bolle finanziarie, fallimenti e depressioni. Possono gli
Stati Uniti diventare, nei primi anni del ventunesimo secolo, qualcosa di simile alla Gran Bretagna del
tardo ventesimo secolo, cioè reggersi senza una significativa produzione manifatturiera o agricola alla
base dell’economia (lasciando questa parte della divisione del lavoro alla Cina e ad altri continenti
pieni di manodopera a basso costo)?
In altre parole, o il settore finanziario sarà "nazionalizzato" o la nazione verrà "finanziarizzata"
(o possibili combinazioni di entrambi). Entrambe le alternative da sole sono ugualmente improbabili.
Chimere di un keynesismo utile a ravvivare la base industriale (con un ampio settore "verde") e una
nuova ondata di neoliberismo riformato che cerca di rilegittimare le avventure del capitale finanziario
verrano assemblate, a meno che non emerga un'altra forza in campo capace di utilizzare la crisi per
forgiare una via d'uscita dal capitalismo. Nel breve periodo, le politiche keynesiane e "verdi" saranno
imposte, forse complice il fatto che i movimenti di capitali (con cui politiche keynesiane spinte ad un
certo livello non sono conciliabili) sono di modesta entità a causa del contesto di crisi attuale. La
regolamentazione sarà in parte implementata e infine, dopo il raggiungimento della crisi più profonda,
verrà proposta una parziale riconciliazione con un regime di bolle speculative e crolli finanziari.
(ii) I lavoratori statunitensi come debitori
Karl Marx, il grande analista anticapitalista del diciannovesimo secolo ha visto il capitale
finanziario unicamente in relazione ai capitalisti. Scrisse sinteticamente negli anni Sessanta del 1800:
"L'interesse è un rapporto tra due capitalisti, non fra capitalista e lavoratore". In altre parole, l'interesse
è qui definito come un reddito versato in favore di un capitalista finanziario, sulla base del denaro da
questi prestato. Come il prestito venga rimborsato con gli interessi è irrilevante. L'interesse è
logicamente autonomo dal processo di produzione (anche se per Marx esso dipende in maniera vitale
dallo sfruttamento dei lavoratori in qualche parte del sistema). Particolarmente interessante per noi è il
fatto che Marx scrive come se i lavoratori non ricevessero mai prestiti e non pagassero interessi. Questo
è un dato importante, poiché il sistema del credito è una specie di comune capitalista, in quanto offre al
capitalista (o alla persona che passa per tale) "un comando assoluto sul capitale e sulla proprietà altrui,
entro certi limiti, e, attraverso questo, il comando sul lavoro di altre persone". Il valore separato dai
suoi proprietari diventa una risorsa comune che, anche se astratta, dà un enorme potere a coloro che
possono accedervi. Questo potere non doveva essere condiviso con i lavoratori, almeno non nel
10
Legge bancaria varata dal Congresso degli Stati Uniti nel 1933 in risposta alla crisi finanziaria del 1929. Tra le misure
più importanti: l'istituzione della Federal Deposit Insurance Corporation, finalizzata a garantire i depositi, prevenire
corse agli sportelli delle banche e ridurre il rischio di panici bancari; l'introduzione di una netta separazione tra attività
bancaria tradizionale e attività bancaria di investimento. Abrogata di fatto nel 1999 con la promulgazione della GrammLeach-Bliley Act.
diciannovesimo secolo.
Marx ha azzeccato molte cose sul futuro del capitalismo ma non è riuscito a vedere
l'assorbimento della classe operaia, nullatenente ma salariata, nel sistema finanziario. Quando guardava
al debito dei lavoratori, egli vedeva solo banchi di pegno. Dal momento che i lavoratori non avevano
quasi nessuna proprietà che potesse essere utilizzata come garanzia per ottenere prestiti dalle istituzioni
finanziarie, né avevano risparmi da utilizzare come depositi in banca, non sono mai stati riconosciuti
come attori diretti del mondo della finanza. In realtà, molte organizzazioni di mutuo soccorso e
cooperative di credito sorsero nel diciannovesimo secolo, perché le banche e gli altri istituti finanziari
consideravano come clienti solo i capitalisti (grandi e piccoli) o anche perché i lavoratori erano troppo
sospettosi di consegnare i loro sudati risparmi nelle mani dei capitalisti finanziari. Questo non è più
vero. I fondi pensione dei lavoratori sono un'enorme fonte di capitale per il sistema e i loro debiti
costituiscono una larga fetta del debito totale negli Stati Uniti (il debito delle famiglie è circa il 30% del
debito totale negli Stati Uniti). Di conseguenza, quando si parla di crisi finanziaria nel ventunesimo
secolo, dobbiamo parlare sia di conflitto tra classi sia di conflitto tra capitalisti.
Come osservato nella sezione precedente, i lavoratori nel patto neoliberista hanno utilizzato il
credito per entrare nel regno dei redditi non salariali, ossia per ottenere l'accesso a quella risorsa
comune di valore che in precedenza era stata privilegio esclusivo dei capitalisti. In tal modo, essi hanno
rappresentato una minaccia e un'opportunità collettiva per il capitale. La domanda è: può il capitale
funzionare nel ventunesimo secolo senza un'ampia partecipazione della classe operaia al sistema del
credito? Può il capitale tornare ai tempi precedenti "la vita a rate" e fare nuovamente del credito il
regno dei soli capitalisti? Molti sono scettici sia ad un preciso "Sì" che ad un deciso "No", per ottime
ragioni, dal momento che il carattere ambiguo della finanziarizzazione che abbiamo analizzato sopra
non può essere facilmente "corretto." Bloccare completamente (o anche solo in modo discriminante)
l'accesso della classe operaia al valore delle merci, delle case e dell'educazione, attraverso il credito e
senza tornare alla lotta salariale, potrebbe comportare un livello inaccettabile di lotta di classe; ma
riavviare la macchina con la classe operaia che possiede lo stesso accesso al credito di prima della crisi,
potrebbe comportare una ripetizione dello stesso ciclo e della lotta in tempi brevi. Questo è il dilemma
dei capitalisti e servirà loro un bel po’ di tempo per risolverlo. Ma questo processo non è
semplicemente una decisione nelle mani del capitale; gran parte del risultato risiede nelle azioni di
quella sfinge che è la classe operaia mondiale.
Questo dilemma intensifica l'osservazione che fu di Marx sul "carattere duale" del sistema
creditizio: "da un lato esso sviluppa l'incentivo alla produzione capitalistica, ossia l'arricchimento
attraverso lo sfruttamento del lavoro altrui, nella più pura e più colossale struttura di speculazione e
truffa, restringendo sempre più il già esiguo numero di sfruttatori della ricchezza sociale complessiva;
d'altra parte, però, esso costituisce la forma di transizione verso un nuovo modo di produzione". Infatti,
la richiesta che i lavoratori hanno fatto in modo sempre più incalzante, di accedere tramite il sistema
creditizio alla ricchezza accumulata che la loro classe ha prodotto, contiene anch'essa i semi di "una
transizione verso un nuovo modo di produzione", sebbene esso pure sia incorporato in un sistema
altrettanto colossale di speculazione e truffa.
(iii) La crisi fuori dagli Stati Uniti e dall'Europa occidentale: il ritorno dell'FMI e della
Banca Mondiale
L'importanza del debito come arma nella lotta di classe non è nuova. È stato evidente nella
"crisi del debito" dei primi anni Ottanta, quando i contadini africani e i lavoratori sudamericani sono
stati soggiogati con enormi debiti attraverso l'erogazione di mutui a tasso di interesse variabile,
negoziati alle loro spalle dai governi dittatoriali dei loro paesi negli anni Settanta, quando i tassi di
interesse reali erano bassi (e in alcuni casi addirittura negativi). Ma nel 1979 i tassi di interesse salirono
alle stelle, lasciando contadini e operai a sostenere il pagamento di debiti che erano complessivamente
molti multipli dei PIL dei loro paesi.
In questo è consistita la "crisi del debito" dei primi anni Ottanta, che ha permesso di spremere
una quantità enorme di plusvalore da Africa, Sud America e Asia fissando enormi interessi sui loro
vecchi prestiti e facendo contrarre loro nuovi prestiti erogati da FMI e Banca Mondiale per pagare i
vecchi prestiti, a condizione che questi governi adottassero Programmi di Aggiustamento Strutturale
(SAP). I SAP hanno permesso l’apertura forzata di economie precedentemente chiuse; d'indebolire in
modo sostanziale le classi lavoratrici dei paesi presi di mira e consentire ai capitalisti statunitensi,
giapponesi e dell'Europa Occidentale di accedere ai lavoratori, alla terra e alle materie prime a costi
estremamente bassi. Tali programmi sono stati il fondamento di quella che divenne nota come
"globalizzazione". L'FMI e la Banca Mondiale furono le sue agenzie di controllo centrali, piegando
quei paesi che minacciavano di rifiutarsi di giocare secondo le regole del "libero commercio". Fino a
dopo la crisi finanziaria asiatica del 1997, i paesi dell'ex-Terzo Mondo dominati per mezzo dei
Programmi di Aggiustamenti Strutturale hanno fornito gran parte del flusso di capitale atto a finanziare
il boom abitativo e azionario degli anni Ottanta e Novanta. In seguito, la Cina si è rivelata capace di
svolgere questo compito praticamente da sola.
Tutto questo è avvenuto a fronte di una lotta tremenda svoltasi tra la metà degli anni Ottanta e i
primi anni 2000: centinaia di quelli che divennero poi noti in tutto il pianeta come "riot dell'FMI" e
rivoluzioni armate che forzavano continuamente l'FMI, la Banca Mondiale, i governi degli Stati Uniti e
delle nazioni europee occidentali a rinegoziare i prestiti, cambiarne le condizioni e persino a cancellarli.
La lotta contro i SAP è diventata internazionale, estendendosi dalle foreste del Chiapas fino alle strade
che circondano le sedi dell'FMI e della Banca Mondiale a Washington. Inoltre, a partire dall'aumento
dei prezzi del petrolio e delle materie prime verificatosi all'inizio del ventunesimo secolo, l'FMI e la
Banca Mondiale venivano evitati dai loro ex "clienti" (quelli che prima erano definiti "schiavi del
debito"). Questo è stato particolarmente vero per molti paesi produttori di petrolio come l'Algeria, la
Nigeria e l'Indonesia che erano in grado di pagare una parte sostanziale dei loro vecchi prestiti e/o di
attrarre finanziamenti al di fuori dei Programmi di Aggiustamento dell'FMI e della Banca Mondiale,
come per esempio nel caso del prestito che l'Argentina ha ottenuto dal Venezuela. Sebbene il debito
estero totale per molti paesi non sia stato ridotto (o sia addirittura cresciuto), il ruolo di monopolio
dell'FMI e della Banca Mondiale è stato frantumato, rendendo possibile per molti paesi di ignorare le
"raccomandazioni" draconiane di queste agenzie.
La crisi però, ancora una volta, può cambiare i rapporti di forza attraverso il prosciugamento
delle fonti alternative di finanziamento (ad esempio, il governo venezuelano avrà difficoltà a
concedere prestiti a una nazione sudamericana in via di fallimento nel nuovo contesto venutosi a
creare). Di conseguenza, si potrà assistere ad una rinascita del potere del FMI e della Banca Mondiale
in qualità di prestatori globali di credito di ultima istanza, con tutto il potere che tale ruolo comporta.
Questo perché il debito estero di molti paesi è lungi dall'essere scomparso e sotto la pressione della
crisi esso aumenterà drammaticamente. I governi dei G20 hanno infatti deciso di ampliare le riserve
dell'FMI a 1 trilione di dollari e l'FMI ha già imposto requisiti simili agli Aggiustamenti Struttrali a
diversi stati in bancarotta dell'Europa orientale. Tornare allo schifo dei SAP sarebbe una sconfitta
storica ed un invito a una nuova ondata di neo-colonialismo.
Un mezzo di cui il capitale si avvale per uscire dalla crisi è il riscaldamento globale, nonostante
esso ponga un limite ecologico alla crescita forzata dei regimi capitalistici. Imperterriti, i consueti
decisori del Nord (tra cui la Banca Mondiale) stanno investendo in una serie terribile di "soluzioni" al
riscaldamento globale nel Sud, invece che ridurre le cause delle emissioni del Nord. Gli agrocarburanti
(esemplari geneticamente modificati di soia, palma africana, canna da zucchero, jatropha, e ogni genere
di mostruosità OGM futura) minacciano i contadini meridionali con recinzioni ancora più grandi. La
metà dei terreni coltivabili dell'Argentina è già un "deserto verde" di soia geneticamente modificata,
senza parlare del Paraguay e del Brasile, mentre la palma africana ha sostituito una percentuale enorme
di foreste in Indonesia e viene ora utilizzata per attaccare le comunità di origine africana che vivono in
Colombia. L'India ha in programma più di 1 milione di ettari di jatropha (il che significa l'espulsione di
circa altrettanti contadini). E la Nigeria parla di agricoltura industriale per contrastare le lotte per il
petrolio e per la terra nel Delta del Niger.
La crisi concentrerà più potere nelle mani della Banca mondiale e dell'FMI per aprire le
economie del terzo mondo a un numero sempre maggiore di progetti di questo tipo, (re)introducendo
allo stesso tempo programmi di austerità che smantellano il sistema educativo già insufficiente, la
salute e i servizi sociali. Ad esempio, il commercio di quote di emissioni inquinanti consentirà al Nord
di continuare a inquinare, mentre finanzia le dighe e altri "grandi" progetti di sviluppo nel Sud.
Attraverso l'FMI, i SAP e lo "sviluppo", il "Sud globale" sarà messo a disposizione per integrare, se
non addirittura per sostituire, i lavoratori cinesi che hanno reclamato salari più alti. Bisogna
riconoscerlo ai capitalisti: cercano di tirare fuori dollari da qualsiasi cosa, anche dalla fine del mondo!
IIIB. LA RISPOSTA DELLA CLASSE OPERAIA ALLA CRISI11
Uno dei misteri di questa crisi è stata la risposta tardiva e sporadica dei lavoratori degli Stati
Uniti alle sue gravi implicazioni. Poche azioni hanno individuato direttamente la crisi finanziaria ed
economica come spunto per organizzare opposizione al sistema negli Stati Uniti (ad esempio, non è
stata convocata nessuna grande manifestazione a Washington per protestare contro le conseguenze della
crisi). Possiamo citare l'occupazione della fabbrica Republic Window and Door da parte dei lavoratori,
i quali pretesero e ottennero un'indennità di fine riapporto dimostrando che, nonostante Bank of
America fosse la banca di supporto del loro datore di lavoro, non aveva elargito un prestito per
mantenere la fabbrica in vita. Ci sono state azioni contro i pignoramenti e occupazioni organizzate in
una vasta gamma di località: Boston City Life 12 ha effttuato diversi blocchi di sfratti imposti dalle
banche; IAF13 a Los Angeles ha istituito un gruppo per affrontare le banche collettivamente; nella zona
di Miami "Take Back the Land"14 sta occupando case di periferia pignorate o abbandonate per le
famiglie sfollate; ACORN15 è stata attiva nella baia di San Francisco e di altre aree nell'organizzare
forme di resistenza ai pignoramenti. Tuttavia, vi è una discrepanza tra numero ed entità di tali azioni e
gravità della crisi.
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14
15
Questo capitolo è necessarimente il più incompleto e datato dell'intero testo, perché scritto in un momento (inizio 2009)
in cui le risposte di massa al riemergere della crisi erano appena abbozzate. Alcuni componenti di Midnight Notes, come
Silvia Federici e George Caffentzis, hanno partecipato attivamente al movimento Occupy. Un''analisi-bilancio dei nodi
emersi e dei limiti di questa esperienza si trovano in G. Caffentzis. 2012, “In the desert of cities: notes on the Occupy
movement in the US” (http://www.reclamationsjournal.org/blog/?p=505).
http://www.clvu.org.
http://www.industrialareasfoundation.org
http://takebacktheland.org
http://www.acorn.org
La campagna elettorale di Obama ha indubbiamente assorbito enormi energie politiche,
dirigendole lontano dalla strada, all'interno del percorso elettorale. Ha chiaramente fatto appello a una
vasta porzione di quella che lui chiama "la classe media", offrendo la prospettiva di un'uscita non
rivoluzionaria dalla crisi. La sua candidatura ha rappresentato un colpo di fortuna a breve termine per il
sistema e senza dubbio gli farà guadagnare tempo prezioso nel prossimo futuro; ma tuttora resta la
minaccia di ciò che potrà succedere in seguito al mancato riavvio della macchina dell'accumulazione,
dopo aver tanto audacemente evocato la speranza in una ripresa del capitalismo che non comportasse
enormi sacrifici per la classe operaia.
In tutto il mondo, negli ultimi anni, vediamo tuttavia un poderoso aumento dell'azione della
classe operaia sotto forma di proteste contro gli aumenti dei prezzi del cibo e dell'energia che facevano
parte dei meccanismi di speculazione finanziaria che hanno portano alla crisi.
Vediamo in Cina l'inizio di uno dei momenti più decisivi della crisi: la classe operaia cinese
abbandonerà le città quando il capitale glielo ordinerà e farà ritorno ad una campagna privatizzata?
In Europa la gente ha reagito in maniera particolarmente forte e rapida alla crisi, soprattutto
nelle sue periferie meridionali (Italia, Spagna e Grecia) e settentrionali (Irlanda, Islanda, Lettonia).
In Italia ripetute ondate di scioperi, tendenti allo sciopero generale, hanno mobilitato
letteralmente milioni di lavoratori in tutto il paese.
In Spagna, un paese in cui la speculazione abitativa e il boom delle costruzioni è in rapido
disfacimento e sta causando grande sfacelo sociale, il 15 novembre ci fu una grande giornata di protesta
in tutto il paese in risposta alla riunione del G20, svoltasi a Washington con lo scopo di puntellare il
sistema finanziario internazionale. Inoltre, i lavoratori bancari hanno messo in scena l'occupazione del
ramo principale della banca BBVA. E, a pochi giorni dal crollo della Lehman Brothers, "Robin-Bank"
ha annunciato di aver rubato quasi mezzo milione di euro da 38 banche spagnole per dare i soldi ai
movimenti sociali di emancipazione.
In Grecia, rivolte di massa e proteste sono state scatenate dall'uccisione di Alexis Grigoropoulos
da parte della polizia, ma hanno anche coinciso con uno sciopero precedentemente dichiarato dai due
maggiori sindacati. Il tutto si è trasformato in molte giornate di grande rivolta sociale, in un paese dove
la disoccupazione giovanile raggiungeva in alcuni luoghi il 70%, già da prima che gli effetti della crisi
economica mondiale si facessero sentire.
È importante sottolineare che, in tutti e tre i paesi, uno slogan comune è emerso in un
brevissimo lasso di tempo: "Non pagheremo noi la vostra crisi." Come annunciato in un volantino
distribuito dai movimenti di lotta greci: "Nulla sarà più come prima". Esso esprime un livello di rivolta
contro le condizioni di degrado, sfruttamento ed esclusione che la crisi indubbiamente non mancherà di
intensificare, in Grecia come altrove.
Islanda, Irlanda, Francia, Lettonia, Bulgaria e un certo numero di altri paesi europei sono stati
teatro di manifestazioni di massa, rivolte, cadute di governi e di una rinascita di movimenti anticapitalisti che era rimasta in sospeso per decenni.
IV. LA COSTITUZIONE DEL COMUNE NELLA CRISI: MANGIARE DAL PIATTO DI
TUTTI CON UN SOLO CUCCHIAIO
Le lotte circolano e quelle apertesi contro le conseguenze della crisi presto esploderanno anche
negli Stati Uniti. Quella che era inizialmente apparsa come crisi finanziaria, poi trasformatasi in crisi
economica, verrà presto definita "crisi politica". La distruzione abietta che i capitalisti hanno creato con
la loro "gestione" dei due grandi comuni del pianeta, l'eco-sistema e il lavoro, smetterà di essere
considerata come "la tragedia del comune"16 (di cui nessuno è responsabile) finendo per de-legittimare
la classe capitalistica nel suo insieme. Queste crisi sono state fondate sul presupposto che il lavoro e
l'ecosistema planetario sono risorse comuni, disponibili a essere usate e abusate per il profitto di chi ha
(o fa finta di avere) il capitale per appropriarsene.
La classe capitalista non è in grado di controllare l'intero insieme delle risorse comuni che
compongono i nostri mezzi di produzione e sussistenza, senza creare danni irreparabili. Chi può fare di
meglio? Anche se molti lavoratori negli Stati Uniti potrebbero non essere all'altezza della sfida di oggi
e continuano a individuare nei loro capi gli artefici della propria salvezza, noi dovremmo comunque
riconoscere ciò che la logica delle lotte indica. Lasciamoci guidare dalle parole di Thomas Paine ne Il
senso comune dove notava che, in un precedente periodo di crisi rivoluzionaria, la maggior parte delle
persone era a favore dell'indipendenza nei giorni precedenti la sua Dichiarazione. "Dobbiamo trovare il
momento giusto", dicevano. Paine rispose: "Il tempo ci ha trovato!"
La crisi ha dimostrato a tutti coloro che hanno occhi per vedere che Stato e Mercato hanno
fallito nella loro pretesa di fornire una riproduzione sicura delle nostre vite. I capitalisti hanno
dimostrato (questa volta in modo definitivo) che non sono in grado di fornire i mezzi minimi per
condurre una vita dignitosa neanche nel cuore del sistema capitalistico, ma tengono in ostaggio la
ricchezza che generazioni hanno prodotto. Questo insieme di lavoro passato e presente è il nostro
comune. Abbiamo bisogno di liberarlo, per riappropriarci di quella ricchezza, riunendo tutti coloro che
ne sono stati espropriati, a partire dal popolo dei nativi americani e dai discendenti degli schiavi, ancora
in attesa dei loro "quaranta acri e un mulo" 17 o di un valore equivalente. Abbiamo anche bisogno di
costruire forme collettive di vita sociale e di cooperazione, al di là del mercato e del sistema del
profitto, sia nella sfera della produzione che della riproduzione. E abbiamo bisogno di ritrovare il senso
della totalità della nostra vita, l’interezza di ciò che facciamo, in modo da smettere di vivere in uno
stato di irresponsabilità sistematico, favorito dal capitalismo, verso le conseguenze delle nostre azioni:
buttare via tonnellate di spazzatura senza pensarci due volte, anche se abbiamo il sospetto che diventerà
cibo per alcune persone, oppure gettare fumo nei polmoni di qualcun'altro o anidride carbonica
nell'atmosfera di tutti.
Questo è il punto di vista costituente che possiamo portare in ogni lotta. Col termine
"costituente" non ci riferiamo a un documento che descrive il progetto di uno Stato ma alla costituzione
del comune, ovvero alle regole che usiamo per decidere come vogliamo condividere le nostre risorse
comuni. Come dicono i nativi americani, per mangiare collettivamente da un piatto con un solo
cucchiaio, dobbiamo decidere chi ottiene il cucchiaio e quando. Questo è vero per tutte le forme di
comune; un comune senza una comunità consapevolmente costituita è impensabile.
Questo significa che dobbiamo realizzare una serie di obiettivi in grado di articolare una visione
d’insieme spendibile in qualsiasi contesto di lotta di classe, rovesciando ogni volta i rapporti di forza a
sfavore del capitale. In primo luogo, abbiamo bisogno di stabilire ciò che viola le nostre regole mentre
stiamo costituendo il comune. Quello che segue è un esempio di tali tabù immediatamente
riconoscibili.
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Qui il riferimento all'articolo di Garrett Hardin del 1968, The Tragedy of Commons, che per primo impostò teoricamente
il dibattito sui commons. Cfr. l'Appendice al testo.
Espressione usata per indicare il risarcimento che doveva essere assegnato agli schiavi afro-americani liberati dopo la
guerra civile: 40 acri (16 ha) di terra coltivabile, e un mulo con il quale trascinare l'aratro per coltivarla. Fu il prodotto
dello Special Field Orders, No. 15, emanato il 16 gennaio 1865 dal Maggiore Generale William T. Sherman, e si
applicava alle famiglie nere che vivevano vicino alla costa della Carolina del Sud, della Georgia e della Florida.
Non possiamo vivere in un paese:
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dove 37 milioni di persone soffrono la fame;
dove il costo di un intervento chirurgico lascia la gente senza casa;
dove andare a scuola avvelena la mente delle persone e le costringe alla schiavitù del debito;
dove si congela in inverno, perché non si può pagare la bolletta del riscaldamento;
dove si torna a lavorare a 70 anni perché si è stati defraudati della pensione;
e dove il lavoro che produce morte e che uccide gli stessi lavoratori è spacciato come un
percorso di "piena occupazione".
Questi sono tabù molto elementari, ma devono essere pronunciati ad alta voce. Anche se il
sistema ha dimostrato di essere in bancarotta, molti ancora ascoltano i canti delle sue sirene.
È giunto il momento, per noi nel movimento anti-capitalista, di proporre una costituzione di
delle regole con cui condividere il comune del lavoro passato e le risorse naturali del presente, per poi
concentrarsi sulla costruzione di reti politiche in grado di realizzarle. Nei momenti di congiuntura
rivoluzionaria che hanno attraversato la storia degli Stati Uniti (come la Guerra Civile, la Grande
Depressione, il Movimento per i Diritti Civili degli afro-americani e quello seguente per il Black
Power), la pretesa di un cambiamento fondamentale nella costituzione si è manifestata all'interno della
classe operaia attraverso l'azione (lo "sciopero generale" durato anni degli schiavi nel Sud durante la
Guerra Civile, gli innumerevoli scontri di fabbrica, i "sit-in” e le "calde" insurrezioni estive che si
estendevano di città in città) venendo poi di volta in volta "catturata" da una legge o da "un
emendamento costituzionale" (come gli emendamenti 13 e 14, il Wagner Act18, il Voting Rights Act19).
Ma la storia degli Stati Uniti non è la sola a collegare crisi, transizione rivoluzionaria e
costituzione. Recentemente, negli ultimi due decenni, c'è stato un turbinio che ha sconvolto la politica
costituzionale delle Americhe a sud del Rio Bravo. Dalla chiamata degli zapatisti per una nuova
costituzione messicana, alle molte trasformazioni costituzionali succedutesi in Venezuela, fino alla più
recente costituzione boliviana che riconosce formalmente i beni comuni20, vi è stato un riconoscimento
formale del concetto di Potencia (o "potere di") in sostituzione del concetto di Poder ( o "potere su"). È
proprio a questo spirito che gli zapatisti, nella Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona (2005),
hanno fatto riferimento: “Ci stiamo anche muovendo per sollevare una lotta che esiga una nuova
Costituzione; nuove leggi che prendano in considerazione le richieste del popolo messicano, che sono:
casa, terra, lavoro, cibo, salute, educazione, informazione, cultura, indipendenza, democrazia, giustizia,
libertà e pace. Una nuova Costituzione che riconosca i diritti e le libertà del popolo, e che difenda i
deboli di fronte ai potenti."
Dovremmo formulare richieste, obiettivi, programmi di lotta sugli aspetti più importanti delle
nostre vite – casa, lavoro, reddito – per garantire i nostri mezzi di sussistenza, la costruzione di
cooperazione e di solidarietà, la creazione di alternative alla vita nel capitalismo. Abbiamo bisogno di
costruire un movimento che metta all'ordine del giorno la sua stessa riproduzione. Dobbiamo fare in
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19
20
Conosciuto anche come National Labor Relations Act of 1935, è lo statuto fondativo della legislazione statunitense in
materia di lavoro. Riconosce i diritti di base ai dipendenti del settore privato: la possibilità di organizzarsi
collettivamente, di associarsi in sindacati e di eservitare forme di azione colelttivo, tra cui lo sciopero.
Legge del 1965 che ha permesso ai cittadini neri degli Stati Uniti d'America, di poter votare alle elezioni che si
svolgevano nel paese. Promotore di questa legge è stato Martin Luther King.
Qui preferiamo utilizzare la dicitura “beni comuni” perché quanto riconosciuto dalla Costituzione boliviana approvata
dal governo Morales attiene a specifici beni comuni naturali come l'acqua e il gas.
modo di sfidare il capitale non solo in occasione della manifestazione o del picchetto, ma
collettivamente in ogni momento della nostra vita. Quello che sta accadendo a livello internazionale
dimostra che solo quando si hanno queste forme di riproduzione collettiva, quando si hanno cioè
comunità che si riproducono collettivamente, solo allora possono nascere lotte che si muovono in modo
molto radicale contro l'ordine costituito.
Questa è la nostra politica costituente. Non è una lista di richieste o reclami, ma l'espressione di
ciò che stiamo diventando, di come vogliamo costituire il nostro essere.
Per esempio: cominciamo a garantirci l'un l'altro la casa. Ciò significa non solo "No" agli sfratti,
ma la rioccupazione di case che sono state abbandonate, la distribuzione o l'occupazione del patrimonio
abitativo vuoto che si trova intorno a noi (una decisione collettiva di questo tipo di auto-riduzione del
canone di locazione è stata fatta in Italia negli anni Settanta); la creazione di nuovi alloggi che siano
organizzati collettivamente e costruiti ecologicamente. In mancanza di questo, dovremmo costruire la
nostra versione di “aree per senzatetto” sui gradini della Casa Bianca, aprire cucine lì di fronte,
mostrare al mondo le nostre tasche vuote e le nostre ferite, invece di agonizzare in privato.
Per esempio: cominciamo a far diventare la lotta per l'abitare una lotta per la riorganizzazione
del lavoro riproduttivo della vita quotidiana su base collettiva. Ne abbiamo abbastanza di passare il
tempo nelle nostre gabbie solitarie, con i viaggi al centro commerciale come culmine della nostra
socialità. È tempo per noi di riunirci con coloro che fanno rivivere la nostra tradizione di esseri
collettivi, cooperativi. Questo "anno zero" della riproduzione che la crisi capitalistica sta creando, come
si evince dal proliferare di città-tendopoli dalla California alla Carolina del Nord, è un buon momento
per iniziare.
Per esempio: cominciamo a lottare in modo tale da disattivare i meccanismi che perpetuano il
nostro sfruttamento e le nostre divisioni. Per garantire che le nostre lotte non siano usate per dividere le
persone sulla base di un differenziale di premi e punizioni elargite, dobbiamo sollevare continuamente
la questione del risarcimento, vale a dire del prezzo che è stato pagato e che continua ad essere pagato
per il patto razzista, imperialista, sessista, sciovinista, discriminante verso gli anziani ed
ecologicamente distruttivo, che i lavoratori statunitensi hanno accettato.
Per esempio: cominciamo a chiedere una vita in cui la nostra sopravvivenza non dipenda da una
guerra costante contro altri popoli della terra e contro i nostri stessi giovani. Dobbiamo esprimerci
contro la guerra in Iraq e in Afghanistan, contro il massacro in Palestina.
Per esempio: cominciamo a parlare contro le prigioni, la politica di incarcerazione di massa,
l'oscenità di pompare lavoro e profitti mettendo la gente in galera. Dobbiamo chiedere l'abolizione della
pena capitale... anche per i capitalisti! E ancora, dobbiamo ridefinire lo stesso concetto di crimine, far
esplodere la logica che vede un crimine orrendo nel proletario che deruba un negozio di liquori ma
chiama "incidenti", "errori" o “questioni di routine” i crimini dei capitalisti che conducono alla morte e
alla miseria di migliaia di persone.
Per esempio: cominciamo anche a parlare della violenza maschile contro le donne. Quale lotta
per la costituzione del comune ci accingiamo a fare, quando ogni 15 secondi un uomo picchia una
donna negli Stati Uniti? Quanta energia si libererebbe per la lotta, se le donne non dovessero lottare
contro gli uomini, molto spesso anche solo per poter combattere il sistema in quanto donne?
Per esempio: cominciamo a ravvivare la nostra immaginazione sociale, dopo decenni di reazioni
difensive alle recinzioni neoliberiste, e determiniamo nuove costituzioni del comune. Naturalmente, ciò
che la nostra immaginazione può suggerirci ora è limitato ed è solo una preparazione per raggiungere
un altro livello di potenza e capacità immaginativa. Ma anche con questa povertà, possiamo ascoltare
un medley di "musiche di futuri possibili".
Ascoltiamo due musicisti in mezzo a noi:
* "Il comune futuribile si riduce a due elementi: l'accesso alla terra (vale a dire cibo e
combustibili) e l'accesso alla conoscenza (la capacità cioè di utilizzare e migliorare tutti i mezzi di
produzione, materiale o immateriale). E’ tutta questione di patate e computer".
* "Il sistema salariale dovrebbe essere smantellato immediatamente. Data l'esistenza di Internet,
dei metodi contabili del ventunesimo secolo e del deposito diretto, sarebbe possibile spostarsi
immediatamente verso un reddito di base garantito, in un primo momento in termini monetari, con tutti
che hanno accesso a un "conto" alla nascita e con la responsabilità di donare alla comunità un minimo
di tempo di lavoro socialmente necessario – sono inclusi: lavoro casalingo di ogni genere, elaborazioni
artistiche, di scrittura, ecc. e attività politica (partecipazione ad assemblee e giurie o qualsiasi altro
contributo). Ciò creerebbe un incentivo per una vita cooperativa in cui chiunque sia in grado di ridurre
le ore di lavoro domestico attraverso la cooperazione può avere più tempo a disposizione per altre
attività. Questo reddito garantito dovrebbe sostituire l'assicurazione, la finanza, le agenzie di
previdenza sociale e altri settori, liberando milioni di persone e permettendo loro di partecipare ad
attività di cooperazione, riducendo ulteriormente il tempo di lavoro socialmente necessario di
ciascuno".
* "L'unico modo possibile di fare agricoltura su questo pianeta è un'intensa produzione
biologica a cultura mista. Questa forma di agricoltura è irrimediabilmente non redditizia sotto le attuali
condizioni – così deve essere trovato un nuovo tipo di cooperazione tra consumatori e produttori (in
realtà l'abolizione di questa distinzione), che preveda la trasformazione del lavoro agricolo in una parte
del lavoro domestico di ciascuno".
* "Il sistema finanziario deve essere immediatamente sostituito con assemblee e 'cooperative di
credito' strutturate in base alle esigenze della comunità, che possano decidere dove mettere le risorse
della comunità, demistificando la 'finanza' come strumento di pianificazione sociale."
* "Se il sostentamento delle persone è garantito dai mezzi di sussistenza e da servizi generali a
tutti i livelli, la libera condivisione della produzione intellettuale è possibile senza mettere in pericolo la
sopravvivenza dei suoi produttori. Il pianeta può diventare una sfera di libero scambio di conoscenze,
competenze e idee. In aggiunta a questo comune intellettuale, un comune materiale deve essere istituito
per stabilire una giusta distribuzione delle risorse".
Per esempio: …
V. CARATTERISTICHE DELLE LOTTE RIVOLUZIONARIE CHE SI MUOVONO OLTRE
IL CAPITALE
Le lotte che hanno portato alla crisi, soprattutto quelle dell'America Latina, dal Messico
all'Argentina, hanno definito le esperienze fondamentali della lotta contemporanea per la "costituzione
del comune". Crediamo che queste esperienze siano importanti per i movimenti anti-capitalisti degli
Stati Uniti e abbiamo quindi cercato di individuare alcune caratteristiche di tali lotte (soprattutto quelle
degli zapatisti e di altri gruppi discendenti dagli indigeni americani).
Una delle distinzioni più importanti da fare (ma più difficile da tracciare) è tra quelle lotte che
sono "dentro" (che talvolta chiamiamo "socialdemocratiche"), e quelle "autonome" o "al di fuori". In un
certo senso, tale distinzione è una variante di quella tra "riforma" e "rivoluzione" tipica della politica
anti-capitalista della prima parte del ventesimo secolo, quando i partiti socialdemocratici “riformisti”
erano istituzioni importanti.
La distinzione "dentro/fuori", tuttavia, non è spaziale ma di rapporto politico. "Dentro" indica
richieste ad un'istituzione (stato/mercato) solitamente dedita a riprodurre il rapporto lavoro-capitale,
mentre "fuori" significa appropriazione comune di risorse de/non-mercificate, magari in parallelo alle
richieste ufficiali. Entrambi i casi possono verificarsi ovunque, proprio come il comune può essere
sostenuto o creato da ogni parte. I due aspetti possono essere complementari o contraddittori. Ad
esempio, l'appropriazione può essere migliorata e/o indebolita dalle richieste fatte a un'istituzione.
Entrambe possono essere mezzi per costruire alleanze ed esprimere esigenze che vanno oltre le
richieste formali. Analizzando le relazioni dentro/fuori e le loro potenzialità in contesti specifici, un
movimento può meglio chiarire la propria strategia.
Le lotte “da dentro” si combattono principalmente all'interno di istituzioni e terreni di conflitto
esistenti, come ad esempio lo Stato, le aziende, il sistema giuridico, la società civile tradizionale o i
costrutti culturali tradizionali. Esse puntano generalmente a incrementare il reddito della classe operaia,
il suo accesso alla merce e il suo potere all'interno del sistema, senza però mettere in discussione
direttamente l'organizzazione capitalistica della società né creare alternative collettive al sistema
capitalista. Esse in genere assumono la forma di richieste al sistema. Tuttavia, possono talvolta essere
molto conflittuali e forzare i limiti della legalità e della proprieta capitalistiche. Tale volontà di
scontrarsi apertamente con il sistema è molto importante, almeno in questa fase negli Stati Uniti,
poiché essa implica una maggiore probabilità di andare oltre le richieste iniziali.
Al contrario le lotte "dal di fuori", autonome, si sforzano di creare spazi sociali e relazioni che
siano il più possibile indipendenti dai e in opposizione ai rapporti sociali capitalistici. Esse possono
scontrarsi direttamente con o cercare di prendere in consegna e riorganizzare le istituzioni capitalistiche
(una fabbrica, per esempio) o ancora creare nuovi spazi al di fuori di tali istituzioni (ad esempio, gli orti
urbani o l’edilizia cooperativa) o accessi alle risorse che dovrebbero essere comuni. Esse favoriscono
relazioni, processi e prodotti non mercificati e collettivi, che funzionano a livello reale al di fuori dei
rapporti capitalistici e danno potere alla classe operaia nei suoi sforzi di creare alternative al capitale.
Negli Stati Uniti, molte di queste battaglie appaiono come fuori dell'economia ufficiale. Un certo
numero di amici di Midnight Notes hanno recentemente fatto dei commenti su questi tipi di lotte.
Scrive Massimo De Angelis, con volontà definitoria, ne “L'inizio della Storia”:
Quando riflettiamo sulla miriade di lotte di comunità che si svolgono in tutto il mondo per
l'acqua, l'elettricità, la terra, l'accesso alla ricchezza sociale, la vita e la dignità, non si può fare a
meno di sentire che le pratiche relazionali e produttive che danno vita e forma a queste lotte
danno luogo a valori e modi di fare e a relazioni di coproduzione sociale (in breve, pratiche di
valore). Non solo, ma queste pratiche di valore sembrano essere al di fuori delle corrispondenti
pratiche di valore e modi di fare e di relazionarsi che appartengono al capitale... Il "fuori"
rispetto al modo di produzione capitalistico è una problematica che dobbiamo affrontare con
una certa urgenza, se vogliamo spingere il nostro dibattito sulle alternative su un piano che ci
aiuti a informare, decodificare e intensificare la rete di connessioni delle pratiche di lotta
(DeAngelis, 2007: 227).
Chris Carlsson, dal canto suo, ha mappato porzioni di questo spazio negli Stati Uniti nel suo
“Nowtopia” dove scrive:
Orticoltura comunitaria, combustibili alternativi e l’uso della bicicletta, d'altra parte,
rappresentano rivolte tecnologiche che integrano una visione ecologica positiva con
comportamenti locali pratici... Nel loro insieme, questa costellazione di pratiche è un elaborato,
decentrato, non coordinato, sforzo di ricerca e di sviluppo collettivo che sta esplorando un
futuro post-petrolifero, potenzialmente post-capitalista (Carlsson, 2008: 45).
Sarebbe a dire che l'approccio socialdemocratico cerca di usare le istituzioni esistenti per
aumentare il potere della classe operaia nel suo rapporto con il capitale, mentre l'approccio autonomo
cerca di muoversi indipendentemente dalle istituzioni esistenti per costruire una società non capitalista.
Questa distinzione "dentro"/"fuori", tuttavia, non è facile da fare. Dopo tutto, solo perché
scrivete sui vostri striscioni in rosso e nero che siete degli outsider rivoluzionari, ciò non implica che lo
siate davvero. Sarà la “Storia" a giudicare e spesso la risposta si fa attendere. Inoltre, coloro che
desiderano una risposta veloce dovrebbero ricordare gli avvertimenti dei nostri amici situazionisti che
ci avvertono delle difficoltà nel porre questa distinzione dentro/fuori, in una società dominata da un
flusso infinito di immagini, metafore e tranelli dialettici, dove A è facilmente trasformato in non-A in
un lampo (e viceversa), e il "fuori" può essere facilmente sussunto in un "dentro-fuori".
Riteniamo, tuttavia, che le lotte della classe operaia nelle Americhe stiano diventando sempre
più autonome, e questa distinzione tra lotte riformiste e autonome è centrale in gran parte del dibattito
politico che ha permeato Messico, Venezuela, Bolivia, Brasile, Uruguay, Argentina ed Ecuador.
Certamente è stata centrale per gli zapatisti e per il dibattito che hanno iniziato con la loro "Altra
Campagna" nel 2005, quando hanno offerto un'alternativa non-elettorale alla campagna presidenziale
Obrador del socialdemocratico PRD (Partido Revolucionario Democratico). L'"Altra Campagna" ha
rappresentato un'esperienza di dialogo esteso, pan-Messicano, tra gli zapatisti e gli attivisti locali in
decine di comunità, che hanno condiviso esperienze di lotta e si sono chiesti come una politica
autenticamente democratica potrebbe essere costruita. Stiamo imparando da questa ricca discussione e
cerchiamo di camminare nella direzione ch'essa ha indicato.
In primo luogo, dobbiamo notare l'inevitabilità di tante lotte "dal di dentro". In effetti, la
maggior parte delle lotte contro le conseguenze distruttive della crisi in questo momento in gran parte
del mondo sono, almeno in partenza, portate avanti "dal di dentro." Ma queste lotte possono eccedere i
limiti dell'essere "dentro". Il nostro intento è dimostrare che le caratteristiche identificate di seguito
possono aiutare a determinare se le lotte sociali democratiche creano, o hanno il potenziale di creare, le
condizioni che favoriscono alternative reali al capitale. Ossia, se esse promuovono o producono
portano a lotte "autonome" piuttosto che confinarle entro i limiti del sistema, se non perpetuano o
ricompongono le divisioni all'interno della classe, se allontanano o meno le persone coinvolte da ogni
possibilità di partecipazione a future lotte rivoluzionarie.
Le lotte autonome, tuttavia, sono ben lungi dal considerarsi scevre dalla necessità di un esame
attento e di una valutazione riflessiva. Quali sono le caratteristiche delle lotte "autonome" anticapitaliste? Dopo tutto, le lotte autonome possono essere assorbite o isolate, possono non
generalizzarsi, possono privilegiare alcuni settori della classe su altri, ecc.
La Storia "conosce molte scorciatoie" e non solo le lotte socialdemocratiche possono
svilupparsi in direzioni sempre più autonome, ma le stesse lotte autonome possono supportare, ispirare
e guidare lotte che emergono dal di dentro. Alcune persone possono essere coinvolte in entrambe le
forme. E nel mondo reale, è facile che molte lotte sfumino i contorni di questa categorizzazione
schematica, magari nei loro momenti iniziali, ma forse anche nella loro evoluzione (prendiamo, per
esempio, le rivolte greche scaturite dall'assassinio di Alexis Grigoropoulos ad Atene). Qui di seguito
sono elencate una serie di caratteristiche delle lotte rivoluzionarie che abbiamo raccolto dall'esperienza
anti-capitalista, soprattutto dalla lotta contro il genocidio e l'omicidio di massa al servizio del capitale
che ha ribaltato la tendenza degli ultimi dieci anni, da Oaxaca e Chiapas alla Terra del Fuoco.
1. Le lotte sovvertono la gerarchia di classe – tra classe operaia e classe capitalista, all'interno
della classe operaia, all'interno delle nazioni e a livello internazionale; in termini razziali; tra donne e
uomini; tra immigrati e cittadini residenti; tra le diverse culture. Le loro istanze portano a una maggiore
uguaglianza, se vinte (forse anche se non vinte), perché interrogano il come si combatte la battaglia. Le
esigenze di chi sta "in basso" (i più poveri economicamente, i meno potenti socialmente o
politicamente) vanno messe davanti, esplicitamente, per costruire unità e sostenibilità.
Le rivendicazioni socialdemocratiche insistono in termini generali sull'accesso alla ricchezza:
salari e redditi, tempo di lavoro, sicurezza sul lavoro, pensioni, assistenza sanitaria, alloggio, cibo (che
in molti casi può significare terra) e istruzione. (Alcune di queste rivendicazioni comprendono il salario
indiretto – che è più adatto ad essere in qualche modo socializzato, una forma di bene comune, anche se
all'interno del capitalismo). È possibile che queste lotte vadano a beneficio di chi è già
privilegiato/potente e che la loro “vittoria” sclerotizzi maggiori disuguaglianze? Allo stesso modo, le
azioni autonome includono o escludono coloro che sono socialmente o economicamente meno
influenti?
2. Le lotte aumentano l'unità di classe, riunendo in modo virtuoso diversi settori di classe,
rafforzando le relazioni di mutualità, superando le divisioni all'interno della classe. Vanno oltre le
questioni singole, le collegano, senza diminuirne l'importanza o il valore. Questa unità deve diventare
planetaria. Come scrive un altro amico di Midnight Notes, Kolya Abramsky, in "Raccogliere la nostra
degna rabbia": queste lotte sono in grado di "ampliare e approfondire le reti globali... verso un
processo accelerato di costruzione di mezzi di sostentamento a lungo termine autonomi e decentrati,
sulla base di rapporti collettivi di produzione, scambio e consumo edificati su condizioni di vita
dignitose? "(Abramsky, 2008). Usando una terminologia più vecchia, queste lotte aumentano la
"ricomposizione politica" della classe operaia, come definito dalla redazione di Zerowork a metà degli
anni Settanta: "il rovesciamento delle divisioni capitaliste, la creazione di nuove unità tra i diversi
settori della classe e un ampliamento dei confini di ciò che la definizione 'classe operaia' può includere"
(MN, 1992: 112).
3. Le lotte creano l’opportunità di inserirsi dignitosamente costruiscono l'inserimento dignitoso
nella comunità. Le barriere di esclusione e di apartheid crollano nelle lotte rivoluzionarie; tra queste,
nel nostro tempo, le barriere contro gli immigrati, i carcerati, i gay e le lesbiche, le razze e i popoli
storicamente oppressi. Le lotte rispettano l'alterità e la comunalità dell'altro, tanto da rendere ciascuno
più consapevole dei bisogni dell’altro/a, specialmente di chi è oggi meno forte. Mirano a garantire che
tutti noi ci trattiamo l'un l'altro/a con dignità.
4. Le lotte rafforzano il comune ed espandono le relazioni e gli spazi de-mercificati. Il comune è
uno spazio non mercificato condiviso dalla comunità. Nella versione socialdemocratica le lotte
includono cose come l'assistenza sanitaria, l'istruzione e la previdenza sociale – per quanto
imperfettamente realizzate. Tuttavia, tali lotte riescono anche a supportare il movimento dal basso
verso l'alto, espandendo l'inclusività e il controllo partecipativo? D’altra parte, i settori autonomi sono
in grado di evitare la loro mercificazione (evitare di essere trasformati in prodotti commerciali o servizi
in vendita)? Ammesso che non possano farlo completamente, possono mantenere una posizione
politica e un comportamento attivo che spingano verso dinamiche non mercificate? Più in generale,
come può la classe operaia, su scala piccola o grande, creare forme di scambio che siano o tendano a
essere de-mercificate? Riuscire a creare mercati (forme di scambio) che non governino la vita e i mezzi
di sussistenza? Ridurre la portata della mercificazione e dei mercati capitalistici sulla vita delle
persone?
5. Le lotte migliorano il controllo locale e il controllo partecipativo. "Locale" non è un termine
geografico, significa che le decisioni sono prese il più vicino possibile a coloro che sono coinvolti;
partecipativo significa che tutte le persone coinvolte hanno una voce reale nelle decisioni. Tutto questo
porta alla luce la questione del chi prende le decisioni e come.
Gran parte di ciò che conosciamo come azione autonoma è locale e comprende quasi
intrinsecamente un "controllo locale" di qualche tipo. La socialdemocrazia, storicamente, non arriva a
comprenderlo. Uno dei suoi tratti distintivi è infatti la dipendenza da un apparato statale di grandi
dimensioni, burocratico, invadente e difficile da influenzare. Questo Stato è stato il bersaglio di un
diffuso attacco della classe operaia negli anni Sessanta il quale, tuttavia, è stato rivolto contro la stessa
classe operaia e utilizzato dalla Destra per promuovere il neoliberismo. Ci sono possibilità che la classe
operaia metta in campo richieste/lotte socialdemocratiche che includono la rivendicazione/lotta per il
controllo locale e/o partecipativo? (Certi aspetti di quanto sopra implicato erano contenuti in alcuni dei
primi programmi per la guerra contro la povertà, ma sono stati subito eliminati o sussunti una volta che
gli Stati Uniti hanno intuito la potenziale pericolosità del loro "errore di calcolo"). Più in generale,
possono le lotte "dal di dentro" aiutare le lotte "dal di fuori"?
Ci sono modi per spostare le lotte socialdemocratiche verso un agire più autonomo? Esempio: le
battaglie per il sostegno del governo agli orti urbani possono anche spingere per l’ottenimento del
controllo esercitato da organismi locali, partecipativi e democratici, piuttosto che dalle istituzioni della
città o dello Stato. Le lotte di fabbrica possono iniziare come lotte “dal di dentro", ma i partecipanti
possono arrivare a organizzarsi in assemblee ecc, prendere cooperativamente il controllo della
produzione e quindi impostare un supporto di cooperazione con altre fabbriche e altri settori (come è
successo in Argentina dopo il crollo economico). In effetti, molte lotte sindacali (la quintessenza di una
lotta "dal di dentro") hanno raggiunto un punto di svolta che le ha trasformate in lotte “dal di fuori”,
come mostra un'analisi degli "scioperi generali". Tuttavia, anche negli sviluppi autonomi, il controllo
partecipativo non è garantito, né a livello di definizione delle regole né nella pratica quotidiana. Di
conseguenza, a cosa assomiglia il controllo democratico partecipativo nei diversi ambiti della
riproduzione (assistenza sanitaria, cibo, istruzione, alloggi) e della produzione? E come si può lottare
per ottenerlo, così da vincere in settori specifici e diminure le divisioni interne alla classe?
6. Le lotte portano a una maggiore quantità di tempo al di fuori del controllo capitalistico. Ciò
significa, in particolare, una settimana lavorativa corta per salariati e non salariati. Significa riconoscere
"il lavoro domestico delle donne" come produttivo, creare reddito per chi fa questo lavoro e ampliare il
numero di quante/i lo fanno. Come possiamo garantire che una più breve settimana lavorativa salariata
non conferisca ulteriore potere agli uomini piuttosto che alle donne? O ad alcuni settori di classe
piuttosto che ad altri? In poche parole, come possono essere egualitarie le vittorie che riguardano le
questioni del tempo di lavoro?
7. Le lotte riducono lo spreco incredibile e l’effetto distruttivo che il capitale esercita sulla vita,
sul tempo, sulla ricchezza materiale, sulla salute e sull’ambiente (aria, terra e acqua), ma tale riduzione
si dovrebbe attuare con modalità che non penalizzano gli altri lavoratori. Esempio: negli Stati Uniti vi è
uno spreco enorme (ma anche un enorme profitto) nell’apparato burocratico che regola le assicurazioni
sanitarie. Proposte come il single payer21 potrebbero eliminare un sacco di questi sprechi, ma anche
strappare a molte persone il loro posto di lavoro, intensificando la disuguaglianza. Che cosa si può fare
per impedire che queste persone siano economicamente distrutte? Naturalmente, dal punto di vista della
classe operaia, cose come la produzione militare e le armi sono distruttive ad un livello folle, per cui
dovrebbero essere semplicemente eliminate. Ridurre alcuni tipi di sprechi potrebbe beneficiare alcuni
pur non beneficiando gli altri (per esempio, se ciò portasse alla riduzione di tempo di lavoro pagato,
non aiuterebbe le madri con bambini a carico) – quindi, quando lo "spreco capitalista" è l'obiettivo
della lotta, si deve tenere conto dell’inclusione.
8. Le lotte proteggono e ripristinano la salute ecologica; facilitano un approccio più olistico e
più sano verso il pianeta. Ad esempio, le battaglie per salvare posti di lavoro in settori che accellerano il
disastro ecologico vanno affrontate; queste battaglie ci sono e continueranno ad esserci. Terra, aria e
acqua sono di cruciale importanza. Il settore agroalimentare, la mercificazione globale, la bioingegneria
e la guerra portano all'inquinamento, all'erosione, alle dighe, alle inondazioni, alla deforestazione, al
riscaldamento globale, alla diminuzione della diversità e alla morte degli ecosistemi terrestri ed
oceanici. Nel sostituire il settore agroalimentare come modo di produzione del cibo, si devono
promuovere relazioni umane che siano coinvolte più da vicino nella alla produzione degli alimenti.
9. Le lotte portano giustizia. Troppo spesso, sfruttatori e oppressori hanno agito impunemente.
Così i veri criminali devono essere portati davanti alla giustizia affinché si rimedi a tutto ciò. La
giustizia rivoluzionaria è dal basso verso l'alto e le nuove forme di promulgazione della giustizia
devono essere coerenti con altre caratteristiche rivoluzionarie; per esempio, il "No" alla pena di morte
deve valere anche nei confronti dei capitalisti.
Oltre il capitale. Abbiamo individuato queste caratteristiche delle lotte rivoluzionarie a partire
dalla nostra conoscenza della storia delle lotte (soprattutto nelle Americhe) e dalle nostre stesse
esperienze. Noi non pretendiamo che quelle qui elencate siano definitive, ma le vediamo come
interconnesse. La nostra speranza è che questo elenco, inevitabilmente incompleto, delle caratteristiche
che le lotte rivoluzionarie dovrebbero avere (il condizionale è d'obbligo dal momento che le
rivoluzioni, per loro natura, producono scenari imprevisti), possa essere ricordato per evitare che le
nostre lotte si ritorcano contro noi stessi, come è troppo spesso accaduto in passato, e possa invece
contribuire a creare un mondo oltre il capitale.
CONCLUSIONI: CRISI—GUERRA—RIVOLUZIONE
Indubbiamente, le lotte rivoluzionarie del tipo che abbiamo descritto sopra sono solite
scatenarsi durante le crisi. Tuttavia, un terribile mediatore potrebbe frapporsi tra crisi e rivoluzione,
conferendo contorni foschi alla nostra gioia: la guerra.
Sarebbe un piacevole epilogo se il capitalismo semplicemente cessasse di esistere a seguito di
21
Il Single Payer definisce un sitema sanitario in cui le prestazioni di cura erogate sono pagate dal governo invece che
dagli assicuratori privati. Definisce chi paga, non chi eroga, che può essere tanto un attore pubblico quanto un privato.
un processo di dissipazione lungo e lento e se un diverso e più umano modo di produzione e sussistenza
prendesse spontaneamente il suo posto senza che nessuno lo notasse. Forse, un giorno, ciò che
chiamiamo capitalismo potrà essere sostituito senza che il suo nome cambi. Dopo tutto, nessuna
necessità logica ordina che creature imponenti e terrificanti debbano scomparire con modalità
altrettanto imponenti e terrificanti. Non potrebbe succedere che ci svegliamo una mattina, molto tempo
dopo che un ronzio costante e minaccioso si è fermato, e diciamo alle nostre compagne e ai nostri
compagni “Il ronzio ha smesso” e poi corriamo fuori ad incontrare l'alba di un nuovo giorno? Non
potrebbe succedere che i nostri governanti capitalisti se ne vadano senza troppo rumore come fecero i
burocrati comunisti della Repubblica Democratica Tedesca nel 1989?
Questo tipo di finale è possibile ma poco probabile. Il sistema è dotato di molti indicatori e
autosegnalatori (ad esempio le entrate che derivano dai profitti, dagli interessi e dalle rendite) che
producono conseguenze immediate mettendo in allarme chi lo gestisce. Una diminuzione in ciascuna di
quelle entrate avvertirebbe i suoi beneficiari che qualcosa non sta seriamente funzionando e costoro
pretenderebbero che lo Stato intervenisse per riportarere i profitti, gli interessi o le rendite ad un livello
“accettabile”. Essendo convinzione generale, sebbene non dichiarata, che tale diminuzione delle entrate
in questione è riconducibile ad una ridotta disponibilità di plus-lavoro e all’aumento del costo dei
mezzi di produzione non-umani (prodotto dalle lotte ambientaliste), l’ipotesi è che la suddetta riduzione
del saggio di profitto debba essere “aggiustata” aumentando lo sfruttamento dei lavoratori e riducendo i
costi della produzione (specialmente delle materie prime), addossando sulla classe operaia i costi della
ripresa ecologica.
La narrazione delle crisi passate indica che il percorso preferenziale per accrescere lo
sfruttamento e per ridurre i costi passa direttamente attraverso la guerra, la violenza e la repressione,
per terrorizzare i lavoratori e per spezzare il legame che le popolazioni indigene e i contadini hanno con
la propria terra e con i suoi frutti. Di sicuro la possibilità di un capitalismo conciliatorio fu negata nei
primi anni ’90 con l’avvio della “quarta guerra mondiale” (contro quelle popolazioni e quegli Stati che
rifiutavano i Nuovi Confini neoliberisti), subito dopo la fine della “terza guerra mondiale” (contro gli
Stati comunisti).
Anche in questa crisi ci saranno conflitti, con una “quinta guerra mondiale” tutta-daimmaginare, che non implicherà solo la ripetizione delle guerre neoliberiste che sono state orchestrate
allo scopo di disciplinare un qualsiasi stato recalcitrante affinché “giocasse secondo le regole
neoliberiste” del commercio mondiale (come l’invasione e l’occupazione dell’Iraq). Ecco perché
abbiamo iniziato e ora finiremo questo opuscolo sulla crisi e sulla rivoluzione col proiettile mortale che
trafisse il giovane corpo di Alexis Grigoropoulos. Esso ci ricorderà all’infinito che il capitalismo in
ultima analisi è un sistema freddo, violento e assassino. Così, il passaggio più importante per la
“riduzione del danno” planetario, mentre percorriamo il cammino dalla crisi alla rivoluzione, è quello
di disarmare lo Stato e il capitale quanto più efficacemente e quanto più in fretta possibile.
APPENDICE
Report di un dibattito con Silvia Federici e George Caffentzis
“... senza la pratica della riappropriazione delle risorse,
i commons finiscono unicamente per essere una forma di redistribuzione della povertà...”
COMMONS CONTRO E OLTRE IL CAPITALISMO22
Il tema dei commons, tradotti solitamente in italiano come beni comuni, evoca un immaginario potente, un'idea
attraente di legame caldo contro l'isolamento ed individualismo sempre più parossistici dell'attualità. Tuttavia
essi oggi hanno raggiunto una pericolosa trasversalità, e rappresentano un terreno estremamente scivoloso,
all'interno del quale si sono affermate prospettive molto differenti (sino ad arrivare in Italia a far parte delle
campagne di Cgil e Pd che hanno parlato del Lavoro e dell'Italia come beni comuni.). Se è evidente come un uso
di questo tema da parte dei movimenti anticapitalisti non possa che basarsi su una preliminare sottrazione dei
beni comuni dal tema del bene comune (una affinità linguistica prodotta dalla lingua italiana), è interessante
ricostruire una genealogia di come il discorso sui commons sia venuto affermandosi su scala planetaria negli
ultimi due decenni. Per fare questo proponiamo il report di un incontro tenutosi al 16 Beaver, uno spazio di
movimento situato a South Manhattan. Un luogo nato come sede di gruppi artistici nel 1998, e trasformatosi a
seguito di Occupy. La vicinanza con Zuccotti Park lo rese infatti uno spazio molto attraversato dagli attivisti del
movimento, e oggi ospita un fitto calendario di iniziative e dibattiti. Il 26 marzo si è ivi tenuto un incontro con
Silvia Federici e George Caffentzis. I due autori, che fanno anche parte del collettivo Midnight Notes, hanno
intavolato una discussione su una loro recente pubblicazione, “Commons against and beyond capitalism”,
uscita in autunno sulla rivista radicale canadese Upping the Anti 23.
Caffentizis introduce la discussione con alcuni cenni storici. Nel 1989 a New York si ritrovano una serie di
compagni e compagne che dieci anni prima avevano dato vita al progetto collettivo Midnight Notes. Durante gli
anni Ottanta molti di loro avevano girato il mondo, potendo toccare con mano gli effetti dell'instaurarsi su scala
globale del nascente neoliberalismo. Il confronto fra queste esperienze realizzatesi prevalentemente in Asia,
Africa e Sud America, produsse una importante pubblicazione nel 1990, “The New Enclosures”.
In questo scritto il collettivo si interrogava su come dare una lettura dei Piani di aggiustamento strutturale e delle
politiche di risanamento del debito (che oggi, rovesci della storia, conosciamo bene anche in Europa), attraverso
i quali Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale stavano depredando ampie zone del pianeta. Una
lettura che potesse fornire una descrizione alternativa a quelle vigenti, in grado di mostrare le lotte in corso. Ciò
venne sviluppato attraverso il ricorso alle pagine marxiane del Capitale nelle quali viene descritta la “cosiddetta
accumulazione primitiva”. Un processo che gli autori trovarono calzante ed attuale per comprendere i processi in
atto su scala globale, definiti sostanzialmente come ripetizione della dinamica descritta da Marx e come attacco
ai commons. Questi, intesi come forme di produzione comunitaria, erano il reale target delle politiche delle
istituzioni del rinnovato capitale globale.
Nello stesso anno tuttavia esce un altro libro che tratta il tema dei commons, elaborato dall'economista americana
Elinor Ostrom: “Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action”24. Questa
produzione teorica di taglio accademico, che avrà un discreto successo arrivando sino ad oggi (agevolando anche
la formazione della The International Association for the Study of the Commons – The leading professional
association dedicated to the commons”), presenta un'analisi estremamente differente ed in contrasto con quella
elaborata da Midnight Notes. Mentre questi guardano ai commons non solo come oggetti sotto attacco ma anche
come possibili elementi per la lotta anticapitalista, Ostrom sostanzialmente li inquadra entro un quadro di
trasformazione legale, proponendoli come una sorta di terza via tra il pubblico ed il privato tutta interna al
sistema capitalistico. Nei suoi studi sull'Africa, ad esempio, essa afferma che il common managment funziona
22
23
24
http://www.infoaut.org/index.php/blog/culture/item/11284-commons-contro-e-oltre-il-capitalismo-report-di-undibattito-con-silvia-federici-e-george-caffentzis.
http://uppingtheanti.org/journal/article/15-commons-against-and-beyond-capitalism.
http://www.kuhlen.name/MATERIALIEN/eDok/governing_the_commons1.pdf.
economicamente meglio rispetto alla via privata indicata dalla World Bank.
Federici si inserisce nella discussione mostrando come, pur all'interno di un linguaggio simile, si innestino
tuttavia due prospettive radicalmente differenti. All'oggi inoltre, notano gli autori, il capitalismo necessita di una
sorta di commonism come freno ai problemi interni alla sua riproduzione. Dunque i due vedono come necessario
rilanciare un discorso sui commons che li veda invece quali base per la resistenza e trasformazione del presente.
Viene inoltre discusso come, anche laddove il tema dei commons venga agito all'interno di contesti
anticapitalisti, si è spesso determinata una dimensione problematica quando questi vengono vissuti come
embrioni già costituiti di una società a venire. Questo infatti conduce a tematizzare la possibilità illusoria di isole
felici, una sorta rovescio speculare delle gated community, mentre purtroppo nel nostro presente il
miglioramento individuale difficilmente avviene se non a discapito di altri...
Aggiornando le analisi dei primi anni Novanta, riprende il filo Caffentzis, molte ipotesi di allora paiono
confermate. Da un lato il fatto che per il capitale i luoghi stanno divenendo sempre più indifferenti, dall'altro
questo nuovo e continuo ripetersi di dinamiche di accumulazione primitiva. Viene precisato come questa non
debba essere letta in maniera superficiale come l'appropriazione delle terre comuni. L'obiettivo di questa forma
di accumulazione sono infatti le persone, o per meglio dire la separazione di esse dalla terra (ma stesso discorso
vale per gli oceani, le foreste, sino a giungere oggi all'informazione). Questa dinamica infatti produce un'enorme
massa di forza-lavoro, che non a caso ha determinato un enorme aumento del mercato del lavoro su scala globale
negli ultimi anni. Dunque il fine è la produzione di forza-lavoro, non l'appropriazione privata della terra.
Federici interviene sostenendo che la crisi attuale ha mostrato come sia rispetto al Mercato che allo Stato ci sia la
crescente determinazione a non concedere più risorse per nessuno, come è manifesto nei continui taglia
all'educazione, alla salute ecc... Ciò conduce alla necessità di ricostruire forme di solidarietà, un tessuto sociale,
un potere di base che possa effettivamente funzionare come contropotere rispetto a questo violentissimo attacco
alle condizioni di vita. Ci si riferisce a forme di organizzazione sociale, di solidarietà diffusa, che dopo gli anni
Sessanta (negli USA) sono state totalmente distrutte. Il riferimento è ai quartieri proletari estirpati da sfratti e
gentrification, dove le forme comunitarie di sostegno reciproco garantivano una base di potere, una
precondizione necessaria e da ripensare oggi. In quest'ottica il tema dei commons deve essere visto come una
forma di ricollettivizzazione contro l'individualizzazione radicale della produzione. Ed entro la completa crisi dei
servizi sociali si aprono spazi di possibilità per pensare i commons come potere trasformativo, come forma di
connessione sociale e creazione di nuove modalità di produzione e riproduzione.
Caffentizis sottolinea come la loro teoria dei commons implichi il vederli come molteplicità, ossia pensare
assieme la necessità di risorse, le pratiche di resistenza, e la sperimentazione e prefigurazione di nuove forme
sociali. Se non si fa ciò il rischio è che il discorso sui commons si trasformi in una retorica governativa che punta
a tagliare ulteriormente le prestazioni del pubblico. Cosa che è in qualche modo accaduta in Inghilterra, dove la
Big Society proposta da Cameron sostanzialmente fa leva sull'idea della possibilità delle comunità di soddisfare
autonomamente i propri bisogni per poter sottrarre ulteriori risorse. Federici rimarca dunque come i commons
debbano necessariamente essere una base per la rivendicazione di risorse. Il mutualismo può certamente essere
una base, ma senza la pratica della riappropriazione di queste i commons finiscono per essere unicamente una
forma di redistribuzione della povertà.
Caffentzis, segnala infine come il tema dei commons abbia avuto, ben prima degli scritti di Midnight Notes, un
attacco radicale. Questo venne prodotto da Garret James Hardin, un ecologo statunitense famoso per un saggio
del 1968 chiamato “La tragedia dei commons”. Basandosi sul famoso “Dilemma del prigioniero”, un paradosso
elaborato da Albert Tucker nell'ambito della teoria dei giochi, l'articolo volle dimostrare come i commons fossero
inevitabilmente destinati a fallire. Caffentizis elabora una critica sia empirica che teorica allo scritto di Hardin,
attraverso una decostruzione che mostra come l'errore di fondo di questa impostazione stia nel sovrapporre l'idea
di commons a quella di open access. Quest'ultimo concetto infatti immagina sostanzialmente uno “spazio” vuoto
di accesso del quale tutti si possano liberamente servire. Invece i commons sono il prodotto di mondi storici e
culturali, implicano sempre anche una pratica del commoning, ossia una trama di relazioni, delle forme di
intercomunicazione [mentre il paradosso di Ticker è basato proprio sull'incomunicabilità], delle regole di
gestione ecc... che non li definisco appunto che ambiti di libero accesso in quanto vuoti, bensì come terreni densi
di relazioni nei quali sono implicite forme di reciprocità. Non sono ossia oggetti di cui appropriarsi. Anche su
questo aspetto diviene evidente dunque la scivolosità del tema dei commons, od il loro possibile utilizzo
ideologico in direzioni differenti. Non a caso anche Ostrom critica Hardin, tuttavia entro una prospettiva che
tende a condurre ad una difesa in forma di chiusura dei commons, inquadrarli come dimensioni che spesso
conducono alle gated communites o anche all'idea applicata in Europa della restrizione delle migrazioni.
Federici si collega a questa riflessione articolando una ragionamento sullo spazio (pubblico). Se da un lato la sua
costante e progressiva sottrazione/erosione (esemplare a New York, ma rinvenibile anche ad esempio nelle
spiagge in Italia) è evidente, bisogna fare attenzione a non sovrapporre semplicisticamente il tema dello spazio
pubblico (e del pubblico più in generale) ai commons. Questi, in quanto multidimensionali, comprendono anche
lo spazio, ma in modo inestricabile rispetto alle relazioni sociali che su di esso si sviluppano, che sono più
importanti. Infatti alla domanda che viene posta se il Pianeta Terra possa essere considerato un commons, la
risposta è un categorico no. Senza forme di lotta, vera sorgente di creazione dei commons e di connessione fra
persone e determinante di nuove relazioni, un'impostazione che inquadri il pianeta come commons finisce
inevitabilmente per fare da sponda a retoriche del tipo Nazioni Unite. Caffentzis sottolinea come al limite,
laddove si definissero processi di world wide struggle che conducessero ad una comunità dell'umanità, si
potrebbe pensare in questi termini. Ma all'attuale tutto questo indubbiamente non c'è. I due relatori chiariscono
come sia evidente che nell'agone politico il tema è delicato da trattare. Portano l'esempio di alcuni economisti
californiani che di recente hanno fatto una stima del valore complessivo della Terra (47 miliardi di dollari), e di
come evidentemente di fronte a questi approcci, o alla generale volontà capitalistica di voler privatizzare il
pianeta, verrebbe da rispondere sostenendo che la Terra appartiene a tutti. Epperò in questa controargomentazione è presente un forte rischio. Se infatti il tema dei commons non viene situato in contesti e luoghi
specifici, in relazioni determinate, esso finisce per involontariamente legittimare le retoriche attraverso le quali
le istituzioni globali espropriano le popolazioni in giro per il mondo. Viene portato l'esempio dell'Amazzonia. Se
tutti siamo proprietari del Mondo e le foreste amazzoniche sono un bene comune dell'umanità, una proprietà
sulla quale tutti possono decidere, diviene dunque legittimo che le popolazioni che in questo momento abitano
quei luoghi vengano da essi cacciati per evitare che ne consumino le risorse. In questo apparente paradosso si
mostra come una logica del possesso collettivo della terra da parte di una supposta umanità conduca
all'espropriazione diretta delle comunità concrete che abitano il pianeta. L'idea stessa di umanità è infatti oggi
uno strumento nelle mani del nemico.