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Un viaggio incompiuto?
(1968-2000)
Il titolo di questo capitolo non vuole ricordare soltanto un importante studio sulla storia americana dal 1945, ma intende anche chiedere indirettamente se, ai nostri giorni, gli Stati Uniti
stiano ancora svolgendo una missione non ancora terminata o
se le contraddizioni di questo paese siano ormai diventate così
stridenti da mettere in questione l’immagine stessa del viaggio.
Fu la consapevolezza di queste contraddizioni a portare il
paese, dopo l’assassinio di Dallas, a una crisi sempre più evidente – anche se interrotta da una breve ripresa tra il 1964 e
il 1965 – che alla fine diventò crisi della sua morale e dei
suoi valori politici, ma anche della credibilità politica dei suoi
leader.
Una delle radici di questa crisi di senso porta al movimento giovanile. Tra il 1960 e il 1970 il numero degli universitari
era raddoppiato, passando da quattro a otto milioni. A differenza dall’era Eisenhower, essi comprendevano una crescente
minoranza di studenti di buone condizioni sociali, iscritti nelle
facoltà umanistiche degli atenei più prestigiosi del paese ma in
rottura con le convenzioni e con i formalismi spersonalizzanti
della società del guadagno. Spinti da un grande idealismo e fedeli all’appello di Kennedy, essi prendevano parte al movimento dei diritti civili per cambiare il mondo. Tuttavia, il crescendo della guerra del Vietnam li aveva estraniati dal mainstream
politico.
L’impulso decisivo venne dal Berkeley Free Speech Movement alla fine del 1964, dove una protesta locale contro i nemici conservatori e razzisti del movimento per i diritti civili assun127
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se in poco tempo le proporzioni di una messa in discussione
radicale della vita accademica e dello studio universitario. Al
posto dell’impersonale burocrazia universitaria, delle anonime
regolamentazioni e di un sistema di insegnamento-apprendimento senz’anima sarebbero dovuti subentrare un contesto formativo umanistico, una società aperta e la libertà di iniziativa
politica. Ben presto il movimento si estese, oltre che alle università americane, anche all’Europa.
Quella che all’inizio era stata una protesta studentesca circoscritta, mossa da istanze di riforma sociale, in seguito all’escalation della guerra del Vietnam si sviluppò rapidamente in
un movimento universitario di massa, soprattutto dopo che nel
1966 il governo aveva revocato il rinvio del servizio militare per
gli studenti. Nella primavera del 1968 oltre 40.000 studenti di
più di 100 università parteciparono a dimostrazioni contro la
guerra e il razzismo. Sempre più spesso gli studenti bruciavano
in pubblico i loro libretti e gli scontri con la polizia, a volte
violenti, si moltiplicavano, cosicché l’establishment spaventato
andò agitando lo spettro della sovversione sociale. Tuttavia, la
maggior parte delle dimostrazioni contro la guerra si svolse pacificamente, compresa la March against Death tenutasi a Washington nel novembre 1969, con i suoi più di 300.000 partecipanti.
Il culmine della violenza fu toccato nel 1970, ma si trattò di
violenza dello stato, che avrebbe anche segnato la fine della
protesta studentesca di massa. Quando, il 30 aprile, Nixon comunicò l’allargamento della guerra del Vietnam con l’ingresso
di truppe americane in Cambogia, la conclusione continuamente annunciata della guerra sembrò allontanarsi senza speranza, e
ciò diede nuovo alimento a disordini nelle università, come
quelli nella Kent State University, in Ohio. Il governo federale
reagì in modo draconiano, con l’invio di 3.000 uomini della
guardia nazionale, che nel corso della successiva e pacifica dimostrazione spararono sugli studenti in base a ordini tanto categorici quanto immotivati, uccidendo quattro manifestanti. Per
quanto preoccupanti fossero l’aumento della violenza sia statale
che individuale e la regressione morale favoriti nel paese dalla
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guerra del Vietnam, i fatti della Kent University segnalarono
comunque la fine delle manifestazioni contro la guerra e quella
dell’intera New Left. Alcuni piccoli gruppi si radicalizzarono e
scivolarono nell’ombra, altri confluirono nel movimento femminista o in quello ecologista. Ma per larga parte del ceto medio,
compresi i blue collar workers, il movimento studentesco provocò un’ulteriore sterzata a destra.
La consapevolezza di non poter mettere fine alla guerra
ebbe come esito un misto di frustrazione e alienazione, che indusse molti giovani a volgersi verso nuovi stili di vita, poi designati nell’insieme come counter culture. Tra di essi gli hippies, o
“figli dei fiori”, con la loro esistenza libera e spensierata, condotta secondo i propri desideri e al di là di tutte le limitazioni
imposte dalla morale borghese, ottennero grande attenzione
come immagine speculare idealistica, ma in fin dei conti apolitica, del movimento dei diritti civili.
Negli anni settanta era però cresciuta una nuova generazione proiettata verso altri obiettivi, che degli anni sessanta ereditava tutt’al più la rivoluzione sessuale. La libertà sessuale divenne, con spavento di tutti gli autoproclamati apostoli della morale, un tratto permanente della società – nel 1970 caddero le ultime limitazioni alla vendita di materiale pornografico agli adulti –, e il ricorso agli anticoncezionali divenne sempre più frequente, di pari passo con il numero crescente degli aborti, cosicché la Supreme Court nel caso Roe contro Wade del 1973
dichiarò anticostituzionali tutte le limitazioni ancora imposte
dalle leggi dei singoli stati al diritto di abortire entro i primi tre
mesi dal concepimento. Ma negli anni settanta anche la percentuale dei divorzi raddoppiò all’incirca, parallelamente all’incremento dei rapporti sessuali pre ed extramatrimoniali, mentre
nello stesso tempo l’omosessualità smise di essere un tabù e di
essere emarginata. Ma ciò che gli uni consideravano come una
liberazione era per gli altri l’espressione di un inarrestabile tramonto dei valori sociali e morali tradizionali, in conseguenza
del quale masse sempre più numerose si allontanavano dal liberalismo politico e passavano nel campo conservatore e repub129
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blicano, che si proponeva come salvatore dell’America buona e
tradizionale.
Questo capovolgimento socio-culturale caratterizzò la campagna elettorale del 1968 e determinò il più durevole riorientamento della politica americana dai tempi del New Deal. Di
fronte alla sfida politica nel proprio partito, così come di fronte
alla sfida militare nel Vietnam, che avevano distrutto la fede
nella vittoria imminente e avevano fatto precipitare l’indice di
popolarità di Johnson, il presidente rinunciò a una nuova candidatura. Nella successiva campagna elettorale delle frustrazioni, degli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy,
dei ghetti in fiamme e della violenza che si avvitava su se stessa,
Richard M. Nixon prevalse con il 43,4 per cento dei voti contro il fedele seguace di Johnson e vicepresidente in carica
Hubert H. Humphrey e il governatore dell’Alabama George
Wallace, esponente dell’ultradestra razzista. Anche se il risultato nel collegio dei delegati fu il più esiguo dal 1916, Nixon e
Wallace ottennero assieme il 57 per cento dei voti e tutti gli
stati del Sud e dell’Ovest (tranne il Texas, Washington e le Hawaii), ponendo così la base di un cambiamento di lunga durata
della politica americana. Era qualcosa di più che una rivolta
populistica di quella massa di americani che grazie al loro benessere avevano raggiunto lo status del ceto medio e ora si ribellavano all’establishment liberale della costa orientale e alla
sua politica di riforme dalla quale vedevano minacciata la loro
posizione, a favore dei soggetti svantaggiati. Si trattava piuttosto della crisi morale del paese, da cui trassero un impulso durevole le correnti conservatrici più intransigenti.
Senza tener conto di questa crisi all’interno, Nixon, sostenuto dal suo consigliere per la sicurezza Henry Kissinger, si dedicò anzitutto alla politica estera, nella speranza di mettere fine
alla guerra nel Vietnam e di aprire una fase di distensione nei
rapporti con Mosca grazie ai contrasti sovietico-cinesi. La politica della vietnamizzazione della guerra, cioè della sostituzione
delle unità combattenti americane con unità vietnamite, contestuale alla riduzione del proprio contingente – che nel 1972
ammontava ancora a 30.000 uomini – doveva servire a questo
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scopo, così come, a conferma della risolutezza americana, il
bambardamento massiccio del Vietnam del Nord e la destabilizzazione della Cambogia. Alla fine di gennaio del 1973 poté
finalmente essere sottoscritto a Parigi un accordo di pace.
Era finita la guerra più lunga dell’America, costata la vita a
più di 58.000 americani. Rimase il trauma di una guerra che
all’interno aveva sollevato dubbi morali sempre più forti e che
alla fine era stata persa, una guerra che aveva paralizzato il paese sia all’interno che all’esterno. Ora si voleva soltanto dimenticare, e questo colpiva in primo luogo coloro che avevano combattuto in Vietnam e tornavano in un paese che non li voleva
accettare e che loro non riuscivano a comprendere.
La pace era diventata possibile anche perché all’inizio del
1972 Nixon era riuscito a impostare su nuove basi il rapporto
con la Cina e quindi a porre termine alla più che ventennale
inimicizia cinese-americana. Poco tempo dopo si fece più disteso anche il rapporto con Mosca, dove venne sottoscritto il primo importante trattato sul disarmo (SALT I). L’ex “mangiatore
di comunisti” Nixon si propose così agli americani come politico realista, capace di impegnarsi per la pace e la stabilità nel
mondo.
Il governo continuò a perseguire questa politica anche dopo
che il 6 ottobre 1973 era scoppiata la guerra del Kippur, con
l’aggressione della Siria e dell’Egitto a Israele e gli stati arabi
avevano decretato un embargo del petrolio contro gli USA e i
loro alleati, a causa del sostegno americano a Israele (ottobre
1973-marzo 1974). Grazie alla diplomazia pendolare di Kissinger fu possibile giungere a una tregua, al ritiro israeliano dalle
zone appena conquistate e a un riorientamento della politica
estera americana mirato a un accordo con i paesi arabi.
D’altra parte, la politica estera americana non contribuiva
molto alla pace in altre regioni del mondo, ad esempio in
Cile, dove nel settembre del 1973 una giunta militare guidata
dal generale Pinochet e sostenuta perlomeno indirettamente
dagli Stati Uniti abbatté il governo di sinistra democraticamente eletto di Salvador Allende, che perì nel corso del colpo di
stato. Nixon riconobbe immediatamente la dittatura e i finan131
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ziamenti americani, sia pubblici che privati, tornarono a fluire
copiosamente.
All’interno, però, Nixon continuò a essere sospettoso e insicuro e la sua diffidenza, unita alla tendenza a servirsi di un
gruppo contro un altro per il proprio vantaggio politico, non
contribuiva certo a suscitare fiducia. Peraltro, in un primo momento era riuscito a creare un clima di diffuso consenso quando aveva affidato alcuni importanti incarichi a conservatori moderati e aveva dato l’impressione di perseguire una politica del
compromesso e della conciliazione, anche se la prosecuzione di
alcuni programmi e iniziative avviati da Johnson aveva destato
malumori tra i Repubblicani conservatori. Ciò nonostante, il
sentimento della grandezza nazionale e il dichiarato orgoglio
che avevano preso il sopravvento allorché Neil Armstrong il 21
luglio 1969 aveva messo piede sulla luna – primo uomo nella
storia – avevano fatto sì che le divergenze passassero in secondo piano. Solo dopo le elezioni per il Congresso del 1970 la
politica di Nixon assunse un carattere più marcatamente conservatore, che si manifestò, tra l’altro, nel frequente rifiuto di
progetti di legge liberali.
A ciò si aggiunse una politica economica poco convincente,
a causa della quale non soltanto crebbero la disoccupazione e i
prezzi al consumo, ma anche, per la prima volta dagli anni
trenta, la bilancia commerciale ebbe un saldo negativo, cosa
che portò alla disdetta dell’accordo di Bretton Woods con il
suo sistema di cambi rigido e quindi alla netta svalutazione del
dollaro nel 1971.
Senza tenerne conto Nixon cercò di accreditarsi come inflessibile difensore di Law and Order e come portavoce della
“maggioranza silenziosa”, spaventata dai cambiamenti socioculturali. Tuttavia, anziché rimuovere le cause delle inquietudini sociali, prese a sospettare di tutti gli attivisti del movimento
pacifista e di quello per i diritti civili, spesso facendo spiare coloro che criticavano il suo governo. Non arretrò nemmeno di
fronte a controlli telefonici ed elettronici illegali, a irruzioni e
furti, che toccarono il loro culmine politico nel giugno del
1972 con il tentativo di intercettare le comunicazioni telefoni132
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che del quartier generale dei Democratici nel centro Watergate
di Washington.
Il tentativo fallì grazie all’intervento delle forze di sicurezza
e Nixon negò categoricamente che la Casa Bianca avesse qualcosa a che vedere con quell’intrusione. Tutto fu temporaneamente insabbiato e Nixon vinse le elezioni con la maggioranza
schiacciante del 60,7 per cento dei voti. Ma la gioia non durò a
lungo. Il procedimento giudiziario contro le spie del Watergate
aveva accertato che la Casa Bianca era implicata nella vicenda e
due reporter del “Washington Post” fornirono in continuazione
nuovi dettagli. Una commissione d’inchiesta del Senato rivelò
che Nixon aveva fatto installare nella Casa Bianca una postazione di ascolto segreta, per registrare su nastro tutte le conversazioni. Mentre Nixon rifiutava pervicacemente di esibire questi
nastri emerse che il vicepresidente Spiro Agnew aveva evaso il
fisco e aveva accettato tangenti. Agnew si dimise immediatamente e Nixon nominò al suo posto il popolare leader repubblicano alla Camera dei Rappresentanti, Gerald R. Ford. Quando infine, dopo mesi di rifiuti, ai primi di agosto Nixon su
pressione della Supreme Court – dove peraltro negli anni precedenti aveva nominato quattro nuovi giudici – consegnò tutti i
nastri, la sua caduta non poté più essere impedita, tanto più
che contro di lui era già stato avviato il procedimento di imputazione per abuso d’ufficio. Ma solo il 9 novembre 1974, dopo
che i leader repubblicani al Congresso gli ebbero chiarito inequivocabilmente che nella Camera dei Rappresentanti sussisteva
la maggioranza necessaria per metterlo in stato d’accusa e che
nel Senato era presente quella per votare la condanna, Nixon si
dimise dalla sua carica. Era il primo presidente degli Stati Uniti
a farlo.
Certo, questa era stata la dimostrazione che il sistema politico americano, del quale faceva parte la stampa indipendente,
nonostante tutto funzionava. Nello stesso tempo, però, fu chiaro che l’America versava in una crisi più profonda di quanto si
fosse fino ad allora immaginato, e che essa aveva colpito anche
le istituzioni politiche. Ma nessuno fu disposto a trarre dal caso
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Nixon conseguenze radicali in merito alla procedura con la
quale il paese sceglieva la sua élite politica.
Il successore di Nixon, Gerald R. Ford, che prestò giuramento il 9 agosto 1974, per quanto moralmente integro, non
era all’altezza dei suoi compiti, tant’è che la sua presidenza fu
caratterizzata più da insuccessi ed errori che da risultati concreti. Già la sua amnistia per Nixon apparve uno scandalo,
mentre la sua politica economica portò soltanto alla disoccupazione e all’inflazione, oltre a determinare l’incremento del deficit del bilancio. Invece, non è certo merito suo il fatto che durante la sua presidenza fosse sottoscritto, in occasione della
conferenza di Helsinki del 1975, l’accordo per la sicurezza e la
collaborazione in Europa; tanto più che l’importanza di questo
accordo sarebbe emersa solo più di dieci anni dopo.
Di fronte a questa situazione non meraviglia che la candidatura di Ford alle elezioni del 1976 fosse avanzata solo con forti
opposizioni. Ciò nonostante, essa non era del tutto priva di
chance, dal momento che i Democratici si erano accordati sul
nome dello sconosciuto ex governatore della Georgia James
Earl Carter, presentatosi come un’alternativa moralmente irreprensibile, populistica e protoamericana alla Washington guasta
e corrotta. Egli seppe mettersi in sintonia con lo stato d’animo
del paese dopo il Vietnam e il Watergate, ottenendo così, anche se con un margine ristretto, la vittoria.
La presidenza di Carter fu fin dall’inizio condizionata da
questo approccio, perché di fronte alla diffidenza, anzi all’ostilità generale nei confronti dell’apparato di potere di Washington
egli non poté presentare al Congresso molte proposte di legge,
tanto più che il suo mandato elettorale era troppo ristretto per
una politica populistica. Tuttavia, le divergenze con il Congresso non potevano essere ricondotte al fatto che una delle due
parti si riteneva la rappresentante mandataria dell’eredità johnsoniana. Ormai, i tempi della Great Society e di una politica di
edificazione dello stato sociale erano passati.
Per quante riserve si possano avanzare su Carter e su singoli
aspetti della sua politica, non si può disconoscere la tensione
morale della sua politica estera, con il rilievo che essa diede ai
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diritti umani, anche se a volte è stata valutata con due pesi e
due misure. Infatti, essa fu efficace contro le violazioni dei diritti umani in Cile, Argentina, Etiopia, Sudafrica e altri paesi, e
lo fu molto meno là dove erano in gioco gli interessi e la sicurezza americani, come in Corea del Sud, nelle Filippine e in
Iran. Certo, Carter non intervenne quando nel 1979 furono abbattuti i governi filoamericani in Iran e in Nicaragua; il ricordo
del Vietnam era ancora troppo recente perché il paese fosse
pronto a intervenire ovunque come poliziotto del mondo. Tuttavia, lo slancio morale della sua politica lo spinse a cercare
nuove relazioni con i paesi dell’Africa nera e a porre su nuove
basi il rapporto con Panama dove, vincendo una forte opposizione interna, riuscì a realizzare due accordi che prevedevano la
restituzione nel 1999 del canale e della zona contigua. Carter
poté celebrare il suo più grande successo diplomatico quando,
grazie alla sua intensa mediazione, Israele e l’Egitto sottoscrissero nel marzo del 1979 un trattato di pace nella Casa Bianca.
Invece, la prosecuzione della politica della distensione non
avvenne sotto una buona stella. È pur vero che nel 1979 poterono essere riprese le relazioni diplomatiche con la Cina e venne sottoscritto con l’Unione Sovietica l’accordo SALT II, ma l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel dicembre dello stesso
anno fece sembrare di nuovo onnipresente la guerra fredda.
Nonostante questo notevole bilancio della politica estera, all’interno crebbe l’impopolarità del governo, alimentata anche
dalla situazione economica in rapido peggioramento a causa
della nuova ondata di rialzi del prezzo del petrolio, verificatasi
nel 1979. Essa portò infine alla peggiore recessione dagli anni
trenta. Il fatto che l’indice di popolarità di Carter cadesse più
in basso di quello di Nixon al culmine dello scandalo Watergate evidenzia quanto fosse ormai progredita la strisciante crisi di
sfiducia nel governo e nei leader politici del paese. Nessuna
meraviglia, dunque, che in questa situazione la scandalosa cattura di ostaggi nell’ambasciata americana a Teheran da parte di
terroristi islamici producesse su Carter un effetto disastroso e
traumatizzasse il paese; la situazione poi peggiorò ulteriormente
a causa di una gestione dilettantistica e del tutto fallimentare
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delle operazioni militari per liberare gli ostaggi. Carter fu considerato un debole: troppo conservatore per i liberali, che gli
rimproveravano di non aver fatto niente contro la disuguaglianza nel paese; per i conservatori, un traditore dei valori americani di energia e intrepidezza, che non aveva saputo comprendere
e risolvere i problemi del paese. Con ciò, le elezioni del 1980
erano praticamente già decise.
Per Ronald Reagan, ex attore cinematografico e governatore
della California, fu facilissimo volgere a proprio vantaggio le
frustrazioni sullo sviluppo economico e politico e conquistare la
maggioranza degli americani con l’idea di un nuovo inizio, basato sul ridimensionamento del ruolo dello stato, sulla riduzione delle tasse e delle spese statali e sulla liberazione dell’economia da norme troppo restrittive. Sul piano internazionale egli
promise di restituire all’America l’orgoglio e un ruolo di guida.
Alla fine, però, il fattore determinante fu dato dal fatto che la
presunta debolezza di Carter aveva rafforzato ancora una volta
nel paese quella profonda corrente conservatrice che si era opposta al liberalismo di un Johnson e soprattutto al rivolgimento
sociale, alla rivoluzione sessuale degli anni sessanta, al femminismo – l’emendamento costituzionale sull’equiparazione della
donna, l’Equal Rights Amendment, fu definitivamente respinto
nel 1982, dopo una battaglia durata anni –, all’aborto e al divorzio, all’omosessualità e alla pornografia, nel nome dei valori
e delle concezioni morali tradizionali.
Ma non fu soltanto la ribellione morale dell’America tradizionalista a venire in aiuto del conservatorismo politico negli
anni settanta e ottanta, bensì anche gli impressionanti spostamenti della popolazione all’interno. Con essi, il Nord e il NordEst, che avevano dominato perlomeno in cifre relative, ma in
parte anche in cifre assolute, fino alla seconda guerra mondiale,
persero il loro primato demografico a favore degli stati del Sud
e dell’Ovest. Nel 1990 per la prima volta l’Ovest contava un
numero di abitanti superiore a quello degli stati del New England e il 50 per cento dell’incremento della popolazione americana negli anni ottanta era dovuto a soli tre stati: la California, il Texas e la Florida.
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Questa nuova distribuzione demografica ha chiari riflessi sul
paesaggio politico. Non si tratta solo del fatto che nella Camera
dei Rappresentanti gli stati del Sud e dell’Ovest hanno un rilievo sempre maggiore a spese degli stati del Nord, ai quali dai
tempi della guerra civile era costantemente spettata la guida
della politica americana. Ancora nel 1960 i voti dei delegati del
Nord sarebbero stati teoricamente sufficienti, da soli, per l’elezione di un presidente. Da allora, ha la possibilità di essere
eletto presidente solo il candidato che è forte nel Sud e nel
West. Kennedy è finora l’ultimo presidente americano eletto
proveniente dal Nord. Anche in questo si manifesta l’erosione
del liberalismo americano a favore di una profonda corrente
conservatrice. Infatti, l’area economicamente prospera del cosiddetto Sunbelt, compresa tra il Sud e l’Ovest, è storicamente
orientata su posizioni conservatrici e antistataliste sia in merito
ai valori di riferimento che alle convinzioni politiche predominanti.
Questa svolta conservatrice trovò il suo portabandiera in
Ronald Reagan, che si impose su Carter con il 51 per cento dei
suffragi e 489 voti dei delegati contro 49. Benché il riorientamento conservatore della politica americana avesse così ottenuto un solido mandato, era ancora poco chiaro in quali scelte
concrete si sarebbe tradotto. Ma la cosiddetta Reaganomics prese forma ben presto. Così, tra il 1981 e il 1983, a dispetto di
tutti i moniti sul catastrofico deficit del bilancio americano che
si prospettava per gli anni successivi, le imposte sui redditi calarono del 25 per cento e su proposta di Reagan il Congresso
tagliò di 40 miliardi di dollari i fondi per le iniziative dello stato sociale promosse negli anni sessanta, i cui costi ora non erano più sostenibili. Numerose regolamentazioni dell’economia,
tra le quali alcune norme ecologiche, furono attenuate o addirittura revocate. Eppure, la vecchia industria del Nord e l’agricoltura non trassero alcun beneficio da questi provvedimenti.
La produzione calò, il numero dei disoccupati tornò a crescere
in modo impressionante e il deficit della bilancia commerciale
americana nel 1984 superò per la prima volta la soglia di 100
miliardi di dollari.
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Certo, le misure economiche di Reagan cominciarono a essere applicate nel 1983, ma la sua semplice filosofia economica,
secondo la quale se si ingrandiva la torta anche le singole fette
sarebbero diventate più grandi, si dimostrò fallace: a beneficiare
di quasi tutta l’immensa crescita della ricchezza avvenuta negli
anni ottanta fu meno del 2 per cento della popolazione, mentre
il resto rimase a mani vuote, se non ne uscì addirittura impoverito. Redditi e patrimoni non erano mai stati distribuiti in
modo tanto disuguale quanto alla fine degli anni di Reagan.
Accanto al riordino dell’economia, Reagan perseguì il rafforzamento del peso militare degli USA e fino al 1985 raddoppiò
le spese per la difesa, fino a superare i 300 miliardi di dollari,
per mettere in soggezione l’Unione Sovietica, che per lui era il
proverbiale “impero del male”, intento a perseguire ovunque
nel mondo i suoi fini oscuri. Questa ossessione della minaccia
sovietica influenzò la politica americana nei confronti di El Salvador e del Nicaragua, dove le forze di destra, in parte contro
il volere del Congresso, ottennero un massiccio sostegno americano. Quando alla fine divenne di dominio pubblico, in uno
scandalo che ricordò il Watergate, che uffici governativi della
Casa Bianca implicati nel cosiddetto “affare Iran-Contra” avevano distratto i fondi ricavati da dubbie vendite di armi all’Iran
per offrire aiuto finanziario e armato ai ribelli antigovernativi
del Nicaragua, la cosa venne fatta passare per l’iniziativa di alcuni ultrapatrioti della Casa Bianca. E Reagan riuscì a essere
credibile quando dichiarò di non aver saputo nulla dei loro intrighi.
Nonostante l’ulteriore militarizzazione della politica estera,
gli errori in Medio Oriente e le sempre più forti critiche alla
corsa agli armamenti atomici e malgrado numerose debolezze e
alcune mancanze, Reagan, generalmente apprezzato come uomo
amabile ed energico, verso la fine del suo primo mandato godeva di crescente popolarità. Per la maggioranza della gente egli
aveva rimesso in sesto l’America e restituito al paese la sua forza e il suo rispetto nel mondo.
Ma non era cambiata soltanto la considerazione dell’America nel mondo: durante gli anni ottanta era profondamente mu138
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tata la vita americana nel suo complesso. Benessere fisico, jogging, alimentazione naturale, lotta contro il fumo e altri modelli
sociali di comportamento divennero espressione di un nuovo
stile di vita basato prevalentemente su valori materiali, nel quale il guadagno aveva un ruolo altrettanto importante di una
nuova mentalità consumistica e ai media elettronici spettava un
peso sempre maggiore. Nacquero così nuovi modelli sociali di
vita ispirati allo schema “Get rich quick” e impersonati dai consulenti finanziari, dai manager e dagli agenti di Borsa.
Tuttavia, molto di tutto questo rimase per il ceto medio
un’illusione, e anche se mai un numero così grande di donne
aveva avuto un impiego – nel 1988 erano il 60 per cento –,
l’altra faccia della medaglia dell’autorealizzazione era che ancor
più matrimoni finivano con il divorzio: all’incirca uno su due.
Certo, ormai più del 40 per cento dei neri svolgeva un white
collar job, e pressappoco il 45 per cento dei neri possedeva una
casa propria, ma circa un terzo di tutti i neri continuava a vivere nella povertà e nella disperazione, accompagnate da un sempre maggiore consumo di droga, dall’aumento della violenza e
della criminalità armata: aspetti, questi, che da tempo avevano
investito anche la vita del ceto medio bianco. Tra i due mondi
si erano elevate barriere sociali sempre più difficili da superare,
con gruppi sociali condannati a una permanente marginalità,
nei confronti dei quali il governo manifestava una crescente insofferenza. Invece, ottennero un’attenzione di gran lunga maggiore il fondamentalismo religioso e i movimenti di risveglio di
ogni sorta, la cui diffusione e influenza politica in diversi stati
del Sud e dell’Ovest non potevano più essere sottovalutate.
Il fatto di maggior rilievo delle elezioni presidenziali del
1984 non fu la conferma di Reagan, il presidente più anziano,
con i suoi 73 anni, che l’America avesse mai avuto in due secoli
di storia. E nemmeno sorprese la percentuale di voti (59 per
cento) a suo favore. Nel 1984 per la prima volta con Jesse Jackson c’era stato un serio concorrente nero alla candidatura per
uno dei due grandi partiti, così come uno di essi candidò per la
prima volta una donna, Geraldine Ferraro, alla carica di vicepresidente. Anche se in questa circostanza entrambi non ebbe139
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ro successo, sembrarono superati alcuni importantissimi steccati
del passato, benché finora si sia trattato soltanto di un’opzione
per il futuro.
Il bilancio del secondo mandato di Reagan fu ambivalente.
Da un lato, esso si caratterizza per l’intervento militare nell’isoletta caraibica di Grenada nel 1983, con l’abbattimento del locale governo di sinistra, e per il bombardamento della Libia
(aprile 1986), accusata di appoggiare il terrorismo internazionale. Corsa al riarmo, consumismo sfrenato e Reaganomics fecero
raggiungere al deficit del bilancio finanziario e commerciale importi totali a tre cifre in miliardi e il riassetto neoconservatore
dell’America venne consolidato nella Supreme Court grazie a
quattro nuove nomine, tra le quali, nel 1981, quella di Sandra
Day O’Connor, la prima donna a far parte della Corte suprema
e, nel 1986, quella di William Rehnquist come Chief Justice.
D’altra parte, Reagan rimase popolare e continuò a incarnare l’ottimismo e la solidità americani, e coronò la sua politica
come presidente della pace e del disarmo, dando un contributo
determinante al cambiamento in Europa centrale e orientale. Il
vecchio combattente della guerra fredda, il fautore del riarmo
dell’America era diventato l’ambasciatore della pace, che nel
1987 concordò con Gorbaciov uno dei trattati di disarmo più
impegnativi e a Berlino esortò il leader sovietico ad abbattere il
muro.
Queste profonde trasformazioni della scena mondiale fecero
da sfondo alle elezioni del 1988, nelle quali i Repubblicani si
orientarono rapidamente sulla candidatura del vicepresidente
George Bush, mentre tra i Democratici finì per affermarsi il governatore del Massachusetts, Michael Dukakis. In un clima generale dove prevalevano tendenze conservatrici non fu difficile
per Bush bollare Dukakis come un inetto liberale, sicché la sua
vittoria con il 54 per cento dei voti fu tutt’altro che sorprendente. Dukakis aveva, sì, ottenuto più voti di ogni altro candidato democratico dai tempi di Johnson, con l’eccezione di Carter nel 1976, ma non era riuscito a riconquistare a una politica
liberale la classe lavoratrice bianca.
I problemi scottanti dell’interno, la povertà, la droga, l’AIDS,
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ma anche l’astronomico deficit di bilancio gravavano come eredità della politica reaganiana sul governo Bush, che però si accontentò più della retorica che di seri tentativi di porvi rimedio. Comunque, da esperto di politica estera, Bush vide il suo
campo d’azione più urgente al di là dei confini nazionali. Qui
egli seppe trarre profitto dagli sviluppi in corso nell’Europa
centrale e orientale, con la caduta del sistema di dominio comunista, al quale Bush, in continuità con la politica di Reagan,
intese contribuire indirettamente sottoscrivendo con Gorbaciov
accordi di vasta portata sul disarmo, che prevedevano la demolizione di interi arsenali strategici e furono ufficialmente celebrati come la fine della guerra fredda. Quando poi in seguito a
rivoluzioni pacifiche crollarono i sistemi comunisti in Polonia,
Ungheria, e altri paesi, e il 9 novembre 1989 l’abbattimento del
muro di Berlino avviò una svolta che il 3 ottobre 1990 avrebbe
portato alla fine della DDR e alla riunificazione tedesca, Bush
seppe tutelare gli interessi americani con una politica silenziosa
ma determinata. Grazie ad essa la Germania riunificata rimase
nella NATO e vennero incoraggiati lo scioglimento del Patto di
Varsavia e il ritiro delle truppe sovietiche entro i confini del
loro paese. Con uguale determinazione l’iniziativa americana favorì nel 1991 il crollo dell’Unione Sovietica, accreditando gli
USA di fronte agli stati successori come partner politico.
Si affermò la visione di un nuovo ordine mondiale garantito
dagli Stati Uniti, impegnati a far sì che ovunque si affermassero
la pace, la democrazia, il libero commercio internazionale e il
benessere. In questo contesto l’invasione di Panama del dicembre 1989, con la cattura del dittatore Manuel Noriega – che in
seguito sarebbe stato portato davanti a una corte americana e
condannato per commercio di droga – non fu altro che un preludio alquanto marginale. Invece, quella visione assunse maggiore consistenza con la guerra del Golfo del 1990-91, quando
truppe americane alla testa di una forza militare internazionale
intervennero contro l’annessione iraniana del Kuwait, ricco di
petrolio, e grazie alla loro superiorità tecnologica non solo ristabilirono rapidamente l’indipendenza del piccolo sceiccato del
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STORIA DEGLI STATI UNITI
Golfo Persico, ma misero anche fine alla minaccia militare che
l’Iran esercitava sull’intera regione del petrolio, incluso Israele.
Tuttavia, Bush non riuscì a sfruttare politicamente il suo
ruolo di “leader mondiale” nel proprio paese. Una recessione
economica che rese evidente quanto poco in fondo i ceti medi
avessero tratto profitto dallo sviluppo degli anni ottanta, mutò
il clima generale a suo sfavore. Certo, Bush era riuscito a imporsi contro una sfida interna al suo stesso partito, ma quando
i Democratici dopo lunga ricerca convennero, sia pure senza
troppo entusiasmo, su Bill Clinton e il miliardario texano Ross
Perot si presentò da indipendente, egli non ebbe più chance,
tanto più che Perot ottenne la migliore percentuale di voti – il
19 per cento – che un terzo candidato avesse mai conseguito
dal 1912. Alla fine Clinton prevalse con il 43 per cento dei voti.
Benché per la prima volta dal 1976 la partecipazione fosse tornata a crescere, raggiungendo il 54 per cento, il mandato popolare di Clinton era debole – soltanto Wilson nel 1912 aveva ottenuto un suffragio ancora più ristretto –, di modo che nei primi due anni della sua presidenza l’appoggio del Congresso risultò molto contenuto e, oltre a una legge di ampio respiro sulla lotta alla delinquenza, in politica interna egli non riuscì a introdurre misure riformistiche rilevanti, anche se la sua riforma
sanitaria era piuttosto moderata, per non attirarsi la fama di essere un liberale alla Dukakis. La situazione cambiò completamente quando, sull’onda del crescente malcontento della popolazione nei confronti di Clinton, nelle elezioni di medio termine
i Repubblicani riottennero, per la prima volta dopo quarant’anni, la maggioranza nelle due camere del Congresso, dove tentarono, in base a un programma che andava decisamente al di là
della politica di Reagan, di cancellare le conquiste sociali ancora rimanenti dai tempi di Johnson e di ridurre drasticamente la
spesa pubblica non solo per metter fine al deficit di bilancio,
ma anche per ridurre a tutti i livelli il ruolo dello stato nella
vita pubblica. I tentativi di Clinton di contrastare questa politica di disboscamento sociale furono esitanti, così come in fondo
risultarono poco efficaci gli sforzi di riaccreditare il liberalismo
politico negli Stati Uniti. Di conseguenza, il presidente perse
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UN VIAGGIO INCOMPIUTO ?
gran parte della sua autorevolezza. Certo, l’iniziativa politica di
Clinton portò a realizzare l’accordo con il Messico e il Canada
per il libero commercio in Nordamerica, nonostante la dura
opposizione di una parte degli stessi Democratici, e riuscì a trasformare il GATT nell’Organizzazione del Commercio Mondiale
– un passo decisivo sulla via della globalizzazione – e ad avviare lo sviluppo democratico ad Haiti e il processo di pace nel
Medio Oriente e in Bosnia; ma all’interno del paese essa sembrò poco mirata ai contenuti concreti perché troppo condizionata dalla lotta elettorale.
Ciò nonostante, nel 1996 Clinton ottenne la rielezione, con
la quale, se si prescinde dal caso particolare di Franklin Roosevelt, per la prima volta dai tempi di Wilson un democratico veniva eletto due volte consecutivamente, trascorrendo due interi
mandati alla Casa Bianca. Clinton si impegnò più a fondo per
l’affermazione degli interessi politici ed economici degli USA in
Europa e in Asia orientale, ma anche nel Medio Oriente e in
altre parti del mondo, come pure nella guerra della NATO contro la Jugoslavia. Ma solo in parte questo gli consentì di sviare
l’attenzione dagli scandali che minacciavano sempre più la sua
presidenza, portandolo sull’orlo dello stato d’accusa. Alla fine,
però, egli fu favorito dal sorprendente slancio economico verificatosi durante la sua presidenza, il cui bilancio del resto fu alquanto discordante e non diede una direzione precisa agli
orientamenti futuri, tanto più che le elezioni presidenziali del
2000 si risolsero in un disastro senza precedenti nella comunicazione dei risultati, in particolare in Florida. L’esito della consultazione, dopo una serie di ricorsi, alla fine fu deciso da una
sentenza della Supreme Court. In questo modo George W.
Bush riuscì vincitore sul vicepresidente in carica Al Gore, ma
rimase la sensazione che in fondo le formalità del processo politico avessero contato di più della volontà degli elettori. Riaffiorarono i ricordi del 1824: già allora il figlio di un ex presidente era stato eletto in spregio della volontà degli elettori.
Se si considerano retrospettivamente gli otto anni della presidenza di Clinton, risulta chiaro come non solo sia rimasta senza nome e senza fisionomia la grande capacità americana di ri143
STORIA DEGLI STATI UNITI
forma liberale e adeguamento flessibile alle mutate esigenze che
ha caratterizzato il XX secolo, dal Progressive Movement attraverso il New Deal e il suo pallido riflesso nel Fair Deal fino agli
sforzi straordinari della Great Society, ma anche come – dopo
la fine dell’Unione Sovietica e della sfida comunista – le istanze
riformistiche sembrino ormai esaurite e tendano a far posto, in
questo inizio di millennio, a un conservatorismo più o meno
aggressivo.
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