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TURISMO
Il viaggio di Claudio
MESSICO E NUVOLE
La montagna è sacra per chi vive alle
falde del Vulcan Popocatepetl. Lo è forse per l’incontaminata bellezza che si
gode scalandola e per la forza che, senza chiedere per favore, sovverte temperature, venti e climi secondo capricci
non prevedibili. Mi sono quasi conquistato la vetta, andando fino a dove potevo, con una faticosa guida su sterrati resi scivolosi dalle ceneri depositate
dal vulcano. Sono arrivato al rifugio alle 6 di sera, a 4100 metri, con un vento gelido che mi frustava di brividi, il
tramonto pennellava di rosso i massicci che spuntavano dal tappeto di nuvole sopra la pianura. Uno spettacolo da
cartolina, seguito poi dall’incontro con
il guardiano del rifugio, Michelangelo,
un piatto di minestra provvidenziale e
delle buone storie da raccontarci. Durante la notte tutto è volto al peggio
e la montagna incantata con le sue ire
ci ha risvegliato presto presentandoci
un paesaggio totalmente diverso. Poca visibilità, nebbia densa come vapore e un freddo clamoroso, meno 5 gradi, che nemmeno in Canada avevo mai
dovuto sopportare. Che fare? Qui inizia il racconto: Michelangelo mi chiede
compagnia per andare a prendere dell’acqua in una fonte nascosta dove si ritrovano gli sciamani per i riti di primavera. Un gruppo di statunitensi ci segue, sono tutti amareggiati dal dover
annullare il trekking che avevano programmato per via delle condizioni climatiche. La moto non parte e la radio
gracchia di un fronte di freddo che dall’Alaska avanza facendo crollare le colonnine di mercurio di mezzo continente. A denti stretti e con una giacca prestata camminiamo fino alla fonte, facendo un pezzo in macchina dove le
buche che avevo già assaggiato in moto all’andata ci fanno rimbalzare come
fiammiferi in una scatolina. Il crinale
della montagna si affossa ripido creando piccole valli dove l’erba alta e gialla
si muove alla forza del vento scuotendosi in ciuffi di capelli. Prendiamo l’acqua ma non tocchiamo le coppe, i calici, i fiori secchi e i piccoli giunchi annodati che troviamo quali reliquie dei cerimoniali segreti. Quando torno al rifugio saluto e prendo la moto deciso a rischiare subito la discesa in queste condizioni atmosferiche prima di stare a
vedere quale nuova sorpresa la montagna tirerà fuori dal cilindro. La neve è un presagio che si percepisce nell’aria gelida ed è meglio tagliare la corda prima che arrivi. Con scongiuri e tanti buoni ampere della batteria riesco a
rianimare il povero biclindrico. Saggia
l’idea di avergli trapanato le teste prima di partire per mettergli le seconde
candele. Scendo piano piano, vedo solo a pochi metri di distanza, il vento prima mi spazza via la nebbia, poi me ne
trascina davanti un nuovo banco. Non
fosse per il freddo crederei di essere in
un bagno turco. Mi consola solo l’idea
di scendere e perdere quota e riscaldarmi e lasciare la montagna.
TURISMO
Il viaggio di Claudio
Cacahuamilpa – Teotitlan: 70 km
La piramide
dei piccoli carnivori
di Claudio Giovenzana - www.longwalk.it
Arrivo alle grotte ed entro in una
gola rocciosa che pare il set di
“Viaggio al centro della terra”.
Sono estasiato, sudato, affaticato.
Popocatepetl – Cacahuamilpa: 85 km
Verso le grotte
più grandi del mondo
Lo sterrato svanisce dopo il passaggio
a livello del parco, le nebbie avvolgono
la guardiola vuota, la sbarra me la devo alzare da me, con la cintura blocco
il contrappeso a un ferro per terra, poi
prendo la moto e la spingo dall’altra
parte. L’asfalto mi rimette sereno, è
andata!Ho rischiato qualche scivolone
ma nulla di serio. Ripasso mentalmente la direzione di massima per raggiungere le grotte di Cacahuamilpa, per la
precisione un complesso di grotte lungo più di 2 km e alto da 20 a 80 metri!
Tra le più grandi del mondo. Qui troverò caldo sino a grondare sudore. Scendo dal Popo verso Amecameca, tra le
curve soavi si respira resina d’abete,
ci sono cartelli che annunciano piccoli
giardini dove si vendono pini nani per
addobbare la casa durante il Natale.
La strada per Cautla è monotona ma
più il vulcano è lontano e più la temperatura si alza. I cilindri riprendono
un bollore dimenticato nei due giorni
precedenti, gli scarichi tornano a borbottare tronfi, sul Popo tossivano. Tra
sospensioni a pacco sui dossi, qualche
insulto e poi l’allegria del vagabondo
senza sosta, continuo a macinare strada. Vedo un cartello “Grutas”, prendo
la deviazione e passo campi ingialliti, una calvizie della natura che interrompe la folta macchia con prati di erba trascurata. Arrivo alle grotte, parcheggio, prendo atto che qualcosa del
genere non l’ho mai visto, sto ridefinendo il concetto di speleologia. Pago la quota ed entro in una gola roc-
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ciosa che pare il set cinematografico
di “Viaggio al centro della terra”, solo
più grande. Nondimeno le atmosfere
di questo ventre roccioso hanno ospitato in concerto la voce di Pavarotti,
Bocelli e Miguel Bosè.
Sono estasiato, sono sudato, sono
affaticato dal calore, maledico l’obbiettivo che non capta nel buio quello che vedo a occhio nudo. La roccia
si protunde dal basso e dall’alto in forme modellate dai millenni. Fa strutture imponenti come stalattiti e stalagmiti di 10 o 15 metri, intarsia le pareti e scolpisce le formazioni calcaree
che interpreto come le nuvole. Un inglese si avventurò con il suo cane dentro le grotte di Cacahuamilpa. Cadde
e perse conoscenza, il suo fedele amico trovò l’uscita dalle grotte, corse nel
paesino adiacente abbaiando a perdifiato. I latrati vennero interpretati come i segni di un’anima indemoniata
che impossessatasi del cane lo faceva
correre impazzito per le strade. Nessuno capì. Vedo la tomba dell’inglese,
un tumulo di pietre con una croce, vicino c’è un’altro piccolo tumulo per il suo
amico che tornò alla grotta per morire con lui. Qui gli esploratori usano ancora le torce al carburo che si affievoliscono in carenza di ossigeno prevenendo svenimenti da ipossia. Alcune
zone sono inaccessibili a causa dei gas
prodotti dagli escrementi di pipistrello
e dalla mancanza di ossigeno. Per questo motivo alcune zone mi sono interdette e posso camminare dentro per
“solo” due km. Credo che in Italia non
esista niente di tale grandezza.
P***** G**
GUIDA ALLA LETTURA
Tappa per tappa, indichiamo il
chilometraggio da percorrere e
una valutazione del “gusto” dell’itinerario. I voti sono espressi
con le stellette, da 1 a 5:
“P” per panoramicità del tragitto e “G” per piacere di guida.
Si racconta che ci sia una piramide a
Teotitlan costruita dagli indiani Mechica
sulla cima della montagna. Voglio andare a vedere. Non sono ancora a digiuno
di montagna nonostante il Volcan Popo
con i suoi sterrati a 4000 metri. Questa
volta voglio guadagnarmi la vetta camminando. Ma prima mi aspettano decine di chilometri in moto. Guido disimpegnato tra le curve, con il consueto sfilare
di paesini uno dopo l’altro. Enormi tralicci reggono i fili dell’alta tensione che
danno elettricità ai centri abitati approfittando delle depressioni dolci e favo-
revoli che creano spazi edificabili nella sierra. Il sole si abbassa nel rosa e fa
ombre nere come il carbone. Le curve finiscono col finire del giorno, per fortuna. Guido tranquillo sino all’arrivo a Teotitlan. Pianto la tenda nel cortile di una
cascina adibita a parcheggio, per pochi
pesos trovo ricovero anche per la moto: la infilo in un cespuglio perché non
mi concedono un “posto auto”. Passeggio per le strade dove le file di bancarelle stanno per essere smontate. Con la
mattina salgo a piedi la montagna che
sovrasta Teotitlan. Porto un quarto di litro d’acqua pensando siano 10 minuti di
trekking. Ripido e impegnativo il sentiero è una scalinata aperta tra le rocce
TURISMO
Il viaggio di Claudio
che dura quasi un’ora. Sono esausto già
a metà salita. Quelli che scendono raccontano balle a quelli che salgono per
non scoraggiarli, così mi sento dire più
volte che manca solo “un quarto d’ora
all’arrivo”. La salita è una specie di scala
che sale per più di un chilometro fin dentro la gola rocciosa fatta da due crinali
che finiscono per toccarsi. Passati i pertugi e le strettoie, superata una via ferrata, raggiungo la cima disidratato come
una clessidra di sabbia. La piramide è un
banale blocco di roccia, che in sé non offre nulla di speciale se non il sentiero per
arrivarci. Il protagonista locale è invece il
Tejon, un piccolo carnivoro dall’aria tanto selvaggia ma, in fondo, ben abituato
alla presenza dei turisti al punto da non
esserne infastidito ma infastidirli a sua
volta fino a fregar loro i panini e ciucciare l’acqua direttamente dalla bottiglia.
Anche se si fa avvicinare non deve trovarmi molto interessante, almeno dal
momento in cui capisce che il teleobiet-
tivo che gli sto puntando sul muso non
si mangia. Un Tejon per così dire “turisticizzato”, e anche un poco snaturato visto che sulle guide si legge: “molto raro
vederlo di giorno, è un animale selvatico, riservato che esce dalla tana sotterranea con il crepuscolo”. È mezzogiorno
e mi ha pisciato sulla scarpa.
P*** G****
Teotitlan – Salamanca: 250 km
A caccia di vulcani
Lasciati i Tejon e la piccola piramide,
prendo la moto e mi lancio sulla bellissima federale che da Curnavaca porta
a Toluca. Vita contadina tutt’intorno.
Non vedo moto ma solo camion con
balle di fieno e carretti ricolmi di verdure tirati dall’asino. Le signore adagia-
te tra i sacchi di fagioli e riso sorridono mentre procedo con discrezione. Da
Toluca a Queretaro la strada è fastidiosa, una “rompicabeza”, come dicono i
locali. Se non vai sull’autostrada ce ne
vuola a trovare la giusta direzione nelle
labirintiche strade secondarie. Il “nevado di Toluca”, alto quasi quanto il Popo,
raffredda di nuovo l’aria con brezze che
vengono giù dai crinali come cavalleria
all’attacco. A Salamanca cerco il “rincon del Parangueo”, un lago salato formatosi nella bocca di un vulcano spento. Meraviglia delle meraviglie. Da mesi colleziono vulcani: il Popo, il Paranguo, il San Pedro e altri minori. In culture che parlano con gli spiriti della terra un vulcano è come una bibbia e la sua
è terrosa: aperta con dinamite e piccone non ha cemento o volte di supporto
che ne prevengano il crollo. Vedo la fine
del tunnel, senza misticismi, c’è la luce
bianca ma dall’altra parte un messicano incazzato mi dice: “non hai letto che
è vietato accendere il motore?”. Io cercavo un cartello convenzionale quando
il divieto era dipinto sulla parete come
A Salamanca cerco il “rincon del
Parangueo”, un lago salato formatosi
nella bocca di un vulcano spento:
meraviglia delle meraviglie.
bellezza è venerata anche da me che,
più laicamente, ne faccio scorta con occhi e pellicola fotografica.
C’è un tunnel lungo 400 metri per accedere al lago di Parangueo, largo un metro e mezzo circa. Un cunicolo. Inizio a
fare le debite misure, quanto è larga la
moto da borsa a borsa e quali possibilità ho di non incastrarmici. Pare che
ce la possa fare. Chiedo a una signora
che mi misura con l’occhio di un sarto
e mi dà il benestare per l’impresa. Ovviamente se mi sbaglio dovrò farmi 400
metri in retro per uscire. Inizio a camminare nel tunnel a cavalcioni sulla moto. Mi stufo e accendo il motore, anche
se mi sembra strano che non ci sia il divieto di farlo visto che la roccia intorno
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un murales. Mi scuso e già so che al ritorno avrò da spingere il ferro per 400
metri. Di fronte a me si apre il lago salato, una sabbia bianca pastosa copre il
centro della valle, la bocca enorme del
vulcano. Parcheggio la moto e corro
sulla sabbia salina, faccio foto, prendo
il sole, mi ustiono. C’è pace e silenzio.
Mi sdraio per terra, ho un jeans e una
maglietta rossa. Paio un arlecchino disegnato su un foglio. Tutto è bianco, mi
ricorda il Salar de Uyuni in Bolivia, un
lago salato di 120 km di diametro che
visitai anni fa. Prima o poi lo raggiungerò, ma ora mi godo i pochi mesi di Messico che rimangono prima di partire per
“il grande Sud del mondo”.
P***** G***