L`anteprima de Il Collegio di Santa Lucia di Karen

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L`anteprima de Il Collegio di Santa Lucia di Karen
Karen Russell
IL COLLEGIO DI SANTA LUCIA
PER GIOVINETTE
ALLEVATE DAI LUPI
Traduzione di Chiara Brovelli
A mamma, papà, Lauren e Kent
Ava lotta con l’alligatore
Mia sorella e io staremo nella vecchia casa di nonno Dente
di Sega fino a quando nostro padre, capo Grande Albero,
non farà ritorno dal continente. È la prima estate che passiamo da sole nella palude. «Starete bene, ragazze» ha farfugliato il capo. «Date da mangiare agli alligatori e non parlate con gli sconosciuti. La sera chiudete la porta a chiave».
Probabilmente si è dimenticato che il nonno ha una semplice porta zanzariera: niente chiave, niente serratura. La
vecchia dimora è un bungalow giallo screziato di ruggine
al limitare dell’estuario degli uccelli selvatici. Ha un’unica
stanza asfissiante. Tre finestre rudimentali in legno di
palma nana, con i davanzali anneriti dalle zanzare. Un tetto
di latta che mormora al ricordo della pioggia. Adoro questo posto. Ogni volta che dal fiume arriva una raffica di
vento dal cielo piovono foglie e piume. Durante la stagione degli accoppiamenti l’ardore degli uccelli fa sbatacchiare la finestra della camera.
Ora un tuono fa increspare il vetro sottile quasi fosse
carta oleata. La pioggia estiva è ancora il suono più confortante che conosca. Mi piace fingere che siano le dita di
mamma, che non c’è più, che tamburellano sul soffitto
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sopra le nostre teste. In lontananza, si sente l’urlo di un
alligatore. Non è uno dei nostri, mi dico contrariata. È un
esemplare che agisce di sua spontanea volontà. I nostri
nascono nelle incubatrici. Se fanno qualche verso, è solo
un grugnito svogliato, annoiato e satollo. Questo alligatore
ha un urlo inimitabile, molto più forte, molto più vicino.
Sorrido e mi tiro le coperte su fino al mento. Se Osceola l’ha
sentito, non lo dà a vedere. Mia sorella è sdraiata sul lettino di fronte al mio. Ha gli occhi spalancati e sta sorridendo più e più volte nell’oscurità.
«Ehi, Ossie? Sei sola?».
La mia sorella maggiore ha interi regni dentro di sé,
alcuni dei quali sono accessibili solo in determinate stagioni e con determinate condizioni meteorologiche. A uno
in particolare puoi accedere durante le piogge d’estate, a
mezzanotte, in quel verde alito di tempo che precede il
sonno. Devi porre la domanda giusta, gettare il ponte di
corde adatto e saltare l’abisso che ti separa da lei prima che
quel ponte crolli.
«Ossie? Siamo sole?». Scruto l’oscurità che rende la mia
vista granulosa. Vedo la sedia, il cui profilo mi ricorda un
demone con le corna. Vedo il bagliore oscuro del vetro
del terrario. Ma non c’è traccia di Lussurioso. Il malvagio
fidanzato di mia sorella non si è ancora materializzato.
«Già» sussurra. «Soltanto noi due». A giudicare dalla
voce, è sorprendentemente sveglia. Allunga una mano e mi
dà una pacca sul braccio.
«Solo noi ragazze».
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E basta questo. «Solo noi!» gridiamo. E so che, per una
volta, Ossie e io stiamo immaginando la stessa cosa. Chilometri e chilometri di palude, milioni e milioni di spettri,
e noi due ragazze, sole, chiuse nel bungalow con i nostri
sciocchi pigiami.
Continuiamo a ridacchiare, felici e nervose, stuzzicate
da un’innocenza incompleta. Abbiamo entrambe la sensazione di essere oggetto di qualche scherzo misterioso,
di cui però non riusciamo a cogliere il senso.
«Che mi dici di Lussurioso?» le chiedo senza fiato.
«Non lo vedi più?».
Oh, eccolo di nuovo, quel sorriso privato che lascia
intendere che Ossie ha nostalgia di luoghi in cui non sono
mai stata e che non posso nemmeno immaginare.
Lei scuote la testa. «C’è un altro essere, adesso».
«Un altro? Quindi non avete più intenzione di, ehm…»
mi fermo cercando di ricordare la sua espressione «…di
fare una fuga d’amore, giusto?».
Non mi risponde. «Ascolta» sussurra, con gli occhi
simili a braci ormai spente. I tuoni si sono ridotti a sommessi nitriti. Fuori, qualcuno sta grattando contro il vetro
gocciolante della finestra. «Lui è qui».
Vedete, le possessioni di Ossie non somigliano affatto ai
festival delle contrazioni spasmodiche di cui si legge nella
Bibbia, non ci sono voci dall’oltretomba o grugniti di un
branco di maiali selvatici. Il suo corpo non brucia come
un petardo, né ulula vocaboli di lingue morte. I suoi fidanzati la possiedono in un modo diverso. Salgono furtiva9
mente sopra di lei e le si insinuano nelle orecchie, nella
bocca, nei polmoni, furtivi e penetranti, come una malattia o una boccata d’acqua che viene inghiottita. Io osservo
la sua metamorfosi che cresce, sempre più colpevole e bramosa. Ossie sta sudando. Ossie ha il respiro pesante. Si
infila il pugno in bocca, mentre l’altra mano sparisce sotto
le coperte.
E poi geme sommessamente.
E io provo quello strano groviglio di paura, meraviglia
e rabbia, un guscio che racchiude tutta la mia infanzia. Ed
ecco un altro passaggio che non riesco a comprendere: qui,
vicino a me, un corpo solido lascia il posto al vuoto. Il fantasma è qui. Lo so perché vedo sparire mia sorella, sento
che la mia Ossie sta abbandonando il corpo accanto al mio,
lasciandomi sola nella stanza. Lussurioso è il più lascivo dei
fidanzati che ha avuto finora. Lo spirito si muove attraverso di lei, rotolandosi nei suoi fianchi e facendole fare
una spasmodica danza da marionetta sotto le coperte. Succede ogni notte, ultimamente, e io non sono in grado di fermarlo. Vattene di qui, Lussurioso! grido dentro di me. Tornatene nella tua tomba! Lascia in pace mia sorella…
Il suo lettino, tormentato da quest’essere malvagio,
comincia a oscillare.
Sono così gelosa di Ossie. Ogni volta che un temporale fa tremolare le luci, ogni volta che un piatto cade a terra,
è il suo stupido fidanzato che le sta mandando un messaggio. Il vento che soffia tra i suoi capelli, o tra gli alberi,
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fischietta un messaggio d’amore. E, nel frattempo, chi
pensa a decapitare quei pesci puzzolenti per gli alligatori?
Chi interra le latrine di Grande Albero? E chi spazzola i
denti di gesso all’interno della Testa dell’Alligatore? Esatto. Ossie, sedici anni, ne ha quattro più di me ed è alta il
doppio. Eppure, in qualche modo, tocca a me sbrigare
tutto il lavoro. Immagino che sia la ricompensa per essere
tanto competente. Quando il capo se n’è andato, mi ha
affidato l’intero parco.
La nostra famiglia è titolare di Paludelandia!, il primo
parco tematico dell’isola dedicato agli alligatori, a cui è
annesso il Caffè della Palude. Ultimamente, però, siamo
scesi in classifica. Forse avrete visto la nostra insegna di
legno, che dondola dal gigantesco kapok lungo la Route 6:
VENITE A VEDERE SETH, IL SERPENTE MARINO CON LE ZANNE,
L’ANTICA LUCERTOLA DELLA MORTE!!! Tutti i nostri alligatori
si chiamano “Seth”. Tanto è importante la tradizione, dice
il capo, tanto è costoso il materiale promozionale. Quando
mia madre era ancora viva, era lei a condurre lo spettacolo, letteralmente. Si occupava di tutte quelle cose macabre
che avvengono dietro le quinte: finiva a bastonate gli alligatori malati, faceva rifornimento di carburante agli idroscivolanti, accoppava i polli. Personalmente, nemmeno
sapevo che esistessero compiti così odiosi. E sono piuttosto sicura che Ossie ne sia ancora all’oscuro. Osceola non
deve sbrigare queste faccende. «Tua sorella è speciale» ha
cercato di spiegarmi il capo in più di un’occasione. Ma io
non comprendo tale logica sofistica. Anch’io sono specia11
le. Ho un nome palindromo. So arrampicarmi sugli alberi
con l’agilità di una scimmia. Sventro interi secchi di cavedani in un tempo record. Una volta, nonno Dente di Sega
ha tenuto aperte le fauci di un Seth morto e io ho infilato
la testa nella sua bocca fetida.
Ci sono solo due cose, qui a Paludelandia!, di cui non
posso occuparmi da sola: impiccare i polli sultani durante
i Giovedì del Pollo Vivo e tirar fuori dall’acqua gli alligatori. Questo significa che non posso né competere nella
categoria juniores né esibirmi come solista. Ma la cosa non
m’infastidisce tanto da spingermi a diventare più coraggiosa. Rifiuto ancora di guadare la fossa e, in ogni caso,
sono troppo debole per trascinare a riva il mio alligatore.
Il nostro spettacolo è semplice: l’attrazione principale, di
solito il capo, entra in acqua e finge di perlustrare il fondale
sabbioso alla ricerca di Seth. Poi afferra un alligatore per la
coda sferzante e lo trascina fuori. L’animale scatta immediatamente in avanti, riportando il capo a mollo. Poi la
scena si ripete. Questa sorta di tiro alla fune va avanti per
un po’ in mezzo all’acqua spumeggiante, mentre la folla
incita e incoraggia la nostra specie.
Alla fine, il capo riesce a domare Seth. Lo porta a terra
e gli si arrampica sulla schiena. Questa è la parte in cui
intervengo io. Zia Hilola attacca a suonare un motivo frenetico al suo organo a vapore – ba-da-DUUM-bop-bop! –
e un attimo dopo sto facendo la ruota sulla sabbia, attenta
a sorridere anche quando atterro sulle piastre corazzate
dell’alligatore – è per questo che le mie cosce sono piene
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di segni. Visti da vicino i Seth sono molto belli, con quel
dorso corrugato color grigioverde e con i piedi da dinosauro. Nel frattempo, il capo ha approfittato della mia
entrata appariscente per legare un filo elettrico nero intorno al grugno dell’animale. Prende le mie mani nude e le
solleva verso gli spettatori, facendomi stendere i palmi per
il loro divertimento.
Poi me li fa chiudere intorno alle fauci di Seth. Io continuo a sorridere ai turisti. Contro i miei pugni serrati, l’animale continua a tendere il nastro. Il capo tiene le sue mani
carnose sulle mie, nascondendo il fatto che io non sto
facendo nulla. Gli piace ricordarmi che i turisti non pagano per vederci lottare.
A un certo punto devo essermi addormentata, perché
quando mi sveglio il vento sta facendo sbattere la porta zanzariera. Do un’occhiata all’orologio: mezzanotte e sette
minuti. Quando mamma era ancora viva, Ossie aveva il
coprifuoco alle ventidue. Tecnicamente suppongo che sia
ancora così, ma non c’è nessuno che glielo faccia rispettare. Si lascia possedere da Lussurioso per ore. Divento furiosa al solo pensiero, e sono anche un po’ gelosa: sta scorrazzando con il corpo di mia sorella per tutta la palude. Sono
preoccupata per lei. A quest’ora potrebbe essere nel bel
mezzo della radura di pini abbattuti, o a metà strada per lo
stagno. Se esco di casa, però, infrangerò le regole anch’io.
Mi tiro le coperte sopra la testa e mi mordo il labbro. Un’insolita ondata di adrenalina mi lascia tutta tremante, in preda
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a un senso di nausea. Un attimo dopo mi sto infilando a
forza gli stivali e sto correndo fuori dalla porta come se la
posseduta fossi io.
La notte, la palude è illuminata da strane luci. Sopra di
me le nuvole si estendono nel cielo come una mostruosa
ragnatela imperlata di stelle. Minuscoli aeroplani partiti
dal continente rombano verso la luna gialla, solo per essere avvolti dalle nubi. Le tracce di Osceola sono molto più
facili da seguire rispetto a quelle di un animale. Ha aperto
un sentiero a zigzag attraverso la boscaglia, quasi fosse
ubriaca. Le canne crescono fitte e alte intorno a me, e sibilano al vento come mille vipere. Faccio qualche passo e
mi volto a guardare il bagliore della casa, che si fa sempre
più lontano.
Diversi metri davanti a me, vedo una sagoma che assume
le sembianze di Ossie, mentre avanza tra le stiance violacee. Ha usato dei cucchiai caldi e della tinta a base d’uovo
per acconciarsi i capelli in una nuvola color lavanda. La
chioma la segue come uno strascico, innalzandosi dal cranio
e facendola sembrare la vittima di un esorcismo raffazzonato. Il trucco è coglierla di sorpresa avanzando in diagonale dietro lo schermo scuro delle mangrovie, e poi tenderle un’imboscata con il mio Super Balzo da Scoiattolo
Volante. Se tentassi di fermarla frontalmente, non avrei la
minima possibilità di successo. Mia sorella è una ragazza
grande e grossa, intorno ai novanta chili, con tre canini in
più e un morso da giaguaro. Ed è innamorata. Quando è
sotto l’effetto di quegli incantesimi d’amore, mi fa rotolare
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giù dalle sue spalle con un noncurante strattone da bue e
mi cammina sopra.
Che cosa vuole fare con Lussurioso? Che cosa fa là fuori
con lui per ore, tutte le notti? Più che curiosa, sono spaventata. E adesso lei è immersa fino alla vita negli steli di
falasco, una macchia simile a un opale che avanza nella
palude, facendosi sempre più piccola. A intervalli irregolari odo il verso di un alligatore al di sopra del ronzio degli
insetti. Per un mostro è un suono stranamente lamentoso:
lungo e gutturale, pieno di una terribile dolcezza, come la
voce del capo quando diventa rauca per l’emozione. Da
quando ci ha lasciate, aspetto sempre di sentirla. Nell’oscurità offre un insolito conforto.
Mentre la osservo, Ossie supera il chiarore lunare e le
stiance dalle sfumature verde argento e viene inglobata dalle
mangrovie nere. Subito dopo si ode un nuovo rumore.
Io continuo lungo il margine della palude, troppo impaurita per seguirla. Non è la prima volta. Questo, è questo
il limite geografico a cui mi spingerò inseguendo mia sorella. A scuola stiamo studiando la latitudine e la longitudine,
e mi sento avvampare in volto pensando alla schiacciante
precisione con cui riesco a tracciare le coordinate del mio
affetto e del mio coraggio. Cammino lungo i puntini di questa linea invisibile, sbirciando dietro di lei. Questa è una di
quelle notti che potrei definire sciroppose: umida e impenetrabile, si riversa su di me. Resto lì finché non riesco più
a vedere Ossie.
«Ossie…?». È solo un urlo a metà, ed è decisamente il
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minimo che io possa fare. Poi, spaventata dal suono della
mia stessa voce, mi giro e torno svelta al bungalow. Il corpo
è suo, mi dico. Sono affari suoi. E poi a mia sorella piace consumarsi d’amore. E come si può curare un paziente che nega
di avere un problema?
Alle mie spalle, i versi degli alligatori, simili a muggiti,
crescono d’intensità. Aumento il passo.
La maggior parte della gente pensa che gli alligatori
abbiano soltanto due registri: fame e noia. Ma non hanno
mai sentito il muggito di questi animali. «Il linguayo» si
diverte a ripetere con la sua pronuncia la nostra insegnante di scienze, la signorina Huerta, «è ciò che ci separa dagli
animali». Ma il problema è semplicemente questo: noi
umani siamo snob. Gli alligatori parlano tra loro, e alla
luna, con una voce stridula di donna.
Da bambina è difficile distinguere i segreti innocui da
quelli che, se mantenuti, ti ucciderebbero. E si dà il caso
che abbia anch’io il mio amante. Niente di cui parli con
Ossie, o con anima viva.
Al mio risveglio, noto con sollievo che Ossie è di nuovo
nel suo lettino. È coperta di graffi, e dai capelli arruffati
scendono radici di garofani d’aria. La camicia da notte è
strappata in diversi punti. Lei sorride nel sonno. Me ne sto
qui sdraiata per un po’, a guardare il suo viso che si contrae mentre sogna. Un bel sogno da cui sono esclusa. Poi
vado a studiarmi la Bibbia della lotta con gli alligatori di
Grande Albero, sulle sponde del canale nero come l’inchio16
stro. Fuori è ancora buio, nel cielo ci sono solo poche pallide stelle. Faccio lo slalom tra le funi delle barche attraccate, stordita per il sonno, l’unico essere umano sveglio per
chilometri e chilometri. Osservare la palude all’alba è come
essere testimone di un’apocalisse silenziosa. Si sovrappone
un senso d’infinità, cerchi concentrici sull’acqua ferma. È
un mondo ultraterreno, un fiume d’erba, mentre all’orizzonte compare un ago rosso di luce.
Mi raggomitolo in una palla minuscola e fingo di essere un uovo d’insetto. Accanto a me, gli idroscivolanti
abbandonati s’incurvano lungo il fiume come enormi
ragni.
«Nessuno al mondo sa dove sono» sussurro. Scandisco le parole velocemente, sottovoce. «Nessunonessunonessuno…». E tutto questo mi fa sentire eccitata e stordita, come quando mi guardavo nello specchio di mamma e
ripetevo il mio nome, ancora e ancora – Avavavava – finché
quel suono non apparteneva più al mio viso.
«Nessuno al mondo sa dove mi trovo, adesso…».
È a questo punto che sento spezzarsi il primo ramoscello, alle mie spalle.
Non è il Principe Azzurro. È coperto di piume ed escrementi di uccello. È più vecchio di me, e capisco subito
che non è un papà.
«Salve!» strillo. «È qui per lo show?».
Detesto il mio tono entusiasta, ma non riesco a evitarlo. È l’addestramento di Grande Albero: corro incontro a
ogni adulto che incontro a Paludelandia! come un cane
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che si trascina dietro il guinzaglio. «Non ha visto il cartello? Non si preoccupi, non siamo chiusi davvero».
Lo sconosciuto mi guarda con lo stesso interesse piatto ed esplicito degli alligatori. Mi esamina pezzo per pezzo.
I nostri alligatori non vanno a caccia né si cibano di rifiuti; restano in agguato, aspettando di vedere qualcosa su cui
valga la pena lanciarsi. Mi rendo conto in questo momento che in passato mi è capitato di essere guardata di sfuggita o con la coda dell’occhio: dal capo, da mia sorella e
dai turisti che sbadigliavano. Ma nessuno mi ha mai davvero guardata. Non così.
Lui ride. «Ciao, dolcezza». Con le ciocche di capelli
ispidi e gli occhiali, sembra uno scarafaggio con le corna.
Se il capo fosse qui, si sarebbe messo a ridere e l’avrebbe
invitato a uscire dalla nostra proprietà.
Non ho paura. Ho chiuso le mascelle di diciotto Seth
tra i miei pugni nudi. Ho messo a terra quella cicciona di
mia sorella, con la sua fame d’amore. Ma non sono stupida. Quando quell’uomo mi scavalca e sale su uno degli
idroscivolanti abbandonati, sto in guardia. Mai accettare un
passaggio su un idroscivolante da un estraneo. È una delle
tante massime del capo a proposito della vita nella palude.
In ogni caso, adesso riesco a inquadrarlo. La giacca
pesante e macchiata d’erba, il piffero d’argento, il viso
allungato e gli occhi intelligenti. È solo uno zingaro, un
Uomo degli Uccelli. Ce ne sono diversi: girano per i parchi e seguono le migrazioni stagionali, ciascuno nascosto
nell’ombra proiettata dalla sua pestilenziale orda di pen18
nuti. Variopinti pifferai aviari: è questo che sono. Con il
loro richiamo fanno uscire dagli alberi gli uccelli che ti
danno problemi e li portano fuori dalla tua proprietà,
aspettando che atterrino sul frutteto di qualcun altro.
«È stato il capo a chiamarla, perché si sbarazzasse dei
nostri falchi pecchiaioli?».
«No. Tu come ti chiami?».
«Ava».
«Ava». Mi rivolge un largo sorriso. «Sai tenere un segreto?». Allunga una mano pelosa verso il canale e mi mette
due dita sulle labbra.
Adesso sono arrabbiata. L’Uomo degli Uccelli mi ha
rovinato l’alba; le sue dita umidicce mi danno la stessa
sensazione che provo quando esco dall’acqua dopo aver
fatto il bagno e mi rimetto i vestiti sporchi.
Ma mi limito ad annuire. «Sì, signore» rispondo cortese.
Mi sento sola e ho voglia di condividere un segreto con qualcuno. M’immagino Ossie che torna al bungalow e trova il
mio lettino vuoto, e provo una tremenda scossa di piacere.
Quando sei piccola, fai alcune cose per motivi stupidi.
L’Uomo degli Uccelli mi dice che gli piacciono le mie lentiggini.
«Ascolta, Ava».
Avanzo di qualche centimetro, fino a trovarmi sull’orlo
della banchina. Lui si china verso di me facendo inclinare l’idroscivolante, che gratta con lo scafo contro il molo. Le sue
dita sottili sono strette intorno al parapetto. Il sole che sta
sorgendo colora il canale tra di noi di un rosso brillante.
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Nuvole bianche scendono lungo il fiume, sciacquandosi nell’acqua. L’uomo incrocia di nuovo il mio sguardo con quegli occhi color agata fissi e snervanti. Contrae le labbra.
I primi tre versi sono familiari. L’airone a dorso verde,
il pavone selvatico, uno stormo di folaghe. Poi ne fa un
altro, più acuto: il verso umano più vicino al muggito di
un alligatore che abbia mai sentito. Ma non è esattamente
quello. È fatto di suoni intrecciati; un arcobaleno di suoni.
Mi avvicino di un altro passo, e di un altro ancora, mio malgrado. Provo a immaginare quale specie di uccelli potrebbe fare un verso del genere. Un’unica nota tenuta in
un’ambrata sospensione temporale, come il carboncino
della caduta di Icaro che ho realizzato per il corso di educazione artistica. È triste e fiero al tempo stesso, reso vivo
da una purezza solenne. E continua e continua, finché
non sento bruciare i miei polmoni.
«Che uccello sta chiamando?» chiedo alla fine, quando non sopporto più il richiamo.
L’Uomo degli Uccelli smette di fischiare. Ghigna, così
che possa vedere i suoi denti simili a ciottoli. Mi tende
una mano sopra l’acqua, che sembra un brodo leggero.
«Te».
Diverse ore dopo, entro furtivamente nella casa vuota.
Mi sento da schifo, come ubriaca. Ossie non si vede da nessuna parte. La sua tavola Ouija è ancora sul tavolo della
cucina.
«Mamma» dico «ho fatto una cosa bruttissima».
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Nel bungalow regna il silenzio, eccezion fatta per il neon
della lampada antizanzare. Poso le mani sul puntatore della
tavola e strizzo gli occhi. Il viso di mamma ondeggia davanti a me, lo sguardo è lo stesso che aveva ogni volta che raccontavo una bugia o portavo della cacca di procione dentro
casa. Quel suo cipiglio affascinante. Faccio comporre al
puntatore la punizione che ritengo appropriata: “Ora sei
davvero nei guai, signorinella. Sono molto d-e-l-l…”.
Mi fermo, le dita sospese sulla tavola. Non ricordo se
delusa ha una L o due. “Vai in camera tua” scrivo invece
“e rifletti su quello che hai fatto”.
«Sì, ma’am». Mi sdraio sul lettino nel bungalow silenzioso e penso a quello che ho fatto. Chiudo gli occhi. Scopro che anche così riesco a seguire il movimento nero del
ventilatore a soffitto e il falciare costante delle pale, mi
basta ascoltare l’aria. Le zanzare continuano a ronzare allegramente. Il calore si solleva come una mano che mi chiude la bocca.
Verso il tramonto riesco ad alzarmi e vado a dare da
mangiare agli alligatori. Mi viene in mente, in modo confuso e poco sensato, che è giovedì. Quando mamma era
viva, il giovedì c’era la serata del Pollo Vivo, uno dei pochi
rituali di Grande Albero che mi rifiuto di compiere. Bisogna legare dodici galline a un filo per i panni, prendendole per gli artigli grigi così che si trovino a testa in giù. Poi
devi issarle sopra la fossa degli alligatori e stare indietro.
I Seth saltano fuori dall’acqua con balzi di oltre due metri
e le afferrano. Grida rauche, membra che si dimenano,
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piume, sangue… e poi silenzio, i ganci nudi che brillano
lungo il filo. È facile ignorare i rumori degli animali in cattività, se sei uno spettatore, ma lo schiamazzo diventa tremendo quando sei tu a dirigerlo. Di solito mi blocco a
metà, sopraffatta da un senso di pietà nato dalla mia codardia. Il capo mi prendeva in giro per il mio comportamento da bambina.
«È una cosa naturale. È la catena alimentare, Ava» rideva. «Questi polli sono felici di compiere il loro dovere pollino» urlava per farsi sentire al di sopra delle proteste rauche dei pennuti.
Se lui non c’è, di solito mi limito a scongelare un secchio
di esche. Sono nervosa quando sto vicina al gallo, e troppo schizzinosa per fare i nodi. Oggi, però, giro intorno
all’arena e arrivo alla stia rossa. Le galline della palude mi
salutano con un turbinio di becchi, gonfiando i petti dilatati e a chiazze. Le prendo su una per una e le butto senza
troppe cerimonie nella cassa di legno. Quindi attacco quest’ultima alla carrucola, ignorando le stoccate dei becchi,
e la isso sopra l’acqua.
La parte più difficile è capire come manovrare la puleggia e indovinare quand’è il momento giusto di tirare la
leva per lasciar cadere la cassa. Poi, è tutta una questione
di secondi. Ascolto i pennuti che tubano in preda al panico, il tuffo frenetico. Sola nella mezzaluna di cemento dell’arena, aspetto finché gli schizzi non sono cessati. Sopra di
me il sole è quasi tramontato. In lontananza, il fiume ha il
colore di una perla che si fonde. Ecco, penso. L’ho fatto.
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Quando tornerà, sicuramente il capo mi darà una promozione. Eppure non sento niente, solo una sorpresa intontita davanti alla mia mancanza di interesse: è un po’ come
guardare il tuo piede che si arriccia su se stesso quando è
addormentato. Mi sdraio sui tappetini blu, prona. Sbircio
nella fossa torbida e mi sento leggera come le piume che
fluttuano sull’acqua tinta di rosa.
Sabato Ossie mi comunica che intende portare Lussurioso al Ballo della Palude. Dalla sua pronuncia petulante, deduco di non essere invitata. Si terrà alle sette al Caffè
di Grande Albero, dice. Se mi va, posso far parte del Comitato delle Decorazioni. Mi passa una scatola di stuzzicadenti da party e un bouquet di palloncini avvizziti.
«Posso venire?».
«Hai un cavaliere?».
Ci guardiamo con odio. Sono quasi sul punto di raccontarle dell’Uomo degli Uccelli, ma poi mi mordo il labbro. Alla fine mi concede di andare al suo ballo, ma solo a
condizione che faccia la capo musicista. In pratica, significa che dovrò fornire un sacco di quartini per il jukebox
del caffè.
«Solo canzoni d’amore, solo pezzi lenti, perlopiù Patsy
Cline» mi istruisce.
Non parliamo sul serio da qualche giorno. Torna dai
suoi appuntamenti nella palude quando io dormo già, e
poi passa la giornata a letto. Adesso che sta con Lussurioso non ha più tempo per me. Non che mi piaccia partico23
larmente l’idea di farle da chaperon durante i suoi incontri
con l’aldilà, ma io stessa comincio a sentirmi un po’ schizzata, quasi fossi uno spettro, mentre vago per il parco senza
nessuno con cui parlare. Ho tentato e ritentato di creare un
rapporto con gli alligatori.
«Ciao, Seth» li saluto, spargendo della polvere antipulci sul loro recinto.
«Come butta? Fa abbastanza caldo per voi?».
Qualche volta un Seth starnutisce, ma perlopiù mi ignorano. Nei libri della biblioteca, sembra sempre che i bambini sviluppino un legame trascendentale con i loro animali
(gatti detective, aquile ferite o coraggiosi pony che salvano le persone che rischiano di annegare). Ma gli alligatori
scoraggiano questo tipo di amicizie: sono dei rettili coperti di scaglie e del tutto indifferenti, e in qualche occasione
hanno tentato di mangiarsi i miei familiari. A questo punto
sono grata della compagnia di Ossie, anche se ciò significa dividerla con un fantasma.
La sera, sul presto, decoriamo il caffè con lampade in
stile hawaiano e vecchi poster di Lussurioso. La luce delle
torce proietta ombre color avorio lungo le pareti pelose
della capanna tiki.
Patsy Cline canta sommessamente: «Finché morte non
ci sepa-a-ari». Pur non avendo un amico spettro, riconosco
che quella frase è una stupida fantasia. Patsy lo crede davvero? Che cosa le fa pensare che se la caverà con tanta
facilità, che amerà soltanto in vita? Infilo un altro quarto di
dollaro, accigliata.
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Sono seduta a un tavolino rotondo e fingo di fare un
cruciverba, mentre Ossie balla un valzer intorno alla stanza con Lussurioso. La testa di mia sorella è incoronata da
un’infelice idra di gechi. Non riuscivamo a decidere tra
Testa Gialla, di uno sgargiante color meringa, e Tokay, di
un avocado attenuato, così se li è messi entrambi. Mia sorella non è una brava ballerina. Testa Gialla è livido, piatto come una busta contro il suo elaborato chignon. Tokay
sta tentando di strappargli una zampa.
«Vuoi ballare al posto mio, Ava?». Mi mette una mano
sulla fronte. «Ti senti bene?».
«No, è tutto okay. Voglio dire, sì, mi sento bene. Magari più tardi».
«Oh» dice, aggrottando le sopracciglia. «Basta che tu
me lo dica. A Lussurioso non dispiace… A-va!».
La musica si è fermata senza che me ne sia accorta. Scrollo le spalle e metto altri quartini nel jukebox scintillante.
Pochi istanti dopo, Patsy ricomincia a cantare e la sua
voce riempie la stanza. Puah. Mia sorella si è ritirata in un
angolo buio e si è rannicchiata nella paglia della parete. Io
mordicchio la mia matita, incapace di concentrarmi. Scatto a ogni solco del disco, mentre osservo le finestre alla
ricerca dell’Uomo degli Uccelli. Se n’è andato, ne sono sicura. Sono andata in perlustrazione, e non è rimasto un solo
falco pecchiaiolo nella foresta di mangrovie. Non so ancora come sentirmi al riguardo.
Il pezzo successivo è un lento. Ossie sta litigando con
le sue maniche vuote, mentre cerca di far scivolare la mano
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sotto il vestito. A un certo punto non sento più le pause
tra le parole, ogni canzone si leva in un gemito identico,
vivace e ramato, il lamento di uno spirito di morte chiuso
in un jukebox. La mia visione si offusca. Credo di vedere
il viso dell’Uomo degli Uccelli, le sue lunghe dita che pigolano contro il vetro, e poi le finestre tornano scure. Per un
unico, spaventoso momento, il tavolo si fonde in riquadri
numerati, file e colonne, tutti bianchi.
VERTICALE
ORIZZONTALE
VERTICALE
ORIZZONTALE
C’è qualcosa che non va nei miei occhi, nella mia fronte, nella mia gola calda e otturata, e non so come dirlo a mia
sorella.
Parola di sei lettere, mi chiede il cruciverba…
L’ora di andare a letto è passata da un pezzo quando finalmente lasciamo il ballo. La testa mi rimbomba ancora,
ma non ho intenzione di rovinare l’umore di Ossie. È rossa
in viso, eccitata per il suo successo, e ha già nostalgia del
Ballo della Palude. «Hai visto quei passi, Ava?». Continua
a turbinare sotto i giganteschi cipressi, sognante, mentre
paragona Lussurioso a Fred Astaire. Torniamo a casa tenendoci per mano – al buio le dita di Ossie si allungano
per intrecciarsi alle mie – e la gioia che provo è così inten26
sa che sento il mal di denti rimbombarmi nel cranio. Il massimo che possa fare è sforzarmi di non bloccarle la mano,
un riflesso tipico di chi lotta con gli alligatori. Cantiamo una
sciocca canzoncina del libro di Ossie Bù, il manuale degli
incantesimi! mentre camminiamo sguazzando tra le canne:
Perdo il mio raggio, lo perdo e le nubi coprono la luna,
lo perdo e il sole si spegne.
Lo perdo e le stelle brillano fioche.
Ma non è al sole, alla luna o alle stelle che sparo.
Sparo al gambo del cuore
di quel bambino della congregazione,
Tal dei Tali.
Coccodè! Coccodè!
Anima di Tal dei Tali, vieni a passeggio con me.
Vieni a sederti con me.
Vieni a dormire, prendi un pezzo del mio cuscino.
Coccodè! Coccodè! Anima.
Le palme nane sembrano sentinelle fuori servizio che
camminano stanche e spettegolano piacevolmente nella
brezza calda. Le lucciole si accendono e si spengono. Il
mondo sembra tondo e accogliente.
«Lussurioso viene a casa con noi?».
«No» risponde Ossie, aprendo la porta del bungalow.
«Non verrà più dal nonno».
Io mi lancio sul lettino con il mio Super Balzo da Scoiattolo Volante e seppellisco il sorriso nel cuscino ruvido.
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Quando sento la serratura della porta che scatta, ho paura
di mettermi a piangere o di scoppiare in una risata isterica. Soltanto noi due, ghigno, soltanto noi due… noi due!
Non voglio mentire e fingermi dispiaciuta, ma non voglio
neppure ferire i suoi sentimenti esultando per l’espulsione di Lussurioso dal suo corpo. Così faccio un verso vago,
nascosta nel cuscino: «Hrr-hh-mm!».
«Buonanotte, Ava» sussurra Ossie. «Grazie per aver
messo i dischi».
Quando mi sveglio, mia sorella non è nel suo lettino.
Le sue scarpe sono sparite. Le lenzuola sono sul pavimento. Il terrario di vetro, quello a cui attingeva quasi fosse il
suo portagioie personale, normalmente reso opaco dalle
lucertole, è stato saccheggiato. Sono rimasti solo i licheni
decorativi e il contenitore dell’acqua.
«Ossie?».
Nell’armadio, tutte le stampelle sono nude come ossa.
Entro in bagno, ed è come entrare in un giardino invisibile che profuma di fiori di sapone. Lo specchio è appannato e in un angolo c’è un biglietto:
chara ava
non sono piu una grande albero. parto per la mia luna
di mielle. non preocuparti veremo a farti visita. trovero
mama e portero anche lei. schusa ava conosco il suonno dele parole ma non ricordo la forma dele letere.
ossie rubamucca
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Devo leggere la lettera tre volte prima di capire che se n’è
andata per sempre. La mia capacità di giudizio riguardo a
queste cose diventa sempre più acuta, e capisco che non si
tratta di un segreto da mantenere. «Ossie, non te ne andare!» grido. «Aspetta! Ti… ti preparo dei popcorn Boos!».
Il che suona insopportabilmente inadeguato anche alle mie
orecchie. Che cos’è che voleva fare? Ah, già. Una fuga d’amore. Trovo il polveroso dizionario a scacchi del nonno e vi
do un’occhiata per cercare qualche indizio:
fuggire: [v. intr.] allontanarsi velocemente da un luogo o
da qualcuno; scappare da un luogo dove si era rinchiusi.
Fuggire. Quella parola si accende come una lampadina nuda, proiettandomi lunghe ombre nel cervello. Perché, esattamente, come si fa a fuggire con un fantasma? E
se Lussurioso stesse portando mia sorella in un luogo in cui
io non posso seguirla? E se dovesse diventare anche lei uno
spettro, per arrivarci? E poi un altro dubbio spaventoso
si fa strada nella mia mente: e se per tutto questo tempo si
fosse vista con l’Uomo degli Uccelli?
Penserete che ora la sottoscritta si lancerà immediatamente al suo inseguimento. Invece no. M’infilo gli stivali
da pioggia, me li tolgo e li rimetto. Prendo il telefono per
chiedere aiuto e poi abbasso la cornetta, sussultando al
ronzio vuoto del segnale di linea libera. Provo a gridare,
ma dalla mia bocca esce soltanto aria.
Fuori sento la palude che si moltiplica, un’oscurità fron29
dosa e senza fine. I pini in lontananza sembrano pallide
fiamme. Senza il capo a isolare l’area mediante un cordone, senza i turisti che applaudono educati e cercano di
memorizzare la geografia del parco, Paludelandia! è tornata la landa selvaggia di un tempo. Se l’Uomo degli Uccelli dovesse apparire adesso, mi tufferei tra le sue braccia,
felice di avere un po’ di compagnia umana. «Dov’è il
capo?» grido. «E dov’è mia sorella?». La mia mano rimane sospesa sul pomello della porta. Resto lì mentre un sottile filo di paura mi avvolge le budella, finché non sopporto più di rimanere in questa casa vuota. E sarei tentata
di dire alla signorina Huerta che è questa la sensazione
che ci distingue dagli animali, anche se ho visto tutti quei
cani del capo morire di solitudine.
Metto in una borsa una torcia elettrica, una mazza da
baseball, un coltello da carne e del burro d’arachidi Boos,
per attirare Ossie e farla tornare nel suo corpo. Non abbiamo aglio, così prendo un cavolfiore: nel caso incontrassi
dei vampiri, mi auguro che siano miopi e si lascino abbindolare facilmente. Quindi apro la porta e comincio a correre.
L’aria m’investe come un muro, calda e afosa. Corro fino
alle mangrovie e mi blocco. Il terreno sta buttando fuori le
antenne, in preda a un panico vegetale. Più resto ferma,
più ho l’impressione che ogni movimento sia impossibile.
E poi giunge quel suono familiare, quel crudo muggito
che pulsa dalla palude.
Quella cosa a cubetti che sento dentro di me si scioglie
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improvvisamente in un accenno di paura. Qualcosa di
brutto e cruento sta accadendo a mia sorella, ne sono sicura. E un attimo dopo mi ritrovo oltre gli alberi e mi sto
precipitando verso lo stagno. È una confusione sensoriale, fatta di salti e passi falsi: inghiottitoi untuosi, ceppi
sepolti, ortiche salate che mi lacerano la carne. Corro per
quello che mi sembra un tempo lunghissimo. Una nuvola
sottile spegne la luna.
Vorrei poter dire che, mentre corro, mandò giù coraggio puro. Come quelle audaci ragazzine di cui si legge nei
libri, quelle che fanno coppia con i gatti detective. Ma questo scatto viene da una scarica di adrenalina più antica,
che mi è rimasta nelle membra. Non si tratta di coraggio,
ma di un terrore più profondo. Non voglio rimanere sola.
E sono pronta a difendere Ossie contro qualunque mostro
dovessi incontrare, fantasma, uomo o lucertola volante.
Sono pronta a salvarla. Così mi lancio verso la radura.
Quando emergo dagli alberi e punto verso lo stagno,
pronta a battermi, non trovo avversari con cui lottare. A
muggire non è l’Uomo degli Uccelli. Né un alligatore selvatico. È mia sorella, in piedi, nuda come un fusto sotto la
luce della luna. La gonna rossa è appallottolata intorno ai
piedi come un mucchio di foglie morte. È Osceola che
canta, china sull’acqua scura:
Coccodè! Coccodè!
Anima di Tal dei Tali, vieni a passeggio con me…
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Sulla terraferma il corpo di Ossie sembra un letto sfatto, tutto gibboso e in disordine. Ma adesso, nudo e alla luce
della luna, appare splendente, quasi sacro. Per me è una
rivelazione: il suo corpo svestito, i suoi seni. Il mio petto è
piatto come una tavola e coperto da minuscoli nei. Per
tutto questo tempo, mia sorella ha vissuto nel corpo di
una madre.
E c’è qualcosa che si muove. Sta succedendo qualcosa
alla sua pelle. Mentre va verso l’acqua, scintille tremanti si
levano dai suoi capelli e dalle spalle: una tempesta di grandine in miniatura. Sono le lucertole! Se le sta scrollando
di dosso in una pioggia di scaglie, lamine di un’armatura
vivente. I gechi le cadono dalle braccia e dai seni e, come
diamanti viscosi e sibilanti, scivolano nello stagno. Osservo la scena, ipnotizzata. Poco dopo mia sorella è completamente nuda, le cosce irritate dall’erba alta e pungente.
Non mi è rimasto neanche il fiato per pronunciare una
parola. Poi, tenendo l’ultima nota del suo incantesimo,
entra in acqua.
«Ossie, no!». Ora che ho iniziato a gridare, mi rendo
conto di non riuscire a smettere. Ma non voglio immergermi prima di sapere esattamente in quale pantano mi
sto andando a ficcare. Mi tasto la salopette per cercare la
torcia, e invece trovo l’occhio di Seth, il mio portafortuna. Con un grido biblico, lo scaglio contro la sua nuca.
«Osceola!».
Dimostro di avere la forza di una ragazzina. L’occhio
manca di molto il bersaglio, riesce a stento ad arrivare allo
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stagno. Me lo immagino mentre affonda turbinando e si
ferma nel fango rosso, il suo sguardo privo di palpebra
rivolto verso mia sorella, mentre le gambe di lei si contraggono al ricordo, all’idea di… di che cosa? Non riesco
a capire quello che vedo. Solo una cosa so con certezza:
mi sta lasciando.
Aspetto per miliardi di anni – o così mi sembra – che
Ossie torni in superficie, ma lo stagno rimane vitreo e liscio,
e ha lo stesso biancore scintillante dello specchio di nostra
madre. Le ninfee si coagulano in macchie di luce svaporata. Sott’acqua, più che vedere, sento il corpo di mia sorella
che scende a spirale verso un muto crescendo di blu.
«Non ci provare!» urlo allo stagno. «Non osare scendere più di così!». E la seguo.
Agito convulsamente le braccia nell’acqua bassa e nera
che mi scorre tra le dita e mi entra negli occhi, nella bocca
e nelle orecchie, finché non sfioro la sua pelle. La afferro
per le spalle e la tiro su con uno strattone. L’acqua tiene a
galla il suo corpo enorme, e io nuoto con tutte le mie forze.
Non si tratta di un impeto sovrumano o di eroismo infantile: sono solo io in preda alla più cupa disperazione. Mi
dirigo verso la riva tra gli spruzzi, mentre emetto questo
verso angosciato e starnazzante e mi sforzo di trovare un
punto d’appoggio nel fango melmoso.
«Ava?» farfuglia Ossie, sputando acqua. «Che cosa stai
facendo? Lasciami andare!».
Lottiamo usando tutte le mosse che ci ha insegnato
Grande Albero: la trottola, il colpo col mento, la circum33
navigazione. Finalmente, con un ululato trionfante, riesco
a tirarla sulla sponda catramosa dello stagno. Afferro la
parte carnosa dei suoi piedi, neri come bucce d’arancia
ammuffite, e cerco di trascinarla su un letto di rocce e ramoscelli. Adesso sta sputando melma, e la sua rabbia cieca
e annebbiata mi fa intuire che è ancora posseduta. Ha una
ninfea incollata sulla guancia sinistra.
Mentre la trascinavo fuori dall’acqua, le ho lasciato dei
piccoli segni a forma di mezzaluna sul braccio. Piccole
macchie, simili a succhiotti o a lividi. Adesso si stanno scurendo, e osservo affascinata mentre diventano piaghe bianche e rigonfie. Come se qualcosa la stesse graffiando da
dentro, spingendo verso l’esterno. Una pressione che cerca
di rompere la sua pelle.
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