casa del bambino - Premio Italo Calvino
Transcript
casa del bambino - Premio Italo Calvino
Silvana Lucia CONVERTINI CASA DEL BAMBINO da Qui non si batte ciglio Bari, il dodici di giugno. Domenico, il «topino» più veloce di tutta la città, spartisce il bottino con il suo capo. «Facilissimo, Totò», dice Domenico al suo capo, uno di quindici anni. «Due ragazze. Una era pure bella. Appena scendono dalla macchina, zacchete, la borsetta». «E allora», fa Totò, con una faccia bastarda e gli occhi color del catrame, «se facilissimo, invece di settanta, me ne prendo ottanta». Domenico si fa sempre fregare. Svelto è svelto, però soltanto con le mani. E chissà perché tutti i capi hanno il sorriso bastardo e gli occhi di catrame. A Domenico sono rimasti quarantacinque euro. Ormai gli abitanti di Bari si sono fatti furbi: non portano molti soldi nelle borse e nei pantaloni. Anzi, ne inventano sempre di nuove. Una aveva il borsellino attaccato dentro al reggiseno. Domenico se ne è accorto perché la signora è andata al mercato, ha visto la schiuma di mare, si è messa una mano nella scollatura e ha tirato fuori il borsellino per pagare. Domenico prima è rimasto incantato a guardare, poi si è ricordato dei soldi e glieli ha strappati via. La signora l’ha inseguito urlando parolacce, e nel frattempo la scollatura, che era sbottonata, si è fatta ancora più profonda, e la gonna, che era già corta, si è alzata nell’impeto della corsa. Insomma tutti gli uomini del mercato, invece di aiutarla, se la guardavano. Domenico è scappato nella vecchia tipografia e la sera, dopo la bevuta del giorno, ha sognato la signora che diventava grande come una montagna, lo prendeva su una mano, lo sollevava in alto verso la luna e gli faceva fare un giro, come sulla giostra. I quarantacinque euro. Venti vanno a casa, che la mamma ne ha bisogno, cinque a Michele, suo fratello, perché a lui i soldi non bastano mai e vanno, lui e i soldi, sempre a puttane. Ne restano venti. Può comperarsi una stecca di sigarette da Malatesta. Ma poi vorrà prendergli tutto il resto, come sempre. Anche lui è del giro degli Abatangelo. Malatesta una volta l’ha visto che da lontano puntava sua madre, si è avvicinato come una serpe e le ha detto qualcosa di viscido. Lei ha fatto una faccia marcia, ha soffiato un insulto, è rientrata in casa come l’avesse morsa. Più tardi, quella sera, hanno ricevuto una telefonata e la mamma ha risposto aspra come una mandorla acerba, ma quando ha abbassato la cornetta, le è preso uno sconforto grande, aveva il singhiozzo e le lacrime. Domenico, a guardarla così, aveva male in mezzo agli occhi. Niente sigarette. Magari un panino, le patatine e la coca cola. Ma con i soldi che porta a casa la mamma può cominciare a pagare i debiti dal fruttivendolo, compra le melanzane e prepara la parmigiana. Altro che panini. Una giacchetta nuova, così domenica, quando va a trovare la cugina Carmela, almeno le fa vedere che si sa vestire. Ma venti euro è troppo poco. Ce ne vogliono almeno cinquanta. Può darsi domani, che gli tocca via Manzoni, la via dei negozi. Domani, può darsi che faccia cento euro e magari di più. Domani è sabato, 13 giugno. Ed è, non se l’è dimenticato, il compleanno della mamma. Che ne fa trentanove. Come sono grandi i grandi. Hanno un sacco di anni. Se Domenico avesse trentanove anni, sarebbe vecchio. E quando li avrà, il mondo sarà vecchio. Bari diventerà grande come New York e New York grande come Saturno. Poi ci saranno luci dappertutto e pubblicità della Coca Cola. Come in quel film americano, che una volta aveva visto al Santalucia. Ce l’aveva portato suo fratello, che poi era sparito con una puttana. Venti euro per il compleanno della mamma. Domenico cammina pensieroso e ha quella ruga tra gli occhi come tutte le volte che pensa sul serio. Respira aria di benzina bruciata. Ascolta il clacson ossessivo e prepotente di macchine e di autobus. Vede la gente e le vetrine, i palazzi e le scuole abbandonate. Una vecchia «casa del bambino», ha tutte le pareti scorciate. Tutte le volte che passa lì davanti si fa domande su quella casa. Una casa abitata solo dai bambini, pieno di lagne e di giochi, dove tutto è piccolo e semplice? (E le pareti magari sono colorate come all’asilo, ma il capo è un bambino come lui e a undici anni già fuma la roba!) O una casa dove nascono i piccolini, come una specie di ospedale? Oppure una prigione per i ragazzi come lui, dove in ogni cella c’è un bambino cattivo, i bambini ladri, i bambini assassini, i bambini che non vogliono andare a scuola? D’istinto accelera il passo e va a finire dall’altra parte della strada. Dall’altra parte della strada, lontano dall’uscio della «Casa del bambino», si vede il porto. Però, pensa Domenico, Bari è la più bella città del mondo. Lo dice sempre anche Michele. E se parli bene il dialetto ti capiscono dappertutto, anche a Parigi. Suo cugino è andato a Parigi. E i francesi capivano tutto quello che diceva. Così, quando Domenico avrà trentanove anni e vivrà a Parigi, tutti quanti capiranno quello che dirà. A proposito di Parigi, anche lì ci saranno negozi come questo. Negozi dove fanno i quadri coi fiori secchi. Ci sono margherite, rose, fiori bianchi e viola. Ma la cosa più bella sono le foglie, di tutti i tipi e di tutte le forme, lo stesso colore della BMW degli Abatangelo. Anche lui avrà una BMW colore della foglia, vivrà a Parigi oppure a New York e parlerà tutte le lingue. Il pomeriggio si sta facendo sera e ancora Domenico non ha comprato il regalo. Se non lo compra entro stasera, finisce che domani non fa in tempo. Domani c’è il lavoro. E succede come per il compleanno dello scorso anno, che sua madre è tornata a casa tardi ‒ allora era a servizio in una casa di signori ‒ ha preso una bottiglia di vino già cominciata, ha messo due bicchieri sul tavolo, ha versato il vino nei due bicchieri, li ha stretti con le due mani, ha detto «auguri», li ha tozzati l’uno contro l’altro e ha bevuto da tutti e due. Questo compleanno, invece, sarà diverso. Intanto la mamma tornerà riposata, perché la famiglia dei ricchi dove faceva la serva l’ha licenziata due mesi fa perché beveva troppo. Poi avrà un vestito giallo, che è il colore preferito di Domenico, di quei vestiti che stanno bene alle donne belle come sua madre. E entrerà in casa tutta contenta perché è il suo compleanno, vedrà la scatola del regalo di Domenico sul tavolo e dirà «Grazie, Domenico», e poi gli darà un bacio sulla bocca e per la contentezza le verrà fuori una lacrima che sembra cristallo. Cristallo o non cristallo, Domenico è in ritardo. Manca mezz’ora alla chiusura dei negozi e i venti euro sono ancora in tasca. Domenico è vicino alla sua vecchia scuola. Un giorno non c’è più andato e non l’hanno mai cercato. Sì, un giorno sono venuti due del comune insieme a un carabiniere, ma Domenico e sua madre hanno pensato che fosse per gli scippi, e non hanno neanche aperto. Quelli non sono più tornati. A scuola era tutto noioso, al massimo si facevano due spiccioli coi compagni, poca roba... Nello, che è andato a scuola e ha finito le medie, non vale niente, come una lisca di pesce. Suo padre è stato licenziato e adesso muoiono di fame. Nello non sa neanche scippare, non sa fare niente. Nicola Abatangelo ha frequentato fino alla terza elementare, come Domenico. E adesso ha la BMW. La sera si è rabbuiata, sta per piovere. L’odore di benzina diventa ancora più acre, e ci sono molte automobili. Domenico ha un’idea, gli si ferma il pensiero per l’emozione, corre sotto la pioggia e si infila in un androne. A casa, la madre guarda la TV, bottino di un vecchio furto di Michele. L’unica cosa buona che ha fatto Michele. La madre sorride sfatta, la bottiglia di vino stretta tra le cosce. La faccia di Domenico, che prima brillava, si smorfia di disappunto. «Quanto hai fatto oggi?» dice lei. Domenico sente in quella voce una condanna, viene sbalzato lontano come da un vento forte, ha alla gola la paura improvvisa di essere solo e di essere piccolo, come una specie di rimorso. Perché è così piccolo? E perché sente questa stretta alla gola che lo stringe a morte? La casa è al buio, la bottiglia di vino è agli sgoccioli. Con il braccio teso e distante, Domenico porge il bottino. La madre, di spalle, emette un suono strano, come un fischio, e nel frattempo fa cenno di no, e indica nell’ombra. Nell’ombra, in quella tana del lupo, Domenico perde la vista finché, illuminato solo dalla luce del telefilm, vede un uomo alto, altissimo, col sorriso bastardo e gli occhi color catrame. «Dalli a lui». dice la madre. E Domenico sente dentro una rabbia schifosa, che fa male. Ma dà a Malatesta tutto quello che ha. «E questo è tutto?» dice Malatesta. Nel buio il suo dente d’argento riflette una scheggia di luce: «Sì, è tutto, Malatè. Te lo giuro», balbetta Domenico. Quello prima gli stringe forte la mano, poi gli apre le dita a una a una e quasi gliele spezza, succhiando aria e saliva attraverso i denti. Poi allenta la morsa, gli passa una mano sul collo e, improvvisamente, gli sferra un calcio sulla coscia, sbalzandolo verso sua madre. «Cos’hai lì dentro?» Indica la tasca dei pantaloni. Niente, dice Domenico. Sua madre non interviene, neanche guarda. Ha addosso un vestito giallo, quello che piace a Domenico, ma adesso non gli piace più. Malatesta si avvicina con la mano alzata, Domenico si accartoccia tutto, e la mano strappa via il pacco dalla tasca di Domenico. «Un cuore di stoffa? Che cazzo è?» «E’... è... », dice Domenico, con la balbuzie che lo prende quando è nervoso, « ...è un cuore per infilarci gli aghi quando si cuce». «Ah sì?» dice Malatesta facendo un gesto molle per imitare quelli né maschi né femmine. «Tua figlia s’è comprato un cuoricino di stoffa, e ride a scatti che sembra morso dalla tarantola. «Dammelo... da... dammelo», dice provando a riprenderlo, ma Malatesta sale su una sedia e si mette il cuore tra le gambe. «Vieni, piccinina, vieni qui», dice lui. «Il tuo cuoricino ti aspetta» e si muove avanti e indietro. «Dammelo», ripete Domenico, a singhiozzi grandi e lacrime. «Vieni a prenderlo, piccinina. Il tuo bel cuoricino». Domenico ha la schiuma in bocca per l’impotenza e per lo sforzo, quello si curva in avanti per avvicinarsi, ma poi, quando la mano di Domenico è vicina al cuore, lui la stringe tra le ginocchia, la stringe forte. Quando finalmente allenta la stretta, Domenico si accascia, ma non dice niente, non si lamenta, guarda il cuore di stoffa. Poi, quando meno se l’aspetta, si sente sollevare dal collo della camicia, si sente portare in alto come uno straccio e la sua faccia si ritrova vicina alla ghigna di Malatesta. Domenico strizza gli occhi forte, e si abbandona. Sente l’alito caldo di vino, sente la puzza della colonia, tutto gli è sopra, lo sovrasta, tutto è molto più grande di lui. «Daglielo», dice una voce di biascico, vicinissima. «Eh?» fa Malatesta, girando la testa verso la poltrona. «Daglielo», ripete la madre, con un tono molle. Malatesta ghigna, avvicina ancora di più la sua faccia sudata a quella di Domenico, ma anche la madre si avvicina, barcolla, si raddrizza. La madre si fa di fianco, è storta ma ferma, ha in mano la bottiglia che, obliqua, perde vino come sangue. «Ehi», fa lui, scostandosi brusco. «Daglielo», ripete lei ancora, sollevando la bottiglia appena sopra la spalla. E non si muove. Malatesta fa una faccia di rabbia e molestia, ma invece, gli occhi fissi sul volto della madre, allenta Domenico nel buio, scende dalla sedia. Domenico ha paura, ha il cuore nelle orecchie, i brividi. Malatesta guarda ancora la madre dritto in faccia, lei è come se non ci fosse, è lontana, non si muove. Malatesta si avvicina alla madre, le liscia lo zigomo e poi la guancia con il dito, come fosse un coltello. Poi ridacchia nervosamente ed emette il suo sibilo di serpe. La madre è lì, immobile come la statua di sant’Anna. Malatesta ha una scossa elettrica nel corpo, poi sbuffa e torna da Domenico. «Ehi femminuccia», fa lui sputando le parole come un insulto, «eccoti il tuo cuoricino» e poi miagola di presa in giro, e simula una risata grassa, ma Domenico non si fa fregare. Ha capito, ed è contento. Il cuore, adesso, è nelle sue mani. Sua madre torna davanti al televisore, rimette il tappo di sughero alla bottiglia e la dà a Malatesta. «Grazie per il vino», gli dice e Malatesta prima ha un tremito nel mento, come a dire una maledizione, poi scalcia a vuoto contro Domenico e se ne va inghiottendo uno sputo di rabbia. Nel buio la madre si siede spossata, la testa è pesante, la bocca è storta. «Buon compleanno», dice Domenico con il cuore di stoffa tra le mani. «Buon compleanno, mamma». Porgendo il cuore, avvampa di vergogna. Sua madre ha una specie di tremore, si sforza di sollevare le palpebre. Puzza di vino e ha gli occhi liquidi, si piega su se stessa. Domenico la guarda e d’istinto sta per allontanarsi da lei. Ma lei solleva il capo, quelle mani grandi prendono la faccia piccola di Domenico e la stringono forte. Domenico trema di emozione, gli occhi di lei, adesso, sono stelle che luccicano nel mare. La madre dice «Grazie, Domenico» baciandolo sulla bocca, e per la contentezza le viene fuori una lacrima che sembra cristallo.