Poesia, immaginazione e delirio nell`estetica di Gian Vincenzo

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Poesia, immaginazione e delirio nell`estetica di Gian Vincenzo
Poesia, immaginazione e delirio nell’estetica di
Gian Vincenzo Gravina
Claudia Sangregorio
Il Gravina teorico dell’esperienza estetica è scoperta relativamente recente.
Notizie frammentarie relative ora al critico, ora al giureconsulto, ora al «ribelle
d’Arcadia»1 , hanno infatti reso difficoltosa la conoscenza del pensiero del filosofo
calabrese.
Cercando di superare i limitati riferimenti bio-bibliografici, Amedeo Quondam2 , intorno al 1970, ha intrapreso uno studio sull’autore, successivamente ampliato e approfondito da Luigi Stefanini3 e Giuseppe Toffanin4 .
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L’appellativo di «ribelle» viene assegnato al Gravina dall’arcade Crescimbeni in occasione delle
prime ostilità che condurranno allo scisma accademico del 1711. L’episodio è ricordato nel saggio
di V. Caravelli, “Un arcade ribelle”, in Chiacchiere critiche, Pratiche, Firenze 1889, p. 17.
2 Amedeo Quondam si distingue per lo studio e il lavoro di ricerca sulla figura del Gravina. Tra
i suoi scritti di critica: Cultura e ideologia di G.V. Gravina (Mursia, Milano 1968) e Filosofia della
luce e Luminosi nelle Egloghe del Gravina (Guida, Napoli 1970). Insieme a Benedetto Croce e a
Mario Fubini, Quondam presenta Gravina come un illuminista, un moderno e audace innovatore.
Tale interpretazione non tiene però in conto che l’opera del calabrese si svolge in nome della Curia romana e si concretizza nella difesa della tradizione umanistico-cattolica. Nel saggio L’eredità
del Rinascimento in Arcadia (Zanichelli, Bologna 1923), Giuseppe Toffanin presenta una versione
differente, riproponendo la figura del Gravina nei suoi rapporti con la religione e il mondo classico. Le ricerche più recenti, a cura di Tiziana Carena, seguono gli studi del Toffanin e ne ampliano
ulteriormente il raggio, facendo del Gravina un ideale allievo di Platone. Contro la critica che ha
definito il filosofo un illuminista prende posizione anche Roberto Montano: «Un recente libro di
Quondam su Gravina che fa davvero disonore alla cultura e all’onestà intellettuale, attraverso una
serie ininterrotta di sciocche deduzioni e banali distorsioni, ha presentato Gravina come un moderno.
Che l’opera e l’istituzione dell’Accademia siano animate solo dall’orgoglio e dalla difesa della tradizione, al Quondam e ai suoi, non importa.» (R. Montano, Miti della critica post-crociana, G.B. Vico
Editore, Napoli 1975, p. 49).
3 Cfr. L. Stefanini, Arte e vita nel pensiero di G.V. Gravina, in Vita e pensiero, Milano 1915.
4 Cfr. G. Toffanin, L’Arcadia: saggio storico, Bologna, Zanichelli 1947.
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ITIN ER A – R ivista di F ilosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Gian Vincenzo Gravina esordisce nella vita culturale di fine Seicento con chiari
intenti di denuncia nei confronti della situazione morale, culturale e filosofica a lui
contemporanea. La testimonianza di un tale attacco è inaugurata dalla pubblicazione di due opere di ampio respiro: l’Hydra mystica e il Discorso sopra l’Endimione,
con le quali Gravina alimenta una vivace polemica contro la filosofia che pretende
di sostituirsi alla Scrittura e che per via di «oscurità» e «sottigliezze», mira a confondere anziché spiegare5 . Il senso di tale posizione non è la sterile condanna di
una cultura ormai giunta al suo termine, ma è l’esigenza di una concreta organizzazione del sapere basato sull’esperienza e supportato dalle più decisive proposte
della scienza e della filosofia moderne. Gravina si domanda cosa sia il vero poetico in un’epoca in cui il vero, per definizione, non appartiene alla poesia ma alla
scienza. Esso sarà un’illusione o un «simulacro» del vero naturale e scientifico,
con la distinzione tra un vero e un falso poetico. Gravina adopera i termini di falso
e finto in maniera contrapposta. In senso negativo «falso» viene riferito alla poesia
barocca che ha deciso di uscire deliberatamente dalle regole della verosimiglianza
e «finto» indica il meccanismo stesso della verosimiglianza6 . L’errore principale
dei barocchi, quindi, consiste nel non essersi accorti della scissione avvenuta tra
arte e scienza. Secondo Gravina la poesia può ritrovare il suo splendore solo dopo
aver ridefinito la sua funzione e ciò può avvenire a seguito dell’analisi di tutta la
tradizione letteraria occidentale e dei diversi modi in cui essa si è espressa.
Nella Ragione Poetica Gravina dedica ampio spazio all’arte intesa come strumento di conoscenza. L’analisi scientifica, da sola, non è in grado di cogliere
integralmente la realtà, «poiché la scienza consta di cognizioni vere e le cognizioni
vere si raccolgono dalle cose quali sono in sé, non quali sono nell’idea e desiderio
degli uomini, i quali spesso si pascon più del plausibile che del vero»7 .
Gravina illustra come l’arte e in special modo la rappresentazione poetica, attraverso il «finto» ci immerge nel «vero». Scrive il filosofo: «Quando le contemplazioni avranno assunto sembianza corporea, allora troveranno l’entrata nelle menti
volgari, potendo incamminarsi per le vie segnate dalle cose sensibili e in tal modo
le scienze nutriranno dei frutti loro anche i più rozzi cervelli»8 .
Gravina si rende conto che il rinnovamento della poesia e delle arti può avvenire solo tenendo conto della rivoluzione scientifica che ha notevolmente arricchito
le conoscenze e ha fornito nuovi strumenti in grado di cambiare tutti i sistemi di
rappresentazione. Per il filosofo, dunque, da un lato c’è la verità scientifica, che
postula un linguaggio in grado di registrarla, dall’altro lato, c’è quella letteraria,
che convive con essa ma rielabora la realtà ad un altro livello, quello allegorico.
5 Gravina individua come bersaglio la filosofia presuntuosa del «secolo arabo», quella scolasticoaristotelica, già aspramente condannata nel 1699 nel suo scritto De instauratione studiorum.
6 In un confronto a carattere più strettamente logico-filosofico, Gravina sostiene che la poesia è
simile a un giudizio negativo su una cosa vera: per quanto errato, infatti, questo giudizio manterrà un
rapporto con la realtà mentre il giudizio completamente falso non ha alcun rimando al mondo reale.
7 G.V. Gravina, “Della Ragione Poetica”, presso Francesco Gonzaga, Roma 1708, ora in Scritti
critici e teorici, a cura di A. Quondam, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 202.
8 Ibid., p. 198.
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La rappresentazione mimetica non è la cosa rappresentata, quale può essere descritta dalla scienza, né l’idea immutabile che se ne fa il filosofo, ma una terza
cosa, «un’ombra o un’immagine in uno specchio o nell’acqua». Poiché la poesia non è una descrizione ma un’immagine, i criteri del vero e del falso non le si
applicano con lo stesso rigore della scienza: è necessaria l’azione della fantasia,
chiamata a ravvivare in noi la coscienza delle cose9 . La poesia non nasce dal «vero», ma mediante il suo strumento precipuo, rappresentato dalla fantasia, elabora
il verosimile. La poesia estrapola il suo materiale dalla storia, dalla filosofia, dalla
teologia e dalla scienza. Il poeta dà corpo ai concetti, visibilità all’invisibile mediante l’immagine. Chi traduce l’idea contemplata è il poeta, il quale «commuove
e agita la fantasia», riproducendo la realtà. L’operazione della mente che «s’immerge nel finto» e «s’astrae dal vero», è la fantasia, che adempie e universalizza
l’invenzione poetica. Dalla contemplazione dell’idea intimamente congiunta alla
produttività della mente, Gravina perviene al processo dualistico di natura e idea.
La concezione graviniana dell’arte in rapporto al processo percettivo che la purifica
dagli elementi empirici di una fantasia sensibile e soggetta alle modifiche esteriori, può legittimarsi come produzione razionale, «figliola e rampolla della scienza».
In tal modo il vero e il verosimile poetico si riflettono nell’universalità delle cose. La gnoseologia graviniana parla, quindi, di certezza sensibile empirica, data
dal reciproco rapporto di causalità soggetto-oggetto e la riconduce all’innatismo
platonico, dove la conoscenza è un processo a ritroso, di reminiscenza. L’anima
conserva nella vita terrena ricordi più o meno ricchi delle realtà contemplate un
tempo. Le immagini sono «affezioni del nostro corpo, simulacri delle cose»10 e
quando «per via della reminiscenza si svegliano le vestigia degli oggetti, allora si
rinnovano le stesse passioni che furon già mosse dagli oggetti reali, perché così
i moti della fantasia corrispondono ai moti veri, e perciò la poesia è possente a
muoverci gli oggetti del finto a paragone del vero»11 .
Omero, per Gravina,
si è avvicinato al sensibile con le parole, e ha imitata la natura a misura del
vero, guidando secondo il corso della contingenza umana, col figurare i fatti,
come appunto l’ordine delle cose vere suole portare. Con la quale arte, egli,
mentre esprime il vero sul finto, sparge ancora i semi di quelle cognizioni
che nelle menti sagge, della di lui lezione si imprimono.12
9 «A partire dal Seicento, quando l’attività artistica viene sempre più collegata all’immaginazione
piuttosto che all’intelletto, e quindi alla ‘maraviglia’, l’opera d’arte è spinta ad abbandonare il terreno
mimetico per cercare nuovi lidi più fecondi e la riflessione estetica ritrova, con Gravina, una logica
autonoma della fantasia. [. . . ] L’arte diventa allora uno strumento legato alla conoscenza poetica, in
grado di integrare la conoscenza generale.» (M. Mazzocut-Mis, “Presentazione” in T. Carena, Critica
della Ragion Poetica di G.V. Gravina: l’immaginazione, la fantasia, il delirio e la verosimiglianza,
Mimesis, Milano 2001, p. 9).
10 G.V. Gravina, Della Ragione Poetica, cit., p. 302.
11 Ibid., p. 304.
12 Ibid., p. 204.
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Mediante la verosimiglianza, la poesia rende presente per incanto la rappresentazione mentale mancante e le immagini percepite in precedenza possono venire
richiamate.
L’arte di cui parla Gravina ha dunque una funzione eidolopoietica, di produzione e riproduzione delle immagini. Il filosofo insiste sull’importanza dell’immaginazione come facoltà umana e della rappresentazione come processo in cui
le immagini si ripresentano in forma critica alla coscienza, offrendo materiale agli
«occhi della mente»13 .
La fantasia è un nuovo organo di senso. È il “sesto senso” della realtà e dell’immaginario, che ricostituisce l’unità della percezione a cui sono sottoposte le
sensazioni. Gravina presenta una conoscenza intellettuale senza negarne una sensibile. Il conoscere, indipendentemente dal ruolo che assumono gli organi corporei,
è un conoscere universale. Questa condizione ha luogo quando scindiamo l’anima
dai sensi ed escludiamo le idee particolari e finite. Ma anche se la conoscenza
dell’universale e dell’infinito è il maggior grado della conoscenza intellettiva, essa
non è l’unica: esiste una conoscenza sensibile riconducibile all’apprendimento delle immagini prodotte dall’azione dei corpi sul nostro organismo e di questo sullo
spirito. Il senso, per Gravina, si limita ad avere per oggetto il corpo reale presente, l’intelletto qualunque essere a qualsiasi condizione; l’uno percepisce il suo
oggetto, l’altro lo coglie nella sua natura e lo giudica.
La trattazione delle problematiche filosofiche ed estetiche fa da sfondo all’esposizione del concetto di delirio. In Gravina esso viene affrontato come momento
di passaggio nella produzione del bello e come condizione raggiunta da chi fruisce
la sublimità delle opere d’arte. Il delirio diventa quindi lo stato necessario della
creatività geniale e della fruizione del bello14 . Il concetto di “esperienza creativa
delirante” include in sé gli strumenti di fantasia, immaginazione e ingegno tramite
i quali il soggetto creante (poeta-demiurgo) costruisce un mondo verosimile che
interpreta come vero. L’atto poetico della creazione si imbatte nella coscienza del
soggetto, in una infinita contraddizione tra il sentire intuitivamente un mondo “fantastico” e la volontà razionale creatrice che cerca di esprimerlo. Tale contraddizione, nel momento in cui raggiunge il suo massimo grado di espressione, conduce al
delirio e ha come risultante la conoscenza del vero. La teoria del delirio graviniana
deriva dalle vecchie teorie dell’entusiasmo e del furore, ma si distingue da esse per
il maggior accento filosofico posto sull’esperienza artistica, connotata da ebbrezza
13
In Gravina l’immaginazione è indagata nella dimensione artistica e diviene una sorta di medium attraverso cui si interpreta e rappresenta l’esistenza. Gravina ricorre all’immaginazione per
esprimere il non manifesto. L’immaginazione è la via d’accesso che Gravina segnala per stimolare
nello spettatore-uditore il processo mentale percettivo. La creatività è il luogo teoretico in cui si
realizza l’acquisizione del senso di bellezza per cui il soggetto realizza nel finito tutta l’assolutezza
di cui è creativamente capace (cfr. O. Borello, “Il pensiero estetico di G.V. Gravina e il problema
dell’autonomia dell’arte”, in Studi Graviniani, MIT, Cosenza 1965, pp. 90-116.
14 Władysław Tatarkiewicz nel saggio Storia di sei idee riconosce al Gravina il merito di avere analizzato il delirio non solo come condizione dell’artista ma anche come sentimento che si impossessa
del fruitore dell’opera d’arte.
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e gioia estreme se non addirittura eccessive15 . L’artista si identifica con il genio e
realizza il connubio finito-infinito. Egli, attraverso la dimensione artistica, domina
la natura pur essendone parte, staccandosi dal mondo vero per accedere in quello
finito.
Gravina paragona l’artista a Pròteo, poeta e natura al contempo. Pròteo elargisce responsi solo in determinate condizioni, legato e durante il sonno, in uno stato
di non coscienza16 . L’artista crea quando un’occulta forza si impadronisce dei sensi e della ragione e si stabilisce una situazione irrazionale, di delirio. Si genera
una sorta di ossessione tra l’artista e il suo prodotto. Il furor divinus è una forza
che trapassa dall’artista al fruitore17 . Il «colore di novità» che la poesia propone, produce nelle menti comuni quello stato di turbamento psichico e commozione
che le libera dalle «caligini»18 . Attraverso la purificazione dalle passioni, il delirio contribuisce al rinnovamento della vita civile: «Anfione e Orfeo risvegliarono
nelle rozze menti i lumi ascosi della ragione»19 . Gli spiriti illuminati non hanno
bisogno che il vero sia loro presentato in forma sensibile, perché sono ricettivi e
il loro intelletto è «aperto ai semi del sapere universale». L’arte libera dalle false credenze e dall’«opinion del danno». L’arte come forma di redenzione diventa
per l’uomo iter salvifico e la contemplazione estetica è una tra le più importanti
vie di liberazione. L’arte necessita di una contemplazione disinteressata delle idee.
Il soggetto contemplando queste ultime coglie gli aspetti universali della realtà e
diventa puro soggetto del conoscere. Il piacere provato durante la contemplazione
15
«Uno dei concetti fondamentali dell’estetica del Gravina è quello di delirio, termine con cui egli
definisce quello stato paranormale della mente, in cui le passioni, impadronitesi del controllo della
fantasia, portano lo spirito verso una condizione di esaltazione, di turbamento e di frenesia, al limite
della follia.» (W. Tatarkiewicz, L’Estetica moderna, Einaudi, Torino 1982, p. 148).
16 Gravina affianca il poeta a Pròteo, il dio omerico dell’Odissea fornito del potere di assumere
ogni forma desiderata: animale, stella, fuoco. . . Il poeta «qual Pròteo si converte in tutte le nature:
ora vola, ora serpeggia, ora tuona, ora sussurra; ed accompagna sempre l’immaginazione e il successo
coi versi suoi in maniera che fa preda delle nostre potenze, e si rende con le parole emulo della
natura.» (G.V. Gravina, Della Ragione Poetica, cit., p. 217).
17 Il furor divinus è un calore, un fuoco che non si dissolve nel tempo. «Poiché siccome questa
energia a vari anelli di ferro la sua forza comunica, sì il poeta, di calore divino agitato, agita chi da
lui apprende; e questi, col lume e col fervore che ha dal poeta appreso, come una lingua di fuoco
riscalda l’ascoltante.» (G.V. Gravina, Della Ragione Poetica, cit., p. 315).
18 Gravina sostiene che l’alterazione provocata dall’estasi della fruizione del bello, genera nello
spettatore una sensazione dolorosa in quanto espone quest’ultimo alla vera conoscenza della natura
umana. A questa segue un momento catartico legato al passaggio dallo stato di angoscia al piacere
del raggiungimento del vero. Confermando la funzione della poesia e descrivendo il modo in cui
le immagini poetiche conducono alla catarsi, Gravina considera quest’arte come l’unico mezzo in
grado di cogliere la bellezza e dunque la verità.
19 «È ben noto quel che gli antichi favoleggiarono d’Anfione e d’Orfeo, dei quali si legge che
l’uno col suon della lira trasse le pietre e l’altro le bestie; dalle quali favole si raccoglie che i sommi
poeti colla dolcezza del canto, poteron piegare il rozzo genio degli uomini e ridurli alla vita civile.»
(G.V. Gravina, Della Ragione Poetica, cit., p. 319). «L’artista quando crea asseconda un istinto di
espansione e assolve a un mandato educativo, egli è l’apostolo dell’intuizione. L’arte estende a tutti
e polarizza le intuizioni che altrimenti sarebbero privilegio esclusivo di pochi spiriti eletti; essa è
quindi la grande educatrice dei popoli.» (L. Stefanini, “Arte e vita nel pensiero di G.V. Gravina”,
Rivista di filosofia neo scolastica, fasc. 2, Roma 1920, p. 112).
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estranea l’individuo dalla sua condizione di dolore. Il piacere è la passione impadronitasi del controllo della ragione, che conduce lo spirito verso una condizione
di ebbrezza ed esaltazione. Attraverso l’arte anche l’uomo comune può accedere
allo stato d’animo proprio dell’artista nel momento dell’intuizione. Intuizione è
sinonimo di attività. Ogni intuizione si accompagna a un senso di commozione
e di entusiasmo che conferma la conquista realizzata. Gravina comprende l’importanza del linguaggio artistico della verosimiglianza proprio perché opera nel
fruitore una sorta di «sortilegio che diletta e svelle». Il «diletto» è la forma con cui
l’individuo esprime il proprio assenso, la reazione positiva all’arte. La gioia e il
piacere che egli manifesta rappresentano il «riconoscere», ovvero rapportare l’immagine al modello originale. Sostiene Gravina: «Per raccogliere il degno frutto
del sapere non è d’uopo piantare quanto svellere». Bisogna «svellere»: sradicare,
strappare l’erba maligna bevuta attraverso i sensi, bevanda composta per lo più da
opinioni false e superstizioni. Quando sarà estirpata «l’erba maligna», «i semi benigni» e universali del sapere lasceranno spazio alle vere cognizioni. Mediante la
verosimiglianza, la poesia rende presente per incanto la rappresentazione mentale
e le immagini percepite possono venire richiamate. L’imitazione del vero nel suo
aspetto sensibile, convive, nel pensiero di Gravina, senza alcuna difficoltà, con il
meraviglioso e il favoloso20 , arrivando a includere l’incanto di fate, orchi, giganti
e ippogrifi, con l’intuizione che salva molto del patrimonio tradizionale del poema
cavalleresco e dell’amato Ariosto21 . La poesia è espressione di un vero profondo,
capace dell’innalzamento contemplativo delle anime. Gravina parla di «imitazione
icastica», in cui la pittoricità, l’evidenza e l’energia devono ritrarre il particolare
delle cose:
Perciò toltene le parti nelle quali il poeta si propone di generar maraviglia,
la sua impresa è di rassomigliar il vero e d’esprimere il naturale con modi,
locuzioni e numeri adatti al soggetto che si è proposto, onde colui che più
gagliardamente esprime e con maggior vivezza e che più si fa presso la propria sembianza delle cose, porgendole avanti quali esse sono, riporterà vanto
20
Le antiche favole rappresentano un patrimonio vivo di sapienza e di simboli e secondo Gravina
costituiscono i temi soggetto ideali per un’arte che sappia coniugare il meraviglioso all’insegnamento. Per il filosofo la favola, «rassomigliando con finti colori le cose naturali e civili e tutto il mondo
apparente scopre l’invisibile e l’occulto e per ignoto sentiero conduce alla scienza». Gravina crede
che dall’Egitto le favole si diffusero in Grecia e da lì ovunque. L’importanza della favola, racconto
in versi o in prosa, risiede nel suo fine, che per il filosofo è di comunicazione sociale. Non è quindi
casuale che gli inizi di questo genere si riconducano a Esopo. Proprio Esopo è indicato come prodromo per trarre insegnamento dalla verità delle cose: «essere a tutti di esempio le favole di Esopo,
ciascuna delle quali è una ben savia legge del vivere civile. Perciò queste prima delle altre meritano
di essere lette, acciocché colla loro scorta si apprende l’arte di intrecciare sotto il finto il vero, per
ritrovarlo poi negli altri poeti.» (G.V. Gravina, Regolamento degli Studi, presso Francesco Gonzaga,
Roma 1699, ora in Scritti critici e teorici, cit., p. 198).
21 Ariosto è amatissimo dal Gravina che lo annovera tra i poeti più grandi. «Con mirabile felicità
l’Ariosto descrive minutamente le cose, dispiegandole a parte a parte e discoprendole intere. Con che
non solo nulla perde di grandezza, ma ne acquista maggiore di chi le descrive in generale, ed accresce
più con le voci e col suono, che con la rassomiglianza distinta nelle cose grandi.» (G.V. Gravina,
Della Ragione Poetica, cit., p. 321).
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maggiore. E chi più si dilata per li fatti ed eventi particolari dell’impresa che
tratta, trascorrendo per tutte le condizioni, persone ed età che la compongono
ed entrano in essa, farà più chiaramente risplendere la felicità del suo ingegno
ed otterrà il vero fine della poesia22 .
Il rapporto della poesia con il vero si presenta dunque nel suo doppio aspetto
morale ed estetico. La riflessione si appunta sui due momenti principali della creazione poetica: l’operazione di selezione dei dati offerti dallo sterminato territorio
del reale e le forme peculiari dell’arte poetica impegnata nella rappresentazione.
La selezione, in Gravina, può operare sia sul vero che sul verosimile e, allargando
la nozione di realtà, anche sulle immagini e sui simboli della fantasia. Se anche
il favoloso gode di una certa libertà, la parte imitativa della poesia ha davanti a sé
il compito di rappresentare le cose come sono nella loro commistione di toni e di
livelli. L’aspetto formale e retorico della questione, nonché il rapporto concreto
tra cose e parole, viene affrontato in termini di imitazione e il linguaggio più idoneo è, per Gravina, quello che maggiormente si avvicina ai discorsi di Omero e di
Ariosto, capaci di creare «l’incanto di verità». Attraverso le immagini sensibili e la
poesia, il sapiente-poeta mira a imprimere nelle menti rozze i concetti universali.
Ponendo l’accento sull’aspetto creativo e fantastico della poesia, implicito nell’accettata convivenza di meraviglioso e verosimile, Gravina formula e risolve, se pur
in modo non definitivo, i quesiti sui quali ancora oggi si interrogano e dibattono le
poetiche e le dottrine di estetica23 .
22
G.V. Gravina, Discorso delle Antiche favole, presso Francesco Gonzaga, Roma 1708, ora in
Scritti critici e teorici, cit., p. 365.
23 Gli scritti del Gravina, alla loro uscita romana dalla tipografia di Francesco Gonzaga, non furono salutati da grandi accoglienze. Probabilmente a molti non era gradita la punta polemica del
filosofo e neppure il suo tono, spesso ispirato e dall’accento spiccatamente sapienziale e mitico. Eppure, proprio qualche anno dopo, il Winckelmann si emozionerà davanti a certe pagine del Gravina e
in una lettera indirizzata all’amico e filosofo Berg, scriverà di preferire la Ragione Poetica a tutti gli
scritti di estetica. È parimenti grande l’entusiasmo del Foscolo che invita con forza l’amica Isabella
Teotochi Albrizzi a leggere il Gravina e la sua «opera egregia da cui ricavare mille tesori di sapere
letterario, pensata profondamente, ragionata finemente, dedotta esattamente, dettata elegantemente.»
(U. Foscolo, Epistolario, Le Monnier, Firenze 1953, lettera 829, p. 160). E parole di elogio sono anche quelle di Tatarkiewicz, uno dei più grandi storici dell’estetica del ventesimo secolo, che annovera
Gravina tra i pensatori che più hanno contribuito alla creazione e allo sviluppo di questa disciplina.
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