Cambiare le cose, cambiare il pensiero. Siamo oramai da tempo

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Cambiare le cose, cambiare il pensiero. Siamo oramai da tempo
Cambiare le cose, cambiare il pensiero.
Siamo oramai da tempo convinti che nessuna riforma della giustizia sia destinata al successo se
non si incide sugli equilibri ordinamentali. E per aprire spazi nuovi ai futuri equilibri non basta
cambiare le cose (le norme, i codici…), occorre cambiare anche i pensieri. O forse, non è possibile
cambiare le cose se non cambiando anche i pensieri. Una società matura, nella quale sia
sedimentata la consapevolezza che i diritti processuali dell’imputato siano il riflesso delle libertà e
dei diritti di tutti i cittadini, produce un sistema processuale moderno e liberale. Un paese nel quale
l’opinione pubblica sia orientata a pensare che le garanzie degli accusati riguardino solo i
colpevoli, produce evidentemente un sistema processuale primitivo ed autoritario, esposto alle
ingiurie del giustizialismo.
Per realizzare questo cambiamento occorre partire da una riforma dell’ordinamento. Avere un
giudice davvero terzo è condizione indispensabile per il funzionamento del processo. Ma, perché
cresca questa consapevolezza, occorre essere presenti in ogni discussione che riguardi la giustizia,
significa anche intervenire, dove questo sia utile o necessario, sui fatti di cronaca e soprattutto
essere presenti nei luoghi dove si forma la cultura e la sensibilità delle generazioni future, nelle
scuole, nelle università, ed in tutti i luoghi della elaborazione culturale, affinché la voce
dell’avvocatura penale sia sempre ascoltata e si contrapponga alle tesi di chi immagina e persegue
un modello di processo autoritario inteso come strumento di lotta ai fenomeni criminali e non di
accertamento delle responsabilità dei singoli, come indebito strumento di cambiamento sociale e
non invece come luogo di verifica delle accuse e di tutela dei diritti di libertà.
Occorre approfittare di ogni occasione di dibattito politico e culturale per intervenire in modo
autorevole, con un linguaggio semplice e diretto, utilizzando senza alcun imbarazzo, ed in modo
professionalmente e tecnicamente avveduto, tutti i moderni strumenti della comunicazione (new
media). Dove per “avveduto” deve intendersi la consapevolezza dell’inefficacia dell’uso di tali
strumenti che sia disgiunto dalla realizzazione di un progetto politico.
Questo non significa che non si debba percorrere, nei luoghi della politica e dell’elaborazione
normativa, la via delle interlocuzioni e delle mediazioni, ma tale indispensabile ed insostituibile
interlocuzione di natura tecnica deve essere inevitabilmente accompagnata da un complessivo
sforzo di presenza dell’UCPI nella intera società, per far maturare le condizioni di un radicamento
di idee nuove e diverse su quello che è, e che necessariamente deve essere, lo stretto vincolo fra
processo penale e società. Su ciò che deve essere un Giudice in una società in grande cambiamento
nella quale la richiesta di Giustizia ricopre spazi inusitati.
In tal senso non può dunque attendersi che sia la politica a spostare in avanti i limiti delle riforme
ordinamentali, sino ad abbracciare un tema, fino ad oggi ritenuto (troppo) divisivo, quale
certamente è quello della separazione delle carriere. E ciò non solo perché si tratterebbe di lasciarsi
dettare l’agenda su di un tema che appare fondamentale per la riforma del processo penale, ma
soprattutto perché in questa riforma l’UCPI non può essere una forza aggregata, comprimaria,
subalterna a questa o a quella forza politica, ma deve porsi come motore, e come attore principale
di un progetto al quale saranno le forze politiche a dare il loro sia pur fondamentale appoggio. Un
referendum, o strumenti alternativi di rilancio politico come la elaborazione di una proposta di
legge di iniziativa popolare, che vedesse nell’UCPI il soggetto promotore, sarebbe la straordinaria
occasione per aprire un nuovo indispensabile spazio di discussione e per cambiare le cose
cambiando il pensiero…
Perché risulta oramai piuttosto evidente come nella nostra società la questione della “separazione
delle carriere” assuma una declinazione nuova ed assai più complessa, che non investe più solo la
garanzia del giudice terzo, ma finisce con il coinvolgere l’intero assetto degli equilibri istituzionali
ed ordinamentali che nel volgere di pochi anni ha subito un progressivo deterioramento e
disallineamento, con la creazione di nuove figure ibride che si pongono del tutto al di fuori degli
schemi classici della divisione dei poteri, che cumulano tutta la irresponsabilità del potere
giurisdizionale e tutto l’armamentario del potere esecutivo, secondo gli schemi della cd.
“governamentalità” come forma alternativa di esercizio del potere che induce a presidiare tutti gli
spazi del controllo economico e sociale all’interno dei gangli vitali della amministrazione,
evitando la responsabilità della politica ed i limiti di competenza del potere esecutivo. Piuttosto
che ricorrere alla formazione di un giudice terzo, si va componendo l’idea - come è stato
efficacemente osservato - che sia meglio chiamare un “terzo” a fare da giudice, con il risultato che
accertamenti e decisioni di straordinario rilievo sociale ed economico vengono regolati al di fuori
degli spazi propri della giurisdizione e che al tempo stesso la giurisdizione (assunta la veste
ambigua dei vari “assessori alla legalità”, e di organismi anticorruzione), invada e gestisca spazi
propri ed esclusivi della politica.
Ma al tempo stesso si modificano anche gli equilibri che dovrebbero presidiare la separazione fra
potere legislativo e giurisdizione, e, sotto il nome etereo di quell’eterogeneo strumento delle
“autoriforme”, si va instaurando una prassi degenerativa che sottrae di fatto al Legislatore spazi e
competenze che gli sono propri. Ciò che appare ancor più grave è che, da un lato, siano ordini ed
organi, quali le procure ed il CSM, gangli fondamentali dell’organizzazione e dell’ordinamento
giudiziario, ad operare tali invasioni di campo, e che dall’altro la politica, piuttosto che insorgere,
plauda a tali iniziative, come se fossero prassi virtuose da assecondare e da promuovere. Da una
parte il CSM apprezza il lavoro delle singole Procure che producono circolari in materie sensibili
quali quelle dei rapporti fra media e processo, o quelle della esecuzione e della diffusione delle
intercettazioni, assumendo il ruolo del tutto improprio di legislatore-coordinatore, dall’altra il
Governo e Parlamento apprezzano espressamente (o tacciono del tutto) di fronte a tali indebite ed
inaudite iniziative, contenti che gli si sottraggano scottanti materie di confronto e di assunzione di
responsabilità politica.
Per recuperare, dunque, un nuovo e diverso equilibrio, non basta più soltanto separare le carriere,
ma occorre un riassetto complessivo della giurisdizione, perché oggi quelle carriere non sono più i
luoghi esclusivi nei quali si ridefiniscono le competenze della giurisdizione, ma sono divenuti gli
strumenti complici di un nuovo dis-ordine istituzionale, per cui la separazione delle due diverse
magistrature non può essere a sua volta che il passaggio ineludibile di un potenziamento della
figura del giudice, di un suo riassetto complessivo, di un potenziamento della sua indipendenza ed
autonomia, e di un recupero di tutte le competenze che le sono proprie, con la consapevolezza che
il recupero di tale competenza, indipendenza ed autonomia non può essere efficacemente
perseguito, se non si recidono tutti il legami ordinamentali che insidiano i rapporti fra politica e
giurisdizione e fra magistratura e amministrazione, se non si eliminano tutte le figure ibride che
dovrebbero essere poste a presidio della legalità, e se non si restituisce interamente al Parlamento
l’esclusiva competenza di regolare con le proprie leggi, non solo tutti i gangli più sensibili della
giurisdizione ma anche, e soprattutto, quell’organo che, inammissibilmente, con la sua presenza
onnivora e straripante, autonomamente ed arbitrariamente governa entrambe le magistrature.
Si tratta di temi culturali importanti e di un impegno politico che presuppone sin da ora una
discussione aperta a tutti gli iscritti ed una mobilitazione generale che non può che realizzarsi
attraverso il lavoro di tutte le Camere Penali territoriali, per la elaborazione delle iniziative ritenute
più opportune (incontri con studenti delle scuole superiori e delle università, contatti con le
categorie professionali e dei lavoratori, con enti ed associazioni culturali e territoriali, partiti
politici, sindacati e movimenti, con l’intero mondo dell’informazione e degli operatori di tutti i
mezzi di comunicazione).
Roma, 12 marzo 2016
La Giunta