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AFTER
UTOPIA
a view on Brazilian contemporary art
Brígida Baltar
Cadu
Waltercio Caldas
Marcos Chaves
Marcelo Cidade
Eduardo Coimbra
Leandro da Costa
Antonio Dias
Fernando A
Andrè Komatsu
Guto Lacaz
Marcellvs L.
Marepe
Cildo Meireles
Vik Muniz
Ernesto Neto
Rivane Neuenschwander
Oscar Niemeyer
Hélio Oiticica
Matheus Rocha Pitta
Thiago Rocha Pitta
Daniel Senise
Eduardo Srur
Ana Maria Tavares
Janaina Tschäpe
Mary Vieira
Laura Vinci
www.centropecci.it
Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci
La mostra indaga una dimensione peculiare della scena creativa brasiliana,
Presidente Valdemaro Beccaglia
Direttore artistico Marco Bazzini
selezionando opere di ventisette artisti che rendono l’arte un terreno di scambio.
Una sospensione di tempo e spazio dove l’unica chiave d’accesso
è la nostra modalità di interrelazione con essa.
Il percorso espositivo analizza l’arte brasiliana come se fosse un riflesso della
propria identità d’origine, un effetto che ha superato qualsiasi stereotipo stabilito
e poi conferito dalla cultura europea. La mostra trae spunto dalla metafora
e dalla realizzazione di una delle più grandi utopie mai concepite:
la città di Brasilia. Un posto senza luogo che ha visto l’idea di una élite diventare
mostra a cura di
Atto Belloli Ardessi con Ginevra Bria
Prato, 25 ottobre 2009 – 14 febbraio 2010
con il patrocinio di
in collaborazione con
un centro di potere reale. Brasilia è stata concepita come il punto
di contatto tra il Brasile Arcaico e quello Moderno, mondi che però restano
ad oggi ancora sconosciuti e incompresi.
Ma Brasilia in quanto tale non sarà oggetto della mostra. Lo sviluppo della sua
utopia, attraverso l’ultimo progetto firmato da Oscar Niemeyer, diventerà un modo
per comprendere come l’arte contemporanea brasiliana rappresenta lo spazio.
Facendolo diventare un simbolo del futuro pianificato e superato, un luogo
che trasforma il tempo.
mostra promossa da
Gli artisti selezionati ripropongono un’utopia brasiliana non così com’è stata
concepita, ma in uno stato di superamento e di uscita da essa. In questo luogo
l’arte sarà un’utopia risolta, pronta a tornare progetto di una città apparente,
con il contributo di
un luogo irrealizzabile che si solidifica con l’opera attraverso principi universali.
Quel che rimane dopo l’utopia è dunque il luogo dell’assenza, di ciò che
con il sostegno di
è per sottrazione, perché il raggiungimento di un’idea oggi non presuppone
più attesa, speranza e perfezione.
L’arte contemporanea brasiliana sviluppa oggi una differente utopia non più come
partner ufficiale
progetto di autori, ma come processo estetico che combatte per la sua affermazione,
per la sua liberazione, la sua rappresentazione terrena e la costruzione di una nuova
media partners
società di giustizia e di uguaglianza di idee. Quella stessa società che non verrà più
trasformata dal progetto di un autore, ma solo da un largo movimento interiore.
SALA 0
Marcos Chaves (Rio de Janeiro, 1961). Vive e lavora a Rio de Janeiro.
Utopia, per Marcos Chaves, è quel termine che esclude completamente dal
discorso sulle cose la definizione di univocità. L’Utopia, nei suoi progetti, prima di essere mera teoria, affranca l’oggetto dallo spazio, estraendolo dalla
propria appartenenza ad un solo luogo, mentale e fisico. Lo humour spontaneo trasmesso dall’artista, permette sempre di intravedere un dove concreto
e di escludere, dalla pratica dell’arte, qualsiasi deludente illusione, qualsiasi
crollo delle ideologie.
Dentro nessun luogo, infatti, il tripudio umoristico è il posto in cui l’utopia
perde di vista imposizioni, costrizioni e promesse. L’agio con il quale la sua
installazione murale, composta da segmenti gialli e neri, diventa segnaletica,
permette al registro scopico dell’osservatore di prendere una direzione precisa.
Una direzione verso l’opposto. Per Chaves l’urgenza di alterare il territorio
della possibilità esclude che la sola società dell’ideale individui l’uomo e lo
centri nel complesso delle proprie attitudini.
Per Chaves l’arte deve essere pubblica e disponibile; e più questa trasforma
il punto di vista, più velocemente si raggiunge la posizione ideale: pedana rialzata dalla quale non si insegna e non si impara, se prima non si interferisce
con il significato luminoso della parola esistere.
Marcos Chaves, Fontana (serie logradouro), 2006
SALA 01
Antonio Dias (Campina Grande, Parahiba, 1944). Vive e lavora tra Rio de Janeiro, Milano, Colonia.
Waltercio Caldas (Rio de Janeiro, 1946). Vive e lavora tra Rio de Janeiro e San Paolo.
Nel buio scenico di Antonio Dias è in gioco la comprensione dei confini. Dei
perimetri che misurano la soglia tra chi guarda e chi è guardato, sul territorio dell’opera d’arte. Il linguaggio è per lui un medium inglobante, posto
all’interno stesso del campo di intercettazione dell’osservatore. La parola,
per l’artista brasiliano, è uno strumento di cui disporre orizzontalmente, per
raggiungere un territorio altro e per definire gli orli di peculiari meccanismi
rappresentativi. Army, Memory, Country, Monument, infatti, chiudono lo spazio segnico che Dias indica come esperienza spontanea del mondo. Nei lavori
esposti dunque, non c’è alcun bisogno di aiuto intuizionistico: ci si trova,
infatti, di fronte ad un vuoto da significare.
L’utopia, in O pais Inventado, assume, invece, la forma del dialogo e della sua
reciprocità, mosse giocate da più individui che cercano di intendersi e di far
emergere, nelle differenze di una bandiera rossa, la comunità a venire.
Intervenire sullo spazio, per Waltercio Caldas significa giocare sul vuoto e
sul suo infinito, tra limiti e possibilità. La messa in scena della simulazione
permette all’artista di individuare con rapidità le trappole visive nascoste tra
la seconda e la terza dimensione, tra il linguaggio e la poesia.
Lugar para uma Pedra Mole dimostra, con una sintesi di eccezionale rapidità,
come l’architettura dell’interpretazione trovi saldo fondamento sulla descrizione. Una serie sincopata di numeri zero, intagliati con tutti i legni del Brasile,
circonda le pareti della stanza. Davanti agli occhi di chi si trova in mezzo
scorre la visualizzazione di un numero indeterminato, senza inizio né fine.
Una cifra a tanti zeri. Lungi dunque dal restituire un censimernto economicobotanico del Brasile, descrivendo questa particolare dimensione così com’è, il
lavoro di Caldas mira piuttosto a traslitterare la realtà impossessandosene.
Cildo Meireles (Rio de Janeiro, 1948). Vive e lavora nel mondo.
Le opere di Cildo Meireles sono terreni segnaletici di un momento storico importante per l’arte brasiliana post-coloniale. L’artista non ha mai difeso la sua
nazionalità d’origine, attraverso il proprio operato. Le piccole cose quotidiane,
estratte dal loro contesto come monete, bottiglie, mannaie e metri sono
accumulate in maniera improbabile in centinaia di migliaia di pezzi. Presi
assieme essi quantificano il fatto che ci sia sempre una forza che si automantiene nell’atto dello stratificare. Anche quando, come in Zero Cruzeiro/
Zero Centavo (1974-78), Zero Dollar (1979-84) e Zero Cent (1984), Meireles
ha prodotto monete e banconote contraffatte. Ognuna di esse ha l’aspetto di
una valuta vera e propria che non lascia adito ad alcun sospetto caricaturale.
I dollari senza alcun valore sono contrassegnati dalla parola zero e certificati
dalla firma dell’artista, vero e proprio Segretario di Stato che legittima anche
la ben nota icona di reclutamento americano Uncle Sam.
Antonio Dias, O País Inventado, 1976. Foto: Gabriele Basilico
SALA 02
André Komatsu, AK 47, 2009
Andrè Komatsu (São Paulo, 1978). Vive e lavora a San Paolo.
L’artista inventa presidi minimali che mantengono attivo lo stato di vigilanza
(Alaska). Prepara rifugi fai-da-te con i materiali trovati per la strada. Costruisce muri come pareti, fatti per riflettere differenze e diversità sociali brasiliane
(AK 47). Il suo nome è Andrè Komatsu. Portavoce delle soluzioni che abbattono
e che richiamano al presente da cambiare. La pratica del costruire immediato,
senza concedere troppo spazio all’invenzione, conferisce al processo utopicocompositivo di questo giovane artista un segno autoritario e, assieme, libertario. Le sue visioni portano sempre ad attribuirgli utopie positive che cioè prefigurano un mondo ritenuto migliore di quel che lo circonda. Le sue strutture
autonome si caratterizzano per alcuni fondamentali elementi comuni. Il primo
di questi è dato dalla volontà rivoluzionaria di Komatsu, poiché è dalla volontà
di mutare un mondo sentito come estraneo e sbagliato, che chi immagina,
o fa propria, un’utopia, parte per avventurarsi nella descrizione di un mondo
pacificato, basato principalmente sul ritrovamento della propria sicurezza.
Cadu (São Paulo, 1977). Vive a Rio de Janeiro.
Basata su un’acuta ricerca speculativa e sistemica, la pratica artistica di
Cadu indaga l’esperienza del segno come luogo visibile e lineare della distanza (misura stabilita dal tempo). La possibilità di verifica del fenomeno avviene qui attraverso l’artificio meccanico e la potenzialitá sperimentale della
sua misurazione, contrariando lo strettamente razionale con l’infinitamente
formale. Attraverso i suoi meccanismi la scienza registra il moto sull’abisso
del tempo. In questo modo Cadu impone la propria autenticità: seguendo
un arresto che rende eterno il momentaneo, poiché proprio la caducità intrattiene eccellenti rapporti con la linearità geometrica. L’autore costruisce i
propri progetti astraendoli e riducendoli ad una serie di segnature veridiche,
per ricorrere alla sovrapposizione di strati grafici, né letterali e né metaforici.
Prendendo la comprensione della natura come una delle tesi inizialmente poste, l’artista crea un’architettura di blocchi visivo-concettuali che si traducono
nella costituzione di una elaborata nozione di transitorietà.
SALA 03
Marepe (Marcos Reis Peixoto, San Antonio de Jesus, Bahia, 1970 ).
Vive e lavora a San Antonio de Jesus.
Marepe esclude dal proprio fare-arte il confine necessario posto tra Poesia
e Utilità. Gli oggetti che lo circondano, e che lo incuriosiscono, si trovano
fra le strade di Bahia, tra la sua gente, i suoi negozi, le sue stranezze e i
suoi abbandoni. Egli, proprio come in O telgado, pone negli oggetti che crea
delle distanze tra il significato e la sua trasformazione linguistica, svelando le
misure di sicurezza che intercorrono tra la dimensioni del gesto e gli sviluppi
della trasformazione. Se è logico, dunque, dare un tetto a chi ne ha bisogno è
ancor più linguisticamente corretto aspettarsi che quella stessa struttura possa corrispondere alla casa universale, surrogato imperfetto di chi la richiama
a mente. La sua, dunque, più che una sfida ai codici istruttori dell’arte contemporanea, europea e americana, è un’operazione di abbattimento pacato
delle differenze. Un annullamento delle diversità che separano le invisibili
frontiere tra arte e vita.
Thiago Rocha Pitta (Tiradentes, 1980). Vive a Rio de Janeiro e a San Paolo.
Cadu, Idades, 2004
C’è qualcosa di ambiguo fin dall’origine, nei video di Thiago Rocha Pitta. Egli è
il solo artista, in mostra, a utilizzare la natura del tempo per rendere manifesto
un luogo che deterministicamente non esiste. Un altrove che per essere connotato deve essere seguito in ogni minimo dettaglio, fino alla sua resa Reale.
L’utopia di una Nuova Terra, per Thiago Rocha Pitta rievoca un certo consenso
incondizionato, in chi osserva. Ogni suo video corrisponde ad una modalità, ad
un’economia dello sguardo che però rivela come altre possibilità debbano realizzarsi. È su questa pretesa che Rocha Pitta presenta un mondo perfettamente
razionale (Abyss beneath Abyss), e, in quanto razionale, imperfetto, equazione
che è propria dei maggiori interrogativi sulla vita contemporanea. Un cambiamento globale (Cumplice secreto) è una visione irrealizzabile, è una previsione
di equilibrio non controllabile per definizione, perché variabili in gioco restano
nella logica dell’azione, dove interferenze e modifiche della presenza umana
creeranno il senso per un nuovo significato dello spazio e del tempo.
SALA 04
Laura Vinci (São Paulo, 1962). Vive e lavora a San Paolo.
Non c’è spazio per il tempo, scrive Laura Vinci sulla parete, lasciando che
le parole scompaiano dal metallo, per finire sotto una lenta coltre bianca.
Una lenta coltre bianca di ghiaccio. Con questa installazione l’artista diventa
conscia delle forze che sottostanno ad un territorio lontano, uno scenario
scoperto, con rassegnazione, ben oltre se stessa. Una terra linguistica tra
lo spazio e il tempo. Il suo ruolo di plasmatrice intransigente le permette di
costruire strumenti che ritrasformino l’energia utilizzata, altrimenti dispersa,
in un fenomeno che potrebbe avvicinarsi ad un’esperienza percettiva globale
e non solo visiva. La frase fusa nel metallo, dopo aver subito un processo
meccanico di raffreddamento, è un incrocio di forze del tempo. Energie che
sono andate fondendosi ed espandendosi, sulla parete, sotto forma di lemmi.
Sintagmi sopravvissuti ad un’apocalisse dimenticata e dispersa dietro ore e
di minuti di raffreddamento.
Vik Muniz (São Paulo, 1961). Vive e lavora tra New York e Rio de Janeiro.
I racconti visivi, in vero rilucenti still life, di Vik Muniz sono storie nelle storie,
sono una reazione giocosa e rassicurante all’irrazionalità isterica che le nostre abitudini sprigionano.
I primi lavori esposti in mostra, provengono dalla serie The Prisons of invention,
sono rivisitazioni fotografiche di luoghi ideali, tratti dalle note acqueforti di
Giovanni Battista Piranesi. Dalla metà del Diciottesimo Secolo le viste impossibili, strazianti e imponenti delle prigioni romane sono cresciute in maniera
subdola alimentando, nell’immaginario collettivo, mondi cupi e opprimenti,
oggi ben connotati. Enormi scaloni, archi, travi portanti, anelli e catene incombono filtrando l’aria e respingendo la luce. Forze silenziose che lasciano
crescere il punto di vista dell’osservatore dal basso si insinuano, affiorando.
In secondo piano, mentre legno e la pietra monumentalizzano la loro statura,
le mura spesse salgono come fumi, offerte devote nel tempio del terrore.
Vik Muniz, Trauma Cube, 1992
SALA 05
Hélio Oiticica, Nas Quebradas, 1979
Brígida Baltar (Rio de Janeiro,1959). Vive e lavora a Rio de Janeiro.
La polvere di mattone, stesa a terra, segna e disegna gli angoli della stanza. Linee dritte ed evoluzioni fiorite lasciano traccia composta di sé, sineddoche effimera del pulviscolo arancione. Dagli angoli affiorano impronte che avvicinano
chiunque per tenere quel medesimo chiunque a distanza. Damaschi e mattoni
sottolineano una volta di più da dove partono, quando si toccano e poi dove
finiscono i muri, dando vita a ricoveri protetti. Né deserti casuali né formazioni
di scarto. Nei lavori di Brìgida Baltar lo spazio indica la chiusura, l’apertura o
semplicemente il passaggio verso un mondo diverso. Un altrove utile, un’utopia
liberata nella quale la polvere di mattone è indice descrittivo, è elemento attivatore che prefigura l’orizzonte interno del reale, dove l’uomo respira e calpesta.
Il mattone, infatti, reso impalpabile, innocuo e poi portato allo scoperto non
seppellisce ma rievoca, diventando porzione opaca della memoria.
Hélio Oiticica (Rio de Janeiro, 1937-1980).
Molte delle opere che Oiticica sviluppa nei suoi ultimi anni di vita a Rio de
Janeiro possono essere lette come attivazione della sua capacità di sovrapporre geografie: in Nas quebradas (Su per le stradine), del 1979, Hélio Oiticica
costruisce un passaggio impervio in pietrisco, tipico della favela carioca, all’interno di una sala espositiva di San Paolo. Il Penetrabile PN28 Nas Quebradas,
sposta all’interno dello spazio espositivo l’esperienza di camminare per le stradine di una favela. I sassi formano una salita che conduce a una cornice aperta
e tridimensionale, fatta con lo stesso materiale di costruzione delle baracche.
Mentre tenta di “salire su per la stradina”, il partecipante scivola, affonda nei
sassolini, immerge il corpo nell’opera. Se nei Bolidi degli anni ‘60 il partecipante
affondava le mani in sassi e conchiglie, in Nas Quebradas è tutto il corpo ad
affondare nei sassi che trasbordano per la stradina, ed è ciò che rende Nas
Quebradas un Bolide Penetrabile.
SALA 06
Daniel Senise (Rio de Janeiro, 1955). Vive e lavora a Rio de Janeiro.
Nelle modulazioni prospettiche di Daniel Senise non c’è scampo per la fuga.
I suoi dipinti sono gabbie geometriche lungo le quali l’occhio deve continuare
a correre, per rimanere in posizione eretta. Il suo modo di intagliare lo spazio,
estraendolo dalla lamiera bianca o dalla tela grezza, è un gesto radicale. Un
segno instancabile marchiato più e più volte, per forzare il limite dell’orizzonte. Tra l’astrazione anaerobica e l’impressione figurale, ciascuno dei suoi
dipinti non racconta ma rappresenta. I lavori di Senise, prima di giungere alla
sua ben nota, seppur recente visualità strutturale, sono passati attraverso
diverse fasi di processo formativo, donando all’artista, alla fine del proprio
percorso, la sapienza formale della tecnica. L’effetto sognante dei contenuti
pittorici crea un velo di stacco, un contrasto nascosto, rispetto alla linearità
acuminata e ipnotica dei profili (trasferiti sul supporto senza i doveri dell’esistenza e poi incastonati perennemente nelle composizioni).
Matheus Rocha Pitta (Tiradentes, 1980). Vive a Rio de Janeiro e a San Paolo.
Matheus Rocha Pitta è un cercatore paziente. La video installazione presente in After Utopia utilizza gli espedienti del cinema d’azione, della fotografia e anche, seppure in minima parte, della letteratura di genere, per
interrogarsi sulla capacità dell’immagine di riverberare e veicolare fenomeni linguistici e narrativi. La realizzazione video descrive l’unione, la scomposizione in pezzi e la sovrapposizione di due Ford Escort. Drive Thru #2,
dunque, mostra le procedure usate da ladri di automobili, per dissezionare
le macchine e per venderne i pezzi; avvicinando a queste operazioni anche
il linguaggio che la polizia brasiliana usa per mostrare i beni confiscati. Il
processo può sembrare simile a un’imbalsamazione del reale, effettuata di
contrabbando, un simbolo pseudo-scientifico di un’era duplicata, interdetta
e sigillata.
Matheus Rocha Pitta , DRIVE THRU # 2, 2009
SALA 07
Janaina Tschäpe (Munich, 1973). Vive tra New York e Rio de Janeiro.
Janaina Tschäpe è l’unica artista presente in mostra a non vantare origini brasiliane. La sua lunga residenza in Brasile, però le ha permesso, di rielaborare, rileggere e interpretare con eccezionale profondità l’influenza della Natura
sull’uomo; sensazione che immancabilmente marchia, travolge e infine sbaraglia chi non ne nasce in mezzo. I progetti di quest’artista sono il risultato di una
prassi costante che prevede l’intromissione organica di segni della femminilità
all’interno dell’ordine dei cicli naturali. Il suo approccio performativo nei confronti delle leggi biologiche svela un universo indotto, creato con grazia e perfezione, regno nel quale giacciono sottese regioni dell’immaginario. Nell’area di
intervento della Tschäpe natura e natura umana si condensano seguendo un
processo linguistico conciso, seppure in completo divenire. Per l’artista mettere
in scena se stessa, attraverso la creazione di ecosistemi artificiali, significa attivare un discorso che non si emancipa rispetto alla complessità degli ambienti
in cui si immerge, ma vuole solamente percepirne le forze.
Fernando A (São Paulo, 1976). Vive e lavora in Brasile.
L’opera di Fernando A ridetermina i limiti dello spazio, esercitandoli. Il suo
sguardo artistico è preciso, senza pregiudizi. Il suo percorso documenta una
storia degli spazi, una storia di poteri, ancora tutta da scrivere, un principio
senza fine che va dalle grandi strategie della geo-politica alle meravigliose soluzioni dell’arrangiarsi, dalle grandi architetture dei secoli al design della grafica,
passando attraverso le costruzioni dell’economia e della politica brasiliana. La
fotografia, secondo il suo sguardo, è potere di definizione, poiché riesce a palesare dettagli e a creare una nuova organizzazione del registro visivo, nel limite di
un dato formato di tale insistenza. Il collegamento tra le immagini e la possibile
dimensione dello spazio con le sue diverse implicazioni è meno forte di quanto
non sembri. Particolari e superfici, colori e forme, relazioni architettoniche e
densità atmosferica dominano questo mondo figurativo che unisce in sé gli
spazi più diversi: dalla messa in scena di tipo sacro alla linearità funzionale.
Fernando A, Protege-Me de mim mesmo/Proctect me from myself, 2005-2009
Ernesto Neto (Rio de Janeiro, 1964). Vive e lavora a New York.
Le sue installazioni sono il risultato di continui rimandi, frequenti citazioni
e instancabili incursioni nelle imprevedibilità delle forme organiche. I suoi
progetti reinterpretano allegoricamente la natura umana e il regno vegetale, tra le micro-dimensioni della botanica e le macro-strutture della fisica
quantistica, ricreando veri e propri luoghi per la forma. Lunghe papille di
velo e spezie, ormai icone del lavoro di Ernesto Neto, filtrano quel che si
trova attorno calandosi dall’alto. Racchiuso nel ventre odoroso di questi
luoghi in-corporei, chi osserva si trova davanti alle differenze tra i concetti
di interno e di interiore. Con i lavori di Ernesto Neto il tempo di risposta
alla sensazione riscopre un poi, un attimo successivo nel quale il modo di
vedere le cose (che ha portato alla fondazione dell’estetica) non può più
venire meno. Il centro del corpo, in Eu e Minha partes, sfida dunque la
scienza delle unità di misura, mettendo in discussione la posizione, talvolta
inerme, dell’uomo che, chiuso nel costato di velo, rimane precipitato nella
propria individualità.
Rivane Neuenschwander (Belo Horizonte, 1967). Vive a Belo Horizonte e lavora a San Paolo.
Rivane Neuenschwander domina con incredibile fermezza il materiale visivo che raccoglie, trasformando la macchina da presa in un elemento
impalpabile, in un elegante tramite sensoriale. Nei due lavori video, tanto in
Contingent, quanto in Quarta-Feira de Cinzas, l’artista brasiliana abbandona la modalità, a lei cara, che prevede, all’interno del proprio lavoro, l’intervento partecipe ed attivatore da parte del pubblico. Quel che ne consegue
è la composizione di paesaggi racchiusi e intimi, veri diorami en plein air.
Nel video dal sapore documentario e dal titolo Quarta-Feirade Cinzas, un
piccolo esercito di formiche mette in scena la rappresentazione allegorica
di un colorato carnevale, di una festa tradizionale brasiliana. Il corteo forma
una lunga parata di confetti, di tutti i colori che illuminano ogni fotogramma. Grazie ad un montaggio perfetto e ad un registro sonoro intradiegetico
ben orchestrato, l’occhio dell’osservatore segue con completa attenzione il
tragitto delle formiche, debilitate spesso dal peso dei loro trofei cromatici.
Ernesto Neto, Eu e Minhas Partes, 2008. Foto: Eduardo Ortega
SALA 08
Marcelo Cidade (São Paulo, 1978). Vive e lavora a San Paolo.
Marcelo Cidade è un millitante utopico, un osservatore d’estrazione ribelle
che registra i moti umani, intimi, negli spazi dedicati alla vita pubblica. L’orbita artistica che tocca la sua poetica, la sua dichiarazione di osservatore
parallelo, è solo un altro modo, per lui, utile ad impedire che l’eccessiva
tecnologia concluda la premeditata distruzione dell’essenza umana. A livello
compositivo, l’inconciliabilità tra esterno e interno raggiunge il suo massimo
nel ribaltamento di Espaço Entre. Nella progettazione di quest’opera quattro
palpebre di saracinesca nascondo al loro interno, quasi fossero uno scrigno, i graffiti che di solito vengono lasciati sul fronte-strada dei medesimi
supporti. Le tag e le combo di una sola crew, formata da writer italiani e
diretta dall’artista brasiliano, consente di riprodurre un microclima gestuale
che dona all’intervento un alto grado di relazione e di sintesi. In ogni suo
lavoro rimane attivo il principio etico e politico secondo cui l’uomo può e
deve superare i limiti del capitalismo tecnologico, aspirando ad una società
più degna, nella quale si possa vivere in maggiore libertà e in modo meno
controllato e standardizzato.
Leandro da Costa (São Paulo, 1973). Vive e lavora a San Paolo.
Marcelo Cidade, Espaço Entre, 2008
Piccoli oggetti senza più segreti, senza più nomi, disseminano la pratica del
suo sentiero artistico. Specchi che non ci vedono più (Espelho#2). Sedie che
hanno tagliato corto con le attese (Sèm titulo). Magliette ridotte a strisce
lunghe e strette (Sèm titulo). Pentagrammi che si interrompono nel bel mezzo
(Sèm titulo). Bicchieri per riparare a litigi (Mais um brinde). Muri senza spina
dorsale. E ancora: scarpe che riflettono il cielo e infradito fatte per tenere i piedi
ben piantati a terra. Quella di Leandro da Costa è una grammatica immaginativa creata per la traslitterazione anonima degli oggetti d’uso quotidiano. Un’isola del linguaggio, dove, per ogni verso pensato, fiorisce una cosa non-mediata
dalla parola. Parlare per utopie, dunque, rispetto al repertorio inventivo di questo giovane artista brasiliano, è ritrovare un’altrettanta Utopia. È costruire un
percorso mentale fondato su nessun luogo, su nessuna definizione.
Eduardo Srur (São Paulo, 1974). Vive e lavora a San Paolo.
Eduardo Srur usa le dimensioni della conformazione urbana per indagare
l’efficacia di nuovi medium artistici. Egli individua alcuni spazi pubblici e li
designa a supporti significanti, superfici che intervengono direttamente sul
linguaggio quotidiano per interromperlo. Srur sviluppa progetti che entrano
nella realtà inventando un corollario visivo parallelo, che affianca la potenza
pervasiva delle telecomunicazioni e i vuoti ad essere della globalizzazione.
L’artista interviene sul territorio brasiliano sfruttando le sue utopie come fossero materiale spento dal quale cercare di ottenere una risposta emotiva: un
miscuglio reattivo fatto di curiosità e meraviglia. Le sue invenzioni artistiche
diventano una costante azione di segnalazione pubblica che si fa carico di
esprimere un messaggio estetico di tipo pop. La bellezza della distanza viene
sfruttata in ciascuno dei suoi lavori (da Pets ad Acampamento do Anjos) per
definire un senso di perdita non-scritto e quasi mai sublimato dal paesaggio
dell’Artificiale.
Guto Lacaz (São Paulo, 1948). Vive e lavora a San Paolo.
Un lavoro come quello di Guto Lacaz, rappresenta in mostra, la prassi del
disincanto, contributo che ripensa l’arte e i suoi intermezzi, adagiandola alla
verità dell’invenzione, alla bellezza della risoluzione e all’irriverenza dell’idea.
Accreditato guru del circuito off dell’arte contemporanea brasiliana, più nobilmente definito umorista plastico, Lacaz espone in mostra quattro fotografie
relative ad alcune delle sue performance; azioni a porte chiuse che destabilizzano tanto l’uomo-artista quanto il sistema-macchina. Immortalati in posa
grottesca. L’idea divertita di luogo del niente viene utilizzata da Lacaz per
fare emergere il fatto che ogni cosa creata dall’artista sia un ready-made
in attesa d’essere re-made, restituito, cioè, al mondo logico della materia. Il
suo percorso artistico, fatto di sperimenti grafici, di installazioni al limite tra
la storia dell’arte e i fondamenti della Fisica, smentisce i sogni e le promesse, tanto da non contemplare le esacerbate finzioni delatorie del dispotismo
creato dal mercato.
Guto Lacaz, Cena do espetáculo Máquinas III, 1993/2008, 2. Foto: Rômulo Fialdini
SALA 09
Eduardo Coimbra (Rio de Janeiro, 1955). Vive e lavora a Rio de Janeiro.
È possibile analizzare l’opera di Eduardo Coimbra a partire dal livello delle innovazioni formali che egli ha apportato. Ma non basta. Piuttosto, è d’obbligo
rivelare un indicatore che segnali un ritorno forte di Coimbra all’autonomia
espressiva e intenzionale del territorio-arte. Le innovazioni da lui applicate infatti sono state di stimolo per una generazioni di giovani artisti che hanno visto nel futuro una possibilità di nuove partecipazioni, di nuove emancipazioni,
riguardanti il contenuto culturale e ambientale del Brasile. L’artista incanala,
infatti, nelle proprie composizioni, la costruzione utopica degli elementi che
interagiscono con la vita e con la gente, interferendo così, anche, nei loro
perpetui moti di cambiamento. Coimbra, disinteressandosi quasi completamente delle questioni legate alle modalità di sedicenti utopie naturali, seppur
concentrando la sua attenzione sulla struttura di una nuova società (di cui
ammira le sintesi estetiche), cerca di capire come gli uomini possano vivere
la forma di un’utopia, distolti da qualsiasi specificità dei luoghi.
Marcellvs L. (Belo Horizonte, 1980). Vive e lavora a Berlino.
I video di Marcellvs L. seguono un preciso disegno di montaggio, un montaggio esteriore. Dalla cornice della proiezione i suoi lavori guardano il mondo per
rappresentare il passaggio diretto del tempo, e il suo legame con le immagini
che lo osservano scorrere. Solitamente, al di fuori del microcosmo della videoart, il ritmo della narrazione è di tipo indiretto perchè proviene dalla trama che
si instaura tra il girato e i fotogrammi. Marcellvs L. nei suoi lavori reinterpreta
la contrapposizione elaborata da Deleuze tra il tempo inteso come durata
nella coscienza e il tempo misurabile dalla matematica degli orologi. Egli,
infatti, procede nella narrazione seguendo due moti di macchina complementari che, creando sezioni istantanee, legittimano le definizioni di immagini e di
movimento. In 0434, per esempio, il tempo diventa numerico, impersonale,
uniforme e astratto, una dimensione che nella macchina da presa destruttura
i fotogrammi di due barche, ormeggiate nel pieno della tempesta.
Marcellvs L., “0434”, 2006, vídeo HDV – 06’6”
SALA 10
Mary Vieira, Panair do Brasil, 1957
Oscar Niemeyer (Rio de Janeiro, 1907). Vive e lavora a Rio de Janeiro.
Brasilia, a cinquant’anni dalla sua nascita (1956), è diventata la creatura
totale di Oscar Niemeyer. Alla fine del percorso di After Utopia, viene dunque
esposto solamente uno dei suoi componenti progettuali, l’ultimo dell’intera
ri-capitalizzazione architettonica del Brasile. L’idea incompiuta e rifiutata di
Praça da Soberania è riprodotta in mostra non già come opera d’arte ma
come operazione simbolica, atto sintomatico di una fine. La fine di una delle più impressionanti utopie della storia mai realizzate in precedenza. Con
l’esposizione rappresentativa di questo lavoro, rimasto sulla carta, non si intende celebrare un Niemeyer-artista né tanto meno si pretende di elevare la
capitale del Brasile a museo della modernità. In questo caso l’idea progettuale, trattata come elemento artistico, rappresenta una presa di posizione che
analizza l’impossibilità della convivenza simultanea tra futuro e tradizione,
mostrando che dopo l’utopia il luogo mentale della Contemporaneità è uno
spazio che riverbera l’assenza di Storia.
Mary Vieira (São Paulo, 1927 - Basel, 2001).
Mary Vieira è la sola artista in mostra ad aver partecipato personalmente alla
realizzazione strutturale ed estetica di Brasilia, una fra le ultime utopie create
dal pensiero e dalla storia dell’uomo. La scultrice brasiliana, da sempre ispirata alle leggi estetiche del Costruttivismo, stupisce per l’ampiezza e l’universalità con le quali ha saputo aderire al movimento, e ai suoi dettami formali,
superando entrambi. Precorritrice, infatti, dell’Arte Cinetica, diviene famosa,
fin dai primi anni Cinquanta, per i suoi Polyvolume, strutture che assoggettano
al volume di un corpo solido una combinazione omogenea di infiniti segmenti
mobili. L’interazione dell’osservatore permette di malleare la forma plastica di
queste sculture, conferendo a ciascuna lamella la capacità di muoversi secondo ritmi circolari e concentrici, lungo un asse fissato alla base delle sculture. Un
esemplare dei Polyvolume è ancora attualmente esposto nel salone d’ingresso
di Palazzo Itamaraty, centro direzionale fra i più significativi a Brasilia.
Ana Maria Tavares (Belo Horizonte, 1958). Vive e lavora a San Paolo.
Ana Maria Tavares, attraverso l’arte contemporanea, rilegge le strutture linguistiche dell’architettura, instaurando, tra le due diverse discipline, similitudini, riflessi e nuovi dialoghi. Il progetto in mostra è nato per tenere impresso su di sé, in maniera contestuale, un edificio pubblico firmato da Oscar
Niemeyer. Ogni valore registrato dagli specchi, e dalle loro deformazioni, è
una visione che rievoca un deviante innaturale della realtà, giungendo così a
visualizzare una presenza finale inconsistente; una struttura considerata non
più modificabile tanto nei meccanismi principali quanto nei principi ispiratori.
Il mondo utopistico di Ana Maria Tavares è infatti un mondo in cui l’individuo
e la società costruita formano un’unica entità, granitica ed inscindibile, all’interno della quale l’uomo non si riconosce per le sue caratteristiche individuali
(uniche ed irripetibili) ma per quel tanto che viene riflesso, emanato, che lo
protegge e gli da forma.
La mostra sarà accompagnata da un catalogo edito
dal Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci
con testi critici di Marco Bazzini, Atto Belloli Ardessi,
Ginevra Bria,Paula Braga, Moacir Dos Anjos, Ligia Canongia,
che sarà presentato il 22 Gennaio 2010.
editing
Anna Elisa Benedetti
layout
Fabiana Bonucci Studio, Firenze
printed
Stabilimento Grafico Rindi, Prato
cover
Leandro Da Costa, Untitled, 2007
(photo Ding Musa)
le altre mostre al Centro
Lena Liv. Hekhalòt
Spazio Collezione, 25/9/2009 - 10/1/2010
Pier Giorgio Branzi. Il giro dell’occhio
Sale CID / arti visive, 24/10/2009 - 10/1/2010
Bert Theis. Building Philosophy
Lounge/Project Room, 18/6/2009 - 28/2/2010
Thomas Billhardt. Era Così. Immagini dalla Germia Est 1959 -1989
Spazio Teatro, 31/10 - 13/12/2009
orario
tutti i giorni, ore 10 - 19
1 gennaio, ore 15 - 19
chiuso martedì, 24, 25, 31 dicembre e 6 gennaio
Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci
viale della Repubblica 277, Prato
T. +39 0574 5317 www. centropecci.it