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rubrica Appunti Da Tel Aviv di Manuela Dviri Il fuoco dentro Bambini che giocano e si rinfrescano con l’acqua a Tel Aviv. In Israele il clima si fa sempre più rovente. Le rivolte sociali e I n questi giorni fa molto caldo, in Israele. Fa sempre caldo, d’estate, in Israele, e ogni anno ti sembra molto più caldo dell’anno precedente, e forse lo è. È comunque uno shock, anche se credi di esserci abituato, il ritorno del caldo dell’estate, ogni anno. Il grande scrittore israeliano Shmuel Yosef Agnon, premio Nobel per la letteratura nel 1966, vissuto tra il 1888 e il 1970, così descrive nel suo straordinario romanzo epico Appena ieri l’arrivo di un giovane ebreo di nome Isacco Kumer dalla lontana e fredda Europa centrale, dalla Galizia, in terra d’Israele. Siamo all’inizio del ventesimo secolo. Isacco è riuscito finalmente a realizzare il suo sogno sionista ed è sbarcato dalla nave dopo un lungo viaggio: questo è il suo primo giorno. È estate. C’è il sole. «Il sole in cielo era rovente, la sabbia bruciava sotto i piedi: Isacco si sentiva dentro un fuoco, tutte le sue fibre ardevano. Aveva la gola secca, la lingua arida, le labbra screpolate, ed era in un bagno di sudore. Poi improvvisamente alitò un soffio di vento, che riportava la vita, ma che se ne andò così com’era venuto. E di nuovo gli sembrò d’essere dentro una fornace ardente, dentro una pozza d’acqua bollente». (Shmuel Yosef Agnon, Appena ieri, Edizioni Einaudi). Proprio così. Dentro una fornace ardente. Anche oggi. Solo che oggi in più ti chiedi come hanno fatto quei giova50 ni pionieri giunti dalla Polonia e dalla Russia a resistere a quel caldo soffocante, a costruire un Paese, a far fiorire l’agricoltura e a creare città, villaggi e kibbutz in luoghi così aridi, così terribilmente, spietatamente caldi. Fa così caldo, d’estate, che a fatica riesci a reggere senza l’onnipresente aria condizionata e appena metti il naso fuori dalla porta ti sembra che il Paese sia a fuoco. E in un certo senso lo è, forse oggi più che allora, quasi un secolo fa. Lo senti, il fuoco, a causa degli incendi dolosi, provocati, pare, in gran parte da mani palestinesi e per il resto da turisti poco attenti e aiutati dal sole cocente e dal vento, come se la natura volesse accanirsi sui boschi piantati da quelle mani pazienti di pionieri all’inizio della storia del nostro giovane stato. Ti sembra di avvertirlo sulla tua stessa pelle quando apprendi con orrore della spaventosa scelta fatta da due indignados israeliani: in quest’estate economicamente difficile, che sarà seguita da un inverno ancora peggiore (negli ultimi giorni, dopo quello della benzina, è simbolicamente aumentato del 6,5% anche il prezzo del pane), Moshe Silman, cinquasettenne di Haifa, si è dato fuoco nell’anniversario della protesta degli indignados israeliani contro il carovita e le ineguaglianze sociali. “Lo stato - aveva scritto - mi ha derubato e ridotto sul lastrico”. L’ha seguito un altro uomo, un portatore di handicap. Altri hanno provato a imitarli con minore successo. Forse, chissà, da noi la disperazione, la disillusione, la sensazione di abbandono, è più cocente che altrove. Forse, dentro ognuno di noi c’è un Isacco Kumer che piange. Ed è questa, forse, mi dico, la ragione della protesta così violenta dei nostri indignados, una protesta quasi inimmaginabile in altri paesi dell’occidente. Israele, dopotutto, è nato da un sogno e si è sviluppato come si sviluppa una grande famiglia allargata. E non c’è sofferenza più grande di quella provocata dalle persone che ti sono vicine, dalla tua stessa famiglia. Fa caldo. E il cuore ti va a fuoco quando per l’ennesima volta il premier Netanyahu e il ministro della Difesa Barak annunciano al paese di voler attaccare, questa volta in autunno, le infrastrutture atomiche dell’Iran, malgrado né Usa né Unione Europea né gran parte dell’opinione pubblica israeliana approvino l’idea di un’offensiva che potrebbe provocare una reazione a catena, un’esplosione dalle conseguenze del tutto imprevedibili. T i brucia l’anima quando pensi e ripensi a ciò che avviene appena dietro l’angolo, in Siria. Non lo vedi e non lo senti, è come se non ci fosse, ma sai che c’è. E provi anche a fare i tuoi calcoli, perché da un lato, ti dici, la fine del regime di Assad priverebbe l’Iran east . rivista europea di geopolitica J. Guez/AFP/Getty Images l’instabilità politica ed economica infiammano il paese e gli animi. del suo migliore alleato e isolerebbe un altro grande nemico di Israele, gli Hezbollah libanesi, ma d’altra parte, ti rispondi, con il regime alawita di Assad, per malefico che fosse, avevamo imparato a convivere e gli accordi, anche se mai erano stati né scritti né firmati, erano accordi e insomma chissà cosa succederà se i ribelli andranno al potere. E chi sono, poi, questi ribelli? Chi li arma? Chi li paga? E l’Egitto? Come saranno in futuro i rapporti con l’Egitto dei fratelli musulnumero 44 . ottobre 2012 mani? E chi è questo presidente Morsi, sconosciuto ai più fino all’altro ieri? E che cosa ne sarà del trattato di pace firmato col suo predecessore? Continuerà a esistere e a funzionare? E insomma che cosa ci facciamo in quest’angolo di mondo in cui non ci vuole nessuno? Che caldo che fa. Meglio smettere di pensare. E accendere l’aria condizionata. Scendere al mare, fare un bagno. Riprendo in mano Agnon, che va a letto e riletto, e più lo leggi e più lo studi più t’incanta. Aprendo il libro a caso, mi capita di leggere questa pagina: «Che soavi sono le notti, a Gerusalemme. Come se al Cielo rincrescesse, la notte, per tutto il male che ti fa di giorno. S’alza la brezza e la polvere non svolazza più. La luna manda la sua luce, e le erbe che spuntano tra i sassi emanano un buon profumo. (…) tutto ciò che sentivi distante ora è vicino, sul cuore, persino il nostro Dio che sta nei cieli». . 51