Evgeny Morozov - Codice Edizioni

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Evgeny Morozov - Codice Edizioni
Contro
Steve
Jobs
Evgeny Morozov
La filosofia dell’uomo di marketing
più abile del XXI secolo
Traduzione di Massimo Durante
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el 2010 “Der Spiegel” ha pubblicato
un profilo di Steve Jobs, a quell’epoca
ancora al timone di Apple, che trasuda entusiasmo da ogni riga. In Germania (ma non solo) i prodotti creati
a Cupertino sono oggetto di un vero e proprio
culto, i cui officianti sono soprattutto i giovani
bohèmiens. L’amore di questo paese per la “mela
morsicata” è d’altronde ben rappresentato dal
sottotitolo che il Museo di Arti e Mestieri di
Amburgo ha voluto dare a Stylelectrical, la mostra che è anche una consacrazione ufficiale dei
prodotti Apple: L’elettrodesign che ha fatto storia. Jobs e Jonathan Ive, lo straordinario responsabile del design Apple, hanno sempre riconosciuto il loro debito nei confronti della Braun,
la (ex) potente società tedesca produttrice di
radio, registratori e macchine per il caffè. La
somiglianza tra la produzione della Braun degli
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anni sessanta e quella della Apple è a dir poco
singolare: non è difficile trovare online video
che le mettono a confronto.
Insomma, pare che ci sia voluto uno studente
siriano-americano con la passione della calligrafia, che ha abbandonato il college e si è autoproclamato devoto dell’India, del Giappone e
del buddhismo, per far sì che il mondo potesse
apprezzare le virtù del solido e minimale design
tedesco. (Dal canto suo la Braun non è stata altrettanto fortunata: nel 1967 è stata acquisita
dal gruppo Gillette, e ha finito per fabbricare
spazzolini da denti.)
Il pezzo pubblicato su “Der Spiegel” non ci ha
fatto capire molto della personalità di Jobs, ma
è rilevante per due motivi:
1) il titolo (Il filosofo del XXI secolo);
2) le scarse argomentazioni portate a sostegno
di tale sorprendente affermazione.
Evidentemente la natura filosofica del Jobspensiero non aveva bisogno di alcuna spiegazione. È difficile infatti ricordare un altro amministratore delegato altrettanto famoso che
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abbia ricevuto un simile riconoscimento, per
di più da una rivista tedesca che in passato ha
ospitato nelle sue pagine nientemeno che Martin Heidegger.
La domanda a questo punto sorge spontanea:
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oppure è stato un genio
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capace di trasformare una normale azienda produttrice di computer nell’oggetto di una vera
e propria venerazione, mentre era indaffarato a
regolare i conti con il passato e a nutrire il suo
gigantesco ego?
Nell’immaginario collettivo Jobs rientra a pieno titolo nella cerchia degli imprenditori-inno9
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vatori, una specie di reincarnazione di Henry
Ford e Thomas Edison. Non stupisce quindi
che vi siano poche tracce del Jobs filosofo nella biografia scritta da Walter Isaacson: un libro
fondamentale, che a dispetto dei suoi limiti è
candidato a trasmettere l’immagine di Jobs alle
generazioni future.
Mentre ci si avvicina alla fine di questo imponente libro, non si può però fare a meno di domandarsi di che cosa abbiano discusso Isaacson
e Jobs nelle loro passeggiate per le strade di Palo
Alto. Abbondano i piccoli aneddoti, va bene;
ma non c’erano grandi temi da affrontare?
Cosa ne è stato Yb††+¼bÇbF´
pensatore? Il fatto che tutti i libri dedicati di recente a
Steve Jobs dicano così poco del suo profilo
intellettuale è di per sé stupefacente, dato che
l’osservazione e l’analisi della Apple sono or10
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mai diventate un business: esiste infatti una domanda inesauribile, prontamente soddisfatta,
di libri e di articoli sull’azienda di Cupertino.
I blog che seguono quello che succede in casa
Apple traboccano di voci e notizie più o meno
incontrollate. Dal momento della sua fondazione, ma soprattutto negli ultimi dieci anni,
durante i quali la glorificazione ha raggiunto
il suo culmine, la Apple è stata oggetto di una
costante attenzione che in genere viene riservata ai presidenti. Attenzione che a Jobs non
dispiaceva affatto, a patto però che rispondesse
alle sue aspettative. Per questo ha fatto di tutto
per gestire la copertura mediatica sulla Apple,
come chiamare giornalisti che si occupano di
tecnologia per persuaderli a scrivere ciò che voleva che il mondo venisse a sapere.
Non soltanto Jobs ha costruito una sorta di
culto intorno alla propria società, ma ha fatto
anche in modo di disporre di propri canali di
stampa: per esempio i generosi finanziamenti
di Cupertino hanno permesso a “Macworld”, la
prima rivista consacrata al mondo Apple, di esistere, e in definitiva di creare un nuovo genere.
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Come i suoi biografi ci hanno ripetuto fino allo
sfinimento, Jobs non era una persona particolarmente gentile, e nemmeno ci teneva a esserlo. Il
più diplomatico dei sostenitori di Apple avrebbe
potuto dire che Steve Jobs, convinto vegetariano
e agguerrito buddhista, conduceva una vita fatta
di paradossi.
Senza tanta diplomazia potremmo invece dire
che era un opportunista senza scrupoli: un brillante ma instancabile camaleonte.
Per Jobs la coerenza era soltanto lo spauracchio delle piccole menti – vedeva piccole menti
ovunque volgesse lo sguardo… – e faceva del
suo meglio per tradurre nella sua vita la massima di Ralph Waldo Emerson, “una stupida coerenza è l’ossessione delle piccole menti”.
Fece issare una bandiera pirata in cima al centro sviluppo Macintosh al campus Apple, nel
1983, dicendo che «è meglio essere un pirata
che arruolarsi in marina», per condannare poi,
qualche decennio più tardi, la pirateria di internet in quanto furto. Si lamentò del fatto che
Obama non avesse voluto ricevere i suoi preziosi consigli strategici, per fare invece affida12
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mento solo su Thomas Friedman, il pensatore a
cui chiunque sia a corto di argomenti ricorre in
extremis ( Jobs incluso). Ha cantato le lodi della
calligrafia, per contribuire poi a distruggere la
penna come strumento di scrittura. Ha ricordato più volte le virtù della contemplazione e
della meditazione, facendo allo stesso tempo
tutto il possibile per ridurre i tempi necessari
ad avviare un computer (sorge a questo punto spontanea un’altra domanda: ma se sei un
buddhista, che fretta hai?).
Ha tentato di liberare gli utenti dalla “schiavitù” delle grandi compagnie come l’Ibm, per poi
stringere accordi con loro e dichiarare di voler
fare affari soltanto con la corporate America.
Da vero amante della semplicità con tendenze
ascetiche, una volta chiese al consiglio di amministrazione di fornirgli un jet personale per
portare la propria famiglia alle Hawaii. Disse
anche di non aver fatto tutto questo per i soldi, e di aver chiesto uno stipendio di appena un
dollaro, ma in compenso finì nei guai con la
Securities and Exchange Commission, la Consob americana, per avere retrodatato le proprie
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stock options, con una manovra che gli fruttò
svariati milioni di dollari.
Cercò di convincere la propria fidanzata quanto fosse importante evitare l’attaccamento agli
oggetti materiali, per poi mettere in piedi una
società che sarebbe diventata il simbolo per eccellenza del feticismo digitale. Pur avendo preso
in considerazione l’ipotesi di andare in un monastero in Giappone, confessò che se non fosse
stato per i computer sarebbe andato a Parigi (città non propriamente monastica) a fare il poeta.
È vera la storia del monastero? Ormai conosciamo molto bene i numerosi aneddoti che parlano della ricerca della spiritualità di Jobs, e a prima vista la risposta a questa domanda potrebbe
essere affermativa. La storia della sua giovinezza – il pellegrinaggio in India, il tempo trascorso in una comune agricola, la fascinazione per
la terapia dell’urlo primario di Arthur Janov –
suggerisce che il suo interesse per la spiritualità
fosse qualcosa di più di una moda passeggera.
Ma, appunto, quanto è durato esattamente? Il
Jobs più maturo, il capitano d’industria, era
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preso dalla spiritualità tanto quanto lo era stato
il giovane Jobs? Anche da adulto Jobs ha avuto un buon motivo per offrire di sé l’immagine
della persona profondamente spirituale.
In America il buddhismo è più di una religione: è un brand che vende molto, e non soltanto
in California, a giudicare dall’interminabile serie di libri che contengono nel loro titolo “Lo
zen e l’arte di…” e che abbracciano attività così
diverse come la cura della motocicletta, la scrittura, la corsa, il poker, i vampiri. La Apple sarebbe stata stupida a non approfittare della mitologia legata ai primi anni del suo fondatore,
a prescindere da ciò che egli da adulto davvero
pensasse del buddhismo e della spiritualità.
Già nel 1985 Jobs aveva ammesso con un certo
candore che il suo interesse in materia di spiritualità stava scemando. Alla domanda di un
giornalista del “Newsweek” che gli chiese se
avesse davvero accarezzato l’idea di entrare in
un monastero giapponese, diede una risposta
che avrebbe potuto essere di Ronald Reagan:
«Sono contento di non averlo fatto. So che
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questo suona molto, molto scontato, ma sento
di essere profondamente americano. Il destino
del mondo oggi è nelle mani degli Stati Uniti.
Voglio vivere qui la mia vita, dove sono nato, e
dare per quanto posso il mio contributo».
In un’altra intervista, concessa all’“Esquire”,
ha affermato di non aver imboccato la strada
del monastero in parte perché vedeva sempre
meno differenze tra vivere in oriente e lavorare
alla Apple: «Alla fine è la stessa cosa». Piuttosto discutibile. La competizione spietata
nell’industria del computer, le pugnalate alle
spalle nei consigli di amministrazione, le false
promesse della pubblicità: sono tutte cose che
la Apple conosce bene, e non sembrano molto
“monastiche”. Per quanto Jobs abbia cercato di
dare un significato alla sua scelta di “restare in
America”, non ci sarebbe da stupirsi se la patina di spiritualità orientale fosse qualcosa che il
consumato e abile venditore ha conservato per
ragioni squisitamente pragmatiche.
L’impegno di Jobs in politica è sempre stato
piuttosto marginale: così marginale che, ad ec16
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cezione del suo tentativo di spiegare a Barack
Obama come rimettere a posto gli Stati Uniti,
nel libro di Isaacson la politica fa un’apparizione molto fugace.
Jobs non ha mai avuto alcun timore reverenziale
nei confronti dei politici: c’è chi l’ha visto tentare di vendere un computer al re di Spagna durante un party, o chiedere a Bill Clinton di aiutarlo
a convincere Tom Hanks a fare qualcosa insieme
(Clinton ha declinato la richiesta). Quando fu
cacciato dalla Apple, Jobs cullò l’idea di candidarsi, ma molto probabilmente fu scoraggiato
dall’idea di tutti i compromessi che la politica
richiede. «Bisogna davvero passare attraverso
tutta quella merda per diventare governatore?»
si dice abbia chiesto al proprio consulente. In
un’intervista al “Business Week”, nel 1984 ammise di non avere mire politiche: «Non sono
interessato ai partiti, ma alla gente».
Non politicizzato non è però l’espressione corretta per descrivere Steve Jobs. C’è un curioso
passaggio in una sua intervista rilasciata nel
1996 a “Wired” in cui osserva:
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Quando sei giovane guardi la televisione e pensi: c’è
una cospirazione, le reti cospirano tra loro per renderci più stupidi. Appena cresci un po’ capisci che
non è vero. I network non fanno altro che dare alle
persone esattamente ciò che vogliono. Se ci pensi,
è ancora più deprimente. L’idea della cospirazione
è ottimistica, perché in quel caso con quei bastardi
potresti prendertela! Potresti sperare in una rivoluzione! Ma le reti sono davvero in affari per dare alle
persone quello che vogliono. È la verità.
In queste parole c’è traccia di disprezzo, perfino di misantropia, nonché la visione del mondo tipica del venditore. Il cambiamento come
categoria di pensiero non sembrava far parte
dell’universo di Steve Jobs, sebbene fosse sempre alle prese con il tentativo di migliorare i suoi
prodotti. L’idea che vi potesse essere un’organizzazione politica e istituzionale totalmente
differente, e che questa potesse dare luogo a
una televisione migliore, di cui la popolazione
avrebbe potuto godere e che avrebbe potuto
svolgere un importante ruolo civile nell’ambito
del discorso pubblico, non lo sfiorò mai. Se solo
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si fosse preoccupato di gettare uno sguardo al
di là dell’Atlantico, avrebbe scoperto che una
televisione differente – la Bbc, per esempio, o la
franco-tedesca Arte – era non solo possibile ma
anche fattibile. Jobs affermava di avere tendenze liberal, ma decise di vivere in una specie di
bolla intellettuale, il cui tratto caratteristico era
decisamente “pre-politico”. In questa bolla erano ammessi solo due generi di persone: i produttori e i consumatori. Norme, leggi, istituzioni, politica: niente di tutto questo contava.
Jobs è stato un rivoluzionario, sì, ma limitato; e
mai un rivoluzionario così limitato ha innescato una rivoluzione di tale portata.
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