I nuovi miti sull`autismo

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I nuovi miti sull`autismo
I nuovi miti sull’autismo
Dr. Cinzia Raffin
Sommario
Comunicare con persone autistiche e capirle risulta essere molto difficile.
Questa difficoltà è sempre stata letta come conseguenza dei deficit propri
dell’autismo. E’ sicuramente vero se si considera che in queste persone sono
quasi sempre assenti patterns comunicativi e comportamentali tipici dell’uomo
normale. Tuttavia, le persone autistiche sono molto diverse le une dalle altre e
l’avere, per anni, focalizzato l’attenzione sulla triade sintomatologica senza
cercarne le intrinseche differenziazioni e senza considerare i limiti dei nostri
sistemi conoscitivi, sta facendo emergere nuovi miti sull’autismo che al pari dei
precedenti possono far rallentare l’avanzamento delle conoscenze. Questo
articolo vuole proporre una riflessone sui risultati pragmatici di approcci in cui
si focalizza sulle disfunzioni indistinte delle persone autistiche e non si
considerano le alterazioni dei sistemi implicati. La prospettiva proposta può
avere ricadute significative nell’impostazione della ricerca sia in ambito clinico
che educativo.
Premessa
Le riflessioni che seguono sono nate nel corso di studi che abbiamo condotto e
stiamo conducendo presso la Fondazione Bambini e Autismo di Pordenone. I
rimandi a questi studi saranno molti, tuttavia lo scopo di questo articolo non è
l’illustrazione degli stessi per i quali si invia ad altre pubblicazioni in fase di
preparazione e/o di stampa, ma quello di proporre la visione epistemologica che
guida la nostra ricerca sperando di stimolare il dibattito tra gli studiosi del settore.
Il mito della disfunzione della comunicazione autistica
La capacità comunicativa dell’uomo, come si è sviluppata nel corso della sua
evoluzione, sembra non essere presente nella persona autistica.
Mancano dei comportamenti che l’uomo ha imparato a decodificare come
segnali di intenzionalità comunicativa (Stone et al. 1997).
Ad esempio mancano capacità come quella di
agganciare lo sguardo dell’altro
guardare nella stessa direzione
indicare con il dito indice
chiedere aiuto per soddisfare un proprio bisogno
rispondere al proprio nome
rivolgersi verso una persona che entra nel proprio campo visivo
mostrare qualcosa ad un’altra persona
L’assenza di questi comportamenti sembrerebbe indicare che le persone con
autismo manchino di intenzione comunicativa. A ciò si aggiunga come siano
veramente poche le iniziative comunicative che le persone con autismo
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manifestano attraverso le modalità proprie del nostro tipo di interazione sociale
(Calloway et al. 1999). Questo è già un dato sconcertante, in quanto ciò che
caratterizza l’essere umano è proprio la sua intenzione e predisposizione ad
entrare in contatto con un altro essere.
Forse è questo il motivo per cui, a dispetto di quello che sappiamo sul
processo comunicativo, di fatto continuiamo a punteggiare (Watzlawick, 1967)
sui deficit della persona con autismo ogni qualvolta ci sia una disfunzione nella
comunicazione con essa.
La comunicazione è un processo relazionale in cui sono implicati almeno due
sistemi che creano appunto un sistema comunicante. E’ un paradosso quindi
pensare che la disfunzione della comunicazione possa riguardare una singola
persona o un singolo sistema. E’ opportuno cominciare a ragionare non nei
termini di deficit della persona, ma di deficit del sistema comunicante
In questa sede non si vuole negare che la persona con autismo abbia
importanti carenze rispetto alle competenze comunicative delle persone nonautistiche, ma si vuole separare quelle che sono le disfunzioni della persona con
quelle che sono le disfunzioni del sistema comunicante (Watson et al., 1989).
Se prendiamo in considerazione il processo comunicativo (Miller, 1972),
vediamo che esso non è altro che un circuito a feedback che si può esemplificare
graficamente come è mostrato in figura 1.
disfunzioni (rumore)
canale
EMITTENTE
CODIFICA
DECODIFICA
RICEVENTE
FEEDBACK
Consideriamo Emittente e Ricevente i due sistemi che comunicano tra loro.
Perché vi sia un processo comunicativo è necessario che emittente (E) e ricevente
(R) usino dei codici condivisi per tradurre il loro messaggio o il loro feedback. E’
altrettanto importante che questo messaggio venga inviato attraverso un canale
condiviso. Ad esempio, se E ed R sono due inglesi che stanno passeggiando per
Londra ed E vuole chiedere il nome di un monumento a R, è necessario che E
scelga un codice che R possa decodificare, userà ad esempio la lingua conosciuta
da R, anche se E potrebbe fare la medesima domanda in italiano, lingua però non
conosciuta da R e quindi impossibile per lui da decodificare. Inoltre E utilizzerà il
pointing per mostrare il monumento, immaginandosi che R guarderà nella
direzione verso cui E punta il suo dito indice. Ma perché la comunicazione sia
funzionale e cioè raggiunga lo scopo (in questo caso rappresentato dalla
conoscenza da parte di E del nome del monumento in questione) è anche
importante che E comunichi attraverso un canale non particolarmente rumoroso,
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perché R potrebbe non sentire le sue parole, non solo, ma anche il canale visivo
dev’essere condiviso, perché se R è momentaneamente distratto e guarda altrove,
non potrebbe orientarsi verso il pointing di E.
Se la comunicazione portata ad esempio non dovesse raggiungere lo scopo,
vale a dire R invia un feedback totalmente sconnesso con l’intenzionalità di E o
non lo invia affatto, si direbbe che la comunicazione è stata disfunzionale. E’
ovvio che le ragioni di una tale disfunzione potrebbero stare ovunque. E potrebbe
aver usato un codice sconosciuto, il canale potrebbe aver impedito il passaggio di
informazioni, R avrebbe potuto decodificare male, o avrebbe potuto codificare
male la sua risposta o ancora tutto può essere filato liscio finchè E, ricevendo la
risposta, l’ha decodificata scorrettamente.
In quest’ottica, la ricerca di disfunzioni all’interno di un processo
comunicativo è molto democratica. L’errore può essere ovunque. Punteggiare,
vale a dire marcare la responsabilità su uno solo degli interlocutori o su un singolo
step, è arbitrario e per certi versi inutile, in quanto non cambia il risultato finale: il
sistema comunicante non ha funzionato!
Queste riflessioni sembrano banali, ma non lo sono affatto. In realtà quello
che gli studiosi continuano a fare nel caso della comunicazione nelle persone con
autismo è punteggiare sulla disfunzione della persona e quasi mai valutare la
disfunzione del sistema comunicante. Se nell’esempio precedente sostituissimo R
con RA (un Ricevente Autistico), la disfunzione nella comunicazione apparirebbe
molto chiara: E ha inviato correttamente il suo messaggio, non ha fatto altro che
utilizzare i codici naturali (le parole, il pointing) non si è peritato di verificare che
il canale fosse sgombro da rumori, quello che è certo è che RA non capisce il
linguaggio, non capisce il pointing, non ha lo sguardo condiviso, è disturbato
dalle mille stimolazioni sensoriali che riceve dall’ambiente (Bogdashina, 2000).
Tuttavia, dal punto di vista dell’analisi del processo comunicativo, se RA è
disturbato dalle stimolazioni sensoriali dell’ambiente, non è RA a non funzionare,
ma il canale che è stato scelto.
Se RA non comprende il pointing e il linguaggio utilizzato da E, non è RA a
non funzionare, ma si sono scelti codici non condivisi.
Questo modo di procedere che tende a focalizzare sui deficit della persona,
anziché sui deficit del sistema comunicante, porta a delle inferenze che non hanno
alcuna dimostrazione scientifica (Wing, 1992). Non solo, ma produce molti
ostacoli nella comprensione dei tentativi di comunicazione delle persone
autistiche.
E’ evidente che la carente acquisizione del linguaggio verbale, così come
molte altre caratteristiche di questa patologia, rappresentano un grave deficit per
la persona con autismo, ma non si può inferire che questo sia, in molti casi, la
spiegazione principale delle disfunzioni comunicative che avvengono durante i
processi comunicativi con la persona autistica.
Molti insegnanti ritengono che i bambini autistici non verbali non siano in
grado di beneficiare di alcun insegnamento in quanto è impossibile per loro
accedere ai messaggi della comunicazione educativa.
Spostare il punto di vista dal deficit della persona al deficit del sistema
comunicante significa, usando una similitudine, dire a questi insegnanti che se un
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loro allievo non conosce l’italiano, dovranno cercare qualche altro codice per
comunicare con lui. Non è ammissibile che si aspetti che l’allievo impari la nostra
lingua o peggio ancora ritenere che per il fatto di non parlarla, sia
automaticamente scemo, come vedremo nel prossimo paragrafo.
Il mito del ritardo mentale
Molti bambini autistici presentano un ritardo nell’apprendimento del
linguaggio verbale e taluni non lo apprendono mai. I dati sulle percentuali delle
persone autistiche che rimangono non verbali variano dal 10-15% (Koegel, 2000)
al 50% (Prizant, 1983) al 75% (Bryson et al, 1988). Questa varietà di percentuali
è in parte dovuta alla mancanza, fino a qualche anno fa di programmi educativi
finalizzati all’acquisizione del linguaggio verbale, ma anche a una impostazione
alquanto criticabile, ma purtroppo ancora in auge, che ritiene che l’assenza di
linguaggio verbale sia legata al ritardo mentale.
Una persona autistica che non parla è dunque per una buona parte di scienziati
una persona che ha un Q.I. al di sotto della norma, mentre una persona che parla
ed utilizza quindi i nostri codici è considerata ad alto funzionamento come se il
nostro linguaggio verbale fosse il codice funzionale per eccellenza.
Mi sono più volte chiesta come sia misurabile il ritardo mentale di una
persona autistica. Perché con estrema faciloneria si proponga l’equazione: assenza
di linguaggio = basso funzionamento, presenza di linguaggio fluente = alto
funzionamento?
Queste parole hanno un senso pragmatico, creano aspettative o non le creano
affatto! La mia esperienza clinica mi ha più volte fatto incontrare situazioni nelle
quali bambini autistici definiti con ritardo mentale erano costretti a passare il loro
tempo scolastico a colorare sempre gli stessi stupidi disegni (“poverino, non
arriva a fare di più”) o viceversa bambini autistici definiti ad alto funzionamento
che venivano bombardati da continui richiami al rispetto delle regole (“pur
capisce le altre cose che diciamo, se non rispetta le regole è perché non le vuole
rispettare!”), (Raffin, 2001a).
Vorrei ora spiegare perché definisco il ritardo mentale un mito dell’autismo.
Quando sottoponiamo ad un test cognitivo una persona con autismo,
dobbiamo considerare che si instaura con questa un processo comunicativo che
manifesta tutte le disfunzioni di cui abbiamo parlato più sopra.
Proprio perché autistica, non è detto che la persona non riesca a superare gli
item proposti perché non li comprende, ma perché potrebbe essere disturbata
dall’ambiente, perché potrebbe non intuire quello che vogliamo che faccia (Binnie
& Williams, 2003). In questo caso, è corretto contraddistinguere con una misura
di Q.I. che ha un senso per chi funziona secondo i parametri di chi ha costruito il
test, una persona con modalità comunicative al di fuori della norma, ma non
necessariamente sotto o sopra? Gran parte dei test per la misurazione del Q.I.
sono test che presuppongono non solo la conoscenza del linguaggio, ma l’utilizzo
del linguaggio secondo le modalità normali. Presuppone cioè un livello di
attenzione nella norma, una condivisione di contesti nella norma, una sensorialità
nella norma, ecc.. Se la persona autistica non riesce a superare gli item è perché
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non è in grado di produrre il ragionamento che si va ad indagare o perché il codice
è sbagliato o il canale è sbagliato?
La stessa cosa vale per test che utilizzano cheklist di abilità. Il fatto di non
mostrare le abilità richieste è sempre legato all’assenza dell’abilità o all’incapacità
da parte del sistema comunicante di farla emergere?
Si è visto che l’utilizzo di test non verbali, con ragazzi autistici non verbali,
non dà risultati così scontati. Quando è possibile utilizzarli, rendendo il meno
rumoroso possibile il contesto comunicativo, abbiamo visto bambini non verbali
raggiungere punteggi nella norma o sopra la norma. Tuttavia anche l’utilizzo di
questi test non è così semplice, perché, comunque, ci possono essere interferenze
nel processo comunicativo che si instaura, che compromettono il risultato finale.
Ad esempio, l’utilizzo della Leiter International Performance Scale – Revised
(Roid, G.H. & Miller, L.J. 1997) nel subtest FG che contribuisce a definire il Q.I.,
presuppone la capacità di indicare (pointing) che non tutti i bambini autistici
hanno. Lo stesso subtest dato prima e dopo un training che insegnava loro il gesto
dell’indicazione, dava risultati drammaticamente diversi. Ciò dimostra che gli
item non venivano superati nella prima somministrazione non perché il bambino
non riconoscesse i particolari da cercare nell’immagine complessiva (questo viene
richiesto dal test), ma perché non possedeva il codice dell’indicazione. Ai fine del
Q.I. tuttavia non viene misurata l’abilità di indicare, ma di riconoscere in contesti
sempre più complessi, particolari sempre più piccoli.
Non esistono a tutt’oggi test intellettivi standardizzati per la misurazione del
Q.I. di persone autistiche. D’altro canto l’utilizzo di scale costruite per la
popolazione che possiede quel bagaglio di capacità comunicative e relazionali che
sono assenti nelle persone autistiche, non possono dare risultati attendibili. Si
tratta di una ipocrisia che la scienza accetta per la comodità di avere campioni
confrontabili. In realtà l’intelligenza della persona non autistica e l’intelligenza di
una persona autistica soprattutto se priva di linguaggio, rimangono due entità
incommensurabili.
Il mito dell’autismo e la realtà degli autismi
Pur essendo una evidenza clinica che il mondo scientifico ha largamente
accettato, la molteplicità dei disturbi dello spettro autistico non è ancora diventata
parte integrante di modalità di conduzione della ricerca, né rispetto all’eziologia
né rispetto al trattamento.
Sembra banale sottolineare che se le indagini vengono condotte su gruppi non
omogenei non si arriverà facilmente a scoprire qualcosa di nuovo sulle sindromi
autistiche, tuttavia, passando in rassegna gli studi apparsi su qualificate riviste del
settore solo nel 2003, sono quasi del tutto assenti ricerche che abbiano focalizzato
l’attenzione sulla costruzione di campioni omogenei. Il massimo che viene fatto è
scegliere soggetti che siano stati diagnosticati con gli stessi strumenti
standardizzati e che abbiano una età mentale comparabile. Su quest’ultimo punto
ho già parlato nel paragrafo precedente, sui criteri diagnostici è ovvio che ci si
debba attenere a delle scale scientificamente controllate, ma queste (pensiamo a
quelle più in uso come l’ADI-R, (Lord et al. 1994) l’ADOS (Lord et al. 1999), la
CARS (Schopler et al. 1988) non permettono alcuna differenziazione in fenotipi
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più specifici che quelli indicati dal DSM IV (American Psychiatric Association,
1994) o dall’ICD 10 (World Health Organisation, 1993).
La ricerca che conduciamo a Pordenone, è ricerca clinica (Raffin, 2001b). Gli
oltre 150 casi di autismo che abbiamo seguito negli ultimi 4 anni erano tutti
facilmente rientranti nei cut off dei test diagnostici sopraccitati, ma erano anche
profondamente diversi l’uno dall’altro. Nella loro diversità abbiamo intravisto
somiglianze che andavano ben oltre la casualità in quanto tali differenze si
correlavano tra loro. La ricerca è ancora in corso, ma per citare qualche esempio
mi riferisco a dimensioni anamnestiche (non riguardanti solo l’età di esordio), la
storia familiare, la presenza di fratelli o parenti con patologie del linguaggio che si
correlavano con patterns comportamentali e persino con somiglianze somatiche.
Ancora, i bambini autistici che sviluppano un linguaggio verbale possono
manifestare un ritardo di acquisizione oppure una vera difficoltà che si mantiene
nel tempo in termini fonologici. Anche queste caratteristiche si correlano con altre
apparentemente bizzarre ricorrenze, ad esempio negli interessi o nelle stereotipie.
Ci sono bambini fortemente compromessi sul piano motorio che producono un
linguaggio fluente ed altri assolutamente perfetti nello sviluppo motorio che non
producono linguaggio A differenza di quanto sostenuto da alcuni autori (Seal et
al. 1997), l’aprassia e le difficoltà nelle abilità motorie fini non sempre producono
difficoltà di apprendimento di forme comunicative alternative, e così via.
L’urgente necessità di raggruppare i fenotipi autistici, per il momento su base
clinica, credo sia da tutti accettata, ma come si ricollega questo scarso interesse in
letteratura per una ricerca di così fondamentale importanza, con quanto detto nei
paragrafi precedenti?
L’ipotesi è che non riusciamo a staccarci dal nostro modo di concepire la
mente tanto che siamo più intenti a cercare gli scostamenti dalla norma, che una
sostanziale forma nuova di pensiero. In questo caso la nostra gestalt non ci
permettere di accorgerci delle differenze fra forme di pensiero diverse, ma solo
degli scostamenti dalla nostra forma di pensiero e in questo scostamento
indubbiamente le persone autistiche possono essere percepite come un gruppo
omogeneo.
Le teorie neuropsicologiche (Happé & Frith 1996) che comunque tanto ci
hanno offerto nella comprensione dell’autismo, sono un esempio eclatante.
Se consideriamo alcune tra le più conosciute ipotesi neuropsicologiche
vediamo subito come esse sono nate per differenza da un modello di
funzionamento che a noi sembra normale. La forza di coerenza centrale, una tra
le teorie più affascinanti (Frith, 1989), constata che un cervello normale possiede
l’abilità di raggruppare in connessioni significative coerenti i vari elementi di
contesto. Un cervello normale possiede la forza di coerenza centrale, un cervello
autistico si discosta perché non la possiede. Ma cosa possiede quel cervello
autistico? E quello che possiede quel cervello, lo possiede anche un altro cervello
autistico oppure no?
La teoria della mente che è così tanto in auge anche nel mondo accademico
italiano, non parte anch’essa da una ipotesi sul funzionamento della mente
normale per ipotizzare lo scostamento della mente autistica che non riuscirebbe a
rappresentarsi gli stati mentali delle altre persone?
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Sulla teoria della mente vorrei riferire due esempi tratti dal nostro lavoro di
ricerca che, come si sarà capito, parte da una posizione completamente diversa e
si pone, usando una metafora, in ascolto dei segnali alieni non aspettandosi di
trovare una lingua diversa (ma pur sempre una lingua), bensì una non lingua.
Il primo esempio che riguarda uno studio preliminare in via di pubblicazione,
si riferisce ad un dato emerso nella somministrazione del test di Sally ed Ann
(Baron-Cohen, 1995) ad un gruppo di soggetti ad “alto funzionamento” suddivisi
in due gruppi. A tutti e due i gruppi è stato proposto il test con un'unica differenza
nella domanda finale. Al primo gruppo è stata posta la domanda “Sally vuole
giocare con la palla, dove cercherà la palla Sally?” Al secondo gruppo la domanda
era posta in questi termini “Sally vuole giocare con la palla, dove guarderà prima
Sally per cercare la palla?” C’è una differenza tra i risultati del primo e del
secondo gruppo: il secondo gruppo sembra fallire di meno. Lo studio è da
perfezionare, andrà replicato con un maggior numero di partecipanti, ma una
prima ipotesi che abbiamo formulato è che forse, in qualche caso, la teoria della
mente c’entra poco, forse il problema è linguistico: potrebbe trattarsi di una
mancata differenziazione semantica tra il verbo cercare e trovare. Se Sally vuole
la palla per giocare e il verbo cercare è inteso come cercare per raggiungere lo
scopo, cioè trovare, allora è facile che i soggetti rispondano nella scatola, perché è
lì che Sally troverà la palla. Se invece viene specificata meglio l’azione che deve
fare Sally, sostituendo il verbo cercare con guardare prima la domanda può non
essere fraintesa.
L’altro esempio, non riguarda un contesto formale ma è ricavato dai report dei
familiari che vengono raccolti in uno studio che stiamo conducendo sulla
comunicazione intenzionale delle persone autistiche. La fonte è un genitore che è
anche un professionista impegnato nel lavoro di ricerca.
Il suo bambino di 8 anni non parla. A tutti gli effetti è quello che si direbbe un
bambino low functioning. Ha un olfatto particolarmente sviluppato che lo orienta
nella scelta dei cibi e delle bevande. Nel corso della sua giovane vita è stato a
volte raffreddato e febbricitante. I genitori con insuccessi totali hanno cercato di
fargli prendere dei farmaci antipiretici mescolati alla sua bevanda preferita:
l’aranciata. Ma inesorabilmente, benché i farmaci fossero praticamente inodore ed
insapore, il bambino quando avvicinava il naso al bicchiere evidentemente sentiva
un odore strano, buttava il contenuto nel lavello prendeva un bicchiere pulito e si
versava l’aranciata. All’ultima influenza i genitori si sono rassegnati a non fare
più il camuffaggio, confidando solo sui suoi anticorpi, ma stranamente il bambino
prendendo il bicchiere di aranciata preparato a tavola (che questa volta non
conteneva niente), lo ha annusato e comunque lo ha gettato nel lavello. Si
potrebbe dire che si è fidato più della sua teoria della mente che del suo olfatto.
Credo che l’esempio non abbia bisogno di tante spiegazioni. Il bambino non solo
percepiva il suo stato febbrile, ma ha pensato che la mamma, come le volte
precedenti, avrebbe cercato a sua insaputa, di mettere il farmaco nel bicchiere:
un’ottima lettura dello stato mentale della madre. Le spiegazioni possono essere
molteplici e non è certo con un anedotto come questo che voglio mettere in crisi
una teoria così magistralmente indagata, tuttavia l’aneddoto, benché riferisca di
un caso singolo deve farci riflettere nel non dare troppo per scontato quello che ci
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possiamo aspettare da una mente autistica e soprattutto sulla necessità di non
pensare a spiegazioni olistiche che valgono per tutti (Raffin, 1988).
Gli autismi sono tanti ed è anche a partire dalla raccolta di queste osservazioni
che possiamo cominciare a raggrupparli in categorie similari per fenotipicità le
quali a loro volta probabilmente riferiscono ad eziologie comuni. Per questo ci
sentiamo di sottolineare l’esigenza che la ricerca pura (eziologica,
neuropsicologica, farmacologia) non possa attuarsi in contesti separati da quelli
clinici, come purtroppo ancora accade.
Il mito della mancanza di intenzionalità comunicativa
Collegato ai miti precedenti e purtroppo, anche in questo caso con una
drammatica ricaduta nelle prassi educative e relazionali, vi è il mito che le
persone autistiche non possiedano intenzionalità comunicativa.
Il fatto che molte di esse non usino i codici naturali che noi interpretiamo
come segno di volontà comunicativa, fa sì che spesso non si ascoltino
comunicazioni che queste persone fanno in modo bizzarro e insolito, ma che sono
di fatto comunicazioni in quanto a seconda della risposta o della non risposta che
l’interlocutore dà, attivano feedback riconoscibili come tali.
Ho riferito precedentemente quanto importante sia misurare oltre alla qualità
di comunicazione della persona autistica la qualità di comunicazione del partner
del sistema comunicante. Non è detto che il sistema comunicante per il suo
funzionamento debba necessariamente utilizzare i codici della persona non
autistica.
Dal momento che la funzionalità del sistema è legata allo scopo che il sistema
stesso si prefigge, ci dobbiamo interrogare se e in che modo questo scopo viene
raggiunto indipendentemente da chi dei due interlocutori (persona autistica e
persona con patterns normali di comunicazione) sia l’artefice del raggiungimento
dello stesso.
Questo modo di concepire la comunicazione che regola ogni nostra
interazione sociale, incontra vari ostacoli in un sistema comunicante all’interno
del quale vi è una persona autistica.
Indubbiamente la bizzarria dei messaggi delle persone autistiche, l’assenza di
molti codici che normalmente noi usiamo (simbolici, analogici, gestuali, ecc),
persino l’intonazione così spesso indecifrabile, rende la comunicazione con la
persona autistica veramente difficile. Tuttavia questa difficoltà va collocata in un
contesto in cui l’eventuale fallimento del sistema comunicante ha responsabilità
equamente distribuite tra gli interagenti.
La ricerca di responsabilità anche in altri agenti e momenti del processo
comunicativo porterebbe ad un maggiore ascolto dei messaggi che provengono
dalla persona autistica e ad una volontà di apprendere a decodificarli.
Ma questa ricerca si incontra raramente. Sono più spesso i genitori a trovare
significati in quello che la persona autistica dice o fa e altrettanto spesso vengono
criticati per questa loro “patetica” ricerca di dare un senso a ciò che senso non ha
(Sperry & Symons, 2003).
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Uno dei termini che mal sopporto quando sento professionisti dell’autismo
usarlo con convinzione è “afinalistico”. La persona autistica sembra dica cose
“afinalistiche”, faccia domade “afinalistiche”, si muova in modo “afinalistico”.
Ma cosa abbiamo noi per entrare nel cervello di un individuo, tra l’altro così
particolare, e dire che quello che fa non ha alcuna finalità (Foerster von, 1981).
L’arroganza dello pseudoscienziato?
Considerare a priori afinalistico un comportamento, così come considerare a
priori che la persona autistica non ha intenzionalità comunicativa, solleva
dall’incomodo dovere di ascoltare, cercare di comprendere, scoprire che si
comprende poco, cercare umilmente nuove ipotesi, mettere in discussione le
certezze e spesso dover accettare che l’oggetto indagato (il soggetto autistico) sia
quello che più di altri ci dà una mano nel comprenderlo (Grandin, 1995a).
Immagino che queste considerazioni possano venir criticate perché sembra
ovvio che un professionista si ponga in ascolto, ma non è precisamente
“ascoltando” che captiamo i messaggi di molte persone autistiche. Potrebbero
trasmettere su “lunghezze d’onda” sulle quali non siamo sintonizzati, si tratta di
ascoltare nella convinzione che quello che fanno o dicono abbia uno scopo, un
senso da decifrare come gli archeologi decifrano le scritture antiche.
Stiamo raccogliendo molto materiale sull’intenzionalità comunicativa delle
persone con autismo. Naturalmente modalità e quantità di messaggi variano da
individuo ad individuo e probabilmente da sottogruppo a sottogruppo. Anzi per un
certo sottogruppo di bambini che seguiamo l’ipotesi su cui stiamo lavorando
riguarda proprio la possibilità che il disturbo della comunicazione sia prioritario,
rispetto al disturbo relazionale.
Alla luce di questa ipotesi potrebbero essere riviste, almeno in parte e ripeto
per un sottogruppo specifico, le altre due categorie sintomatologiche che formano
la triade autistica: la difficoltà nell’interazione sociale reciproca e la presenza di
comportamenti ripetitivi, di interessi ristretti e stereotipati.
Infatti, che cos’è l’interazione sociale se non uno scambio continuo e circolare
di messaggi (verbali o non verbali che siano)?
Non è forse ipotizzabile che la ripetitività della persona autistica sia una forma
bizzarra di ridondanza che anche noi utilizziamo nel momento in cui ci
accorgiamo che non siamo stati capiti?
E qualora il nostro essere sociale venga continuamente frustrato
dall’impossibilità di comprendere e di esprimerci, ad esempio in un paese
straniero di cui non conosciamo né lingua, né costumi, non ci ritireremmo anche
noi in albergo o ci concentreremmo su qualcosa che ci interessa ma che non abbia
a che fare con la relazione: la visita solitaria ai monumenti, piuttosto che
l’escursione in luoghi naturalistici?
Riferendomi a questo, per il momento ipotetico, sottogruppo vorrei accennare
qualche esempio in cui l’intenzionalità comunicativa era evidente, ma la difficoltà
del sistema comunicante è stata nel coglierla di primo acchito.
Nella ricerca che stiamo conducendo vengono annotati in contesti strutturati e
non strutturati, tutti gli atti che il bambino fa nella direzione di ottenere una
risposta dall’operatore che lo sta seguendo. L’operatore può registrare un atto
comunicativo intenzionale se lo percepisce come tale, ma anche se non lo
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percepisce come tale, purchè il bambino, alla mancata risposta dell’operatore,
manifesti una qualche reazione che possa considerarsi un feedback. Queste
risposte possono essere la riproposizione ripetitiva dell’atto, l’allontanamento dal
compito, la manifestazione di fastidio, ecc.
Gli esempi che porterò riguardano un paio di bambini autistici non verbali,
con fenotipo simile. Il primo è un bambino di 10 anni che da un paio di anni ha
cominciato ad utilizzare qualche parola. Il suo vocabolario conterrà circa 50
parole espresse però l’uso che ne fa è straordinario.
Questo bambino ha imparato a dire “scotta” quando sul piatto c’è qualcosa di
fumante. Afferra con la forchetta il pezzetto di cibo e ripete “scotta” e poi ci soffia
sopra. Di questo se n’erano piacevolmente accorti i genitori e gli operatori che lo
seguono durante il programma respiro. Proprio in occasione di un week end il
bambino ci sorprese dicendo “scotta” di fronte ad un piatto di rucola. L’operatore
rispose ovviamente di no, che la rucola non scotta, ma il bambino insistette finchè
l’operatore per fargli capire che non era così, mangiò una forchettata di rucola
accorgendosi che quella rucola aveva un sapore decisamente pungente.
Il bambino aveva utilizzato l’unica parola che conosceva “scotta” dandogli un
significato più ampio “qualcosa che dà fastidio in bocca”. Evidentemente non
conosceva gli aggettivi: aspro, pungente o altri più adatti al caso.
Nella stessa giornata, al parco dopo essere sceso dall’altalena e fregandosi
insistentemente una mano, si rivolge all’operatore dicendo “scotta”. L’operatore
allertato dall’esperienza precedente, anziché considerare l’uscita del piccolo come
priva di senso, va a controllare e scopre che la mano odora di resina e che la corda
dell’altalena era tutta appiccicosa di resina caduta dagli abeti sovrastanti.
Anche in questo caso il bambino ha comunicato un fastidio tattile con l’unica
parola a sua disposizione.
Cosa sarebbe accaduto se non lo avessimo ascoltato, se avessimo dato per
scontato che stava dicendo qualcosa di insensato e di poco contestuale di
“afinalistico” come molti altri bambini autistici?
Lo stesso bambino ha un olfatto molto sviluppato, spesso lo si vede odorare
cose apparentemente inodore come libri, pezzi di plastica o altre cose per noi
inodori. Mentre stava guardando un libro e lo stava annusando, dice “profumo”,
l’operatrice non lo bada, il bambino ripete “profumo”, l’operatrice risponde
“Giovanni (il nome del bambino) profuma, il libro no!”. Il bambino si arrabbia
molto.
Se il suo era un commento da condividere con la persona che aveva accanto, è
evidente la frustrazione. Non solo gli si dice che sta “percependo male” (per dare
una risposta di questo tipo, bisogna pensare alla famosa “afinalità” del
comportamento autistico, un professionista che mette al bando il concetto di
“afinalistico”, si chiederebbe che senso ha che il bambino metta il naso sui libri se
non sente niente?, Evidentemente, per lui, il libro ha un profumo, ma quando
cerca di commentare e condividere questa sua sensazione con l’altro, l’altro gli
risponde che non è vero che il libro profuma!
E’ una squalifica che manderebbe in crisi chiunque. Possiamo anche capire
allora il “ritiro” autistico. Il bambino potrebbe a suo buon diritto chiedersi: cosa ci
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faccio in mezzo a questi alieni che non sentono, non vedono, non percepiscono
quello che sento io? (Sacks, 19
Altre volte capita che le persone autistiche vogliano comunicare qualcosa,
vogliano chiederci qualcosa, ma lo facciano in forma estremamente bizzarra.
E’ il caso di Giorgio, un ragazzino di quasi 13 anni. Molto simile a Giovanni,
Giorgio è un bambino che ha iniziato a dire qualcosa verso gli 8 anni. Il suo
linguaggio è oggi abbastanza buono in ricezione, molto deficitario dal punto di
vista espressivo: conosce un centinaio di parole che usa pochissimo. Si esprime
invece molto bene nel disegno. Giorgio è in piena fase dello sviluppo. All’epoca
dell’aneddoto che riporto, i genitori riferivano che aveva una “sessualità”
prorompente, ma per il momento oltre all’interesse per le compagne di scuola, per
immagini di ragazze e ad un certo interesse esplorativo e manipolatorio per i suoi
genitali, non avevano ancora osservato nessuna polluzione notturna, né pensavano
avesse imparato a masturbarsi.
Durante una seduta educativa con una giovane e bella psicologa del Centro,
Giorgio manifesta una forte eccitazione: più volte abbraccia la ragazza, la guarda
molto interessato. E’ percepibile il suo stato di eccitazione sessuale. Dopo 20
minuti, indica la foto del bagno, esce e ritorna dopo 15 minuti circa. Si siede al
tavolo vis à vis con la dottoressa e inizia tranquillo il suo lavoro. Ogni tanto, si
interrompe, sembra stia cercando qualcosa nel suo cervello e finalmente,
guardando la ragazza dice “pipì lumaca”. La ragazza non risponde perché non
afferra il senso, allora lui le prende il braccio e le dice nuovamente “pipì lumaca”,
non sapendo cosa volesse dire, lo richiama al lavoro, e Giorgio insiste ripetendo la
sua frase. La psicologa si accorge che le sta comunicando qualcosa, non sapendo
cosa gli fa eco “pipì lumaca, Giorgio”. E Giorgio si rimette a lavorare soddisfatto.
Non possiamo esserne certi, ma non sembra casuale l’associazione visiva tra
quella strana “pipì” e la scia che lascia la lumaca. Temple Grandin (Grandin,
1995b) sostiene di pensare in immagini, forse una parte dei nostri bambini
autistici cerca di comunicare in immagini anche quando usa le parole. Il problema
è che non è sempre così facile comprenderli.
Ci sono molti modi per migliorare sia la capacità di comunicare della persona
autistica sia quella di capire cosa gli altri le comunicano, ma è essenziale
restituire, perlomeno a un folto gruppo di persone con autismo, la fiducia nelle
loro intenzioni comunicative. Non c’è nulla di più brutto e questo lo possiamo
sperimentare anche noi, che sentire che l’altro non ti capisce o non ti ascolta
perché pensa che tu non abbia niente da dire.
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Pubblicato su Autismo e disturbi dello sviluppo, vol. 2, n. 2, 231-245
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