Educazione e formazione ambientale - Intervento Ferrari
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Educazione e formazione ambientale - Intervento Ferrari
TAVOLO TEMATICO PER IL PIANO DI BILANCIO IDRICO EDUCAZIONE E FORMAZIONE AMBIENTALE Appunti Richiamo succintamente i passaggi più significativi della Dichiarazione di Bonn, il documento approvato a conclusione della Conferenza Mondiale UNESCO sull’educazione allo sviluppo sostenibile (ESS) (Bonn, 31 marzo - 2aprile 2009). L’analisi del quadro globale è in linea di massima condivisibile: la crescita economica senza precedenti del 20° secolo ha disseminato conflitti di ogni genere e reso più acuti e intollerabili i drammi della povertà e dell’ineguaglianza a scala planetaria; la crisi economica e finanziaria ha evidenziato i rischi associati a modelli di sviluppo insostenibili e a politiche basate su obiettivi di breve periodo sia per le ricadute immediate a livello sociale sia per gli effetti socio - economici di lungo termine degli impatti ecologici. A dieci anni dall’inizio del 21° secolo, il mondo si trova a dover affrontare sfide decisive, per il presente e il futuro delle nuove generazioni, su un intreccio di questioni complesse e strettamente interrelate: dalla tutela delle risorse naturali come condizione per uno sviluppo sostenibile all’espansione dei diritti di cittadinanza e al consolidamento della coesione sociale e della democrazia. Nella Dichiarazione sono richiamati i valori fondanti dell’ESS (pace, giustizia, equità, sufficienza, inclusione, responsabilità…) riconducibili alle enunciazioni della Carta della Terra; è messo l’accento sull’importanza di approcci critici imperniati sull’idea chiave di interdipendenza tra ambiente, economia, società e diversità culturale e capaci di “affrontare le incertezze e risolvere problemi complessi”; è esplicitata l’ambizione dell’ESS a sostenere sistemi educativi orientati verso percorsi di apprendimento su tutto l’arco della vita. È detto apertamente che “l’attuale pensiero economico deve cambiare” e si sottolinea il ruolo decisivo che nella prospettiva della costruzione di società sostenibili sono destinati ad assumere i contributi della ricerca nelle scienze naturali e sociali e i prodotti delle nuove tecnologie. Lo spirito e gli intendimenti operativi della Dichiarazione sono poi condensati in una frase involontariamente lapidaria: “Abbiamo a disposizione le conoscenze, la tecnologia e le capacità per cambiare la situazione”. Queste parole cariche di generoso volontarismo lasciano trasparire un difetto non lieve di senso critico o, se si vuole, quel tanto di supponenza, una delle connotazioni più spiacevoli dell’ambientalismo militante, dietro cui si cela una percezione inadeguata dell’enorme complessità delle sfide da affrontare. Il controllo della conoscenza, delle scienze e delle tecnologie e la capacità di indirizzarne finalità e applicazioni sono campi di dominio di interessi e di esercizio di poteri che puntano non a “cambiare la situazione”, semmai ad esasperarne tensioni e conflitti aggravando ulteriormente il circuito perverso delle relazioni tra rapina e sperpero delle risorse naturali e ingiustizie sociali. I processi che si svolgono sotto i nostri occhi, in questi ultimi anni e mesi, dalla scala globale fino alle più minute realtà territoriali (tempeste finanziarie provocate dall’accumulo in poche mani di ricchezze ingenti, crisi economica e impoverimento dei ceti popolari, confisca di diritti primari a partire dal diritto al lavoro, proliferazione di interventi sull’ambiente che sono autentici progetti di autodistruzione…), sono manifestazioni esplosive della crisi e dell’insostenibilità del modello di sviluppo dominante e delle dottrine e della cultura che lo hanno storicamente nutrito. E la tendenza che oggi tende a prevalere è di consegnarci al miracolismo delle ricette che hanno provocato questi disastri: fino all’idea di dover lasciare al mercato tutti i beni e i servizi da cui possa essere estratto profitto, un’idea che immediatamente ripropone e amplifica il ventaglio delle opportunità di mercato offerte da una vastissima gamma di beni e servizi ambientali. L’ESS sembra restare appartata in una nicchia marginale senza trovare le parole giuste per esprimersi con nettezza su questa materia incandescente che è di sua strettissima pertinenza. È di rilievo prioritario una riflessione sui temi dell’avanzamento della ricerca scientifica e dell’irruzione di nuove tecnologie in intersezione con le dinamiche della società e dei movimenti culturali. Forse volge al termine la stagione degli irrazionalismi del postmoderno, comprese le rappresentazioni di società volatili sospese tra stato liquido e stato gassoso, e si vanno ricostituendo le basi di un pensiero realistico solido, ispirato ad un’illuministica fiducia nell’umanità, nella ragione, nel sapere e nel progresso, che ci sollecita all’esercizio della critica e all’adozione del principio di responsabilità. Va da sé che scienza e tecnologia sono risorse straordinarie per dar corpo e vita a questi percorsi: ma non sono costruzioni “neutre”, cui in ogni caso affidarsi per dare vigore a progetti di sviluppo sostenibile; sono campi di conoscenza e azione aspramente contendibili. Sulla scienza pesano vari fattori di distorsione e ripiegamento: serve metterli in luce e aggredirli per dispiegare le potenzialità creative e innovative della ricerca, della ricerca naturalistica in primo luogo. L’ESS deve occupare questo fronte, essere della partita; partecipare alla fatica di liberare la scienza da pesanti condizionamenti ideologici e culturali (scientismo e negazionismo, persistenza di barriere disciplinari) che ne bloccano capacità di ideazione, prospettive di espansione e integrazione, sviluppo di propensioni al lavoro interdisciplinare come scelta strategica per capire il funzionamento e l’evoluzione dei sistemi socioambientali. L’ESS deve dominare questa materia ed esprimere un ruolo forte di interlocuzione in una battaglia di idee che aiuti la cultura scientifica a recuperare le dimensioni di storicità, complessità e imprevedibilità dei sistemi di cui si occupano le scienze della natura e della vita. In ogni caso, la scienza e le sue ricadute e applicazioni appaiono come l’arena privilegiata in cui si gioca la partita culturale del nostro tempo e dunque il nostro futuro (A. Giuliani e C. Modonesi, Scienza della natura e stregoni di passaggio, 2011). I conti sono da fare con l’ambivalenza della scienza, con la potenza di uno strumento che ci restituisce emozioni di libertà, bellezza e ricchezza, ma può diventare oggetto di uso improprio, di spreco di intelligenza, di umiliazione. “L’avvento dell’economia della conoscenza” – sostiene M. Cini (2007) – “implica che ogni forma di conoscenza debba acquistare la forma della merce… Anche la scienza diventa, da bene comune che era, un bene scarso da immettere sul mercato, di cui può fruire solo chi ha il denaro per acquistarlo”. Un esempio di bieca mercificazione e cattiva scienza è dato dalla sperimentazione di biotecnologie mirate al controllo e alla manipolazione, più che alla comprensione, dei fenomeni naturali. Basti pensare all’incredibile successo mediatico della clonazione animale, propiziato dalla permeabilità di settori scientifici “di punta” alle lusinghe del mondo degli affari: i riscontri effettivi sono stati imponenti in termini di business, ma sono apparsi scientificamente irrilevanti ed economicamente inesistenti (A. Giuliani e C. Modonesi, 2011). Anche in campo ambientale si possono citare esperienze significative al riguardo. Ne è esempio la presenza diffusa di geologi, chimici, biologi ed ecologi “applicati” che si attiva a margine della shock economy che si accende ed espande sullo sfruttamento a fini di lucro delle emergenze calamitose, da cui sono pesantemente e ricorrentemente colpite l’integrità e la bellezza del nostro patrimonio ambientale e paesaggistico (G. Viale, 2011). Mi chiedo, a questo proposito, perché continua a restare al palo, da tempo immemorabile, l’idea forte di un grande progetto di ricostruzione ecologica del territorio nazionale su cui potrebbero essere impegnate competenze di migliaia di operatori qualificati e che potrebbe garantire prospettive nuove e serie di uno sviluppo economico fondato sulla conservazione e sul recupero delle risorse ambientali. La mia sensazione è che, di fronte alla crisi rovinosa e al fallimento conclamato del modello di sviluppo globalmente dominante, ci sia, dall’altra parte, una modesta capacità di mettere in pratica, o forse anche solo di immaginare, un cambiamento possibile. Il contrasto al neoliberismo e alla cultura del pensiero unico che lo ha alimentato può certamente venire dai progressi di una scienza bella e libera e dall’impegno generoso delle associazioni ambientaliste, delle organizzazioni del volontariato, dei centri di educazione ambientale. Non basta però, evidentemente. Gli auspici della Dichiarazione sull’ESS, per altro, hanno una forte carica di contrasto, ma restano al di sotto di una rappresentazione realistica del quadro complesso di contraddizioni, drammi e conflitti inerentemente associato alla crisi globale che investe il pianeta e, nel contempo, alla prospettiva di concepire e praticare un cambiamento epocale. Tenendo presente che, in ogni caso, dovranno essere tentate soluzioni inedite per un assetto di democrazia complessa capace di regolare le relazioni tra nuova qualità del lavoro e nuovo spirito e sostanza nuova della cittadinanza, nonché gli intrecci tra politica, economia e rete di mercati finanziari (A. Schiavone, 2011). Questo campo di riflessioni non ammette risposte o proposte affrettate né tanto meno esaustive. È bene tuttavia che possa diventare e restare a lungo un fertile work in progress. Lo possono arricchire suggestioni di pensiero energico come quelle che ci vengono da un filosofo eminente, E. Severino (2011), sul ruolo della tecno - scienza o, più semplicemente, della tecnica (intesa non in senso tecnicistico o scientistico) come risorsa per il cambiamento: “… Andiamo verso un tempo in cui il mezzo tecnico, essendo diventato la condizione della sopravvivenza dell’uomo ed essendo anche la condizione perché la Terra possa essere salvata dagli effetti distruttivi della gestione economica della produzione, è destinato a diventare la dimensione che va sommamente e primariamente tutelata… La politica vincente, la grande politica, sarà delle forze che capiranno che non ci si può più servire della tecnica. La grande politica è la crisi della politica che vuole servirsi della tecnica”. La percorribilità dello sviluppo sostenibile, come di ogni idea di emancipazione e di riscatto civile e sociale, è condizionata dalla condivisione consapevole e solidale di obiettivi e percorsi di lavoro e di azione. “L’emancipazione” – scrive F. Cassano (L’umiltà del male, 2011) – “non è soltanto un programma per la città futura, ma una pratica interpretativa che deve rendere ognuno curioso dei sogni e dei desideri dell’altro. La fraternità va praticata subito e costantemente, perché le vie di un cambiamento o sono praticate da un gran numero oppure non sono”. Queste parole sono rivolte alle “avanguardie” (i santi, eroici e solitari predicatori di verità, della Leggenda del Grande Inquisitore, dai Fratelli Karamazov di Dostoevskij) perché dismettano sentimenti di superiorità e atteggiamenti di supponenza. È un invito che va rivolto con sollecitudine anche ai nostri ambientalisti, che hanno condotto battaglie coraggiose e importanti in tante parti d’Italia, ma hanno sempre manifestato, specialmente ai vertici delle loro organizzazioni, un inguaribile spirito minoritario. La partecipazione è un tema chiave dell’educazione alla sostenibilità: ma è più spesso invocata che sperimentata e tradotta in opera; si risolve più spesso in predicazione che, come deve essere, nell’impegno a promuovere e sollecitare cambiamenti culturali significativi. A queste connotazioni sono probabilmente riconducibili i risultati insoddisfacenti di tante attività sociali su temi di rilievo ambientale. D’altra parte non sembra ammissibile che si continui a “misurare” la partecipazione sulla base di poveri parametri quantitativi di pronta acquisizione (numero delle persone implicate o dei convegni organizzati o dei testi diffusi). Sappiamo bene che la “società di massa” ha creato un nesso forte e chiaro tra cattiva qualità e successo commerciale: accade per i cibi e il giornalismo, per il turismo e la politica (M. Serra 2011); accade anche usualmente per la scienza e la divulgazione scientifica. Va prestata comunque attenzione alla conoscenza dei fattori storici, sociali e psicologici che possono incidere negativamente sul tasso di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, alle istanze della democrazia. Si possono citare a proposito i libri di B. Barber (Consumati. Da cittadini a clienti, 2010) e di E. Rea (La fabbrica dell’obbedienza. Il lato oscuro e complice degli Italiani, 2011); e una brillante lezione di G. Zagrebelsky (2011) sull’antropologia dei conformisti, degli opportunisti e altre tipologie umane ancora, che vivono una condizione di “servitù volontaria”, di fuga dalla libertà. Il mio parere, per stringere, è che sono la straordinaria emergenza della crisi globale e l’urgenza di un nuovo pensiero per il cambiamento ad imporre all’ESS l’uscita da uno stato di minorità e marginalità, l’assunzione di un ruolo chiave nel confronto culturale e politico, l’acquisizione di capacità e competenze sul fronte e alla scala delle grandi sfide per entrare in un mondo nuovo che ci restituisca il futuro. Questa dimensione ampia e alta dei problemi da affrontare offre un’opportunità non trascurabile all’ESS: lasciarsi alle spalle la prassi penosa di analisi autoafflittive sulle cause di storiche fragilità e incongruenze e dei limiti di incisività delle azioni indirizzate al territorio e alle comunità locali, al sistema formativo, alla politica e ai suoi attori… Credo che una spinta vigorosa a proiettare l’ESS su un suo riposizionamento ambizioso possa venire intanto dalle riflessioni che riusciremo a sviluppare sulle ragioni profonde del “miracoloso” risultato dei referendum di giugno: su quali intuizioni e strategie e capacità di innescare percorsi partecipativi abbiano propiziato quel risultato fantastico su una materia (acqua pubblica, energia alternativa e pulita, diritti e legalità) che è tutta dentro il nucleo di fondamenti etici e culturali dell’ESS. La determinazione su finalità di tempi lunghi e ampi orizzonti deve poter generare ovviamente una più lucida capacità di orientamento e di operatività in contesti territoriali e tematici delimitati. Significativo, al riguardo, anche per entrare finalmente nell’oggetto del Tavolo Tematico, mi sembra il blocco di considerazioni svolte da A. Magnaghi (2011) in un intervento al congresso nazionale del Po (Piacenza, 2007) su “Strumenti innovativi di governo del territorio”, con riferimento ai Contratti di Fiume come strumenti di pianificazione strategica, di promozione della partecipazione e di attivazione di modelli di valutazione integrata. Magnaghi, dopo aver preso atto della coerenza di impostazione dei Contratti con le linee strategiche del Piano di bacino del Po (costruire il governo di bacino, mitigare i rischi idraulico e geologico, valorizzare territorio e fasce fluviali, tutelare le acque, sostenere lo sviluppo locale), sottolinea l’importanza essenziale di un lungo lavoro di mobilitazione di energie, saperi e culture di contesto territoriale e saperi esperti per arrivare alla consapevolezza e al riconoscimento dell’interesse collettivo per la tutela e valorizzazione dei beni ambientali e patrimoniali rappresentati dai fiumi e dai bacini tributari. E insiste sulla condizione prioritaria di uno sforzo intenso per la formazione di un cambiamento culturale e di una più matura capacità progettuale, adeguata all’obiettivo di una condivisione sociale dei nuovi strumenti di governo del territorio: destinati altrimenti a non funzionare, è il caso dei Piani di bacino, o, nel caso dei Contratti di Fiume, a diventare l’ennesima istituzione che si aggiunge ad un sistema decisionale già intricato e pletorico. Ireneo Ferrari 22 agosto 2011