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Comitato di Direzione
Francesco Bonini, Simona Colarizi,
Giuseppe Parlato (coordinatore),
Gaetano Sabatini
Comitato Scientifico
Ester Capuzzo (La Sapienza.
Università di Roma)
Massimo de Leonardis
(Università Cattolica - Milano)
Fernando Garcia Sanz (CSIC - Escuela
Espanola de Arte e Historia)
Paolo Nello (Università di Pisa)
Roberto Pertici (Università di Bergamo)
Carmen González Martínez
(Università di Murcia)
Valery Mikhailenko (Università degli Urali)
Metin Venxha (Università di Korça)
Comitato di Redazione
Coordinatori:
Silvio Berardi, Vittorio Bonacci
Componenti:
Danilo Breschi, Matthew D’Auria,
Emilio Gin, Simone Misiani,
Rodolfo Sideri, Marco Zaganella
Direttore responsabile
Luciano Lucarini
In copertina: Umberto Boccioni,
Carica di lancieri - Carica di cavalleria, 1915
Rivista trimestrale
Anno XIII n. 51 - 2014
Registrata presso il Tribunale di Roma
con il n. 51/2003 del 5 febbraio 2003
Via G. Serafino, 8
00136 Roma
Tel. 06 45468600
Fax 06 39738771
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INDICE
EDITORIALE
p.
5
La seconda segreteria Almirante e il successo
del Msi nel 1972
p.
9
Politica economica e questione operaia
nel dibattito del gruppo dirigente del Pci
tra il 1957 e il 1965
p.
51
Il mito e il pensiero di Giuseppe Mazzini nei nuovi
Stati africani tra Ottocento e Novecento
p.
87
Nuove prospettive di ricerca sul corporativismo
in Europa
p. 111
Il romanzo storico nel III millennio:
se il revisionismo diventa epica dell’equivicinanza
p. 125
Il salvataggio dell’esercito serbo nel 1915,
con un documento inedito dello Stato Maggiore
dell’Esercito
p. 139
Il testimone bugiardo.
Il crollo del campanile di Venezia e i falsi fotografici
p. 169
SAGGI
Giuseppe PARLATO
Gregorio SORGONÀ
NOTE E DISCUSSIONI
Silvio BERARDI
OSSERVATORIO
Valerio TORREGGIANI
Simonetta BARTOLINI
DOCUMENTI
Mila MIHAJLOVIC
Guglielmo DUCCOLI
RECENSIONI
Rodolfo SIDERI
Danilo BRESCHI
Emilio GIN
Valerio DI ZENZO
p. 181
A. Cavaterra, La rivoluzione culturale di Giovanni
Gentile. La nascita dell’Enciclopedia Italiana
E. Garin, U. Spirito, Carteggio 1942-1978,
a cura di M. Lodone
A. Martini, “Prigionieri del nostro mare”.
Il Mediterraneo, gli Inglesi e la non belligeranza
del “Duce” (1939-1940)
L. Spinelli, Il Sionismo in Italia e nella politica
estera fascista
NOTE BIOGRAFICHE DEGLI AUTORI
p. 199
5
ova Historica” intende presentarsi come un luogo di
discussione libero e privo di pregiudizi ideologici o
storiografici, nella più ampia indipendenza di analisi
e di ricerca, sia in ordine ai temi, sia in ordine alle interpretazioni.
“Nova Historica” intende essere “scientifica” anche in un senso
tecnico e formale, e cioè adeguandosi, fin dall’inizio della nuova
direzione, alle indicazioni ministeriali relative all’assicurazione dei
parametri di qualità oggi richiesti. La direzione intende procedere
verso un rinnovamento, sia in termini metodologici, accogliendo
cioè gli apporti che provengono dagli studi interdisciplinari, come
si dirà meglio appresso, sia in termini di contenuti, sia infine nelle
aperture di carattere scientifico alle nuove declinazioni della disciplina storica.
Per questo, passando dalle considerazioni generali a quelle un
po’ più specifiche, occorre sottolineare che il comitato di direzione è l’espressione di una confluenza di profili diversi: la storia
politica dell’Ottocento e del Novecento, la storia economica e la
storia delle istituzioni. La finalità è rendere più ampia e più esplicita, rispetto ad altre riviste, la compresenza di discipline affini e
complementari attraverso le quali sia possibile precisare una linea di ricerca non svincolata dal reale. La forte presenza di un
tema centrale per la cultura e la società contemporanea come
quello dell’Europa, ad esempio, può essere utilmente affrontato a
livello di ricerca anche attraverso questa prospettiva con esiti
scientifici di particolare attualità, unendo la storia politica, quella
6
economica e sociale con quella delle istituzioni politiche ed economiche.
Questa confluenza vuole anche sottolineare la necessità di rivendicare come centrale il metodo storico nel momento in cui
diversi segnali confermano come siano in crisi, dal punto di vista
interpretativo oltre che da quello della ricostruzione, quelle metodologie che prevedono la sostituzione del metodo storico, fatto
di analisi documentaria e di rigore interpretativo conseguente,
con altri modelli estranei alla storiografia.
Infine, si vuole anche ribadire che la complessità della storia
costituisce un valore, contro non soltanto le ideologizzazioni, ma
anche contro le varie banalizzazioni e semplificazioni oggi frequenti sui media, con cui si cercherà comunque un dialogo costruttivo.
La denominazione della rivista, “Nova Historica” allude alla
compresenza di elementi di novità in una struttura classica, sottolineata dall’uso della lingua latina. Si è cercato di proseguire
tale indicazione di origine nella struttura e nella tipologia dei
contenuti.
La rivista manterrà la sua periodicità trimestrale ma, a differenza del passato, un numero, quello di settembre, sarà monografico. I tre numeri non monografici avranno, come si evince già dal
presente fascicolo, una struttura classica e innovativa insieme.
Il numero si apre con la sezione “Saggi”, che prevede normalmente due contributi di ampie dimensioni; a differenza di molte
altre riviste, non riteniamo che la stringatezza dei saggi scientifici sia necessariamente un valore; in tal senso si è deciso di lasciare ampia disponibilità allo studioso, che potrà avvalersi di uno
spazio assai consistente nella redazione dei saggi.
La seconda sezione è quella delle “Note e discussioni”,
anch’essa piuttosto tradizionale, che prevede elaborati meno ampi di quelli presenti nella sezione precedente e soprattutto temi
più specifici o discussioni su argomenti anche di ampio respiro
ma pensati con taglio essenzialmente interpretativo.
La terza sezione è quella dei “Documenti”: ci pare opportuno
presentare, in ogni numero, un documento inedito particolarmente significativo, ovvero una memoria redatta per l’occasione,
ovvero ancora un documento edito ma scomparso alla disponibilità degli studiosi, come per l’appunto quello che si presenta in
questo numero, e cioè la relazione ministeriale sul salvataggio
dell’esercito serbo da parte della Marina militare italiana tra il
1915 e il 1916. La sezione documenti presenterà, in ogni numero,
anche una sottosezione fotografica dedicata a un evento particolare: lo scopo è quello di utilizzare anche la fotografia come momento interpretativo e documentario. In questo numero vi è una
interessante rappresentazione fotografica relativa al crollo del
campanile di San Marco a Venezia, con una curiosa presenza di
falsi fotografici.
La quarta sezione è dedicata agli “Osservatori”. Si tratta di
contributi, in genere due, che intendono aggiornare il lettore, da
un lato, sulle nuove tendenze in termini di ricerca storiografica
relativamente alle tre discipline sulle quali si articola la rivista e,
dall’altro, sulle varie applicazioni della storia: dalla didattica al
rapporto con cinema, teatro o romanzo, dalle relazioni tra storia
e arti figurative alla presenza sempre più massiccia e non sempre
di alto livello della storia su web e in tv.
L’ultima sezione è infine dedicata alle recensioni e alle schede.
Il numero monografico invece non seguirà la struttura a sezioni testé illustrata ma sarà composto di soli saggi; può essere
prevista una sezione documentaria, ma non sono previsti né gli
“Osservatori”, né le recensioni e le schede.
Il numero monografico diventerà un volume di una collana
che l’Editore ha già previsto, “Collana Nova Historica”, nella
quale ovviamente confluiranno anche monografie specifiche.
Tutti i contributi saranno corredati di note a piè di pagina ed,
escluse le recensioni e le schede, di abstract in inglese.
L’Editore infine ha previsto la possibilità di accedere alla rivista on line, consultando anche solo il singolo articolo, oltre
all’intero numero.
La struttura della rivista, oltre che dal Comitato direttivo, è
composta dal Comitato di Redazione, nel quale sono presenti alcuni giovani studiosi con incarichi specifici nell’ambito tecnicoredazionale della rivista e da un Comitato Scientifico internazionale.
7
8
In buona misura, la realizzazione di una rivista storica, in un
periodo di crisi come il presente, costituisce una sorta di scommessa sulle nostre capacità di interessare il lettore e la comunità
scientifica, ma soprattutto di coinvolgere i giovani nel percorso
di una ricerca libera e indipendente fornendo loro una palestra
nella quale la diversità delle opinioni e delle interpretazioni sarà
l’elemento distintivo e il vero valore aggiunto della rivista.
Francesco Bonini
Simona Colarizi
Giuseppe Parlato
Gaetano Sabatini
9
La seconda segreteria Almirante
e il successo del Msi nel 1972
di GIUSEPPE PARLATO
La successione
La morte del segretario del Msi Arturo Michelini, avvenuta il 15
giugno 1969, chiudeva una quindicennale fase nella storia della
Fiamma, nella quale il partito era passato da una lucida strategia
politica – spesso identificata per semplificazione con la politica
dell’inserimento – a una progressiva perdita di voti e di consensi
soprattutto nell’ambito giovanile. I due momenti di crisi di questa segreteria erano stati il mancato appuntamento di Genova nel
luglio 1960 e il Sessantotto. A Genova il Msi non soltanto non era
riuscito a celebrare il proprio congresso a causa della violenza
popolare, ma soprattutto non era riuscito a portare a termine
quelle trasformazioni di immagine e di sostanza che, nelle intenzioni di Michelini e nonostante le forti opposizioni della minoranza intransigente guidata da Almirante, avrebbero trasformato
1
il Msi in un partito di destra moderata e postfascista .
1
Su Genova 1960, il mancato congresso missino e la rivolta della piazza si
vedano in generale P.G. MURGIA, Il luglio 1960, Sugarco, Milano, 1968; P.
COOKE, Tambroni e la repressione fallita, Teti ed., Milano, 2000; A. BENNA,
L. COMPAGNINO, 30 giugno 1960. La rivolta di Genova nelle parole di chi
10
Il Sessantotto invece non fu sostanzialmente compreso dalla
classe dirigente missina, la quale si trovò riunita in una valutazione del tutto negativa della rivolta, in nome di un anticomunismo che allora sembrò evidente dovere sostenere ma che successivamente determinò una vera e propria diaspora nel mondo giovanile neofascista, senza, per altro, produrre vantaggi elettorali al
Msi2.
La rivolta del ’68 rischiava di compromettere la strategia micheliniana, quella strategia che, iniziata nella prima metà degli
anni Cinquanta, ancor prima che Michelini diventasse segretario
del Msi, puntava a trasformare culturalmente e politicamente la
Fiamma in un partito di destra presentabile e spendibile, in grado
di lasciarsi alle spalle il fascismo, da consegnare agli storici. Il che
non significava rinnegare Mussolini e il suo regime, ma cercare di
essere “fascisti in democrazia”, con tutto quello che ciò avrebbe
comportato: in primo luogo la difficile impresa di rendere compatibile il fascismo con la democrazia. Difficile, ma non impossibile,
come avevano dimostrato le posizioni culturali e politiche di Ernesto De Marzio e Nino Tripodi, i quali rispettivamente con il Centro
di vita italiano e con l’Inspe (Istituto Nazionale di Studi Politici ed
Economici) avevano creato una percorso di formazione politica
c’era, Frilli editore, Genova, 2002; A. BALDONI, Due volte Genova. Luglio
1960 – luglio 2001: fatti, misfatti, verità nascoste, Vallecchi, Firenze, 2004;
J. CELLAI, Genova cinquant’anni dopo. L’inserimento mancato: il Msi dalle
origini al congresso del 1960, Sassoscritto, Firenze, 2010.
2
Sul ’68 di parte missina o neofascista si vedano, tra gli altri, A. GASPARETTI, La destra e il ’68, Settimo Sigillo, Roma, 2006; G. TAGLIENTE, S. MENSURATI, Il Fuan. Trent’anni di presenza politica nell’università, Atheneum,
Roma, 1982; A. BALDONI, Noi rivoluzionari. La Destra e il “caso italiano”.
Appunti per una storia 1960-1986, Settimo Sigillo, Roma, 1986; ID., La Destra in Italia (1945-1969), Pantheon, Roma, 1999, pp. 587 – 615; N. RAO,
Trilogia della celtica, Sperling & Kupfer, Milano, 2014, pp. 100-111; molto
interessante è l’intervista a Cesare Mantovani, presidente del Fuan nel ’68, in
La crisi del sistema politico italiano e il Sessantotto, a c. di G. ORSINA e G.
QUAGLIARIELLO, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, pp. 249-264; per un
inquadramento complessivo, G.S. ROSSI, Alternativa e doppiopetto. Il Msi
dalla contestazione alla destra nazionale (1968-1973), Istituto di Studi Corporativi, Roma, 1992, pp. 15-89.
che usciva dal nostalgismo e si poneva in stretto dialogo con la
dottrina sociale cristiana prefigurando un accordo a livello culturale fra il fascismo moderato (antitotalitario, antirazzista e lontano
dai miti nazionalsocialisti) e il pensiero sociale cristiano quale si
era strutturato attraverso le encicliche pontificie.
Il ’68 poneva invece altri interrogativi e faceva risultare immediatamente obsoleta questa strategia: i giovani stavano superando sia l’antifascismo, sia l’anticomunismo, in nome di sintesi
confuse e politicamente non produttive, ma sicuramente più affascinanti della logica dell’inserimento nel sistema. Molti dei giovani che erano stati formati negli anni Cinquanta dai De Marzio
e dai Tripodi (da Accame a Gianfranceschi, da Legitimo a Vassallo, solo per citarne qualcuno) si trovarono in difficoltà: Accame,
per avere individuato elementi positivi nella contestazione, nel
’68 dovette lasciare “il Borghese”3.
Inoltre, l’immagine di Almirante e Caradonna alla Sapienza,
alla guida delle squadre che avrebbero dovuto contrastare
l’occupazione “rossa” dell’Università, aveva segnato un punto di
non ritorno per molti neofascisti presenti nell’Ateneo in termini
di contestazione al sistema. Ed ancor più grave che insieme con il
cattolico, anticomunista e filo atlantico Giulio Caradonna (il cui
culto della violenza non era mai stato al servizio dell’eversione
ma semmai della preoccupazione di rimettere ordine laddove si
presumeva non ci fosse) ci fosse Giorgio Almirante, che aveva
dalla sua molti giovani e che si presentava sì come il fascista, ma
il fascista intelligente e critico, il movimentista, erede semmai di
un fascismo eretico e rivoluzionario. La presenza di Almirante
convinse molti giovani dirigenti missini a dubitare della sua intransigenza, per altro più volte sconfessata in occasione dei congressi, allorquando il brillante e intelligente oppositore si metteva
d’accordo con l’apparato di maggioranza, come era accaduto a
Milano e a Pescara.
Che poi il Msi fosse il paladino del sistema che si sarebbe dovuto abbattere, questo per molti giovani e mano giovani (pen3
Si veda, a tale proposito, il racconto della vicenda in G. ACCAME, Fascismo
immenso e rosso, Settimo Sigillo, Roma, 1990, pp. 25-29.
11
12
siamo a Luciano Lucci Chiarissi e al gruppo de “L’Orologio”, ma
pensiamo anche alla evoluzione di Ordine Nuovo e di Avanguardia nazionale) risultava intollerabile.
Alla luce di questo complesso scenario, risultò ancora più difficile la scelta del nuovo segretario del Msi. A leggere la storia a
distanza di anni, la nomina di Almirante potrebbe apparire assolutamente scontata4. Allora così non fu. Almirante era sicuramente un punto di riferimento all’interno del Msi, ma soprattutto
della minoranza che a lui faceva capo. Uscito male dalla segreteria nel gennaio 1950, la sua azione per 19 anni fu sostanzialmente
ambigua: da un lato l’opposizione dura nelle parole e negli scritti,
dall’altro la flessibilità nel mettersi d’accordo con Michelini, salvando l’unità del partito; da un lato l’appoggio ai giovani e alle
frange più radicali del partito, dall’altro la partecipazione
all’azione alla Sapienza. Almirante controllava non più di un terzo
del partito: una forte minoranza, esigente e poco incline al compromesso tanto che al congresso di Pescara era stato contestato dai
suoi dopo l’accordo realizzato con Romualdi e Michelini.
La scelta di Almirante fu, come si disse unitaria e l’accordo fu
raggiunto nel breve volgere di due settimane: il 29 giugno Almirante veniva eletto all’unanimità segretario. Comprendere come
si sia raggiunto rapidamente quell’accordo, porterà a cogliere
meglio i motivi e le dinamiche della scissione di Democrazia nazionale del 1976.
Pino Romualdi, nella Intervista sul mio partito, nella quale
raccontò il proprio ruolo e diede i propri giudizi in merito a quarant’anni di storia missina, sostenne che la scelta di Almirante
«fu voluta da tutti, anche da ambienti esterni; una scelta di cui
5
non restò che prendere atto» . La frase allude a una «scelta» in
qualche modo obbligata, sia dall’unanimità dei consensi, sia da
agenti esterni che la suggerirono. La frase, in ogni caso, risulta
ancora oggi piuttosto criptica: Tarchi è tra i pochi che si sia se4
Si veda ad esempio il recentissimo volume di A. GRANDI, Giorgio Almirante.
Biografia di un fascista, Sperling&Kupfer, Milano, 2014, pp. 272 che alla questione dedica pochissime righe.
5
P. ROMUALDI, Intervista sul mio partito, in “Proposta Nazionale”, n. 3-4,
maggio-agosto 1987.
riamente interrogato su questa battuta di Romualdi, senza per altro venirne a capo: l’ipotesi che la Confindustria avesse deciso di
appoggiare la candidatura di Almirante è effettivamente poco
probabile6. Tuttavia, Romualdi non era persona che si dilettasse
in provocazioni gratuite: piuttosto era stato un elemento che aveva svolto un fine e sotterraneo lavoro tra le quinte nella fase
clandestina del neofascismo. È lo stesso Tarchi che, analizzando
la questione, a fare riferimento alle tesi del “governo invisibile”
di Giorgio Galli7, a proposito del quale occorre dire che non vi è
mai una unica linea direttiva, ma ve ne sono diverse, secondo i
momenti storici. Nel caso specifico, più che ipotizzare, come mostra di fare Tarchi, un consenso degli ambienti democristiani a
un Almirante tenuto “sotto tutela” dai micheliniani, si potrebbe
pensare all’esatto contrario. Anche nel 1950, la Dc, uscito di scena Almirante, dovette modificare la sua strategia: finché si trattava di avere alla propria destra un partito di reduci e fortemente
legato al ricordo e all’esempio di Salò, rappresentato, appunto,
dalla prima segreteria Almirante, la Dc non poteva temere alcunché; quando invece ad Almirante successe De Marsanich con la
sua politica di apertura ai monarchici e con disegni moderati da
“grande destra” – poi proseguiti e incrementati da Michelini – la
Dc dovette impostare una politica diversa esercitando un più attento controllo del Msi (repressione giovanile, revoca del III congresso di Bari, contenimento dell’operazione Sturzo, legge Scelba); soltanto dopo il 1953, in una situazione obiettivamente difficile per la coalizione centrista, ci furono le note aperture dei governi monocolori alle destre.
Almirante quindi, se vogliamo dare credito alla battuta di Romualdi, rappresentava per gli ambienti del “governo invisibile” un
elemento di maggiore sicurezza, almeno nel giugno 1969, rispetto
ai moderati della corrente di Michelini. Poi evidentemente le cose
cambiarono, non appena giunsero i primi risultati positivi al nuo6
M. TARCHI, Cinquant’anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo,
intervista a cura di A. CARIOTI, Rizzoli, Milano, 1995, pp. 74-75.
7
G. GALLI, La crisi italiana e la destra internazionale, Mondadori, Milano,
1974.
13
14
vo corso missino e non appena ci si avvide che Almirante, almeno
per certi aspetti, stava continuando la politica di Michelini.
Vi è comunque un’altra interpretazione della successione a
Michelini – che per altro non è affatto alternativa alla precedente
– e proviene dall’interno del gruppo micheliniano. Il candidato
destinato naturalmente a succedere a Michelini era Giovanni Roberti, segretario generale della Cisnal, il sindacato missino fondato nel 1950 da Giuseppe Landi. Roberti ha raccontato che riteneva Almirante l’uomo più adatto a galvanizzare il partito e che si
diede da fare a convincere i micheliniani ad appoggiare Almirante8. In realtà, come ha rivelato De Marzio, Roberti non aveva affatto voglia di fare il segretario nel timore di non riuscire ad essere così abile come era stato Michelini nell’imbrigliare
l’opposizione di Almirante. Per cui si addivenne a un accordo:
Almirante avrebbe fatto il segretario a condizione di proseguire
la politica del suo predecessore, e cioè realizzare quell’apertura al
residuo movimento monarchico, che Michelini negli ultimi mesi
della sua segreteria aveva già iniziato a perseguire9, allo scopo di
unire ambienti non fascisti e cattolici alla prospettiva di una destra nazionale10.
8
G. ROBERTI, L’opposizione di destra in Italia 1946-1979, Gallina, Napoli, 1988,
pp. 237-239.
9
Ivi, pp. 236-7.
10
«Io sapevo che Roberti non aveva voglia di fare il segretario del partito. Gli
proposi un incontro a tre con Almirante, per ottenere da lui assicurazioni che
avrebbe fatto la politica di destra nazionale (il nome fu suggerito da me e fu
tratto da un discorso di Salandra del 1921, che con quella denominazione volle
indicare lo schieramento comprendente i suoi deputati, i deputati nazionalisti
e quelli fascisti) (…). Io sapevo che ad Almirante non interessava la politica ma
il potere. E accettò una precisazione di Roberti secondo la quale la destra nazionale doveva essere l’avvio per la trasformazione del partito in un partito di
destra democratica (cioè democrazia nazionale). Almirante, non solo dette adempimento all’impegno, ma accelerò la marcia verso la trasformazione finale» (E. DE MARZIO, La mia destra e quella di Fini, in “Meridiano Sud”, 30 settembre, 1995); si veda anche la memoria di De Marzio rilasciata a Raffaele
Delfino, sostanzialmente analoga con qualche dettaglio in più (ci sono le parole virgolettate con le quali Almirante accettò di svolgere una politica di destra
e non di alternativa al sistema), in R. DELFINO, Prima di Fini, intervista a cura
di M. Bertoncini, prefazione di F. Perfetti, Bastogi, Foggia, 2004, pp. 90-91. In-
Più precisa è stata la testimonianza di Massimo Anderson, responsabile giovanile del Msi e fondatore nel 1971 del Fronte della
Gioventù: la base giovanile scalpitava per l’immobilismo cui era
stata costretta dalla malattia di Michelini:
Ecco perché lo stesso Gianni Roberti, che in un primo momento era
stato indicato dagli uomini di vertice come il naturale successore di
Michelini, propose un ‘compromesso’ che, tutto sommato, poteva rivelarsi fruttuoso: dare la segreteria ad Almirante a condizione che si impegnasse ufficialmente a non discostarsi dalla linea politica della destra. Non solo: una volta ottenuta la segreteria, Almirante avrebbe dovuto garantire la ‘continuità’ accettando una sorta di direzione collegiale del partito, senza scompaginare i quadri dirigenti. Tale soluzione
fu concordata nel corso di una riunione informale alla quale parteciparono, oltre a Roberti, Romualdi, De Marzio, Nencioni, Franz Turchi,
Tripodi. Furono consultati altri ‘moderati’, fra cui Mario Tedeschi e
Gianna Preda e nessuno, in verità, si dichiarò contrario11.
Secondo Raffaele Valensise, invece, esponente della sinistra nazionale e responsabile dell’organizzazione del partito nella gestione
Michelini e confermato a quell’incarico da Almirante, la scelta del
successore era stata già fatta dallo stesso segretario agli inizi di
maggio del 1969, attraverso la consultazione dei principali esponenti del partito (Tripodi, Bacchi, Romualdi, Roberti, De Marzio e
lo stesso Valensise); secondo quest’ultimo, alla soluzione Almirante, caldeggiata da Michelini ad appena un mese e mezzo dalla fine,
si sarebbero opposti soltanto Roberti e De Marzio, non a caso coloro i quali sarebbero stati, qualche anno più tardi, i protagonisti
della scissione di Democrazia Nazionale12.
fine, nell’intervista rilasciata a Rao, De Marzio si assume la responsabilità di
avere convinto Roberti a puntare su Almirante (N. RAO, Trilogia della celtica,
cit., p. 125).
11
M. ANDERSON, I percorsi della Destra, intervista di A. Ruggiero e prefazione
di M. Veneziani, Controcorrente, Napoli, 2003, pp. 73-74.
12
G.S. ROSSI, Alternativa e doppiopetto. Il Msi dalla contestazione alla destra
nazionale 1968-1973, Istituto di Studi Corporativi, Roma, 1992, pp. 93-94. Tale
testimonianza contrasta nella sostanza, se non nei tempi, con quella rilasciata
da Stefano Delle Chiaie, secondo la quale, nell’ambito di una dettagliata ricostruzione, Michelini gli avrebbe confidato nei primi mesi del 1969 di non volere assolutamente lasciare la segreteria ad Almirante; anzi, proprio per evitare
15
16
Il ritorno di Almirante alla segreteria del Msi sarebbe stato concordato anche con Gastone Nencioni, presidente dei senatori
missini (il quale, per altro, non sarebbe stato particolarmente
“premiato” nella successione, visto che fu semplicemente confermato al posto che già occupava) soprattutto in merito alla questione dei finanziamenti al partito, una parte dei quali sarebbe
passata per le mani di Nencioni13.
L’unica cosa certa, in questa vicenda, è l’aspetto politico del problema: Almirante si rese disponibile a condurre unitariamente il
partito alla condizione di non abbandonare la politica di destra
che aveva caratterizzato la precedente gestione. Di fatto, fra
l’Almirante oppositore strenuo (con qualche compromesso) di
Michelini e della sua politica della “grande destra” e l’Almirante
di nuovo segretario, le differenze non sono poche e di poco momento.
ciò aveva chiesto a delle Chiaie un accordo per il rientro di Avanguardia nazionale nel partito e il ritorno di Borghese al vertice della Fiamma (Cfr. S.
DELLE CHIAIE, L’aquila e il condor. Memorie di un militante politico, Sperling
& Kupfer, Milano, 2012, pp. 57-59).
13
Secondo un sito anarchico, inverificabile dal punto di vista scientifico, un
collaboratore di Giorgio Pisanò avrebbe assistito, nel gennaio 1969, pochi mesi
quindi dalla morte di Michelini, a un colloquio tra lo stesso Pisanò (allora amico di Almirante ma solo giornalista, non ancora entrato in politica) e Almirante, a Roma, nella sede nazionale del Msi. In quella occasione Almirante,
davanti allo sconosciuto, avrebbe parlato di due linee di finanziamento permanenti delle quali fruiva in quel momento il partito: la prima, proveniente da
Assolombarda-Montedison, veniva gestita direttamente da Michelini; la seconda, di provenienza Cefis-Eni, passava per le mani di Nencioni. La prima si
era interrotta da poco tempo, probabilmente per la scalata Eni alla Montedison; restava la seconda e questo rendeva strategico il ruolo di Nencioni anche
per la futura segreteria del partito. A parte la ricostruzione piuttosto surreale
dell’incontro, risulta difficilmente credibile che Almirante abbia avuto la leggerezza e l’ingenuità di raccontare cose riservate e delicate di fronte a estranei.
Tuttavia, nel merito, le notizie relative alle due linee di finanziamento risultano verosimili. (Dal Forum “12 settembre 1969. Strage di Stato”; si tratta di un
forum anarchico creato da ex appartenenti al “Circolo 22 marzo” da “Rivista
Anarchica online”).
La strategia di Almirante
Con la nuova segreteria Almirante ebbe quindi inizio un progetto
destinato a chiudersi quasi sette anni più tardi, e cioè con la scissione di Democrazia Nazionale. Almirante impresse subito un notevole impulso al partito impostando una strategia su tre direttrici:
da un lato, volle porre mano a una ampia ristrutturazione interna
del partito; dall’altro, volle tentare il recupero di coloro i quali si
erano allontanati dalla Fiamma; infine, volle dare visibilità al Msi
portandolo nelle piazze usando un linguaggio diverso da quello
che aveva caratterizzato il partito in precedenza.
Per quanto riguarda la ristrutturazione del partito, Almirante
fu costretto a moltiplicare i settori in cui si articolava la direzione, creando anche doppioni rispetto al passato, e ciò sia per controbilanciare i settori controllati dalla vecchia maggioranza, sia
per dare spazio ai propri uomini; si contarono pertanto 15 settori
nazionali, 7 uffici direttamente dipendenti dal segretario, 6 comitati o consulte alle dipendenze dei responsabili di settore, 4 comitati autonomi, 4 centri di cultura o di formazione, 9 commissioni
parallele a quelle parlamentari, 4 organizzazioni parallele (quelle
giovanili) e un Comitato finanziario14. Contemporaneamente, Almirante provvedeva a rivitalizzare il partito attraverso incontri e
rapporti con i quadri (il 13 settembre per i quadri meridionali, il 21
per quelli del Nord); sempre in settembre, dal 10 al 15, si era tenuto
al Terminillo un corso di aggiornamento politico per i dirigenti giovanili; analogo corso venne svolto i primi di novembre per le dirigenti femminili, mentre a metà dello stesso mese era stata la volta di
un incontro a Roma con tutti i consiglieri provinciali15.
Il “nuovo corso” era importante ma sostanzialmente serviva,
da un lato a rafforzare la leadership almirantiana rispetto all’ex
gruppo dirigente micheliniano, e dall’altro a rendere accettabile
presso i fedelissimi del nuovo segretario il fatto che la strategia di
Almirante fosse la stessa di Michelini, e cioè fare forza
sull’elettorato moderato e conservatore, atlantico e anticomunista
14
15
G.S. ROSSI, Alternativa e doppiopetto, cit., pp. 97 ss. e 112.
Ivi, p. 100.
17
18
per potere condizionare la Dc ed eventualmente aiutarla nel caso
in cui avesse intrapreso una linea affettivamente anticomunista;
se invece ciò non fosse riuscito – se cioè la Dc avesse continuato
la sua politica considerata ambigua e di cedimento rispetto al Pci
– il Msi si sarebbe qualificato come il partito più deciso a contrastare la presa del potere del Pci e avrebbe raccolto intorno a sé
più ampi consensi.
La seconda fase della strategia fu il ritorno al Msi di coloro
che nei due decenni precedenti se n’erano allontanati: una parte
della sinistra (non Pini e Pettinato, che nei confronti di Almirante
avevano una diffusa sfiducia personale e politica, tra l’altro datata non da qualche anno ma dalla Rsi16 e neppure di Massi, per il
quale non si trattò di un “ritorno” ma di un “riavvicinamento”) e
soprattutto Rauti e una parte cospicua di Ordine Nuovo, uscito
dal Msi nel 1956, dopo la sconfitta degli “spiritualisti” al congresso di Milano.
Tra i due gruppi vi era una differenza non da poco: se la sinistra negli ultimi anni era stata sempre più isolata, Rauti aveva
dietro di sé un gruppo non trascurabile, sia in termini numerici,
sia in termini di capacità organizzativa e politica.
La sinistra, dopo l’uscita di Pini e di Pettinato, nel 1952, dopo
che Francesco Palamenghi Crispi, che della sinistra nazionale era
considerato uno dei maggiori esponenti, aveva assunto importanti ruoli istituzionali in Banca d’Italia ed era uscito dalla scena politica, dopo la diaspora dei gruppuscoli che si richiamavano al
terzaforzismo e all’equidistanza fra Urss e Usa, si era divisa: una
parte era passata con il segretario Michelini, accettando la sua
politica dell’inserimento; un’altra parte, quella intellettualmente
più dotata culturalmente e con una non trascurabile componente
16
Sia Pini che Pettinato avevano rappresentato in Repubblica Sociale l’ala
moderata e aperturista che aveva trovato in Almirante e nel suo ministro,
Mezzasoma, una durissima opposizione. Pettinato attribuì anche ad Almirante
sia la sospensione dalla direzione de “La Stampa”, avvenuta dopo il celebre
articolo Se ci sei batti un colpo, il 21 giugno 1944, sia la defenestrazione definitiva dalla direzione del quotidiano torinese, l’anno successivo (Cfr. G. PARLATO, Introduzione a C. PETTINATO, Se ci sei, batti un colpo… Cento articoli de
“La Stampa” per la storia della RSI, Lo Scarabeo, Bologna, 2008, pp. 35 e 41).
giovanile (Mario Bernardi Guardi, Francesco Pezzuto, Gaetano
Rasi, Giorgio Vitangeli, Franco Tamassia, Massimo Brutti, poi
approdato al Pci, solo per citarne alcuni), si era riconosciuta ne
“L’Orologio”, la rivista di Luciano Lucci Chiarissi, una delle menti più aperte e lucide del neofascismo, che uscì per un decennio,
dal 1963 al 197317.
Parte di questo gruppo (Rasi, Tamassia, Vitangeli), con Diano
Brocchi, sindacalista e collaboratore de “L’Universale” durante il
fascismo, e con esponenti della Cisnal, il sindacato vicino al Msi,
come Giovanni e Massimo Magliaro, Giuseppe Ciammaruconi e
altri, diedero vita alla “Rivista di Studi Corporativi” poi diretta da
Gaetano Rasi che si situò nella linea almirantiana, professandosi
il nuovo segretario nettamente corporativo e seguace
dell’umanesimo del lavoro di Giovanni Gentile.
Tuttavia, nonostante l’appoggio del vertice del partito, questo
gruppo – Brocchi morì quasi subito, Massi era sempre impegnato
nell’attività accademica (ordinario a Roma di geografia economica, fu presidente per diversi anni della Società Geografica Italiana18) – non riuscì a costituirsi come gruppo autonomo, né poté
incidere nella struttura politica della Fiamma, preferendo
un’attività prettamente culturale.
Ben diverso invece il discorso su Rauti e sul suo gruppo19.
Come disse Almirante a Gianpaolo Pansa in un’intervista rilasciata i primi di dicembre del 1970 – qualche giorno prima del
golpe Borghese – l’unico gruppo esterno al Msi che gli interessava veramente era quello di Ordine Nuovo:
17
Su “L’Orologio” si veda G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 372 ss.; si veda anche M. BOZZI
SENTIERI, Dal neofascismo alla nuova destra. Le riviste 1944-1994, Nuove Idee,
Roma, 2007, pp. 107 ss.
18
Su Massi, oltre a Nazione Sociale. Scritti politici 1948-1976, a cura di G.S.
Rossi, Istituto di Studi Corporativi, Roma, 1990, si vedano gli atti del convegno
organizzato nel 2013 dalla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice e dalla
Società Geografica Italiana su Ernesto Massi geografo e politico, a cura di A.
Perrone, attualmente in corso di stampa.
19
Una puntuale ricostruzione del rientro di Rauti e della sinistra si veda in
G.S. ROSSI, Alternativa e doppiopetto, cit., pp. 105 ss.
19
Mi chiese di prendere nota di un successo al quale teneva molto. Era
riuscito a riportare quasi per intero nell’alveo del Msi l’unico gruppo
esterno che gli interessava: l’Ordine Nuovo guidato da Pino Rauti, “il
più consistente e il più nobile”. E aggiunse che la sua politica di condurre il partito in piazza gli aveva permesso di tenere con sé i militanti
giovani, “onesti, preparati e aggressivi”20.
20
In effetti, il ruolo di Rauti all’interno del Msi non fu di mera facciata21. Anzi, proprio negli anni 1970-1973, l’ex capo di Ordine
Nuovo fu molto vicino al segretario, svolgendo il ruolo di consigliere di Almirante. Probabilmente non l’unico, ma senza dubbio
tra i più ascoltati22.
È poi da tenere presente che Rauti non si limitò ad avere un
peso, ancorché significativo, dal punto di vista meramente personale: egli volle conferire al proprio ritorno nel Msi un valore di
rilievo, anche per smentire quanti non avevano affatto gradito
tale ritorno, interpretandolo come una sorta di tradimento del
progetto rivoluzionario; in effetti, coloro che non aderirono al
Msi ma continuarono l’azione nel Movimento Politico Ordine
Nuovo ebbero nei confronti del loro ex leader polemiche che non
si limitarono all’invettiva. Secondo Rauti, il gruppo di Ordine
Nuovo non era abbastanza forte all’esterno del Msi; per questo
motivo, il rientro avrebbe potuto rafforzare tale componente fino
al punto di condizionare Almirante23.
Anche per questi motivi, Rauti diede corpo e sostanza culturali al proprio rientro nel partito, cosa, questa, che avrebbe dovuto
allarmare i micheliniani, i quali invece se se ne preoccuparono,
20
G. PANSA, Il revisionista, Rizzoli, Milano, 2009, pp. 405-406.
Il gruppo di Rauti ebbe anche importanti spazi istituzionali: 13 dirigenti di
Ordine Nuovo furono chiamati a fare parte del Comitato centrale del Msi,
quattro di costoro entrarono nella Direzione Nazionale (Rauti, Andriani, Sermonti e Maceratini).
22
Lo si evince dalle poche ma significative lettere di Almirante a Rauti rinvenute nell’archivio di quest’ultimo, ora donato dalla famiglia alla Fondazione
Ugo Spirito e Renzo De Felice (AFUS, Archivio Fondazione Ugo Spirito, Fondo
Rauti, in corso di acquisizione).
23
G. GALLI, La crisi italiana e la destra internazionale, cit., p. 206.
21
non lo diedero a vedere24. Intanto uscì “Ordine Nuovo”, una
nuova serie della rivista, meno “rivoluzionaria” che non nel passato e soprattutto priva di quegli accenni antisistemici e razzisti
che ne avevano connotato le precedenti serie. Su questo Almirante era stato categorico, come spiegò a Pansa in occasione della già
citata intervista:
Il nostro è un partito cattolico, compatto intorno a me e senza il lusso
delle correnti. Un partito che non è più rissoso e non ha nostalgie fasciste. E soprattutto che ha messo da parte tutto l’antisemitismo del vecchio regime fascista25.
Se la ripresa di “Ordine Nuovo” servì a Rauti per dimostrare agli
increduli che la politica da lui perseguita non era mutata rispetto
al passato, una vera novità fu invece rappresentata da “Presenza”,
una rivista presentata un po’ modestamente come “agenzia”, ma
che ebbe invece un ruolo essenziale nella definizione del nuovo
corso rautiano. Infatti l’ex leader di Ordine Nuovo non volle riproporre le vecchie parole d’ordine del passato (tradizionalismo
aristocratico evoliano, razzismo in difesa dell’Occidente minacciato da ebrei, zingari e comunisti26), bensì passare alla individuazione di nuovi metodi di lotta politica: dall’analisi della sanità
agli enti locali, dal problema della povertà a quello della crisi energetica, dall’urbanistica alla storia, dalla ecologia alla demografia. “Presenza”, diretta prima da Giulio Maceratini, quindi, dal
1971, dallo stesso Rauti, ebbe una importante funzione “tecnica” e
24
Sui dubbi nell’ambiente moderato circa il ritorno di Rauti nel partito, si veda M. ANDERSON, Op. cit., p.76.
25
G. PANSA, Op. cit., p. 406. Peraltro, in una biografia giornalistica di Giorgio
Almirante, fondata più su testimonianze orali che su documenti, si legge che
Almirante nel 1969 sapeva bene «cosa pensano di Hitler e degli ebrei quelli di
Ordine Nuovo, conosce quelli che per anni saranno i loro testi fondamentali,
la loro simpatia per il filosofo Julius Evola» (V. LA RUSSA, Giorgio Almirante.
Da Mussolini a Fini, Mursia, Milano, 2009, p. 137).
26
Si veda, per tutti, come esempio, l’articolo non firmato (e quindi redazionale), Razzismo speranza d’Europa, in “Ordine Nuovo”, n. 4-5, luglio-agosto
1955, ora nella ristampa anastatica Ordine Nuovo mensile di politica rivoluzionaria 1955, a c. di S. Pessot, Novantico editrice, Pinerolo, 2012, pp. 79 ss.
21
22
pedagogica in un ambiente piuttosto chiuso alla professionalità e
alla ricerca di nuove dimensioni della politica, uscendo con fascicoli monografici sui nuovi temi sui quali l’attualità politica si coniugava.
Un ruolo particolare ebbe, dal punto di vista culturale, in questo periodo la figura di Adriano Romualdi. Figlio di Pino, fondatore del Msi e teorico di una linea aperturista e occidentale, Adriano fu uno degli intellettuali più completi e interessanti
dell’ambiente. Attivista della Giovane Italia al liceo “Giulio Cesare” di Roma, si laureò con De Felice e con Romeo alla Sapienza,
un po’ clandestinamente, visto che, per la sua fama di intellettuale e soprattutto di attivista, nessun professore lo voleva laureare27. Quello che di Romualdi qui ci interessa, e che Rauti assunse
come linea programmatica della sua componente, fu l’uscita dal
nostalgismo neofascista, in termini ben diversi da quelli che caratterizzarono i micheliniani, cattolici e moderati.
Adriano Romualdi condusse per primo, in quell’ambiente, un
duro attacco al nazionalismo, compreso a quello fiancheggiatore
del fascismo, proprio mentre il Msi si accingeva a fare l’accordo
con i monarchici e ad assumere quella linea di destra nazionale
che l’avrebbe dovuto qualificare nell’ambiente moderato, cattolico, nazionale e anticomunista. L’attacco al nazionalismo non era
ovviamente condotto in nome dei principi illuministici dell’’89,
bensì in nome di valori tradizionali per i quali lo stesso concetto
di nazione appariva “rivoluzionario” e contrario all’ordine naturale gerarchico. In questo contesto veniva posto sotto accusa lo
stesso fascismo, nella misura in cui si discostava dai miti europeistici tipici del nazionalsocialismo nonché da quei movimenti
che, nell’Europa degli anni Trenta e Quaranta, avevano sostenuto
tesi razziste e totalitarie. L’attacco di Romualdi era chiarissimo e
senza equivoci:
Diciamolo francamente: accenti, slogans, simboli e motivi di questa destra sono ormai qualcosa di superato, spesso di patetico, talvolta di ridicolo. All’origine di tutto ciò sta il rapido deterioramento della tema27
Cfr. R. SIDERI, Adriano Romualdi. L’uomo, l’opera e il suo tempo, Settimo
Sigillo, Roma, 2012, pp. 9-10.
tica del nazionalismo dopo il 1945, dovuto al venir meno della ragione
storica delle piccole patrie europee di fronte alla Russia e
all’America.(…) L’idea di nazione, qual è stata elaborata dalla cultura
romantica come sintesi dei valori di un popolo in antitesi ai valori degli
altri popoli europei, è anch’essa insufficiente a contrastare i miti internazionalistici della democrazia e del comunismo, di cui si fan scudo gli
imperialismi russo e americano: solo un’ideologia del nazionalismo europeo lo potrebbe. (…) Il vocabolario della Destra (come il suo guardaroba, del resto: certe sezioni di partito stanno tra il negozio di rigattiere
e il sepolcro) è ormai terribilmente demodé e non ci si può meravigliare
se i giovani voltano le spalle a tutto questo ciarpame. La Destra è vecchia e non ha più un’idea. Rispondere: “fascismo” presuppone almeno
la coscienza che il fascismo di domani non può più essere quello di ieri,
quello dell’Italia sola e autosufficiente, la quale – sia chiaro – non esisterà più28.
Pertanto, dopo il 1968, all’interno della destra italiana si operarono almeno tre interessanti esperimenti culturali, ben lontani fra
loro, in merito all’uscita dal fascismo: o in senso moderato e istituzionale con qualche richiamo alla dottrina cattolica (come De
Marzio, Roberti e gli altri micheliniani avrebbero voluto), o in
senso totalmente alternativo al quadro di riferimento politico,
quindi rivoluzionario, secondo quello che Rauti e Romualdi proponevano, in una dimensione che privilegiasse le ideologie
dell’ordine nuovo europeo negli anni fra le due guerre mondiali;
ovvero ancora la linea della “sinistra nazionale” rappresentata
dalla rivista “L’Orologio”, per una iniziativa europea in termini
di lotta contro i due blocchi e a favore dei movimenti anticolonialisti in Africa e in Asia. Quest’ultima posizione fu quella che
faticò maggiormente ad accettare l’inserimento organico nel Msi,
preferendo porsi su posizioni critiche rispetto alla Fiamma.
In mezzo, fra i due poli che accettano di operare all’interno
del partito, c’era Almirante, che di entrambi aveva bisogno per
rafforzarsi ed eventualmente per poterli superare. Se i due poli
erano intenzionati, ciascuno in termini diversi e alternativi fra
loro, a superare, storicizzandolo, il fascismo e a cercare vie nuove
28
A. ROMUALDI, La destra europea e la crisi del nazionalismo, in Id., Una cultura per l’Europa, a cura di G. Malgieri, Settimo Sigillo, Roma, 1986, pp. 32 ss;
ora nella terza ed. 2012.
23
24
per la destra italiana, Almirante cercò invece di applicare una
strategia essenzialmente desunta dal fascismo nella sua scalata al
potere e in questo senso si può parlare di “nostalgismo almirantiano”.
Se fino ad allora Almirante aveva rappresentato l’elemento di
punta della componente più intransigente ed identitaria, assolutamente contrario alla politica della destra nazionale operata da
Michelini, ora egli compiva un interessante révirement: per arrivare alla segreteria accettò di realizzare quella politica che prima
contestava anche duramente, ma a una condizione, che non era
tanto quella della propria segreteria, quanto quella di fare accettare a tutti il metodo fascista, certo che in quell’ambiente sarebbe
stato accolto positivamente.
Tale metodologia si articolava in tre momenti: in primo luogo
si trattava di riconoscere la necessità di ricompattare il neofascismo. Con Michelini vi era stato un progressivo affinamento della
proposta moderata con la progressiva fuoriuscita delle ali non
compatibili, allo scopo di giungere alla presentabilità esterna del
Msi: erano uscite la sinistra di Pini e Pettinato, poi quella di Massi, infine la destra di Ordine Nuovo. Almirante, in questo senso
annullava di fatto l’opera di Michelini: così rientravano prima la
componente rautiana, quindi la sinistra.
Almirante così poteva prepararsi per la seconda fase, quella
della nuova destra nazionale, giovane, dinamica, vivace e se necessario aggressiva nelle piazze, ben diversa da quella micheliniana29; come il fascismo era stato un fascio di forze diverse, così
la destra nazionale poteva presentare tre componenti diverse: il
centro rappresentato da Almirante, in continua mediazione, ma
sostenuto dai risultati; la sinistra nazionale e corporativa, debole
29
La nuova “aggressività” missina, in luogo del compassato stile del “ragionier” Michelini, suscitò l’immediata reazione di Pietro Nenni e alla data del 26
maggio 1970, in seguito a una trasmissione di Tribuna Politica, l’anziano
leader socialista annotò nel suo diario: «Siamo al punto che ieri Almirante ha
potuto alla TV auspicare una soluzione greca della nostra crisi politica e sociale, aggiungendo che il Msi non è in grado di fare da solo questa operazione,
ma si offre come pattuglia d’assalto» (P. NENNI, I conti con la storia. Diari
1967-1971, Sugarco editore, Milano, 1983, p. 472).
numericamente, ma che però Almirante appoggiava, assorbendola, più che rafforzandola; e la destra che predicava l’alternativa al
sistema.
Il Msi, esattamente come il fascismo, poteva presentarsi di sinistra, se necessario, in campo sociale, con la socializzazione e la
rappresentanza corporativa; conservatore e istituzionale per rassicurare i moderati e per portare avanti la destra nazionale con
monarchici, cattolici ed eventualmente frange liberali; rivoluzionario per galvanizzare i giovani, agitando un’alternativa al sistema che prefigurava confusi nuovi scenari di società; in ogni
caso il Msi poteva dichiarare di avere superato il dilemma fascismo-antifascismo e nello stesso tempo presentarsi come il continuatore di un’eredità complessa e pesante come quella fascista30.
Almirante non era nuovo a tale strategia: aveva tentato una
metodologia analoga nella prima segreteria (1947-1950), con risultati disastrosi e scontentando tutti: pensare cioè che, senza essere
al governo e senza la crisi dello stato liberale come nel 1919-21,
fosse possibile presentarsi come partito di “sintesi”, destinato a
diventare un modello di società nella quale tutte le componenti
potessero riconoscersi ed essere rappresentate, determinò la crisi
del partito e la necessità di sostituire Almirante alla segreteria
prima con Augusto De Marsanich, quindi con Michelini: costoro,
pur essendo fascisti a tutti gli effetti, avevano accuratamente scar30
Nell’articolo comparso sul “Secolo d’Italia” il 1° gennaio 1970, Almirante espose i termini della sua azione presente e futura. Per «passare dall’alternativa morale al centrosinistra e al comunismo a quella politica», bisognava andare «oltre
gli angusti limiti e schemi dei reducismi e dell’ideologia per prendere atto che si
è chiusa una fase storica (…) Il nostro passato si chiama Msi (…) Essere missini
oggi significa aver superato la polemica fascismo-antifascismo (…) avere coraggiosamente affermato la necessità (…) di non mandare dispersa una eredità
e una continuità di idee e principi, di costante politica e nazionale ed europea
che il movimento fascista ha tramandato a tutti gli italiani; e avere con altrettanto coraggio vissuto una diversa esperienza, accettandone nel bene e nel
male gli insegnamenti, respingendo ogni tentazione eversiva, filtrando il passato nel presente, sottoponendoci, giorno per giorno a un riesame critico – e,
non temiamo di aggiungerlo, autocritico – che ci consenta di presentarci alla
pubblica opinione come un movimento moderno, attuale, aggiornatissimo e al
tempo stesso ricco di tradizione».
25
26
tato l’ipotesi di ricalcare la strategia vincente di Mussolini, pensando che in una società pluralistica si dovesse avere una proposta politica la più omogenea possibile senza quella doppiezza che
era stata la caratteristica di Togliatti (e che portò al fallimento del
progetto rivoluzionario del Pci) e che era stata ancora prima la
carta vincente di Mussolini: il fascismo era rivoluzionario o conservatore, democratico o dittatoriale secondo le opportunità della
situazione e secondo le necessità31.
Tra l’altro, proprio questo problema sarebbe stato evidenziato
dalla domanda di autorizzazione a procedere presentata dal Procuratore Generale della Repubblica al ministro di grazia e giustizia Oronzo Reale il 7 luglio 1975 con l’imputazione di ricostituzione del partito fascista, a proposito della singolare rassomiglianza della linea politica di Almirante con le metodologie che
portarono Mussolini alla conquista del potere32.
31
Come ha scritto Marco Tarchi, Almirante era «abilissimo nell’usare parole
d’ordine moderate e anticomuniste e slogan rivoluzionari e antisistemici» (M.
TARCHI, Cinquant’anni di nostalgia…, cit., p. 86).
32
L’unità di posizioni così differenti (l’appello ai moderati, da un lato, e
l’alternativa al sistema, dall’altro) fu il principale motivo di contestazione da
parte della Procura della Repubblica: «Vi sono sufficienti elementi per potere
affermare che questa unità venne basata sulla conciliazione fra due linee divergenti, e cioè quella dell’azione politica nell’ambito del sistema democratico-parlamentare che, consentendo di sfruttarne i vantaggi, poteva proiettare il
partito sul piano del consenso, attraverso l’attrazione delle forze di destra, e
l’altra dell’azione rivoluzionaria dei giovani, premessa necessaria per il raggiungimento della meta finale che è quella dell’abbattimento del sistema. Nello stesso tempo in cui si dichiara di volere agire nel sistema si lascia aperta la
via ad altre soluzioni di carattere rivoluzionario, e comunque non democratiche, mediante un artificio dialettico che rappresenta, da un lato l’evento rivoluzionario in termini assolutamente ipotetici in presenza di determinati presupposti (l’inserimento dei comunisti nell’area del potere) e dall’altro considera inevitabile il verificarsi dei presupposti come conseguenza del regime democratico (…) Il discorso di cui sopra, a ben vedere, riprende la formula fascista del “consenso e della forza” e ripropone, tra l’altro, l’alternativa di Mussolini che, durante l’imperversare delle squadre fasciste, non mancava di blandire e di minacciare dichiarandosi incerto tra legalità e illegalità» (Atti parlamentari, Camera dei Deputati, VI legislatura, Doc. IV, n. 244, Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro i deputati Tripodi Antonino (...) per
il reato di cui gli articoli 1 e 2 della legge 20 giugno 1952 n. 645 (Riorganizza-
Questo fu il vero nostalgismo almirantiano, non i saluti romani
o le teste del duce nelle sedi. Non si trattò di un “nostalgismo” emotivo, ovviamente, bensì di una scelta ragionata e consapevole
da parte del segretario del Msi, il quale sapeva anche – e lo si vedrà più avanti – che questa strategia sarebbe stata l’unica a tenere
unito il partito, finché naturalmente sarebbe stato possibile conciliare l’inconciliabile. Un’ultima osservazione: la vera differenza fra
la strategia di Mussolini e quella di Almirante fu che la prima era
uno strumento che avrebbe dovuto portarlo, come lo portò, rapidamente al potere; la seconda era una strategia di opposizione, in
una condizione in cui la doppiezza e l’ambiguità del messaggio sarebbero stati stigmatizzati (come lo furono) con notevole rapidità
e, alla fine, scontentando tutti, ma tenendo unito il partito.
In tutto questo, l’errore dei micheliniani fu notevole: in primo
luogo non avere avuto il coraggio di assumere la segreteria del Msi
e di avere lasciato che la prendesse Almirante; in secondo luogo di
non essersi accorti che l’arrivo di Rauti avrebbe modificato non solo
l’immagine del partito ma anche il suo assetto e soprattutto la sua
sostanza, come poi fu. Rauti non fu un’appendice posta al solo scopo
di attirare i giovani. Il ruolo di Rauti, come si è detto, fu notevole e
non solo culturalmente ma anche nell’ambito di un condizionamento di Almirante che lo stesso usò per avere un altro polo sul
quale mediare: poteva dire a Rauti che non riusciva a portare avanti una politica sinceramente rivoluzionaria perché c’erano i
moderati della vecchia linea di Michelini; e poteva dire a questi ultimi che non poteva allargarsi a una riconsiderazione del partito
esclusivamente moderata perché lo impediva la cospicua presenza
culturale rappresentata da Rauti e dai giovani militanti, ai quali
evidentemente poco interessava la politica realista dei moderati.
Dalle elezioni regionali alle amministrative siciliane
Come si è già detto, il IX congresso del Msi, celebrato a Roma nel
zione del disciolto partito fascista) trasmessa dal Ministro di Grazia e Giustizia Oronzo Reale alla Camera dei Deputati, estratto, pp. 14-15).
27
28
novembre 1970, fu il congresso dell’unità, dopo tanti – praticamente tutti, salvo il primo – nei quali il partito risultò spaccato e
conflittuale. Al di là delle questioni interne, Almirante lanciava il
“fronte articolato anticomunista”, allo scopo di fare del Msi il
punto di riferimento “per tutti gli uomini che intendono battersi
moralmente e fisicamente per la libertà contro il comunismo”.
Non era evidentemente un nuovo partito ma una prospettiva
nuova che non piacque molto a Rauti, che invocò un esito nazionalrivoluzionario all’anticomunismo della Fiamma33, ma che trovò favorevole tutte le componenti interne. Sicuramente influì,
nella scelta strategica di Almirante, anche il particolare momento
storico: l’autunno caldo del 1969, visto sia come coda “eversiva”
del complesso fenomeno del ’68, sia come strumento per un
maggiore spazio politico del Pci. Non era così, evidentemente, e
fu proprio dal ’68 e dall’autunno caldo che iniziò la lenta discesa
del Pci non tanto dal punto di vista elettorale, quanto al proprio
interno, nelle iscrizioni alle organizzazioni giovanili. In realtà
questi fenomeni, in prospettiva, misero in difficoltà il Pci di Berlinguer che fu costretto, qualche anno più tardi, a formulare la
proposta del compromesso storico. A questo quadro, si aggiunga
la bomba di Piazza Fontana, per la quale le prime indagini individuavano come responsabili gli anarchici; il quadro era completo per un richiamo dei moderati e dei “benpensanti” a una forte
politica anticomunista che la Dc non sembrava più volere condurre e i partiti laici di centro (i liberali, in particolare) mostravano di non potere fare.
Agli aspetti, per così dire, più eversivi, altri segnali davano
l’impressione che l’Italia scivolasse lentamente ma inesorabilmente verso un governo controllato dal Pci: l’approvazione della
legge che istituiva le regioni a statuto ordinario, lo Statuto dei lavoratori e infine la legge sul divorzio. Si trattava di tre provvedimenti molto diversi fra loro, che però la stampa missina pose
all’interno di un unico disegno. L’opposizione della destra fu durissima sulle regioni e sul divorzio, mentre sullo Statuto dei lavo33
P. NELLO, Il partito della Fiamma. La destra in Italia dal Msi ad An, Istituti
editoriali e poligrafici internazionali, Pisa, 1998, p. 36.
ratori il Msi si astenne. A questo si aggiungeva l’instabilità politica: la fine del governo Rumor, un monocolore Dc, all’inizio del
1970, apriva una crisi che si concludeva soltanto due mesi più
tardi con un nuovo governo di centrosinistra, sempre guidato dal
democristiano Rumor, con socialisti, socialdemocratici e repubblicani. Il Msi ne approfittò per chiedere le elezioni anticipate. Le
elezioni politiche non si fecero, ma in giugno erano previste le
regionali, le prime della storia italiana: si votava soltanto nelle
regioni a statuto ordinario, quindi ovunque salvo in Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige. La battaglia
elettorale fu essenzialmente politica, per il Msi, di fronte al primo
banco di prova per la nuova segreteria. Il partito aumentò, non di
molto, in voti e in percentuali, ma per la prima volta dopo sette
anni il Msi risaliva la china.
Rispetto alle precedenti politiche, passava dal 4,3 al 5,2 a livello nazionale: le regioni che diedero maggiori soddisfazioni furono
il Lazio (10,2% con un incremento di due punti), la Campania
(8,8, con un incremento di 3,4 punti percentuali) e la Puglia (8,7,
con un aumento del 2%); l’aumento nel difficile Piemonte (+1,1%)
non modificò l’andamento generale che fu di forte meridionalizzazione dei consensi al partito. Non vi fu soprattutto alcun spostamento a destra del quadro politico: lo 0,9 in più ottenuto in
percentuale dal Msi venne ampiamente compensato dalla flessione dell’1,3 dei liberali e da quella dei monarchici (-0,5)34.
Anche se il successo non fu ampio, Almirante trasse la logica
conseguenza che l’unità e la dinamicità del partito pagavano a
livello elettorale e rafforzò così la sua leadership. Ma il problema
del rapporto tra destra moderata e destra aggressiva si ripropose
poco dopo, un mese dopo le elezioni regionali, con la rivolta di
Reggio Calabria. Non è questa la sede per tracciare una nuova
interpretazione del fenomeno eversivo calabrese35, quanto piutto34
G.S. ROSSI, Alternativa e doppiopetto, cit., pp. 132-133.
Il lavoro scientificamente più completo è sicuramente quello di L. AMBROSI,
La rivolta di Reggio. Storia di territori, violenza e populismo nel 1970, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009. Sulla rivolta di Reggio si veda anche La rivolta.
Reggio Calabria: le ragioni di ieri e la realtà di oggi, a cura di G. Rossi, Istituto
di studi corporativi, Roma, 1991. Un ampio capitolo del volume di G.S. ROSSI,
35
29
30
sto per valutare il ruolo del Msi nella questione.
Scoppiata nel luglio 1970, la rivolta calabrese incubava da
quasi un anno a causa del trasferimento del capoluogo regionale
a Catanzaro. Immediatamente il Msi, reduce da una dura campagna contro le regioni a statuto ordinario e contro ogni logica regionalista interpretata come un danno per lo Stato, si dichiarò
contrario a ogni appoggio ai rivoltosi. Nino Tripodi, deputato
reggino, condannò le barricate e la protesta, pur riconoscendo lo
stato di degrado in cui versava la città. Soltanto dopo l’arrivo a
Reggio del Fronte Nazionale del principe Borghese e di Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie, il Msi cominciò a preoccuparsi; gli stessi giovani missini, al campo scuola dei dirigenti
giovanili, nel settembre 1970, si dichiararono favorevoli a un impegno diretto del partito a favore dei rivoltosi36.
In quei giorni iniziò a modificarsi l’atteggiamento del Msi e si
modificò anche quello dei giornali di area. “il Borghese” nel luglio aveva pesantemente attaccato i rivoltosi definendoli:
[…] un migliaio o poco più di giovani e giovanissime canaglie, teppisti
e cialtroni, come mi hanno detto all’ufficio politico della questura,
pronti a scendere in piazza comunque, sia per il cantagiro, sia per la
coppa Rimet, purché ci sia da urlare, da creare disordini, da sfasciare
vetrine e da svaligiare negozi. Ramazzaglia, dove abbondano i pregiudicati messi in libertà dall’amnistia, i barboni, i disoccupati cronici37.
Allo stesso modo “Il Secolo d’Italia”, l’organo ufficiale del Msi,
aveva preso le distanze dai rivoltosi sostenendo che i disordini
erano causa del regionalismo mentre occorreva tornare alla nazione38. Il partito aveva comunque fatto pervenire, negli stessi
Alternativa e doppiopetto… cit., pp. 139-170 è dedicato al rapporto tra Msi e la
rivolta reggina.
36
Cfr. M. TARCHI, Cinquant’anni di nostalgia, cit., pp. 80-81.
37
P. CAPELLO, La rivolta di Reggio, in “il Borghese”, 12 luglio 1970.
38
«Passata l’ondata dei disordini i cittadini di Reggio questo debbono capire:
non c’è soluzione di problemi per fondati che siano, quando il campanile fa
perdere la testa, quando la parte intende prevalere sul tutto, quando la regione
prende la mano alla Nazione» (Condannato il regionalismo, causa primaria
dei gravi avvenimenti, in “Il Secolo d’Italia”, 24 luglio 1970)
giorni, una raccomandazione destinata ai dirigenti locali del partito e alla Cisnal affinché si astenessero dal partecipare ai disordini «in quanto il Msi deve restare estraneo, a tutti i livelli, da atteggiamenti che siano in aperto contrasto con l’ortodossia del
partito»39.
Si venne così a creare un vero e proprio braccio di ferro tra il
partito e i dirigenti locali (Aloi e Franco, in particolare), i quali
corsero seri rischi di espulsione dalla Fiamma40.
A settembre Reggio diventava la città che combatteva contro
la camorra, un mese dopo Mario Tedeschi affermava che «sulle
barricate c’erano tutti» e in dicembre si sottolineava che «Reggio
Calabria, colpevole di essersi ribellata al sistema, è assediata dalla truppa». Anche “Candido”, da un iniziale posizione contraria e
dopo un lungo, prudente silenzio, prendeva posizione soltanto il
30 settembre con un accenno finale di un “fondo” di Pisanò, nel
quale si diceva che la popolazione di Reggio aveva voltato le
spalle ai partiti per seguire Ciccio Franco e solo dal 1° ottobre iniziava una forte campagna di stampa a favore dei “boia chi molla”41; inoltre l’ex foglio di Guareschi inviava a Reggio un corrispondente che informò i lettori sulla evoluzione della rivolta, diventata ormai “tricolore”42.
Anche la Cisnal, il sindacato di cui Ciccio Franco, all’epoca
della rivolta, era responsabile per la Calabria, aveva assunto una
posizione ambigua: Roberti era stato categorico nel prendere le
distanze dai rivoltosi e in più aveva di fatto escluso Franco
dall’incarico nella Cisnal43.
39
Cfr. F. ALOI, Reggio ’70. Rivolta di un popolo, Il Coscile, Castrovillari, 2005,
p. 188.
40
Si veda l’analisi del rapporto tra Msi, Cisnal e rivolta reggina in M. TOUSSAN, La Cisnal e la rivolta di Reggio Calabria, Tesi di laurea, Università degli
studi Guglielmo Marconi, A.A. 2011-2012, pp. 60 ss.
41
La copertina di “Candido” del 1° ottobre 1970 mostrava un disegno di Carlo
Manzoni che raffigurava, davanti alla folla ammutolita di Reggio, una bara
che la didascalia indicava come “la cassa del mezzogiorno”.
42
Dal numero del 1° ottobre, Roberto Capone seguì settimanalmente con servizi molto accurati la rivolta reggina (Cfr. Reggio insorge e chiede giustizia,
“Candido”, 1° ottobre 1970).
43
M. TOUSSAN, La Cisnal e la rivolta di Reggio, cit., pp. 71 ss.
31
32
Il “Secolo” si allineava definitivamente con la nuova impostazione missina solo i primi giorni del 1971, sette mesi dopo lo
scoppio della rivolta.
Almirante tuttavia, nell’autunno del 1970, quando non aveva
ancora preso una posizione definitiva e ufficiale, aveva inviato
clandestinamente un gruppo di alcune decine di giovani che entrarono in Reggio per controllare la situazione e sostenere i rivoltosi44.
In questo modo, Almirante riusciva a realizzare una difficile
sintesi: il Msi non restava escluso dalla rivolta reggina e poteva
quindi rivendicare un ruolo attivo nella difesa del Meridione; il
Msi non era stato però un protagonista della rivolta, continuava a
difendere lo Stato di diritto, non essendo a favore delle sole esigenze di Reggio ma di tutta l’Italia colpita dalla partitocrazia e
dal centrosinistra, quest’ultimo costretto a mandare l’esercito a
Reggio. Inoltre, l’adesione alla rivolta portò a un avvicinamento
di Rauti alla segreteria cogliendo nella rivolta il primo passo verso l’alternativa al sistema. In realtà, si può sostenere che il Msi e
la Cisnal, giunti in ritardo a sostenere la rivolta, operarono in
termini tali da imbrigliarla sottraendola alle forze extraparlamentari e consentendo allo Stato di venirne in qualche modo a
capo. Lo stesso Ciccio Franco, diventato senatore nel 1972, in una
memoria rilasciata ad Adalberto Baldoni sostenne di non essere
45
mai stato aiutato veramente dal partito . Il Msi, a Reggio, diven-
44
La notizia è stata riferita da un testimone, che vi partecipò direttamente, e
che ha preferito mantenere l’anonimato perché allora gli era stato imposto da
Almirante il riserbo assoluto su tale episodio.
45
A tanti anni di distanza, Ciccio Franco ribadisce che la sua azione fu contrastata con ogni mezzo dai vertici di via Quattro Fontane, sede storica del Msi.
Ricorda così: «Nonostante chiedessi aiuto a Roma, nessun dirigente nazionale
del MSI e delle organizzazioni giovanili mi dette una mano. Non ho mai ricevuto un cenno di solidarietà. L’unica persona che mi ha aiutato è stato Giorgio
Pisanò con il suo battagliero giornale “Candido”. Pisanò scese diverse volte a
Reggio e si rese conto qual era la realtà locale, dominata dalle cosche mafiose
dei partiti di regime. Incominciò ad indagare su Giacomo Mancini, allora segretario nazionale del Psi. Da qui la sua forte popolare e documentata campagna di stampa contro il leader socialista» (AFUS, Fondo Baldoni, Storia, VIII,
tava così rivoluzionario e moderato contemporaneamente, rappresentando quindi molto fedelmente la linea del nuovo segretario. Forse è eccessivo – oltre che errato cronologicamente – sostenere, come ha fatto Giorgio Galli, che la segreteria Almirante
non nacque nel settembre 1969 ma nel luglio 197046, ma certamente la rivolta di Reggio diede ad Almirante a possibilità di
mostrarsi effettivamente “movimentista” e in grado di interpretare concretamente quella “alternativa al sistema” di cui parlava.
Una linea double face, come l’ha definita Marco Tarchi: in certi
contesti, come al Nord, la società va difesa da qualsiasi pulsione
ribellistica, mentre al Sud la ribellione è legittima perché il potere
47
è corrotto .
Lo slogan che campeggiava al IX congresso del Msi, nel 1970,
(«Noi siamo la destra nazionale; noi siamo l’idea corporativa; noi
siamo l’alternativa al sistema») era frutto di una fusione abbastanza contraddittoria, tenuta assieme dall’abilità almirantiana.
Se il richiamo alla destra nazionale costituiva l’elemento di garanzia in merito alla continuità con il passato micheliniano – nonostante le novità di stile portate dal nuovo segretario –, la dichiarazione relativa all’idea corporativa serviva a soddisfare
l’ansia sociale della sinistra, mentre il riferimento all’alternativa
al sistema rappresentava il riconoscimento del ruolo dei rautiani
nel nuovo corso del partito.
Lo slogan rappresentava bene questa nuova unità, presentata
come forza, ma che già in quel momento segnava nettamente
l’allontanamento nei fatti, non solo nelle parole, di Almirante
dalla linea di Michelini.
Il dibattito interno che precedette il congresso fu animato dai
tre maggiori leader del movimento: oltre ad Almirante, Romualdi
e Rauti. La figura di Romualdi è stata ben poco presente nella faSoggetti politici, 1). Si veda più in dettaglio sui rapporti fra Cisnal e rivolta di
Reggio M. TOUSSAN, La Cisnal e la rivolta di Reggio, cit., pp. 79-81.
46
G. GALLI, La crisi italiana e la destra internazionale, cit., p. 17. La datazione
proposta da Galli è errata perché la segreteria Almirante era nata nel luglio
1969, mentre la posizione favorevole del segretario missino alla rivolta calabrese si manifestò soltanto nell’autunno dell’anno successivo.
47
M. TARCHI, Cinquant’anni di nostalgia, cit., p. 81.
33
34
se della successione. Il leader romagnolo aveva rappresentato una
linea molto particolare nel Msi: il suo vecchio progetto, quello di
una destra atlantica e anticomunista, poteva assomigliare alla linea affermatasi con la segreteria De Marsanich – Michelini e
cioè la linea cosiddetta dell’inserimento. D’accordo con Michelini
sulla necessità di svecchiare il partito togliendo i miti del passato
e sostituendoli con un’analisi politica lucida e sensibile alle tematiche internazionali (Romualdi era stato il primo leader missino
ad andare negli Usa, mentre il suo giornale, l’importante mensile
“L’Italiano”, era il più attento alle dinamiche di politica internazionale48), Romualdi era invece perplesso circa i tempi e i modi
del raggiungimento degli obiettivi della destra nazionale: in realtà, questo lato della sua attività politica è rimasto sempre un
punto non risolto. Poco incline alle sensibilità sociali del partito,
sostanzialmente indisponibile alla trasformazione del Msi in un
partito cattolico, Romualdi cercò il ruolo di padre nobile del partito, sentendosi in qualche modo responsabile della sua unità. Ciò
gli consentì di essere sempre al di sopra delle parti, in un ruolo di
stimolo piuttosto che correntizio.
In sede di dibattito precongressuale, Romualdi aveva manifestato la volontà di portare avanti senza indugi il rinnovamento
del partito, uscendo finalmente dal nostalgismo, dal populismo e
dalle concessioni alla sinistra per fare del Msi un partito veramente di destra. Rauti, invece, nello stesso periodo precongressuale, aveva chiarito quali fossero i punti qualificanti del suo progetto politico: Europa nazione alternativa ai due blocchi occidentale ed orientale, interesse per il Mediterraneo e per i paesi arabi,
contro la linea tradizionalmente filoisraeliana del partito, alternativa al sistema, dotando il partito di strumenti culturali diversi
dal passato.
Il congresso risentì solo marginalmente di queste differenze:
non a caso furono Romualdi e Rauti a distinguersi leggermente
48
Sul rapporto tra Msi e cultura politica internazionale mi permetto di rimandare a G. PARLATO, La cultura internazionale della destra tra isolamento e atlantismo (1946-1954), in Uomini e nazioni. Cultura e politica estera nell’Italia del Novecento, a cura di G. Petracchi, Gaspari, Udine, 2005, pp. 134-154.
dalla posizione di Almirante, mentre il gruppo che si richiamava
a Michelini volle confermare, anche negli interventi, la sua linea
totalmente favorevole ad Almirante. Fu invece la base dei delegati che mostrò di non sopportare più di tanto i continui richiami
alla collocazione a destra, rivendicando non solo la tradizionale
“anima sociale”, ma soprattutto temendo la liquidazione del passato fascista in nome di diverse e innaturali collocazioni liberaldemocratiche. Il Congresso celebrò il ruolo e l’abilità di Almirante che poté presentare un bilancio positivo sulla base del risultato, non eccezionale, delle elezioni regionali. Per quanto riguarda
la linea politica emersa dal congresso, il segretario sembrò accontentare tutte le componenti; con la consueta abilità oratoria, parlò
di socialità, ma ancorando il partito saldamente a destra; tuttavia
le molte concessioni alla nostalgia, i richiami alla Rsi, seppure per
dire che il messaggio del fascismo non andava riproposto acriticamente e nostalgicamente ma attualizzato, dimostravano che
Almirante non poteva fare a meno di assecondare gli umori e le
sensibilità del partito. In questo si confermava quello che lo stesso segretario spesso ricordava, e che cioè l’attore Luigi Almirante, lo zio Gigetto, raccomandava al nipote che non si poteva recitare con la platea contro. In altri termini, come ha bene riassunto
Rossi, «il Msi almirantiano è un grande caleidoscopio, nel quale
ciascuno sceglie la sfaccettatura che più gli piace»49, esattamente
come lo era il fascismo nel quale, a fronte della varietà, a volte
inconciliabile, delle posizioni, era Mussolini a sintetizzarle tutte e
contemporaneamente a veicolare, verso ciascuno, quello che ciascuno sentiva come “il proprio fascismo”.
Come si è già detto, uno dei punti cardine della nuova segreteria fu il potenziamento dell’ambiente giovanile, che più di ogni
altro aveva sofferto degli ultimi anni della gestione Michelini. In
sede di congresso si decise la creazione del Fronte della Gioventù,
organismo in grado di raggruppare, centralizzandole, le due organizzazioni giovanili, il Raggruppamento giovanile studenti e
lavoratori e l’Associazione studentesca di Avanguardia Naziona49
G.S. ROSSI, Alternativa e doppiopetto…, cit., pp. 175-176; la citazione è a p.
185.
35
36
le “Giovane Italia”. Massimo Anderson ne divenne il segretario e
Pietro Cerullo vicesegretario. Restava autonomo il Fuan,
l’organizzazione degli universitari, sia per la tradizione di successi ottenuti nelle università, sia per il particolare momento politico, nel quale la contestazione giovanile si era espressa soprattutto
negli atenei; il Fuan, pur aderendo al Fronte della Gioventù,
mantenne uno statuto autonomo che si caratterizzava per
l’elezione delle cariche, che invece in tutti gli altri organismi del
partito erano rigorosamente di nomina del vertice.
Il processo che portò alla costituzione di un centro unificato
dell’ambiente giovanile non fu semplice. Le resistenze che diversi
ambienti del partito manifestarono in merito a questa soluzione
furono forti e non facilmente superabili. Come ha ricordato Anderson, «non ci fu un solo personaggio autorevole, sia tra i micheliniani, sia tra gli amici di Almirante, che valutò positivamente la nostra proposta e tutti si diedero da fare, anzi, per creare tra
i giovani ulteriori divisioni e lacerazioni». Almirante a un certo
punto cedette alle pressioni di Anderson e dei vertici giovanili e
approvò la creazione di un unico organismo, nella convinzione
che il Fronte della Gioventù fosse più controllabile delle due sigle
precedenti. Inoltre, in questo modo Almirante confinava il mondo giovanile in uno spazio autonomo ma difficilmente comunicante con il resto del partito e soprattutto impossibilitato a portare all’interno del Msi le istanze di rinnovamento di cui i giovani
si stavano facendo portatori50.
La scelta di costituire il Fronte della Gioventù risultò immediatamente positiva, se si pensa che un anno dopo gli iscritti erano già 85 mila, in un momento in cui la Fgci, l’organizzazione
giovanile comunista, ne contava appena 70 mila. Esso non fu solo
strumento di scontro politico e fisico: le proposte elaborate dal
vertice del Fronte erano per certi versi molto avanzate; si andava
dal voto ai diciottenni all’abolizione della leva militare e alla creazione di un esercito di volontari; dalla difesa dei beni artistici e
culturali all’impegno verso il mondo giovanile meridionale. In
questo modo ebbe subito buon riscontro tra i giovani per
50
M. ANDERSON, I percorsi della Destra, cit., pp. 83 ss.
l’attivismo nelle piazze: e poco importava ai giovani missini se la
denominazione di Fronte della Gioventù fosse in realtà di derivazione comunista, perché così si chiamava l’organizzazione giovanile del Pci durante la Resistenza, tra il 1944 e il 1947, prima di
diventare Federazione giovanile comunista italiana (Fgci).
Pochi mesi prima delle elezioni amministrative del 1971, esattamente il 17 marzo, “Paese Sera” pubblicava in grande evidenza,
la notizia del fallito tentativo di golpe da parte del principe Borghese. Una vicenda sulla quale vi è sempre stata una sostanziale
incertezza e molta confusione. Il procedimento giudiziario, iniziato nel 1971, si concluse nel novembre 1984 con l’assoluzione,
«perché il fatto non sussiste», di Borghese e dei suoi seguaci
dall’accusa di cospirazione politica. Il principe Borghese era già
morto da dieci anni, in Spagna, dov’era fuggito alle prime notizie
trapelate del tentativo di golpe. Non è questa la sede per affrontare un tema simile; quello che ci interessa è il rapporto tra Almirante e Borghese, prima e dopo le notizie di golpe: se il 20 dicembre 1969, alla prima uscita pubblica in comizio di Almirante, a
Roma, al Palazzo dello Sport all’Eur, davanti a diecimila missini
venuti da tutta Italia, il segretario aveva salutato la delegazione
del Fronte Nazionale, pregandola di portare «il suo deferente saluto al principe Borghese», un anno più tardi, nella già citata intervista di Pansa, pochi giorni prima del golpe, sostenne invece
che il Fronte nazionale di Borghese non aveva peso politico; gli
appelli erano «nobilmente utili», ma il suo fronte «è soltanto una
forza sentimentale. Niente di più»51.
Più tardi si dirà che proprio Almirante avrebbe informato il
Ministero dell’Interno circa la prossima esecuzione di un tentati52
vo di golpe . La testimonianza va presa, come si diceva, con il
51
G. PANSA, Il revisionista, cit., p. 405.
T.a.a. di Adriano Monti del 22 febbraio 2012. Anche Giulio Andreotti era di
questo parere. In un’intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo sul “Corriere della
Sera” del 29 aprile 2005 affermò: «Contro i colpi di stato però vigilavano non
solo Dc e Pci, ma anche il Msi, non a caso considerato da questi elementi come
un gruppo di traditori. Sono convinto che la notte dell’8 dicembre 1970 fu Almirante ad informare la polizia delle mosse di Borghese per evitare che il par52
37
38
condizionale, ma quello che ci interessa sottolineare è che Almirante, in questa come in altre occasioni, assunse un profilo istituzionale, lontano da suggestioni eversive, conducendo e mantenendo il neofascismo nei binari della legalità. Diverso fu
l’atteggiamento di Rauti, il quale, onestamente, in un’intervista a
Rao, riconobbe che «in quel contesto storico e politico era per noi
inevitabile cedere a tentazioni golpiste»53.
Tuttavia, la consacrazione della leadership almirantiana giunse con le elezioni amministrative del 1971; il 13 giugno si votò in
Sicilia (la giunta regionale era andata in crisi), in alcuni capoluoghi importanti (Roma, Foggia, Bari) e in molti comuni minori;
complessivamente erano più di otto milioni i chiamati alle urne,
un test amministrativo che Almirante trasformò immediatamente in test politico. La solita massacrante campagna elettorale di
Almirante riuscì a coinvolgere un numero sempre maggiore di
persone e a interessare i giornali: il Msi divenne un fenomeno da
seguire, mentre al Msi cominciavano ad aderire personaggi di estrazione liberale (come Giovanni Artieri) o personaggi discussi
che erano già stati nelle istituzioni, come il gen. De Lorenzo, famoso per il “Piano Solo” del 1963.
Tutto questo mentre il quadro politico nazionale continuava a
dare segni di crisi con un centro-sinistra sempre più debole e sottoposto a condizionamenti che lo rendevano sempre più fragile.
Almirante sembrò convincersi definitivamente delle possibilità
che una politica di destra così condotta, con aggressività e con
linguaggio aggiornato, poteva avere nella situazione italiana: il
Msi aveva condotto, in Parlamento e nelle piazze, battaglie per la
difesa della proprietà della casa, contro la riforma dell’edilizia
voluta dal governo e per la difesa del fondi rustici sui quali pesava la nuova disciplina dei contratti d’affitto (la “De MarziCipolla”), viste entrambe dal Msi come l’anticamera della collettivizzazione. La Fiamma si mobilitò, soprattutto al Sud, per contrastare i due provvedimenti e raccolse consensi anche fuori
tito ne venisse coinvolto». Sul golpe si veda A. MONTI, Il “Golpe Borghese”. Un
golpe virtuale all’italiana, Lo Scarabeo, Bologna, 2006.
53
N. RAO, Trilogia della celtica, cit., p. 136.
dell’ambiente tradizionale missino in nome della difesa della
proprietà privata minacciata dal governo.
I risultati delle elezioni amministrative furono sorprendenti:
in Sicilia la Fiamma andò oltre il raddoppio, dal 7 al 16%, a Catania città toccò il 27,2%, a Trapani addirittura il 31%; a Roma arrivò a superare il 15%, a Genova raddoppiò i voti e gli eletti in consiglio comunale. I monarchici scomparvero, i liberali ebbero una
flessione drammatica a Roma (dal 10%% a meno del 4). Un risultato che aveva ben poco di locale e che confermava l’ottimo momento del partito di Almirante. Nel comizio romano, organizzato
per ringraziare gli elettori e caratterizzato da una folla impressionante, il segretario affermò che il “giugno italiano” si collocava su una linea ideale che, pur con le evidenti differenze, lo collegava all’“aprile greco” (1967) e al “giugno francese” (1968).
Un’affermazione forte, perché se da un lato la rievocazione del
giugno 1968 a Parigi significava rammentare la linea anticomunista ma legalitaria del gen. De Gaulle, il riferimento all’aprile 1967
in Grecia, quando ci fu il colpo di stato militare che sospese per
anni la democrazia, era indicativo dell’ambiguità della posizione
di Almirante che, anche nel momento del maggiore successo elettorale non chiudeva la porta a una eventuale – e sicuramente
estrema – soluzione extraistituzionale. Ciò non tanto per intimo
convincimento, quanto per non perdere il consenso degli ambienti della destra radicale.
L’elezione di Leone e le politiche del 1972
La soddisfazione missina fu turbata, e non poco, da una notizia
diffusa dall’“Unità”54, circa la firma apposta da Almirante a un
manifesto affisso a Paganico, in provincia di Grosseto, il 17 maggio 1944 per la chiamata alle armi dei renitenti alla leva della Repubblica Sociale. Il bando mostrava in calce la firma di Giorgio
54
Un servo dei nazisti. Come Almirante collaborava con gli occupanti tedeschi,
in “L’Unità” 27 giugno 1971. Sulla questione si veda A. GRANDI, Op. cit., pp.
298 ss.
39
40
Almirante, nella sua qualità di capo gabinetto del Ministero della
Cultura popolare di Salò. Il bando (datato, all’inizio del documento, 10 aprile e nel testo invece 18 aprile) minacciava, per chi
non si fosse presentato alla chiamata di leva, la fucilazione55.
Almirante diventava immediatamente “il fucilatore”. Non fu facile (anzi, di fatto non si riuscì) da parte missina spiegare la questione: il bando era stato emesso dal Ministero delle Forze Armate, e più esattamente si trattava di uno dei tanti “Bandi Graziani”,
e la responsabilità della questione era del ministero competente.
Tuttavia, tra gli incarichi del nuovo Ministero della Cultura popolare di Salò, vi era anche la cura dell’invio della comunicazione dei decreti alle Prefetture e ai comuni. Ministro della Cultura
popolare era Fernando Mezzasoma e capogabinetto Almirante,
dal 30 aprile 1944, in sostituzione di Gilberto Bernabei56. Per cui
il documento doveva avere anche la firma della struttura trasmit55
A partire dal 18 febbraio 1944, il ministro delle Forze Armate, Rodolfo Graziani, aveva fatto approvare al Consiglio dei Ministri della Rsi alcuni decreti per
recuperare i renitenti alla leva o coloro che, presentatisi, erano riusciti a fuggire
di fronte alla prospettiva di essere trasferiti in Germania per l’addestramento. Il
Decreto Graziani emanato il 18 (non il 10, come erroneamente indica il bando
nelle prime righe) aprile 1944, prevedeva un ulteriore spostamento nella data di
presentazione alle armi per i soldati di leva, ponendo il termine al 25 maggio
1944. Oltre a prevedere la cancellazione di ogni addebito a quei soldati che si
fossero presentati entro quella data, preannunciava a chi non si fosse presentato,
la pena di morte mediante fucilazione alla schiena: venne per questo motivo definito “il bando del perdono” (A. COVA, Graziani. Un generale per il regime,
Newton Compton, Roma, 1987, pp. 238-239; v. anche Archivio Centrale dello
Stato, Verbali del Consiglio dei Ministri della Repubblica Sociale Italiana, settembre 1943 – aprile 1945, a cura di R. Scardaccione, Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, Roma, 2002, vol. I, pp. 506-507) Adalberto Baldoni, riferendosi
ai bandi Graziani, li definì «un errore grossolano» (A. BALDONI, Fascisti 19431945, Settimo Sigillo, Roma, 1993, p. 168).
56
Almirante non faceva parte della amministrazione statale e pertanto fu necessario, da parte del ministro Mezzasoma, proporre un decreto secondo il
quale, per la durata del conflitto, il capogabinetto del Ministero della Cultura
Popolare poteva essere scelto al di fuori della struttura statale; cfr. il d.m. del
30 aprile 1944, ratificato dal Consiglio dei Ministri il 18 settembre 1944, in
Verbali del Consiglio dei Ministri della Repubblica Sociale Italiana, cit., p. 722.
Si veda anche E.G. LAURA, L’immagine bugiarda. Mass media e spettacolo nella Repubblica di Salò, ANCCI, Roma, 1986, p. 150.
tente. Il che non significava evidentemente che Almirante aveva
emesso l’incriminato bando, ma altrettanto evidentemente voleva
significare che Almirante non poteva essere considerato politicamente estraneo allo stesso bando in quanto capo gabinetto di
uno dei Ministeri di quella Repubblica sociale che aveva emesso
il decreto. Inoltre, quel bando si apriva con l’ennesima proroga e
con l’ennesimo “condono”. Almirante invece replicò – e con lui
tutta la stampa missina – che quel documento era un grossolano
falso: il che non era vero. Era semmai falsa l’attribuzione di responsabilità diretta ad Almirante per l’oggetto in questione, ma
si trattava di una sottigliezza che il giornalista Almirante comprese subito che non sarebbe mai stata colta dalla opinione pubblica. E preferì sostenere che il bando fosse falso, complicando e
compromettendo ulteriormente la sua posizione57.
Poiché il Pci aveva fatto affiggere in tutta Italia la copia del
manifesto con la firma del leader missino, Almirante presentò
diverse querele: la questione finì in tribunale dove fu prodotta
documentazione dagli archivi di Stato comprovante che il documento era vero; non solo, ma ve n’erano altri in giro per l’Italia.
Almirante si vide così rigettare dal tribunale di Roma tutte le richieste.
Questa vicenda aprì l’attacco delle sinistre contro il Msi, mettendo subito in evidenza come il segretario della Fiamma fosse
ricattabile a causa del proprio passato nel momento in cui cercava di trasformare il suo partito da neofascista in partito moderato
57
Ancora due anni dopo, nella dichiarazione alla Camera, Almirante ebbe a
dichiarare, riferendosi alla questione del bando, che essa aveva avuto origine
«il 21 giugno 1971, otto giorni dopo le elezioni del 13 giugno (in realtà, come si
è detto, la notizia su “L’Unità” uscì il 27), quando su taluni giornali di estrema
sinistra apparve un manifesto falso a me attribuito (…) Non interrompete perché ho i documenti» (cfr. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, VI Legislatura, Discussioni, seduta del 23 marzo 1973, p. 6787). Nella sua autobiografia,
Almirante, dopo avere ribadita la falsità del bando, sostenne che la trasmissione del medesimo sarebbe stata competenza del «Ministero delle Forze Armate e se mai quello dell’Interno» (G. ALMIRANTE, Autobiografia di un “fucilatore”, Edizioni del Borghese, Milano, 1974, p. 218).
41
42
di destra58. Gli attacchi della sinistra per un po’ gli giovarono, ma
alla lunga quell’elettorato “afascista” che si era avvicinato al partito se ne distaccò vedendo che sotto il doppiopetto era rimasta la
camicia nera.
A questa vicenda, seguì l’apertura dell’inchiesta del giudice
Raimondo Sinagra, sostituto procuratore di Milano, contro il Msi
accusato di ricostituzione del partito fascista. L’inchiesta, avocata
dal procuratore generale della Corte d’Appello di Milano, Luigi
Bianchi d’Espinosa all’inizio di dicembre del 1971, riguardava
l’applicazione al Msi di questi anni della Legge Scelba del 1952,
quella appunto che puniva la ricostituzione del Pnf.
Intanto l’attivismo antifascista cresceva d’intensità e i gruppi
extraparlamentari, da Potere Operaio a Servire il Popolo, per arrivare a Lotta Continua cercavano di impedire ai giovani missini
l’agibilità sul territorio. Le Brigate Rosse, in un loro documento,
nel settembre 1971, parlarono del blocco d’ordine reazionario sotto le bandiere della destra nazionale59. Gli stessi concetti furono
ribaditi in un altro documento dell’aprile 1972. Il fenomeno sarà
ancora più evidente dopo le elezioni politiche del 1972.
Il 1971, per il Msi, si chiudeva con due eventi: il rinvio delle
amministrative dell’ottobre (la giustificazione ufficiale era che
avrebbero potuto interferire con il censimento, ma a tutti apparve una giustificazione pretestuosa) e le elezioni del presidente
della Repubblica.
Il Msi contava di sfruttare appieno il momento favorevole: le
amministrative di ottobre o, meglio, le elezioni politiche anticipate. Ma il rischio per il governo rappresentato dalle seconde fu vanificato dall’inizio del “semestre bianco” e quindi dalla impossibilità di sciogliere anticipatamente le Camere in vista della ele58
Non è un caso che anche a livello storico sia stata accolta la semplificazione
del segretario missino “fucilatore tout court”, così come emerge in un manuale
di storia dove si parla di Almirante come «reduce anch’egli dall’esperienza
della repubblica sociale e firmatario di un bando del 1944 che comminava la
pena di morte ai renitenti alla leva» (A. DE BERNARDI, L. GANAPINI, Storia
dell’Italia unita, Garzanti, Milano, 2010, p. 370).
59
A. BALDONI, Storia della destra. Dal postfascismo al Popolo della libertà,
Vallecchi, Firenze, 2009, p. 161.
zione del nuovo Capo dello Stato. Restavano le amministrative,
ma il loro rinvio rendeva impossibile un nuovo successo missino,
tale da risultare condizionante – così almeno sperava Almirante
– per l’elezione del Quirinale.
Difficoltosa e complessa, l’elezione del nuovo capo dello Stato
scontò i veti, i franchi tiratori, le indecisioni della Dc; e scontò
soprattutto la debolezza della compagine governativa. Dopo 22
votazioni, la situazione era piuttosto grave: la Dc non era riuscita
ad imporre il proprio candidato, Amintore Fanfani, cui le sinistre
contrapposero l’anziano leader socialista Francesco De Martino.
Il Msi, che nel frattempo aveva stretto un “patto di unità di azione” con i monarchici, votò per diversi giorni il candidato di bandiera, Augusto De Marsanich; dal 13 dicembre monarchici e missini decisero di votare scheda bianca per indicare chiaramente
una disponibilità verso altri candidati. Come ha ricordato Roberti, allora capogruppo parlamentare del Msi, il 21 dicembre si profilò una candidatura Moro, che avrebbe avuto i voti di tutto il
centrosinistra e forse anche del Pci. Tuttavia, un po’ per le resistenze dei moderati Dc, dei laici di centro e soprattutto per il deludente esito della prima votazione sul suo nome, i gruppi parlamentari dello Scudo Crociato decisero di ripiegare su Leone, visto come candidatura di assemblea. Però il Pci il 22 dicembre fece
uscire un duro comunicato in cui si parlava di un accordo sottobanco tra Dc e Msi sul nome di Leone. L’accordo c’era davvero e
il gioco del Pci era chiaro: fare fallire la candidatura di Leone
presentandolo come uomo di destra. A questo punto, ricorda
sempre Roberti, sarebbe stato opportuno fare il gran gioco, appoggiare cioè subito Leone, come si era fatto dieci anni prima
con Segni. Ma Almirante non volle, smentì l’accordo e preferì
trattare sottobanco con alcuni esponenti Dc, segnatamente con
Galloni, come rivelò il segretario missino a elezione avvenuta.
L’interessato ovviamente smentì seccamente. Il 23 fu votato Leone con 518 voti e la destra fu così determinante. Il “Secolo” titolava a nove colonne: “Il 13 giugno ha vinto”. Almirante scrisse:
«Siamo lieti di avere contribuito in maniera determinante» alla
elezione del presidente. Non era la prima volta che il Msi votava
per il candidato che poi sarebbe risultato eletto capo dello Stato.
43
44
Ma nei casi precedenti (Einaudi, Gronchi e Segni) il Msi non era
stato mai determinante. In questo caso invece lo fu e questo fu
giudicato dal Msi e dalla stampa fiancheggiatrice un autentico
successo. Le smentite democristiane furono fiacche e poco convincenti. Nenni annotava nel suo diario alla data del 23 dicembre: «Si è realizzata anche un’altra previsione e cioè che i missini
hanno votato Leone, annullando così una parte delle schede
bianche democristiane». E al giorno successivo, annotava: «…
Leone è stato eletto con i voti fascisti e io sono stato battuto dai
socialdemocratici e dai repubblicani. (…) I fascisti sono raggianti.
(…) un altro, l’on. Delfino, ha confessato: “Anche nella precedente votazione (quella di ieri) tutti i parlamentari missini e monarchici hanno votato per il senatore Leone”»60.
Fu un successo per la Destra? Certamente, con l’ottica di allora sembrò una grande vittoria. Rossi sostiene che l’elezione di
Leone fu il punto più alto e il successo più pieno della strategia di
Almirante. Da quel momento in poi le cose cominciarono a non
andare più così bene61. Secondo Tarchi, invece, l’elezione di Leone fu un falso successo: dopo l’impallinamento di Fanfani da parte dei franchi tiratori, la Dc era in grave crisi e il Msi sarebbe stato invece nella condizione ideale «per dipingere la Dc come inaffidabile agli occhi dei moderati, tanto più che si parla insistentemente di una candidatura Moro appoggiata dall’intera sinistra».
Se quell’ipotesi fosse andata in porto, grazie alla scheda bianca
missina e monarchica, Moro sarebbe diventato presidente della
Repubblica e l’asse politico si sarebbe spostato a sinistra, qualificando il Msi come unico rappresentante della destra italiana, con
inimmaginabili spazi nuovi da coprire. Invece Almirante, secondo Tarchi, temette che una presidenza Moro avrebbe aperto al
Pci le porte del governo, con seri rischi per la sopravvivenza della
Fiamma, della quale la sinistra, parlamentare e non, chiedeva la
62
messa fuori legge .
60
P. NENNI, I conti con la storia. Diari 1967-1971, Sugarco, Milano, 1983, pp.
681-682.
61
G.S. ROSSI, Alternativa e doppiopetto, cit., p. 212.
62
M. TARCHI, Cinquant’anni di nostalgia, cit., p. 85.
Almirante sfruttò il successo in vista delle successive elezioni
politiche. Un mese dopo l’elezione di Leone, il governo di centrosinistra presieduto da Colombo andò in crisi, con il ritiro
dell’appoggio esterno repubblicano per dissensi sulla politica economica. In realtà, il governo Colombo era stato logorato dalle
rivolte di Reggio Calabria e di Pescara, dalle notizie sul golpe
Borghese, che avevano coinvolto persone dei servizi. Inoltre, fu
messo in seria difficoltà dalla questione del divorzio, che segnò
una frattura tra laici e cattolici, soprattutto dal momento in cui i
cattolici proposero il referendum abrogativo della legge FortunaBaslini, trovandosi d’accordo con un Msi che, pur diviso al proprio interno su questo tema, cercò di sfruttare politicamente
l’occasione. Dopo un tentativo di riproporre un esecutivo di centrosinistra, non riuscito, Leone affidava ad Andreotti l’incarico di formare un governo monocolore, che però fu subito bocciato in Senato.
A questo punto, per la prima volta nella storia repubblicana, si andava a elezioni anticipate.
Almirante ebbe modo in più di un’occasione di insistere sul
fatto che il voto del 13 giugno era stato utile, smentendo quello
che aveva detto Andreotti, secondo il quale il voto a destra era
stato inutile. In questo modo il leader missino legittimava
l’elezione di Leone come conseguenza del successo missino alle
amministrative del 1971. In ogni caso, la soluzione Andreotti per
guidare un governo elettorale, si rivelò positiva per la Dc, soprattutto perché Andreotti era visto come uomo sostanzialmente vicino alla destra democristiana. Questo, in qualche modo, riuscì a
bloccare chi aveva pensato di lasciare la Dc per andare nel Msi e,
in sede elettorale, riuscì a contenere quella che fu chiamata, con
una metafora un po’ petrolifera, “l’onda nera”.
L’attenzione per il Msi, comunque, varcava l’oceano e anche
gli americani erano interessati a questo partito di destra che stava crescendo. Servivano fondi per la campagna elettorale; secondo
una testimonianza riportata da Baldoni, Giulio Caradonna, il missino da sempre più vicino al mondo atlantico, presentò ad Almirante un italo-americano, Pierfrancesco Talenti, imprenditore e
uomo di destra, impegnato nel fare confluire i voti degli italiani in
Usa sul nome di Richard Nixon. L’operazione andò in porto e fu
45
46
Vito Miceli, il discusso generale del Sid, entrato in lista con il Msi,
a portare materialmente il finanziamento a Roma63.
La campagna elettorale trovò il suo primo elemento di novità
nel simbolo: il 4 marzo, “Il Secolo d’Italia” presentava il vecchio
simbolo, la fiamma tricolore, con l’aggiunta della scritta “destra
nazionale”: in un primo momento era solo il simbolo per gli indipendenti che sarebbero entrati in lista per le elezioni del 7 maggio, poi divenne il simbolo ufficiale del partito. Nel frattempo, tra
molte polemiche, il Partito democratico di unità monarchica, ormai ai minimi storici, aveva deciso lo scioglimento e la fusione
nella Destra nazionale: molti esponenti fedeli al Re e lo stesso
Sovrano in esilio si dichiararono contrari a questa scelta, che
cancellava almeno formalmente le annose polemiche tra fascisti e
monarchici in merito a quello che successe in Italia dopo l’8 settembre 1943. Chi si spese molto per la fusione tra missini e monarchici fu uno dei principali esponenti del Pdium sardo, Efisio
Lippi Serra. Questi tuttavia riscontrò dissensi tra i monarchici ma
anche malumori tra i missini64.
Il giorno prima della presentazione del nuovo simbolo, veniva
arrestato Pino Rauti, su mandato del giudice Giancarlo Stitz, per
concorso negli attentati dell’aprile e dell’agosto 1969. Almirante
espresse subito piena solidarietà all’ex leader di Ordine Nuovo,
ora candidato alla Camera nella circoscrizione laziale. Due mesi
dopo, Rauti fu scarcerato, pochi giorni prima delle elezioni, il che
gli permise di essere eletto con oltre centomila preferenze65.
Non erano molti e neppure molto qualificanti i nuovi arrivi
tra le schiere missine nel 1971 (salvo Artieri e De Lorenzo); ma
già queste presenze – etichettate subito come “afasciste” – avevano irritato Rauti e i suoi seguaci, che avevano messo in evidenza il rischio di “qualunquistizzazione” del partito, farlo diventare
cioè una formazione di destra tout court, assai più simile al movimento qualunquista di Giannini che non al vecchio Msi. Perfe63
A. BALDONI, Storia della Destra, cit., pp. 150-151.
E. LIPPI SERRA, Il prezzo della coerenza, La Nuova Rosa ed., Forte dei Marmi,
2010, pp. 235-237.
65
G.S. ROSSI, Alternativa e doppiopetto, cit., pp. 213-214.
64
zionato, tra la seconda metà del 1971 e i primi mesi del 1972, il
processo di confluenza dei monarchici nel Msi-dn, conclusosi con
l’ultimo congresso del Pdium, alla fine di febbraio 197266, Almirante poteva presentare in lista un numero maggiore e più qualificato di personalità della politica e del giornalismo: innanzi tutto
Gino Birindelli, medaglia d’oro, comandante delle truppe navali
della Nato nel Mediterraneo. In un primo momento Almirante fu
restio al suo ingresso nel partito ma il gruppo micheliniano, e in
particolare Roberti, lo convinsero. Fu lo stesso Roberti a contattare il comandante, il quale il 14 marzo si dimetteva dal comando
67
Nato e accettava l’inserimento in lista del Msi . Entrarono in lista poi Giovanni Artieri, giornalista e storico napoletano, Mario
Tedeschi, direttore de “il Borghese”, Gianna Preda, corrosiva
giornalista della medesima testata, Giorgio Pisanò, vecchio esponente della sinistra filo Salò, giornalista e direttore del “Candido”, Ciccio Franco, il capo dei “boia chi molla” reggini, Armando
Plebe, filosofo ex marxista, che entrò nel Msi per occupare un posto di rilievo in ambito culturale; inoltre entrarono i due capi storici del mondo monarchico, Alfredo Covelli e Achille Lauro, ex
acerrimi nemici e ora uniti agli ex fascisti.
In realtà non erano nomi straordinariamente innovativi.
L’unico democristiano che approdò alla destra nazionale fu Agostino Greggi, un isolato nella Dc, cattolico integralista e tradizionalista. Gli altri erano vecchi missini (o comunque militanti
d’area) come Pisanò, Tedeschi, Gianna Preda e Ciccio Franco. Altri erano gli esponenti monarchici, come Covelli e Lauro. Alla fine solo Birindelli, Plebe e Artieri rappresentavano delle vere novità. Almirante sfruttò ugualmente i nuovi arrivi, dicendo che
questo sarebbe stato solo l’inizio. Quando arrivarono Birindelli,
Covelli e Lauro, Almirante li ricevette, insieme con De Marzio,
dicendo che loro sarebbero stati i garanti della trasformazione del
68
Msi in un partito di destra democratica .
66
Ivi, pp. 225-229.
G. ROBERTI, L’opposizione di Destra in Italia, cit., p. 259.
68
E. DE MARZIO, La mia Destra e quella di Fini, in “Meridiano Sud”, 30 novembre 1995, pp.3-4.
67
47
48
La campagna elettorale fu condotta sempre in termini molto
accesi; ma la Dc ne fece una indirizzata quasi esclusivamente a
destra, nel tentativo di bloccare l’effetto delle amministrative
dell’anno precedente.
I risultati furono considerati dal Msi e da Almirante “un successo travolgente”. In effetti il Msi aumentava all’8,7% alla Camera e al 9,2% al Senato: un incremento importante, il massimo
storico mai raggiunto dalla Fiamma, che portava i voti missini da
un milione e cinquecento mila a quasi 2 milioni e novecento mila. Si trattava di un quasi raddoppio, e considerando la viscosità
del sistema politico, questo poteva essere effettivamente considerato un successo. In più, furono eletti 56 deputati e 26 senatori, 22
deputati e 15 senatori in più rispetto al 1968.
Detto questo, però, il successo fu fortemente ridimensionato
da una serie di considerazioni. In primo luogo il fatto che se il
raffronto tecnico era da farsi sulle precedenti politiche, il raffronto politico andava fatto sulle elezioni amministrative del 1971: in
questo caso, il potenziale di votanti a livello nazionale sarebbe
stato tra i 4 e i 5 milioni di voti, con un centinaio di deputati. A
queste dimensioni aveva alluso lo stesso Almirante il 23 gennaio
1972, nel comizio al Teatro Adriano di Roma, per celebrare il
venticinquennale della fondazione del Msi: «Nel giro di un anno
– aveva affermato il segretario missino – abbiamo almeno raddoppiato, forse triplicato il nostro potenziale consenso in tutta Italia»69. Il dato più grave fu che il partito non riuscì a ripetere, in
Sicilia e in diverse zone del Sud, l’exploit dell’anno precedente,
anzi in alcuni casi si notava una perdita secca.
Significativamente la Dc riuscì a conservare le precedenti posizioni: la temuta emorragia verso destra non ci fu e la “cura”
Andreotti fu evidentemente efficace. Ugualmente confermò i ri69
AFUS, 25 anni per l’Italia, in “Movimento Sociale Italiano. Direttive e orientamenti di propaganda”. Agenzia di informazione del Msi, IV, n. 2 13 febbraio
1972. Questa frase di Almirante venne poi espunta dal testo ufficiale della
commemorazione dei 25 anni del partito: si veda Dal IX congresso novembre
1970 al X congresso gennaio 1973. 2 anni di lavoro per il MSI Destra Nazionale, a c. dell’Ufficio Stampa e Relazioni pubbliche del Msi, Roma s.d. (ma 1973),
pp. 71-76.
sultati precedenti il Pci, così come li confermarono i due partiti
socialisti che riportarono sostanzialmente quello che avevano ottenuto, divisi, nelle precedenti consultazioni70.
Il Msi ebbe il 4,22% in più alla Camera e il 4,63 in più al Senato: in parte li prese ai liberali, che ebbero una perdita superiore al
2%; un piccolo incremento lo aveva dato il Pdium, confluito nel
Msi. Tuttavia, all’appello mancava ancora quasi il 2%, che probabilmente venne per trasferimento dai partiti di sinistra: la sconfitta secca del Psiup andò a favore del Pci; probabilmente voti del
Pci confluirono nel Psi; forse voti socialisti (o socialdemocratici)
andarono alla Dc e una piccola parte di democristiani finì col votare per Almirante.
Ma il dato più significativo non era numerico, bensì politico.
Anche nel 1953, il Msi si aspettava un successo ben più considerevole, dopo le elezioni-plebiscito del 1948, anche in quel caso
considerando gli ottimi risultati delle amministrative del 1951 e
del 1952; quel successo non si trasformò in opportunità politica.
Più o meno si verificò una situazione analoga nel 1972: il successo missino – realizzatosi mentre la Dc sostanzialmente teneva –
non si trasformò in successo politico. La Dc si salvava, il tracollo
non c’era stato e il Msi si ritrovava di fronte ai medesimi problemi
di prima, con l’aggiunta che la doppiezza di Almirante a un certo
punto avrebbe mostrato i suoi lati meno vantaggiosi.
Rossi ha parlato di «urne amiche-nemiche» e di «spiacevole sor71
presa» al momento dei risultati finali ; Marco Tarchi ha parlato di
una vittoria «largamente al di sotto delle attese»72.
Quello che più conta è il fatto che, come sintetizzò Servello
più tardi, i voti missini erano troppi e contemporaneamente
troppo pochi. Troppi perché spaventavano l’antifascismo militante che infatti si scatenò contro la Fiamma e i suoi militanti; troppo pochi perché non furono sufficienti a convincere la Dc a considerare determinante il partito di Almirante; le fu possibile aggi70
Su una interpretazione dei risultati del ’72 si veda S. COLARIZI, Storia dei
partiti nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 410-413.
71
G.S. ROSSI, Alternativa e doppiopetto…, cit., p. 217.
72
M. TARCHI, Cinquant’anni di nostalgia, cit., p. 87 e ID., Dal Msi ad An, Il
Mulino, Bologna, 1997, pp. 44-45.
49
50
rare l’ostacolo, continuare nella politica di delegittimazione del
Msi e soprattutto avallare quello che anni dopo sarebbe stato definito arco costituzionale, per mettere in condizioni di inagibilità
politica la Fiamma.
Abstract
This article traces the history of the Movimento Sociale Italiano at a
particularly favorable time for the party of the Italian right, namely,
the return of Almirante to the Secretariat and the victory in the 1972
general elections, when the party of the Fiamma reached its all-time
high. Specifically, it analyzes the complex dynamics that led Almirante
to the top of the party after the death of Michelini and the attempt to
transform the Msi in a moderate right-wing party, ready to enter the
national political game. More than at any other time in its history, the
Msi found itself torn between two options, a situation that finally led to
in the division of Democrazia Nazionale: the “movimentista”, subversive and revolutionary, summarized in the formula of an “alternative to
the system”, and the moderate national and anti-communist, summarized in the formula of the “national right”.
51
Politica economica e questione
operaia nel dibattito del gruppo
dirigente del Pci tra il 1957 e il 1965
di GREGORIO SORGONÀ
Il saggio propone una descrizione del dibattito che impegna il
Pci, tra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’60, riguardo i
caratteri dello sviluppo economico italiano.
La ragione, di carattere storiografico, che sottende questo contributo è determinata dalla opportunità di ritornare sui caratteri
specifici del comunismo italiano, oggi che sia la distanza storica
dall’oggetto di studio sia i progressi effettuati nella definizione di
una specificità globale del comunismo1 consentono di definire me2
glio le particolarità di questo fenomeno transnazionale .
La storia del Pci è ormai comunemente inquadrata nel nesso
1
Cfr. S. PONS, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale
(1917-1991), Einaudi, Torino, 2012.
2
Un approccio metodologico molto utile è quello che prefigura il passaggio
dalla storia comparata alla storia incrociata. Cfr. M. DI MAGGIO, Histoires croisées du communisme français et italien; S. WOLIKOW, Problèmes méthodologiques et perspectives historiographiques de l’histoire comparée du communisme; M. DI MAGGIO, PCI, PCF et la notion de «centre». Enjeux stratégiques et
questions identitaires des PC de l’Europe occidentale, in “Cahiers d’Histoire”,
n. 112-113, 2010, pp. 17-44.
52
tra appartenenza nazionale e riferimento internazionale. Il rapporto tra nazionale e internazionale è stato interpretato sia sottolineando la dipendenza coatta del primo termine dal secondo sia
attraverso il modello della interdipendenza tra i due livelli che si
intrecciano ed entrano anche in conflitto tra di loro, a partire però dalla consapevolezza della priorità del globale, o
dell’internazionale, sul nazionale.
Il primo approccio configura, in Italia, una evoluzione delle
posizioni assunte, in ambito storiografico da parte di quell’area
intellettuale vicina alla sinistra laico-socialista che, alla fine degli
anni ’70, introduce nel dibattito pubblico il tema della crisi del
paradigma antifascista e dei suoi soggetti costitutivi, primo tra
tutti il Pci.3. Questa tendenza accelera in seguito al crollo del sistema sovietico. Essa propone, soprattutto nella prima metà degli
anni ’904, una visione del comunismo in cui la sussunzione verso
il centro sovietico è fortemente accentuata. In questa chiave interpretativa il movimento comunista incide sulla costruzione anomala della democrazia italiana egemonizzando un antifascismo viziato da una genetica né liberale né democratica5.
3
Per un prospetto di studi, che esprimono una diversa se non opposta valutazione del dibattito storico sul nesso tra crisi del paradigma antifascista e interpretazione del ruolo delle organizzazioni di partito, in specie del Pci, nella storia dell’Italia repubblicana, cfr. L. PAGGI, La strategia liberale della seconda
repubblica. Dalla crisi del PCI alla formazione di una destra di governo, in ID.,
F. MALGERI (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta.
Partiti e organizzazioni di massa, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, pp. 7286; M. GERVASONI, Le insidie della “modernizzazione”. “Mondo operaio”, la
cultura socialista e la tentazione della “seconda repubblica” (1973-1982), in G.
DE ROSA e G. MONINA (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni
settanta. Sistema politico e istituzioni, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, pp.
203-223; S. COLARIZI, M. GERVASONI, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 32-56.
4
Cfr. E. AGA – ROSSI, V. ZASLAVSKY, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, il Mulino, Bologna, 1997; S. BERTELLI, F.
BIGAZZI (a cura di), PCI. La storia dimenticata, Mondadori, Milano, 2002.
5
Cfr. E. GALLI DELLA LOGGIA, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione dopo la seconda guerra mondiale, in G. SPADOLINI (a cura di), Nazione e
nazionalità in Italia, Laterza, Roma-Bari, 1994; ID., La morte della patria, Laterza, Roma-Bari, 1996.
Il Pci svolge, in questa lettura, una funzione doppiamente antinazionale, sia per la sua dipendenza dall’Urss sia perché fonda la
sua azione sul principio divisivo della lotta di classe che impedisce
la legittimazione definitiva della propria controparte politica6.
La corrente storiografica che si contrappone a questo modello
interpretativo trova il suo punto di riferimento più interessante
nella riflessione storica proposta da Franco De Felice. Essa si fonda su una riconcettualizzazione dell’antifascismo che ne contesta
la visione per cui esso è vittima del comunismo7, leggendo il rapporto tra i due termini, almeno nel caso italiano, come una forma
di relazione dialettica dai risvolti anche tragici8.
Il principio di interdipendenza inserisce il Pci nell’incrocio
dialettico tra più fattori: esso è influenzato dalla propria specificità nazionale, dalla relazione a un antifascismo spazialmente non
circoscritto alla sola Italia, dal rapporto di dipendenza con l’URSS
e, particolare spesso sottovalutato, dall’influenza egemonica che
il modello sociale statunitense esercita sulle società europee. In
questo caso riassumono importanza la storia del modello organizzativo comunista9 e temi non necessariamente legati al rapporto di lealtà e subordinazione degli italiani ai sovietici quali,
appunto, la risposta comunista allo sviluppo capitalistico10, che
comunque incide sul rapporto tra il comunismo italiano e quello
sovietico11.
Dentro questa cornice storiografica, l’obiettivo è di contribuire
a una migliore specificità della composizione della cultura politica del comunismo italiano in relazione alla rappresentazione del
6
Cfr. ID., La morte della patria, cit., p. 50.
Cfr. F. FURET, Il passato di un’illusione, Mondadori, Milano, 1995.
8
Cfr. F. DE FELICE, Introduzione, in ID. (a cura di) Antifascismi e Resistenze,
Annale VI Fondazione Istituto Gramsci, La Nuova Italia Scientifica, Roma,
1997, pp. 11-39.
9
Cfr. R. GUALTIERI (a cura di), Il Pci nell’Italia repubblicana (1943-1991), Annale XI, Carocci, Roma, 2001; ID., C. SPAGNOLO, E. TAVIANI (a cura di), Togliatti nel suo tempo, Annale XV, Carocci, Roma, 2007.
10
Cfr. F. DE FELICE, L’Italia repubblicana. Nazione e sviluppo, Nazione e crisi,
a cura di Luigi Masella, Einaudi, Torino, 2003.
11
Cfr. C. SPAGNOLO, Sul Memoriale di Yalta. Togliatti e la crisi del movimento
comunista internazionale (1956-1964), Carocci, Roma, 2007.
7
53
modello di sviluppo capitalistico nella fase del miracolo economico.
54
Il miracolo debole. Il Pci e il capitalismo italiano tra sviluppo e
povertà
Dall’istituzione del Cominform almeno fino alla morte di Stalin il
Pci adotta una rigida visione sottoconsumistica dell’economia
capitalistica. Qualche timido segnale di un cambio di tendenza si
può cogliere sulle pagine delle principali pubblicazioni del Pci a
partire dal 1956, quando «Rinascita» ospita un articolo di Franz
Marek che tematizza esplicitamente la necessità di rivedere le categorie adottate dal movimento comunista internazionale perché
incapaci di comprendere le potenzialità integrative del modello
di sviluppo occidentale12.
Il ricorso a una visione malthusiana dell’economia si lega solo
in parte alla contemporaneità con il momento più teso della
guerra fredda. Essa è radicata in un’interpretazione autoctona
della realtà italiana e del capitalismo dal carattere stagnazionista
alimentata in quella che Vittorio Foa ha definito la cultura della
crisi13.
Questa cultura della crisi fa riferimento a una forma di antifascismo che, legando tautologicamente fascismo e capitalismo, colloca l’azione del Pci nella prospettiva di una riforma democratica
della Nazione da ottenere, ed è questo il passo più controverso, attraverso l’azione illuminata di elite consapevoli dell’arretratezza del
materiale umano con cui si trovano a interagire.
Con questo bagaglio ideologico il Pci affronta la grande trasformazione che interessa le democrazie occidentali tra la fine
della guerra e i primi anni Sessanta, comportando un processo di
reciproca integrazione delle economie continentali che riduce le
12
Cfr. F. MAREK, La teoria dell’impoverimento relativo e assoluto, in “Rinascita”, a. XI, gennaio 1956, p. 49-52.
13
Cfr. V. FOA, Il cavallo e la torre, Il cavallo e la torre, Einaudi, Torino, 1991, p.
252.
sperequazioni territoriali e garantisce maggiori spazi per
l’integrazione democratica delle masse nella vita pubblica.
L’allargamento degli spazi di integrazione delle masse agevola il
rinforzarsi di una domanda democratica di allargamento delle
cerchie decisionali dal centro alla periferia.
Il Pci subisce questa dinamica almeno a partire dalla sconfitta
subita dalla Cgil alla Fiat nel 195514 e dalla repressione violenta
della rivolta nazionale ungherese da parte dei sovietici. Il modo
in cui inizialmente il Pci prova a fronteggiare questo biennio critico si condensa nel rilancio della via italiana al socialismo promossa dall’VIII Congresso del partito15.
La sconfitta alla Fiat apre una questione operaia dentro il partito soprattutto in merito al modello di contrattazione e
all’adeguatezza della linea adottata nella promozione degli interessi della classe operaia16. La repressione della rivolta nazionale
ungherese, pur riguardando esplicitamente i vincoli posti
all’azione del Pci dalla appartenenza di campo, rimette in causa
una esigenza di democratizzazione del socialismo che cozza col
modello sovietico e rimette in discussione l’impostazione del par14
Cfr. L. LANZARDO, Classe operaia e partito comunista alla Fiat. La strategia
della collaborazione, Einaudi, Torino, 1971; AA.VV., I comunisti a Torino 19191972, Editori Riuniti, Roma, 1972, R. GIANNOTTI, Trent’anni di lotte alla Fiat,
1948-1978. Dalla ricostruzione al nuovo modo di fare l’auto, De Donato, Bari
1979; G. CRAINZ, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni
fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli, Roma, 1996, pp. 33-40.
15
Cfr. M. L. RIGHI (a cura di), Quel terribile 1956: i verbali della direzione comunista tra il 20° Congresso del Pcus e l’8° Congresso del Pci, Editori Riuniti,
Roma, 1996; A. GUERRA, B. TRENTIN, Di Vittorio e l’ombra di Stalin.
L’Ungheria, il PCI e l’autonomia del sindacato, Ediesse, Roma, 1997; J. HASLAM, I dilemmi della destalinizzazione, in R. GUALTIERI, E. TAVIANI, C. SPAGNOLO (a cura di), Togliatti nel suo tempo, cit., pp. 235-238; S. F EDELE, Il PCI
tra crisi polacca e rivoluzione d’Ungheria, in S. F EDELE, P. FORNARO (a cura di),
L’autunno del comunismo. Riflessioni sulla rivoluzione ungherese del 1956,
Istituto di Studi Storici Gaetano Salvemini, 2007, pp. 208-220.
16
Cfr. V. FOA, Op. cit., pp. 256-258; A. GUERRA, B. TRENTIN, Di Vittorio e
l’ombra di Stalin, cit., pp. 178-201; C. GHEZZI, (a cura di), Giuseppe Di Vittorio
e i fatti d’Ungheria del 1956, Ediesse, Roma, 2007, pp. 31-33; S. CRUCIANI,
L’Europa delle sinistre. La nascita del Mercato comune europeo attraverso i
casi francese e italiano (1955-1957), Carocci, Roma, 2007, pp. 29-37.
55
56
tito-pedagogo rispetto alle istanze extra-partitiche.
Il fenomeno con cui il Pci deve adesso confrontarsi è riconducibile nella categoria di policentrismo. Questa categoria, spesso
circoscritta al solo ambito dei rapporti tra Stati, è probabilmente
più utile se applicata anche alla descrizione interna delle società
nazionali. La risposta al policentrismo comporta in un Paese democratico come l’Italia un confronto sulla capacità di creare consenso.
Su questo terreno si collocano le obiezioni mosse al Pci da
Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della Cgil. Nella riunione di Direzione del 30 ottobre 1956, rispondendo alle aperte
critiche che Togliatti gli muove, il leader sindacale chiede di
«modificare radicalmente i metodi di direzione nei paesi di democrazia popolare e cambiare anche la politica economica» e di
concertare i piani di sviluppo «con la classe operaia» chiudendo il
suo intervento con la significativa constatazione che «democratizzare profondamente è una condizione di salvezza del sistema
socialista»17.
Le obiezioni segnalano un malessere più vasto di cui, sempre
Di Vittorio, si fa latore in sede di Direzione, il 30 gennaio del
1957. Di Vittorio riporta l’impressione «largamente diffusa» tra
gli operai per cui «con le sole forze della C.G.I.L. non si possono
impegnare lotte», in una fase in cui «le condizioni oggettive sono
invece favorevoli» a causa dell’aumento dei profitti. Di Vittorio
registra la stasi della conflittualità operaia e ne individua la causa
nella verticalità del rapporto tra partito e classe. La mancata mobilitazione delle forze operaie è attribuita all’assenza di «un’azione
parlamentare più decisa e continuativa in difesa della classe operaia» attraverso provvedimenti quali la «legge per il collocamento,
validità obbligatoria dei contratti di lavoro, giusta causa permanente per fabbriche», provvedimenti di cui Di Vittorio auspica la
realizzazione anche al fine di realizzare «l’unità operaia
17
FIG (Fondazione Istituto Gramsci), APC (Archivio del Partito comunista italiano), Fondo Mosca, Mf. 127, verbale del 30 ottobre 1956, pp. 2-5. La citazione
è a p. 5. Tutti i verbali di direzione del 1956 sono ora in M.L. RIGHI, Quel terribile 1956, cit.
nell’azione […] superando la tensione dei rapporti creatasi dopo i
fatti d’Ungheria». Di contro a questa impasse, il leader del sindacato propone di invertire il senso del rapporto tra ragioni operaie e
partito, ad esempio ripartendo «dalle lotte aziendali»18.
L’ipotesi sottoconsumistica in questo caso è palesemente indebolita. La stasi operaia, in una fase di oggettiva crescita dei salari19, è attribuita a difetti di fondo nella strategia del partito. Riguardo l’esigenza di rivedere le categorie analitiche di lettura del
capitalismo si esprime in modo ancora più diretto uno degli esponenti emergenti della sinistra comunista, Sergio Garavini,
che, su l’Unità del 2 febbraio 1957, richiamando le «nuove rivendicazioni» espresse dai lavoratori quali «la riduzione della settimana lavorativa a parità di retribuzione», afferma che «il grande
capitale non esaurisce più la sua politica soltanto nella rappresaglia e nella discriminazione contro la classe operaia […] perché
esso, per poter vivere, deve cercare una soluzione ai problemi
nuovi e complessi posti dalla realtà dei suoi rapporti con i lavoratori e con il mercato, soluzione che non può più essere soltanto
quella del fascismo»20.
Posizioni come quella di Garavini sono però minoritarie21. La
possibilità che il capitalismo integri per consenso è un argomento
che incorre, ancora alla fine degli anni ’50, nel duro giudizio del
18
FIG, APC, Fondo Mosca, Serie Direzione, Mf. 127, verbale del 30 gennaio
1957, intervento di Giuseppe Di Vittorio pp. 1–2.
19
Cfr. F. BARCA, Compromesso senza riforme, in Id. (a cura di), Storia del capitalismo italiano, Donzelli, Roma, 1997 pp. 38-43.
20
S. GARAVINI, Nelle grandi fabbriche, in “L’Unità”, 2 febbraio 1957, p. 1.
21
Così, quando si tratta di destinare Garavini alla segreteria della Camera del
Lavoro di Torino, questa scelta è effettuata con molte riserve e il consiglio di
correggerne l’operato: «Longo: Torino. Pecchioli segretario e D’Amico vice.
Alla C.d.L. Garavini, con qualche riserva politica. Scheda: Incontreremo delle
resistenze per mettere Garavini segretario della C.d.L. a Torino benché si riconosca che è il migliore. Novella: Non nominare Garavini avrebbe un chiaro
significato politico di diffidenza, e squalificazione. Amendola: Caso di Garavini, malgrado le sue tendenze economistiche che debbono essere combattute e
corrette». Cfr. FIG, APC, Fondo Mosca, serie Direzione, Mf. 127, verbale dell’1
luglio 1958, interventi di Longo, Scheda, Novella, Amendola, pp. 3-6.
57
58
partito22. I fermenti notati in Direzione e sulla stampa comunista,
trovano, tuttavia, uno spazio relativo di espressione pubblica.
Nell’ottobre del 1957 Luciano Barca, pur in una chiave di continuità storica, insiste, ad esempio, sull’opportunità di modificare i
canoni della rappresentazione del modello capitalistico tenendo
presente come le contraddizioni del sistema avverso si presentino
ora in «forme originali che vanno approfondite»23.
Il dibattito è incartato dentro un ritualismo linguistico che lo
rende poco intellegibile, a tratti sterile. Esso è scosso dalle elezioni politiche del 1958 che prefigurano un possibile isolamento dei
comunisti a causa del tentativo fanfaniano di rilancio a sinistra
della Dc24.
Se nel numero di maggio-giugno del 1958 di “Politica ed economia”, Luciano Barca, rappresenta il capitalismo occidentale
come un sistema omogeneo passibile di essere affrontato secondo
una scelta netta «pro o contro il fascismo, verso il quale
l’imperialismo si volge sempre nei momenti di crisi»25, non più di
tre mesi dopo, proprio Barca introduce una riflessione sui caratteri integrativi di quello che, ormai più assiduamente, è definito
neocapitalismo. Barca segnala il rischio di un’integrazione operaia nel sistema capitalistico ottenuta attraverso il superamento
del blocco dei salari e l’introduzione dello strumento della parte22
Cfr. Giudizi divergenti sul capitalismo contemporaneo, corsivo non firmato,
in “Politica ed Economia”, a. I, luglio 1957, p. 35.
23
L. BARCA, Capitalismo non più nuovo, in “Politica ed Economia”, a. I, ottobre 1957, p. 3.
24
Cfr. G. BAGET BOZZO, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra. La Dc di
Fanfani e di Moro 1954-1962, Vallecchi, Firenze, 1977, pp. 15-17; F. MALGERI (a
cura di), Storia della Democrazia Cristiana, 1954-1962. Verso il centro-sinistra,
Edizioni Cinque Lune, Roma, 1989, pp. 7-11; P. CRAVERI, La Repubblica dal
1958 al 1992, UTET, Torino 1995, vol. 24, Storia d’Italia diretta da G. GALASSO,
pp. 6-7; A. GIOVAGNOLI, Il partito italiano. La Democrazia Cristiana dal 1942
al 1994, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 70 ss.; M. GREGORIO, Costituzione, forma
di governo e partiti politici, in P. L. BALLINI, S. GUERRIERI, A. VARSORI (a cura
di), Le istituzioni repubblicane dal centrismo al centro-sinistra (1953-1968),
Carocci, Roma, 2006, pp. 116-118; L. RADI, La DC da De Gasperi a Fanfani,
Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, pp. 141-143.
25
L. BARCA, Contro le radici del fascismo, in “Politica ed Economia”, a. II,
maggio-giugno 1958, p. 1
cipazione agli utili di azienda che induce «l’operaio […] a ritenere che il suo maggior salario non sia legato al fatto che egli dà al
monopolio una più qualificata quantità di forza-lavoro […] ma
sia invece legato ai superprofitti originati dal privilegio» e per
questo è spinto «a farsi carabiniere di tale privilegio»26.
Un contributo al processo integrativo lo fornisce la congiuntura salariale al rialzo, nella seconda metà degli anni ’50. Anche la
trasformazione dei rapporti tra i principali sindacati del paese, i
quali assumono un profilo maggiormente autonomo e reciprocamente concorrenziale nella ricerca del consenso del lavoratore,
27
agevola il processo di redistribuzione del reddito .
I fondamenti dell’azione politica comunista nella prima metà
degli anni ’50 sono allora sottoposti, per la prima volta, a una revisione critica interna. La revisione causa un conflitto evidente
tra la sinistra del partito, che cerca di andare oltre l’antifascismo
reattivo per rilanciare una prospettiva rivoluzionaria per
l’occidente, e la destra che è restia ad abbandonare il paradigma
reattivo dell’antifascismo, giudicando la società italiana ben lungi dal conseguimento di un’adeguata democratizzazione.
Capitalismo di Stato o socialismo? Il Pci e l’intervento pubblico in
economia
Il confronto appena menzionato si svolge all’interno della
nuova generazione di quadri e intellettuali emersa con l’ottavo
Congresso. Esso trova nel segretario e nel centro del partito non
solo un custode ma anche un elemento decisivo di indirizzo.
L’input del centro al confronto è in prima battuta metodologico.
Esso imposta il dibattito secondo un processo di transizione nella
continuità che però non è neutro rispetto agli interpreti. Il peso
specifico, l’organizzazione e la maggiore consapevolezza di sé
26
ID., Realtà e false apparenze della partecipazione agli utili, “Politica ed Economia”, a. II, settembre 1958, p. 17.
27
Sull’evoluzione collaborativa dei rapporti tra Cgil e Cisl a partire dal 1958,
in relazione alla contrattazione alle OM di Brescia, cfr. S. TURONE, Storia del
sindacato in Italia. Dal 1943 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 1984, p. 243-244.
59
60
dell’area del partito ancora legata a una visione sottoconsumista
della società italiana contribuisce a difendere, nell’equilibrio tra
transizione e continuità, il secondo dei fattori sul primo.
L’integrazione del lavoratore nel tessuto più vivo
dell’economia, da un lato, e l’intervento di Stato nell’economia,
che con Fanfani si profila come obiettivo strategico della Dc, sono
due fattori che influiscono su questo confronto. Il tema del capitalismo di Stato impegna gli economisti di punta del partito fin dal
novembre del 1958 sulle pagine di «Politica ed Economia».
L’argomento è introdotto sempre da Luciano Barca che insiste
sul carattere ibrido del nostro sistema, per cui il conflitto tra capitale e lavoro non esaurisce i termini della lotta rivoluzionaria,
poiché la mancata modernità del Paese impone qualcosa di simile
a uno sforzo comune per la sua normalizzazione.
Il motivo per discutere del capitalismo di Stato, infatti, è «legato al modo particolare in cui taluni problemi generali si pongono nel nostro Paese» per cui «la mediazione degli interessi dei
monopoli in Italia avviene attraverso un partito che si richiama
in modo diretto alla dottrina sociale cattolica», interpretata, da
Fanfani, come apripista per «una indubbia svolta verso un più
deciso integralismo clericale di tipo corporativo»28.
Il rischio che l’intervento statale in economia comporti una
nuova forma di autoritarismo rimane in piedi ma senza che si
faccia riferimento al fascismo, contemporaneamente il capitalismo di Stato in sé non è considerato un modello da rigettare
quanto una formula apparentemente neutra che il Pci può contribuire a orientare, in Parlamento, verso la sua potenziale declinazione progressista. La personificazione dello Stato investitore e
29
l’interpretazione del rapporto tra mercato e capitale sono i due
28
L. BARCA, Un dibattito sul capitalismo di Stato in Italia, in “Politica ed Economia”, a. II, novembre 1958, pp. 13-14.
29
Nei suoi diari Barca, proprio negli appunti relativi all’ottobre e novembre del
1958, definisce, ad esempio, Eugenio Peggio, redattore capo di “Politica ed Economia”, «molto solerte e capace […] anche se […] il più legato a vecchi schemi»
poiché, «come per molti altri per lui capitalismo e mercato sono la stessa cosa».
Cfr. L. BARCA, Cronache dall’interno del vertice del Pci. Con Togliatti e con Longo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, pp. 198-199.
argomenti su cui si concentrano le differenti analisi del capitalismo di Stato introdotte nel dibattito.
L’intervento che apre realmente il dibattito è quello di Franco
Rodano che contesta l’idea che il capitalismo di Stato sia uno
strumento neutro orientabile in base al personale politico che lo
dirige. Egli paventa il rischio che ogni forma di capitalismo di
Stato, proprio perché guidata da un’elite politica in parte allargata, possa tradursi in un gigantismo clientelare. Il capitalismo di
Stato non è letto in funzione del manovratore, ma rispetto agli
scopi. L’articolo, infatti, distingue un intervento pubblico in economia interessato a fornire beni e servizi in potenziale competizione anche con i privati, dal tentativo di sopperire, in modo vago, a carenze sociali non direttamente dipendenti dalla produzione di beni e servizi gestita dalle imprese nazionalizzate30.
Il rischio di una deriva assistenziale e la percezione
dell’inefficienza del pubblico implica, per Rodano, la possibilità
di un doppio effetto negativo sulla politica della sinistra italiana.
Il primo effetto negativo è che la riforma del sistema economico
nazionale sia estemporanea perché calibrata per intervenire ai
margini e sugli scarti del cuore del sistema economico. Il secondo
è che un capitalismo di Stato così pensato getti un riflesso negativo sull’economia di pubblica proprietà. Il capitalismo di Stato a
guida politica, agli occhi di Rodano, già in nuce prefigura una gestione dell’intervento pubblico in cui la costruzione di reti di
patronage e la preservazione del potere dirigente, prima che
l’elaborazione programmatica, contano più dell’efficienza.
Questa rappresentazione del capitalismo di Stato comporta
una distinzione rispetto a chi, evidentemente anche dentro il Pci,
si propone «di condizionare, e non di combattere a oltranza, la
sciagurata politica dell’on. Fanfani» vera e proprio «camicia di
Nesso che corrode e soffoca […] ogni energia intraprenditrice
delle aziende sotto controllo pubblico». L’obiettivo «del Partito
30
Sulla presenza di osservazioni analoghe in contesti esterni a quello comunista, cfr. F. BARCA, Op. cit., p. 88; I. FAVRETTO, Alle radici della svolta autonomista. PSI e Labour Party, due vicende parallele (1956-1970), Carocci, Roma, 2003,
pp. 178-179.
61
62
cattolico» è circoscritto a quello di chi intende «accamparsi
all’interno della compagine statuale come in un proprio particolare
dominio» ritagliandosi «al suo interno, il luogo e lo spazio per una
arbitraria e indiscriminata libertà d’azione che sfidi e violi il diritto
comune». Il capitalismo di Stato configura allora un tassello nella
costruzione di uno Stato assistenziale per questo applicato alle
«parti dello Stato che più direttamente interessano la vita economica del paese e il processo dell’attività produttiva, e che quindi
promettono e assicurano più tangibili e concrete prerogative, privilegi più appetitosi, incontrollati e sonanti»31.
L’interpretazione del capitalismo di Stato più in voga dentro il
partito si mostra visibilmente più possibilista nei confronti di un
controllo politico-parlamentare dell’intervento di Stato in economia. Nel dibattito seguente a ribadire questa posizione è, tra i
primi, Angelo Di Gioia32, mentre sulla scia di Rodano si pone il
complesso intervento di Lucio Magri.
Magri, esponente della sinistra del partito e da poco iscritto allo stesso dopo un tormentato percorso politico33, sostiene la revisione della tesi dell’arretratezza sistemica del capitalismo nazionale. Egli rappresenta Fanfani come un innovatore autoritario
che risponde all’esigenza del capitalismo italiano di disporre di
«un governo “forte”, autonomo dal parlamento, capace di compiere operazioni decise ai danni della piccola e media borghesia
premoderna […] un governo efficiente, capace di agire con decisione e secondo un certo disegno organico».
La trasformazione dell’approccio interpretativo mutua il piano
dell’opposizione di classe che necessita adesso di un salto qualitativo. Il mero produttivismo non basta più a costituire una politica
spendibile per un partito di ispirazione marxista. In questo intervento, come in quello di Rodano, emerge la preoccupazione che il
legame con il vincolo di congiuntura, una volta divenuto priori31
F. RODANO, La manomorta del regime fanfaniano, in “Politica ed Economia”, a. II, novembre 1958, pp. 21-22.
32
Cfr. A. DI GIOIA, senza titolo, in “Politica ed Economia”, a. II, Gennaio 1959,
p. 28.
33
Cfr. G. CHIARANTE, Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta, Carocci, Roma, 2006, pp. 29-180.
tario rispetto all’aspetto prettamente economico dell’erogazione
del servizio, indebolisca «in linea di principio e in linea di fatto, il
settore dell’impresa pubblica»34.
La risposta all’articolo di Magri occupa i numeri successivi
della rivista economica. Il punto che appare meno digeribile è
quello relativo all’applicazione di un criterio di efficienza eco35
nomica alle imprese a partecipazione statale . Vincenzo Vitiello,
ad esempio, definisce «il feticcio più appariscente […] quello del
criterio di economicità fondato sul calcolo della redditività» che
concepito «nel senso ristretto del conseguimento del profitto,
porta necessariamente […] ad espellere dalla fabbrica la manodopera in eccesso». In un sistema definito ancora come monopolistico per Vitiello si sarebbe naturalmente acuito il contrasto «tra
le funzioni di progresso economico e sociale che potrebbero avere
le imprese pubbliche e le scelte orientate essenzialmente in base
al criterio della redditività»36, ragione per cui il principio della
non profittabilità dell’intervento è considerato un momento positivo dell’azione capitalistica di Stato che lo differenzia dal capitalismo privato, fondato unicamente sul principio del profitto.
Una posizione mediana la assume Bruno Trentin che sottolinea la trasformazione modernizzatrice della Dc che ora mira «a
sostituirsi permanentemente alle forme tradizionali di mediazione tra Stato e Confindustria, che di volta in volta erano rappresentate dalla destra dc e dal Partito Liberale», implicando «quindi
la costruzione di un “partito di regime”, effettivamente padrone
della macchina statale» e che corrispondentemente fa propria
«una concezione della pubblica amministrazione» come «elemento attivo […] della riorganizzazione della economia italiana in
funzione degli interessi monopolistici e un centro di potere […]
per la “negoziazione”, con gli stessi gruppi monopolistici di una
34
L. MAGRI, Egemonia proletaria e utilizzazione del capitalismo di Stato, in
“Politica ed Economia”, a. II, gennaio 1959, p. 34.
35
Cfr. B. MANZOCCHI, Gestione economica delle aziende di Stato su scala nazionale, in “Politica ed Economia”, a. II, Febbraio 1959, p. 36. Si veda anche L.
BARCA, Cronache dall’interno del vertice del Pci, cit., p. 200.
36
V. VITELLO, Impresa pubblica, redditività aziendale e sviluppo economica, in
“Politica ed Economia”, a. II, Maggio 1959, pp. 20-21.
63
64
politica “sociale”, capace di assorbire e di influenzare larghi strati
di popolazione lavoratrice».
Trentin è evidentemente vicino alle posizioni descrittive della
sinistra del partito pur manifestando una attenzione più robusta
verso la redditività immediata del conflitto sindacale. Egli individua almeno tre ambiti in cui esercitare l’azione di stimolo dei
comunisti: la difesa e il potenziamento «dell’industria meccanica
controllata dallo Stato», la «riorganizzazione delle imprese produttrici di energia controllate dallo Stato sotto un unico ente» e il
«riassetto istituzionale dell’intero settore delle partecipazioni statali, attraverso la loro organizzazione in enti di gestione, posti
sotto la diretta responsabilità del Governo e il controllo del Parlamento»37. Trentin dimostra, rispetto alla sinistra comunista,
una maggiore vicinanza alla linea del partito, soprattutto riguardo al tema del controllo, qui ancora attribuita ad enti di gestione
rispondenti principalmente al Parlamento. Tuttavia la richiesta di
un impegno pubblico selettivamente rivolto verso l’industria
meccanica prefigura un indirizzo dello sviluppo che non coincide
con le posizioni prevalenti nella destra del partito a sostegno di
un modello di spesa al cui interno l’agricoltura e la piccola e media impresa occupano ancora un posto principale. Trentin assume un ruolo a se stante che lo porta ad essere, in questo settore,
una delle voci più ascoltate e rilevanti dell’intero Pci.
Il dibattito sul capitalismo di Stato differenzia schematicamente
una componente maggioritaria del partito interessata a promuovere le forme di nazionalizzazione anche passiva delle masse lavoratrici e un’area più eterogenea che, esulando dalla centralità immediata della rivendicazione salariale, punta la propria attenzione sul
ruolo attivo del lavoratore nella nuova società spostando la sfida al
neocapitalismo sul versante dell’organizzazione produttiva e sul
lato qualitativo della contesa38.
Il V congresso della Cgil costituisce una tappa tra le più im37
B. TRENTIN, Una strada lunga dieci anni, in “Politica ed Economia”, a. II,
Giugno 1959, pp. 24-29.
38
Cfr. S. GARAVINI, Le industrie automobilistiche europee in concorrenza sul
mercato italiano, in “Politica ed Economia”, a. IV, Novembre 1960, p. 5.
portanti in questo processo. Il congresso, per descriverlo attraverso le parole di un suo protagonista, rilancia «l’idea che la […] distribuzione del prodotto e quindi la stessa organizzazione del lavoro nella produzione non potevano essere monopolio esclusivo
dei possessori di capitale»39 e accelera l’indebolimento della di40
pendenza stretta del sindacato dal partito . Il principio
dell’autonomia sindacale aggiunge un ulteriore tassello a uno
scontro interno basato essenzialmente su due fattori: il giudizio
sul grado di maturità del Paese e la conseguente metodologia politica che l’organizzazione avrebbe dovuto adottare nei confronti
di ciò che nel Paese si organizza esprimendo ragioni politiche pur
senza essere partito.
Il confronto interno all’organizzazione comunista si concentra
adesso sulle forme della contrattazione sindacale e in termini che
rendono evidente come la sua tematizzazione sia inscindibile da
una riflessione sul ruolo dell’organizzazione sindacale e sulla
funzione del lavoro dipendente. Il tema del salario e le ragioni di
merito nella sua distribuzione marcano, in questo caso, la differenza tra i sostenitori della contrattazione in base al rendimento da
coloro i quali propongono una priorità del tema delle qualifiche.
Nel maggio del 1960 il tema della contrattazione è dibattuta
nella commissione di massa del Pci. La relazione iniziale di Enrico Bonazzi, responsabile della commissione a breve sostituito da
Giorgio Napolitano41, individua la novità del V Congresso
nell’aver segnalato un livello dello scontro che nelle grandi fabbriche interessa ragioni d’ordine più complesse che in passato.
Un doppio livello per cui «se la lotta per gli aumenti salariali e
39
V. FOA, Op. cit., p. 265. Sul V congresso si veda anche A. PEPE, Il sindacato
nel compromesso nazionale: repubblica, costituzione, sviluppo, in ID., P. IUSO,
S. MISIANI (a cura di), Storia del sindacato in Italia nel Novecento. La CGIL e la
costruzione della democrazia, Ediesse, Roma, 2001, pp. 118-122, S. TURONE, Op.
cit., pp. 269-271, M.L. RIGHI, Gli anni dell’azione diretta, (1963-1972), in A. PEPE (a cura di), Storia del sindacato in Italia nel ’900. Il sindacato nella società
industriale, Ediesse, Roma, 2008, p. 22, A. GRAZIANI (a cura di), L’economia
italiana dal 1945 a oggi, il Mulino, Bologna, p. 77.
40
Cfr. S. T URONE, Op. cit., p. 254.
41
Cfr. G. NAPOLITANO, Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 53.
65
66
nuove conquiste normative deve svilupparsi ovunque vi sono lavoratori sfruttati, bassi salari, per imporre ovunque non lo sono il
rispetto dei minimi (erga omnes) contrattuali […] è anzitutto dove la classe operaia è maggiormente concentrata nelle grandi
fabbriche e nelle industrie dei complessi monopolistici, che deve
essere posto con estremo vigore il problema di una politica rivendicativa salariale e normativa molto avanzata, e sapere condurre con vigore grandi lotte articolate […] che mirino a mobilitare interi settori omogenei»42. La relazione giustappone posizioni non conciliate dentro il partito.
I fautori dell’indirizzo al reddito della redistribuzione, come
Eugenio Peggio, difendono i successi ottenuti nelle fabbriche torinesi «con rivendicazioni di legame del salario e del rendimento». Si stabilisce, in questo caso, un livello dello scontro basato
prima di tutto sul salario e solo marginalmente sulla appropriazione del processo produttivo.
La contrattazione per qualifiche di settore, invece, lega
l’indirizzo della distribuzione al raggiungimento di una maggiore
maturità da parte dei lavoratori. La determinazione del merito e
del salario secondo aumenti dettati dalla conoscenza del processo
produttivo mira inoltre a garantire una contrattazione meno sperequata da zona a zona, dal momento che non lega l’aumento alla produttività della singola impresa, ma a una qualifica settoriale indifferente alla produttività conseguita. Sulla priorità delle
qualifiche Luciano Barca si sofferma per sottolineare quella che
reputa l’arretratezza del partito nel connettere le «punte di combattività» avutesi «nell’agosto ’60 […] più che nell’agosto ’59»
con temi quali «struttura del salario, qualifiche, ecc». Una arretratezza riflessa nel fatto che si discute «ancora sulla lotta aziendale, mentre la CGIL» pone «la questione delle lotte di settore».
Quest’ultimo passaggio aiuta a capire meglio i termini del
confronto. La lotta di settore pone il conflitto sul terreno di una
contrapposizione tra organizzazioni unitarie: da una parte i sindacati di categoria e dall’altra le imprese. L’obiettivo che ci si
42
FIG, APC, mf. 0468, serie sezioni di lavoro, commissione lavoro di massa 1960,
Riunione del 18-19 maggio 1960, Relazione di Enrico Bonazzi, pp. 15-17.
pone è quello di riflettere l’integrazione per settore sui sindacati
corrispondenti e di «conquistare un salario unico per qualifica
[…] cioè una serie di minimi per qualifiche». La scelta del terreno
aziendale, al contrario, comporta un indirizzo più interessato alla
rimuneratività immediata come afferma Angelo Di Gioia quando
sostiene «che il sindacato deve contrattare, nella azienda» superando «le riserve su ‘sindacato aziendale’, ‘aziendalismo’» perché
«il vero pericolo è la assenza del sindacato dalle aziende: quello è
43
il vero ‘aziendalismo’» .
Il confronto rimette in causa il tema del controllo operaio e
dell’unità sindacale ma coinvolge la linea nazionale del partito
emersa con il Congresso del 1956 e adesso messa alla prova
dall’avvicinamento tra democristiani e socialisti dopo il fallimento del Governo Tambroni44.
In questo quadro il Convegno sulle tendenze del capitalismo
italiano, organizzato dall’Istituto Gramsci nel marzo del 1962,
rappresenta il tentativo di dare alla linea economica del movimento comunista italiano una unitarietà evidentemente non conseguita. La prima delle tre relazioni introduttive, affidata ad Antonio Pesenti e Vincenzo Vitiello, effettua un riconoscimento rilevante del processo espansivo di integrazione economica.
L’integrazione economica europea, infatti, è definita «un fenomeno di lunga durata, che corrisponde alle esigenze generali dello sviluppo capitalistico, al progredire della tecnica e alla conseguente produzione di massa, che esige mercati sempre più vasti e
stabili, la eliminazione delle strutture più arretrate, una maggiore
mobilità delle forze produttive». Lo sviluppo capitalistico è relazionato a un «movimento generale verso una maggiore liberalizzazione degli scambi e dei pagamenti, di crescenti legami e interconnessioni tra i paesi capitalistici».
I due relatori sottolineano come «nel settore della produzione
43
APC, FIG, mf. 0468, serie sezioni di lavoro, commissione lavoro di massa
1960, riunione del 24 agosto 1960, p. 10-14.
44
Sul caso Tambroni tra le tante ricostruzioni fornite si fa qui riferimento a
quelle di P. CRAVERI, Op. cit., pp. 57-73, P. DI LORETO, La difficile transizione.
Dalla fine del centrismo al centro-sinistra. 1953-1960, il Mulino, Bologna, 1993,
pp. 240-246.
67
68
industriale» sia intervenuta una maggiore coordinazione rispetto
al passato importante «nel determinare nuove localizzazioni industriali», riconoscendo, così, alcuni dei risultati conseguiti dalla
programmazione economica, come «la costituzione nel 1956 del
Ministero delle Partecipazioni statali e l’obbligo per il Ministero
di presentare una relazione programmatica sottoposta al controllo e alla approvazione, nelle sue linee generali, del Parlamento».
La ragione di questi cambiamenti è ricondotta alla mobilitazione
di massa, consentendo di recuperare la rappresentazione del capitalismo italiano in termini di arretratezza sistemica indotta alla
trasformazione dall’esterno e che ancora può svolgere il ruolo di
imporre «orientamenti dell’intervento pubblico che siano più conformi alle esigenze di progresso economico e civile del paese»45.
Le riflessioni proposte nel dibattito dalla seconda relazione,
quella di Bruno Trentin, mostrano un carattere più complesso e
si basano su una descrizione del neo-capitalismo inteso come
movimento storico autonomo che, contenendo una contraddizione tra ragioni del profitto e razionalità della produzione, può
consentire di porre il conflitto di classe su un terreno qualitativamente più maturo e allargato nei suoi soggetti costitutivi. Il
successo del modello neocapitalista, osserva Trentin, non elimina
il conflitto per aver ridistribuito più reddito e incrinato
l’equilibrio dei bassi salari. Esso, infatti, smentisce «la tesi, riaffiorata negli anni 1955-56, di una tendenziale attenuazione dei
conflitti di classe nella grande impresa moderna, in ragione della progressiva sostituzione dei proprietari-azionisti da parte dei
“managers”, nella gestione diretta dell’impresa stessa». Trentin
rifiuta la schematica equiparazione tra il cosiddetto neocapitalismo e l’integrazione della classe operaia, adesso impegnata nella «lotta per la conquista di una autonomia […] del lavoratore
dalla singola azienda e dalla sua politica di gestione», che si riflette in rivendicazioni quali quelle per il salario garantito o per
le «nuove qualifiche rispondenti alle capacità professionali della
persona del lavoratore» e «il diritto a negoziare i ritmi di pro45
A. PESENTI e V. VITIELLO, Tendenze attuali del capitalismo italiano, in “Politica ed Economia”, a. V, marzo-aprile 1962, pp. 15-26.
duzione».
Il nuovo piano del conflitto investe il tema del controllo della
produzione all’interno di un sistema di fabbrica composto da tre
elementi (capitale, direzione, produzione) due dei quali – direzione e produzione – possono essere congiunti contro gli interessi
del capitale.
Questa differenziazione tra direzione o gestione del processo
lavorativo e possesso del capitale non comporta un automatismo
del conflitto e però allarga il campo delle possibilità dell’azione
comunista potendo esprimere «il tentativo di larghi strati di “intellettuali della produzione”, di tecnici, di acquisire una autonomia culturale e ideologica e una autonomia politica dal sistema».
Per il Pci, nella prospettiva tracciata da Trentin, si apre
l’obiettivo di sensibilizzare al socialismo nuove categorie professionali, quali «la grande massa dei lavoratori convogliati nei servizi e in genere nel settore così detto terziario, la grande massa
degli impiegati dell’industria e, particolarmente, la categoria dei
tecnici dell’industria e dell’agricoltura, la cui conquista agli ideali
del socialismo diventa nelle condizioni odierne uno degli obiettivi fondamentali del movimento operaio».
Sulla base di questa descrizione, Trentin affronta il tema delle
nazionalizzazioni, stabilendo un discrimine di merito che è relazionato al ruolo svolto da questo processo di acquisizione pubblica di settori dell’economia privata in funzione di una trasformazione generale della società italiana.
Secondo Trentin l’iniziativa comunista, infatti, manca di chiarezza nel ribadire «il valore di strumento» delle nazionalizzazioni
«rispetto alla affermazione di un certo tipo di politica di sviluppo
e rispetto ad una nuova articolazione democratica della società
nazionale». Temi quali «i problemi del controllo operaio, della
nuova funzione e dei poteri autonomi dei sindacati, delle forme
di gestione associata, del controllo democratico, della nuova funzione degli enti locali, delle nuove forme e dei nuovi istituti di
democrazia di base, diventano parte integrante e inscindibile di
una politica di riforme strutturali». La difesa e l’estensione degli
«istituti della democrazia rappresentativa» è complementare «al
sorgere di nuovi strumenti di controllo popolare, di nuovi istituti
69
70
di democrazia, capaci di rappresentare nei loro rapporti di necessità con l’affermazione di una determinata politica di sviluppo,
un’alternativa reale alle soluzioni tecnocratiche o a quelle molteplici dell’“istituzionalismo” e della economia concertata»46.
La relazione di Amendola, che segue quella di Trentin, è introdotta anch’essa dal riconoscimento della creazione «di nuove
condizioni alla lotta di classe», adesso svolta «su linee più avanzate, non più in un paese economicamente arretrato»47. Il rinnovamento delle categorie di lettura del capitalismo italiano attraversa anche l’area più legata a una sua rappresentazione stagnazionista48 sebbene la relazione fornisca sotto molti aspetti un
saggio di continuità storica. Particolarmente pertinente è
l’interpretazione fornita da Franco De Felice in merito quando
osserva che il riferimento all’antifascismo è «presente in Amendola» e «secondario negli altri interventi» evidenziando «la divaricazione che poteva registrarsi in un organismo compatto come
il Pci su un punto delicato e denso di significato» perché «in Amendola il richiamo all’antifascismo operava secondo lo schema
su cui era costruita la sua analisi del dopoguerra: rimaneva fuori
la questione di cosa dovesse o potesse diventare l’antifascismo in
rapporto all’intensità delle trasformazioni, in quale misura potesse rafforzare la capacità di comprensione delle forme di modificazione dello Stato»49.
Riguardo la connessione tra riforme economiche e trasformazione degli istituti di rappresentanza in senso progressivamente
democratico, sollevato da Trentin, Amendola si esprime indicando nella «partecipazione popolare» l’elemento che può «dare agli
istituti repubblicani un reale contenuto democratico ed assicurare
il mantenimento nel paese di un alto grado di permanente tensione sociale e politica». La partecipazione popolare ha quindi il
46
B. TRENTIN, Le dottrine neocapitalistiche nella politica economica, ivi, p. 2845.
47
G. AMENDOLA, Lotta di classe e sviluppo economico dopo la liberazione, ivi,
p. 47.
48
L. MAGRI, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, Il Saggiatore, Milano,
2009, p. 188.
49
F. DE FELICE, L’Italia repubblicana, cit., p. 42-43.
compito di sollecitare, non di indirizzare, gli istituti della democrazia repubblicana.
Le riforme cui il Pci può dare il suo sostegno sono quelle rispondenti a «esigenze nazionali» e che assicurano «uno sviluppo
democratico dell’economia italiana […] per giungere alla eliminazione delle basi sociali del fascismo». Il senso nazionale del
movimento operaio genera, in questa interpretazione, un circuito
felice tale da rimettere in carreggiata lo stesso capitalismo obbligandone la modernizzazione dopo il ciclo di lotte del ’49 e del
’50, qui definite meritorie perché funzionali «alla difesa
dell’industria italiana». Di innovativo si registra la presa d’atto
del ruolo del Mec nel processo di sviluppo rispetto a quelle posizioni del Pci che a esso hanno attribuito «difficoltà economiche
che erano […] conseguenze della fase del ciclo economico internazionale»50.
Gli spunti critici nel dibattito sono accomunati dalla messa in discussione del ruolo istituzionale e responsabile della classe operaia
nei confronti della nazione. Vittorio Foa, tra questi, mette in dubbio
la possibilità di far convergere, «diversamente dalla fase degli ultimi
quindici anni»51, l’interesse operaio con quello generale.
L’intervento più complesso e più significativo delle obiezioni
poste ad Amendola è quello di Lucio Magri. Magri relaziona
l’insufficienza di una «linea di lotta sindacale di classe» a «un errato giudizio di fondo dello sviluppo capitalistico» schiacciato
sulla contrapposizione capitale-lavoro da cui «si deduce che
l’unica forza progressiva è il proletariato e l’unico terreno di lotta
quello che sta al livello dell’azienda». Il capitalismo è interpretato
quindi come un fattore di riorganizzazione della società, relativamente indipendente dal conflitto di classe, che «tutta la riduce
sotto le sue leggi contraddittorie».
Magri non chiede di contrapporsi a questa riorganizzazione
del capitalismo mediante una chiusura antimoderna ma di intro50
G. AMENDOLA, Lotta di classe e sviluppo economico dopo la liberazione, cit.,
pp. 48-68.
51
Cfr. Tendenze del Capitalismo italiano, Atti del convegno economico
dell’Istituto Gramsci 23-25 marzo 1962, Editori Riuniti, Roma, 1962, intervento
di Vittorio Foa, p. 235.
71
72
durre, nel dibattito comunista, dei momenti di riflessione legati a
una revisione della società dei consumi anticipata, ad esempio,
dai principali esponenti del marxismo critico francofortese. I suoi
riferimenti rimandano «a Schumpeter, tra gli economisti borghesi; o ad Adorno fra i sociologhi paramarxisti; o al giovane Lukacs
nel campo del marxismo eterodosso» o al Marx giovanile, «dei
manoscritti del ’44, che tanti spunti preziosi contengono […] per
rimanere adeguati al momento, alla fase in cui storicamente doveva svilupparsi ai suoi tempi la lotta di classe».
La riorganizzazione capitalista della società va allora contrastata sul terreno della libertà da forme di dipendenza che ora si
profila come dipendenza dal bisogno indotto. L’obiettivo di lungo
periodo del comunismo, infatti, è circoscritto allo «sviluppo di bisogni umani […] come fine della produzione dei beni e non momento subalterno di essa», aspetto speculare di una riconversione
del lavoro per cui esso sarebbe dovuto essere «libera e creativa
espressione della personalità e perciò a sua volta inesauribile origine di bisogni umani».
La riflessione di Magri presuppone una nuova razionalità della ricchezza. Su questo terreno egli pone il punto di contatto tra
marxisti e cattolici, giacché entrambi interessati a contrastare un
modello di società, come quella capitalista, cui si attribuisce il fine di sottoporre la dimensione qualitativa-pluriforme della personalità umana a una riduzione quantitativa che trova nel denaro
e nei consumi indotti i suoi vettori. L’intervento sottolinea come
nella «ineliminabile carica anticapitalistica del movimento cattolico in quanto cattolico, in quanto movimento religioso», i comunisti trovano «un forte elemento di alleanza proprio nel momento in cui la società capitalistica si dimostra soprattutto non più
una società che comprime la quantità dei bisogni, quanto e soprattutto come una società che comprime l’uomo nelle sue di52
mensioni qualitative» .
Questa interpretazione del capitalismo presuppone la rimozione del problema della sussistenza nei paesi occidentali e fa
emergere un eccesso prospettico, riconosciuto a posteriori anche
52
Ivi, intervento di Lucio Magri, pp. 328-334.
da alcuni tra gli interpreti principali di quel modello interpretativo, come Rossana Rossanda, che riconosce una tendenza alla esagerazione nel descrivere la dinamica dello sviluppo «come se a
forza di innovazioni già fossimo in Germania»53, o lo stesso Magri, che nel rileggere le posizioni assunte nel corso del convegno
afferma di aver attribuito «importanza, nell’analisi, al fenomeno
del consumismo individualistico come tratto del neocapitalismo,
il che si prestava particolarmente all’accusa di astrattezza e di ideologismo, di fronte a un paese nel quale il benessere era ben
lontano e tanti bisogni vitali erano ancora insoddisfatti»54. Esse
propongono però una rappresentazione più complessa delle tendenze dello sviluppo capitalista e della sua capacità di esercitare
una egemonia globale fra l’altro niente affatto distante dalla lettura della crisi del movimento comunista nel confronto globale
prefigurata in quegli anni da Palmiro Togliatti.
Togliatti matura la consapevolezza di questa crisi soprattutto
dopo il XXII congresso del Pcus e il non troppo implicito richiamo alla frontiera della rincorsa alla civiltà dei consumi come obiettivo del movimento ivi avanzato da Kruscev che propone,
come ha osservato Carlo Spagnolo, «un’interpretazione assai riduttiva del socialismo, basata sulla teoria degli stadi di sviluppo
di Walt Rostow assai più che sulle idee di Marx sui bisogni e le
capacità»55. Il segretario del Pci sviluppa un profondo disincanto
verso le prospettive rivoluzionarie del comunismo a guida sovietica, che terminerà nella stesura del Memoriale di Yalta, e fa proprio uno sguardo più scettico riguardo le possibilità di una frattura rivoluzionaria in Occidente rispetto a una sinistra più ottimista che avrebbe ricercato da allora queste fratture nella contestazione studentesca e nello scenario del cosiddetto Terzo Mondo.
La sinistra interna, però, svolge una funzione di stimolo senza la
quale il Pci probabilmente sarebbe rimasto ancorato a una visione del capitalismo italiano fondata sulla contrapposizione tra
monopoli autoritari e masse operaie frustrate e capaci di orien53
R. ROSSANDA, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino, 2005, p. 242.
L. MAGRI, Il sarto di Ulm, cit., p. 189.
55
C. SPAGNOLO, Sul memoriale di Yalta, cit., p. 199.
54
73
74
tarsi solo in presenza di una testa esterna quale quella rappresentata dalla classe politica comunista.
La sopravvivenza di sacche profonde di povertà nell’Italia
dell’epoca56 non esclude che la riflessione avanzata da sinistra
metta in causa il problema della qualità dello sviluppo, anticipando argomenti, categorie e termini che avrebbero influito a
fondo sulla vicenda storica della sinistra italiana. L’intervento di
Magri è utile per comprendere nello specifico le differenze tra la
destra e la sinistra del partito. Su queste differenze influisce sia
l’area di provenienza dei due dirigenti comunisti – sempre la
Rossanda nelle sue memorie parla esplicitamente di un evidente
57
disaccordo «fra i “settentrionali” e la direzione del partito» – sia
il fatto che Magri, e i dissenzienti, abbiano una relazione con
l’organizzazione del partito meno intensa dell’area concentrata
intorno ad Amendola58.
Un ulteriore contributo alla definizione di queste differenze lo
propone Rodolfo Banfi che introduce una revisione della questione meridionale tendente al suo rapido superamento59. Il rapporto
«fra sud e nord» è definito da Banfi «un modo di essere, una delle forme specifiche dell’anzidetta contraddizione complessiva, e
non una contraddizione a sé stante» per cui concepire «il contrasto fra settentrione e meridione» come fenomeno a origine storica piuttosto che socio-economica «comporta […] una visione
dell’Italia […] in cui si perde di vista […] il processo di unificazione capitalistica del paese» che rende «intrinsecamente dina56
Cfr. I. FAVRETTO, Op. cit., pp. 187-188, A. PEPE, Il sindacato nel compromesso
nazionale: repubblica, costituzione, sviluppo, in ID., P. IUSO, S. MISIANI (a cura
di), Storia del sindacato in Italia nel Novecento. La CGIL e la costruzione della
democrazia, cit., p. 103, F. BARCA, Op. cit., pp. 64-70.
57
R. ROSSANDA, La ragazza del secolo scorso, cit., p. 241.
58
Per una interpretazione simile cfr. L. BARCA, Cronache dall’interno del vertice del Pci, cit., p. 293.
59
Secondo l’interpretazione di Rossana Rossanda fu proprio questo uno degli
argomenti che più pesarono nel determinare uno scontro tra la direzione del
partito e gli esponenti della sinistra interna, colpiti, ricorda la fondatrice de «Il
Manifesto», «perché pensammo che la crescita avrebbe unificato il paese in
una modernizzazione che poteva chiudere, per esempio, con la questione meridionale». R. ROSSANDA, La ragazza del secolo scorso, cit., p. 242.
mico»60 il contrasto tra Nord e Sud del Paese.
Questi esponenti del Pci vivono diversamente, pensano diversamente e, particolare fondante in un partito a forte carattere ideologico e quindi legato a un proprio nucleo di testi di
riferimento, leggono diversamente. Una rappresentazione storicamente onesta di questa diversità la fornisce, in sintesi, Rossana
Rossanda, nella sua autobiografia, quando descrive il suo lavoro
come responsabile della commissione cultura del Pci, incarico assunto nel 1962 in sostituzione di Mario Alicata, tracciando un
quadro della propria formazione intellettuale che spazia da Joyce
ad Althusser, da Adorno a Sartre. La sinistra interna, soprattutto,
legge Marx con una costanza e una dedizione nuova e difficilmente riscontrabile nella formazione intellettuale del gruppo dirigente
comunista che, tranne alcune eccezioni, si forma nel riferimento a
intellettuali nazionali e, prevalentemente, meridionalisti61.
La sinistra recupera dal patrimonio comunista la ricerca di
una politica e di un pensiero globali, maggiormente attenta verso
tutto ciò che è universale e potenzialmente rivoluzionario al
tempo stesso, dal dissenso nella Chiesa alla emersione del Terzo
Mondo come soggetto non inquadrabile dentro la cornice della
coesistenza pacifica. La destra si muove in una prospettiva in
primo luogo nazionale e che si sarebbe estesa all’Europa sì ma
per intenderla come nuovo contesto in cui pensare il destino storico della nazione italiana ricercando una linea politica più concreta e spendibile nell’immediato attraverso la politica delle alleanze e il sostegno al principio della coesistenza pacifica.
L’abbandono della prospettiva rivoluzionaria è, in questo caso,
implicita e il settore della società cui ci si rivolge è essenzialmente quello dell’area politico-intellettuale filo-socialista, laburista e
laica.
Le differenze tra le parti sono nette al punto da non essere sintetizzabili. Le conclusioni di Amendola al convegno, non a caso,
60
Tendenze del Capitalismo italiano, cit., intervento di Rodolfo Banfi p. 349.
Cfr. R. ROSSANDA, La ragazza del secolo scorso, cit., pp. 268-278. Riguardo la
familiarità con questa cultura più europea che italiana si veda anche L. MAGRI,
Il sarto di Ulm, cit., p. 147, 183, 189.
61
75
76
tentano di consolidare i propri punti di partenza, secondo una
descrizione del capitalismo nazionale per cui esso continua a differenziarsi dal resto del sistema occidentale per ragioni relative
alla sua arretratezza e tali da consigliare un profilo più basso e
responsabile nell’azione del movimento operaio. Per Amendola è
«pacifico che, nella lotta per il compimento della rivoluzione democratica borghese, la classe operaia abbia una sua funzione nazionale» configurabile in «un aumento del reddito, e un impiego
del reddito che assicuri una elevazione delle condizioni materiali
e culturali delle masse lavoratrici, ed un crescente soddisfacimento dei bisogni collettivi della società».
Il conflitto di classe, in questa ottica, garantisce alla soggettività operaia maggior benessere e rappresentanza istituzionale
prevalentemente dentro gli istituti di rappresentanza politica prefigurati dalla Costituzione. La «democrazia di tipo nuovo», sotto
l’aspetto delle forme della politica, «esige anzitutto un efficace
funzionamento del parlamento» presupponendo «un allargamento dei confini della democrazia» inteso «come integrazione feconda e originale del sistema parlamentare e degli istituti previsti
dalla Costituzione (regione, provincia, comuni) e non come loro
negazione». «Soprattutto», conclude Amendola, bisogna «non
cercare astrattamente di fissare, precostituire, prefigurare, mitizzare le forme del controllo operaio in fabbrica, quando non riusciamo ancora a costituirvi nemmeno il sindacato».
La denuncia del rischio perenne di una deriva fascista, dimostrato dal risultato conseguito a Roma dalla destra neofascista alle elezioni amministrative del novembre 1961, ritorna come condizione di ragionevolezza per indurre a riunire, ancora una volta,
tutte le opposizioni sotto le bandiere dell’antifascismo. A partire
da queste premesse, il partito è confermato nella sua funzione
pedagogica per cui esso deve portare nella fabbrica una «coscienza rivoluzionaria […] che matura […] sulla base di una conoscenza generale del mondo, della situazione internazionale, dell’Italia,
della sua storia, dei suoi rapporti di classe, della sua cultura, della
sua filosofia», secondo la «concezione leninista del partito»62.
L’organizzazione, quindi, è uno strumento chiamato a indirizzare
secondo stadi progressivi la trasformazione delle coscienze e della società innanzitutto supplendo al ruolo svolto in altri contesti
nazionali dalle borghesie63.
La contrapposizione emersa nel dibattito si innesta su un modo di organizzare il confronto interno che è irrigidito dai vincoli
del centralismo democratico. Tuttavia ciò non impedisce che alcuni degli argomenti proposti dalla minoranza di sinistra divengano patrimonio comune del partito64. Il convegno dimostra che
dentro il Pci convivono posizioni non riducibili a unità, su cui agisce uno sforzo di sintesi continua del centro soprattutto durante l’ultima fase della segreteria Togliatti65.
La Conferenza operaia di Genova
Il processo di impetuoso sviluppo vissuto dal Paese tra il 1958 e il
1963 rallenta a partire dal 1964, lasciando in eredità un deficit di
regolamentazione politica dello sviluppo. Questa dinamica si riflette dentro il Pci. Le posizioni della sinistra interna sono indebolite dalla crisi di soluzioni politiche, come il centro-sinistra, cui
62
Tendenze del Capitalismo italiano, Op. cit., conclusioni di Amendola, p. 428439.
63
Questa visione del ruolo delle avanguardie era anch’essa riconducibile alla
strategia politica di Lenin seguente la fallita rivoluzione del 1905, cfr. S. PONS,
Op. cit., p. 4.
64
Esemplare l’articolo a firma comune di Franco Rodano e Claudio Napoleoni, pubblicato nel giugno del 1964 su “La Rivista Trimestrale”, in cui i principali apprezzamenti circa la politica economica del Pci, all’interno di un
contesto prevalentemente critico, venivano rivolti alla mozione di minoranza al disegno di legge relativo al bilancio di previsione dello Stato per il periodo 1 luglio – 31 dicembre, il cui estensore è Luciano Barca, dirigente tra i
più rilevanti nel novero di quelli che influenzano le posizioni di Pietro Ingrao. Cfr. C. NAPOLEONI, F. RODANO, Significato e prospettive di una tregua
salariale, in “La Rivista Trimestrale”, a. III, n. 10, giugno 1964, p. 244.
65
Cfr. E. TAVIANI, Di fronte al centro sinistra, in R. GUALTIERI, C. SPAGNOLO,
ID., Togliatti nel suo tempo, cit., pp. 394-422.
77
78
era stata attribuita la capacità di realizzare una normalizzazione
modernizzatrice della democrazia italiana smentita da vicende
quali il fallimento della legge urbanistica pensata da Fiorentino
Sullo66. Le posizioni della destra, attestate sul principio
dell’anomalia italiana, sono rinforzate dalla crisi del progetto riformatore di centro-sinistra, ma indebolite dal fatto che il soggetto politico cui guardano con più attenzione, il Psi, è parte in causa di quella crisi.
Il quadrante internazionale registra una decisiva frattura in
seno al movimento comunista che occupa gli ultimi anni di vita e
di riflessione di Palmiro Togliatti e investe anche la crisi del comunismo come forma di sviluppo economico alternativo al capitalismo67. Le prospettive delle componenti interne al Pci si divaricano ulteriormente dopo la morte di Togliatti, tra una sinistra
poco interessata a una politica delle alleanze rivolta ai partiti orientati a sinistra e una destra che invece vuole rendere più solide quelle alleanze, tentativo che Amendola spinge infruttuosamente fino alla proposta di unificazione con i socialisti
nell’autunno del 196468.
La nuova segreteria Longo si caratterizza fin da subito per
l’incentivo a una maggiore libertà del dibattito interno.
L’apertura comporta anche che il partito non sia del tutto garantito dalla manifestazione pubblica delle tendenze conflittuali69. Il
contrasto si esplicita nel corso del 1965 su tutti gli argomenti affrontati in sede di definizione delle tesi congressuali. La conferenza operaia di Genova è una delle scansioni decisive in questo
confronto, giustamente definito da una sua protagonista, «non
ancora irrigidito, ma ormai aspro»70.
66
Cfr. P. CRAVERI, Op. cit., pp. 116-118, P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 1988, pp. 366-369; G. CRAINZ, Storia del miracolo italiano, cit., pp. 127-132; S. LANARO, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia, 1992, pp. 322-324.
67
Cfr. C. SPAGNOLO, Sul memoriale di Yalta, cit., p.57-65 .
68
Cfr. A. HÖBEL, Il Pci di Luigi Longo (1964-1969), ESI, Napoli, 2010, pp. 82-89.
69
Cfr. FIG, APC, mf. 28, serie Direzione, verbale di Direzione del 17 settembre
1964, pp. 21-22. Si veda anche A. HÖBEL, Op. cit., pp. 57-58.
70
L. MAGRI, Il sarto di Ulm, cit., p. 185.
Il 21 maggio del 1965 Luciano Barca presenta alla direzione
comunista il rapporto introduttivo alla conferenza, facendo sintesi delle diverse posizioni presenti in direzione. Se la ragione che
conduce alla conferenza, o una delle ragioni, è la condizione di
debolezza del Pci nelle fabbriche71, Barca afferma anche la «necessità di saper portare in fabbrica tutta la ricchezza» della «elaborazione nazionale» del Pci.
La preparazione della conferenza esplicita lo scontro tra la sinistra ingraiana, che ormai immagina il partito come soggetto
collettore che cerca le sue avanguardie nelle soggettività potenzialmente anticapitaliste anticipando l’atteggiamento che avrebbe tenuto verso il movimento studentesco nel ’68, e la destra amendoliana che intende sensibilizzare la componente operaia alla
linea del partito secondo una concezione verticale
dell’organizzazione che presuppone un giudizio negativo sulla
maturità della società civile italiana.
Nel dibattito in direzione, Giancarlo Pajetta e Napolitano sono
concordi nel lamentare il «pericolo di una sindacalizzazione della
linea e dell’attività del partito» e il conseguente «rischio di arrestarsi ad un piano para-sindacale». Amendola ritornando su
quanto detto da Pajetta e Napolitano, descrive il partito «troppo
spesso immiserito nella sua azione di fabbrica».
La linea di Amendola registra un sostegno ampio, seppure con
differenti accenti, negli interventi di Berlinguer, Cossutta, Lama e
Macaluso. Berlinguer contesta all’unico ingraiano di peso presente
in direzione, Alfredo Reichlin, il fatto che «non si può fare uscire
dalla fabbrica tutta la nostra azione per le riforme» chiedendo, di
converso, di mettere al centro «quel che diceva Napolitano: unità
politica della classe operaia come sua funzione e risposta alla crisi
71
La componente operaia del partito è più forte nelle fabbriche inferiori alle
500 unità lavorative. La percentuale di iscritti nelle fabbriche con più di 500
dipendenti arrivava al 6,3%, nel triangolo industriale questa percentuale scende al 5,5%, mentre la percentuale più alta è registrata in Calabria con il 25,1%,
nelle fabbriche con meno di 500 dipendenti la percentuale nazionale raddoppia
(12,4%), raggiungendo la sua punta massima in Emilia Romagna con il 27,9%
di iscritti sul totale dei lavoratori. FIG, APC, serie Sezioni di lavoro, commissione lavoro di massa 1965, Mf. 0522, dati statistici, pp. 2854-2859.
79
80
del centro-sinistra»; Cossutta definisce l’attività generale «che investe tutti i problemi politici […] troppo sottovalutata dalle organizzazioni di fabbrica»; per Lama «il problema vero è quello […] di
impegnare di più il partito in fabbrica sulle questioni generali».
L’intervento più indulgente verso le posizioni degli ingraiani lo esprime Macaluso che chiede di «sottolineare che la crescita del potere contrattuale in fabbrica è essenziale per uno sviluppo democratico e per una politica di riforme» a patto di «chiarire il nesso
tra sviluppo del potere contrattuale e creazione di una certa situazione politica». Di fronte a una sintesi del segretario orientata verso la maggioranza emersa in direzione, per cui «le federazioni devono impegnarsi per una giusta realizzazione in fabbrica della linea del partito», l’intervento conclusivo di Barca esprime chiaramente la propria posizione in merito al tema del rapporto tra partito, fabbrica e sindacato.
Barca rileva come il partito debba relazionarsi al sindacato
aiutandolo «a fare meglio il suo mestiere», interrogandosi anche
sul perché quella linea che si voleva introdurre in fabbrica faccia
«fatica» ad entrarvi. La difesa dell’autonomia sindacale serve inoltre a contestare la fiducia nell’esternalità del processo di formazione della coscienza di classe che il partito può influenzare
solo «partendo dalla realtà di fabbrica, e dalla conoscenza delle
condizioni dei nuovi strati»72.
La conferenza di Genova evidenzia lo scontro. Barca ricorda
nelle sue memorie, come l’intervento ivi tenuto da Amendola evochi in modo marcato il tema più semplice, e contestato dalla
sinistra, della rivendicazione salariale anche per mostrare che la
richiesta per obiettivi più complessi, come le qualifiche, sia in realtà fondata su un’utopica maturità rivoluzionaria della classe
operaia caratterizzata semmai da desideri ben più spiccioli. La
relazione di Barca, invece, insiste su alcuni argomenti condivisi
dalla sinistra interna quando indica come obiettivo del partito e
della sua componente operaia quello di orientare selettivamente
gli investimenti per settori strategici e non per distribuzione in72
FIG, APC, riservati Mf. 29, serie Direzione, verbale di Direzione del 21 maggio 1965, pp. 2-11.
dividuale73.
L’attenzione alla distribuzione selettiva dell’accumulazione
per beni di investimento palesa il debito della composita sinistra
interna74 verso le teorizzazioni sulla società opulenta, introdotte
da Franco Rodano e Claudio Napoleoni sulla “Rivista trimestra75
le” . L’impostazione adottata da Amendola è volutamente contrapposta a questo indirizzo. Egli cerca lo scontro, oltre che il
consenso del pubblico partecipante alla conferenza, con il suo
richiamo al bisogno di rimpinguare la busta paga degli operai in
«soldoni». La provocazione di Amendola, anima la seduta di direzione dell’8 giugno del 1965, convocata per discutere i risultati
della Conferenza di Genova.
73
Cfr. L. BARCA, Cronache dall’interno del vertice del Pci, cit. 358-361.
Sulla consistenza come corrente degli ingraiani le interpretazioni dei protagonisti sono divergenti. Ingrao, nell’intervista rilasciata nel 1995 per il supplemento de «L’Unità» a titolo Gli anni della prima repubblica definisce quella degli ingraiani una corrente vera e propria. Per Magri un ingraismo vero e
proprio non è mai esistito, Cfr. L. MAGRI, Il sarto di Ulm, cit., p. 190. Analogo
il giudizio di Luciano Barca, che ritiene quello degli ingraiani un eterogeneo
gruppo intellettuale, distinto per assenza di vincoli gerarchici e per maggiori
differenze interne rispetto agli amendoliani. Cfr. L. BARCA, Cronache
dall’interno del vertice del Pci, cit., pp. 359-369; pp. 443-445. L’interpretazione
qui proposta è che, almeno fino all’XI Congresso, questo rapporto di corrente
ci sia nonostante le altrettanto evidenti differenze. È fuori di dubbio che gli
amendoliani siano più coesi e che Amendola sia più deciso di Ingrao nella difesa dei membri della propria corrente. Tuttavia, possiamo considerare gli ingraiani una vera e propria corrente con un capo definito capace di introdurre
in direzione gli argomenti promossi nel dibattito dagli uomini a lui vicini, e
della cui elaborazione partecipa.
75
Nel gennaio del 1964 è Barca a proporre una politica di sostegno ai settori di
avanguardia dell’economia nazionale che, a frontiere ormai aperte, avrebbero
corso il rischio di una concorrenza pesante Cfr. FIG, APC, Mf. 28, serie
Direzione, verbale di Direzione del 23 gennaio 1964, intervento di L. Barca, p.
5. Nel luglio del 1964 Ingrao avanza la possibilità di accettare un contenimento
di salari e consumi a patto che ciò si traduca in una maggiore spesa
dell’accumulazione verso i cosiddetti beni di investimento e i consumi sociali.
Cfr. F IG, APC, mf. 28, serie Direzione, verbale di Direzione del 21 luglio 1964,
intervento di Ingrao, p. 2-3. Si veda anche C. NAPOLEONI, Nota sulla
congiuntura economica italiana, in “La Rivista trimestrale”, 1964, pp. 117-123,
ora in A. GRAZIANI (a cura di), Op. cit., pp. 398-405.
74
81
82
Amendola, come osserva Barca nelle sue memorie, e come testimonia la lettura dei documenti interni del Pci, «avendo naso
politico ed essendo cosciente delle molte critiche […] che da tutto
il partito sono state mosse alle sue conclusioni, esordisce in tono
minore»76 e, in effetti, definisce «ampia» la concordanza tra il
rapporto di Barca e le proprie conclusioni, pur rimarcando
l’assenza in esso di un «discorso sui temi più semplici della condizione operaia» quali «occupazione, difesa del posto di lavoro,
salari e loro livello, pensioni».
L'intento pacificatore si inserisce su una conflittualità endemica. La sinistra ingraiana entra in collisione con la linea del partito
sia riguardo la collocazione internazionale, contestata nella scelta
della coesistenza pacifica giudicata tiepida verso l’emersione di
nuove soggettività rivoluzionarie nel Terzo Mondo e debole nel denunciare l’abdicazione dei sovietici al conseguimento di un obiettivo rivoluzionario, sia riguardo la concezione del ruolo del centralismo democratico nella organizzazione della vita del partito.
Ingrao, in direzione, ritorna sulla relazione genovese di Amendola, obiettandone la mancata tematizzazione delle questioni
relative all’organizzazione del lavoro e l’affidamento eccessivo
verso i temi prettamente salariali. Il dissenso «sulla frase che le
rivendicazioni debbono esprimersi innanzitutto in buste paga e
salari» è concluso ribaltando sulla destra una accusa che essa aveva mosso prima della preparazione della conferenza alla sinistra ossia che l’iniziativa del partito, definendosi «sui contenuti
della lotta» non può «essere concorrenziale al sindacato».
L’intervento di Ingrao è agevolato dall’effettiva caratterizzazione della lotta in termini essenzialmente redistributivi fornita
da Amendola durante la Conferenza che è rilevata anche da dirigenti a lui vicini come Macaluso. Il tono della discussione appare
disteso, tanto che Reichlin può utilizzare dei toni comprensivi
verso «le ragioni delle conclusioni» e «l’esigenza di una polemica
che però ha portato a buttar via il bambino con l’acqua sporca»,
obiettando ad Amendola, in questo contesto, l'assenza di «una
analisi più approfondita».
76
L. BARCA, Cronache dall’interno del vertice del Pci, cit., p. 362.
La calma, però, è solo apparente. La destra del partito tiene
fermo un punto che per quella corrente resta decisivo, quale
l’affermazione che il sindacato e la classe operaia che esso rappresenta nel conflitto sindacale sono soggetti subordinati al partito secondo una linea gerarchica verticale per cui le ragioni di
fondo, e il bagaglio ideologico, del movimento sono già dati e su
quelli ci si deve attestare. Il rifiuto della autonomia sindacale e la
subordinazione del conflitto di fabbrica a istanze esterne, è espresso dall'intervento di Mario Alicata che indica nel cinema e
nella scuola i «problemi che interessano profondamente la classe
operaia», saltando a piè pari un dibattito tutto centrato sul ruolo
del lavoratore nel conflitto per il reddito e la condizione di fabbrica e introducendo un argomento che non è inquadrabile in
un'ottica di difesa dell'indipendenza dell'organizzazione sindacale
dalla linea del partito.
Alicata pone in questione anche il nodo della libertà interna
del dibattito trovando subito un solerte censore del dissenso in
Armando Cossutta, che invita a «concentrare» una «azione chiarificatrice delle posizioni estremistiche» come nel «caso di Bergamo, dove esiste un orientamento sbagliato del gruppo dirigente
nel suo complesso, segretario della Federazione compreso» e «altre situazioni che preoccupano ancor di più, ad esempio quella
nella FGCI di Milano». Agevolato da questo schieramento a suo
favore, Amendola ritorna sui suoi passi per difendere tutto
l’impianto del suo intervento. Definisce «corretta» la sua introduzione e, di contro a chi come Ugo Pecchioli ha parlato «di un
appiattimento dell'analisi», replica affermando come non si voglia, da parte sua, respingere o scoraggiare «la ricerca» ma solo
evitare il rischio di «analisi unilaterali». Il fatto che Amendola
coinvolga nelle sue obiezioni non solo gli ingraiani ma anche una
figura vicina al segretario del partito come Pecchioli, indica che
Longo, come già prima di lui Togliatti, non sia estraneo alle argomentazioni introdotte da sinistra, soprattutto riguardo la convinzione che un partito comunista, in assenza di un riferimento
rivoluzionario per la propria azione, sia destinato a diventare altro da sé.
La presa di posizione di Amendola fa serrare le fila alla destra
83
84
al punto che Alicata esplicitamente chiede un chiarimento circa
«la subordinazione della minoranza alla maggioranza e
l’impegno dell’apparato di lavorare per realizzare la linea del
partito». Questo invito all’allineamento dei dissenzienti è sottolineato anche da Amendola77. Dopo la conferenza di Genova si verifica una convergenza, in direzione, tra centro e destra, che non
è però il frutto di una omogeneità netta tra queste due componenti del partito78.
Conclusioni
Tra la fine degli anni ’50 e la prima metà degli anni ’60 il Pci vive
un duro scontro interno che vede agire tre opzioni politiche. Le
posizioni delle due ali si caratterizzano per la comune proposta di
un superamento della forma storica del partito, mentre la posizione mediana, quella del centro, utilizza gli equilibri interni al
fine di rafforzare la propria strategia interessata a inquadrare il
partito dentro le istituzioni repubblicane. L’equilibrio raggiunto a
metà degli anni ’60 fa registrare un avvicinamento tra il centro e
la destra, ma non rappresenta una forma stabile di alleanza dentro il partito. L’atteggiamento di Longo durante il ’6879 e la progressiva, anche se contrastata, apertura del Pci alla società civile
dopo gli anni ’60 non sono comprensibili senza assumere
l’autonomia flessibile del centro come un dato caratterizzante la
politica del Pci.
Nel corso della prima metà degli anni ’60, soprattutto in prossimità dell’XI Congresso, influisce nel peso degli equilibri interni
77
Commentando quanto detto da Alicata, Amendola afferma: «Questo documento [sulla Conferenza, N.d.A.] deve contenere una chiara fissazione di alcune questioni, sulle quali ci sono state critiche molto pesanti di Ingrao […]
Ha ragione Alicata: ci deve essere un punto fermo». FIG, APC, Mf. 29, serie Direzione, verbale di Direzione dell’8 giugno 1965, intervento di Amendola.
78
Sulla preparazione dell’XI congresso e sullo scontro palesatosi al suo interno, cfr. A. HÖBEL, Op. cit., pp. 193-229.
79
Sul Pci e il ’68 cfr. E. TAVIANI, PCI, estremismo di sinistra e terrorismo, G. DE
ROSA e G. MONINA (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta. Sistema politico e istituzioni, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 239.
la scelta della sinistra ingraiana a favore di una chiara opposizione alla politica della coesistenza pacifica80, una cornice internazionale al cui interno il centro del partito vede, invece, la possibilità di rafforzare il proprio ruolo come elemento fondante nel
processo di costruzione della democrazia repubblicana. La mancata saldatura delle tre correnti attorno a un indirizzo realmente
comune comporta che la soluzione dei contrasti interni si basi
più sulla contingenza dei rapporti di forza o sulle giustapposizioni che su una linearità strategica probabilmente incrinatasi irreversibilmente negli anni ’50 e non più recuperata fino alla fine
dell’esperienza comunista novecentesca.
Abstract
This essay reconstructs the debate within the Italian Communist Party
(Pci) on Italy’s economic development. The time-span considered ranges
from the mid-fifties to the mid-sixties. During this period, within the
Communist Party emerge some specific trends in the interpretation of
the national capitalist model that focus, primarily, on the place of the
Italian case within the wider Western context. The interpretations of
the Pci elites will contribute to the shaping of the complex political culture of Italian Communism. The reconstruction, finally, considers the
Worker’s Conference of Genoa. The event, which took place between
28thand 30th May 1965, was a pivotal moment in the tense confrontation
between the right and the left of the party during the XI Congress of
the Pci.
80
Cfr. FIG, APC, mf. 29, serie Direzione, verbale di Direzione del 29 novembre
1965, intervento di Longo, pp. 8-9.
85
87
Il mito e il pensiero di
Giuseppe Mazzini
nei nuovi Stati africani
tra Ottocento e Novecento
di SILVIO BERARDI
Nel 1828, la rivista “Antologia. Giornale di Scienze, Lettere e Arti”, riportava un giudizio comparso sulla “Revue Britannique”,
nel quale veniva apertamente sconsigliato alle nazioni europee di
interagire con le popolazioni africane e di cercare di stabilire con
queste, qualsiasi forma di cooperazione:
Fia mestieri adunque rassegnarsi al destino; l’intera esplorazione delle
africane provincie interiori esigerà altre vittime; e l’Europa vi immolerà altri uomini preziosi, de’ quali ella potrebbe fare un assai più utile
impiego. Infatti qual bene ne venne finora da’ viaggi fatti in
quest’infelice parte del globo? L’Africa è la tomba degli Europei, la terra della schiavitù, l’albergo di tutti i delitti e le miserie che mai possono
affliggere l’umanità. Le interminabili guerre fra tanti regoli barbari e
feroci che signoreggiano quelle contrade, non hanno altro scopo che
quello di far mutuamente prigionieri, ossia d’acquistar schiavi. Le mercanzie che vi ricerca il commercio son rare nelle provincie prossime alle coste, e rarissime nelle mediterranee. Quest’ultime, per lo più aridi
deserti, son ribelli a qualunque coltura a qualunque produzione, e non
possono albergare che i soli scorridori1.
1
Cfr. Notizie de’ viaggiatori, che esplorano l’Affrica interiore, estratte dal
88
In una lettera scritta alla madre, Maria Drago, nell’estate del
1845, Giuseppe Mazzini sosteneva, invece, la tesi opposta.
L’Europa aveva l’onere di intervenire in Africa e di stimolare la
crescita, in primo luogo spirituale, delle sue genti:
Io credo che l’Europa sia provvidenzialmente chiamata a conquistare il
resto del mondo all’incivilimento progressivo: quindi, comeché politicamente ingiusti, vedo con soddisfazione alcuni passi degli Europei
nelle contrade dominate da credenze retrograde e straniere: i Francesi
in Algeria, gli Inglesi nella China, i Russi in Asia se mai v’andranno,
mi paiono missioni necessarie all’umanità […]2.
Con queste affermazioni, Mazzini non voleva certo legittimare
violenze e brutalità commesse dagli Europei in terra africana, ma
considerare necessaria una missione di civilizzazione per il benessere delle popolazioni locali. Del resto, nella stessa lettera, il
patriota genovese condannava, ad esempio, il comportamento dei
Francesi in Algeria: «Ma la guerra di conquista frenetica, brutale,
che i Francesi seguono oggi in Algeria, accompagnata da orrori
[…] non è solamente un’ingiustizia, ma un tradimento della missione Europea e della legge provvidenziale»3. Come ha sottolineato Marco Mozzati, l’idea di Mazzini «di apportare un progresso civile e materiale ai popoli sottosviluppati è così ferma da superare
l’evidenza dei fatti, che lui stesso evoca, e che mostrano la vera natura del colonialismo»4. La prospettiva mazziniana era, dunque,
proiettata all’affermazione del principio di solidarietà e cooperazione nelle relazioni tra Europa ed Africa: anche l’Italia doveva
Quarterly Review, giornale inglese, e dalla Revue Britannique giornale francese, in “Antologia. Giornale di Scienze, Lettere e Arti”, t. XXXI, Tip. Pezzati,
Firenze, 1828, p. 51. Per la Rivista, dunque, tanti «esempi di tristo esito han
quasi dimostrato che intraprendere un viaggio per l’Africa interna, ed esporsi
a una morte sicura, son tutt’una cosa». Ivi, p. 50.
2
G. MAZZINI, Lettera a M. Drago, 7 agosto 1845, in ID., Opere, a cura di L. Salvatorelli, vol. I, Lettere, Rizzoli, Milano, 1967, p. 346.
3
Ivi, p. 347.
4
M. MOZZATI, Le fonti del Museo del Risorgimento di Roma relative all’Africa
del Nord, in G. BORSA, P. BEONIO BROCCHIERI (a cura di), Garibaldi, Mazzini e
il Risorgimento nel risveglio dell’Asia e dell’Africa, FrancoAngeli, Milano,
1984, p. 135.
partecipare a tale missione di liberazione.
Così i vecchi oppressi, gli Italiani, avevano l’onere di contribuire
all’affrancamento dei nuovi oppressi, gli Arabi del Nord Africa5.
Anche negli anni successivi, Mazzini avrebbe confermato il
suo orientamento: gli Europei dovevano interessarsi al continente
africano al fine di offrire il loro contributo alla prosperità delle
sue genti. In uno scritto del 1871, Politica internazionale, il patriota genovese avrebbe sostenuto:
Nel moto inevitabile che chiama l’Europa a incivilire le regioni Africane, come Marocco spetta alla Penisola Iberica e l’Algeria alla Francia,
Tunisi, chiave del Mediterraneo centrale, connessa al sistema sardosiculo e lontana un venticinque leghe dalla Sicilia, spetta visibilmente
all’Italia. Tunisi, Tripoli e la Cirenaica formano parte, importantissima
per la contiguità coll’Egitto e per esso e la Siria coll’Asia, di quella zona
Africana che appartiene veramente fino all’Atlante al sistema Europeo.
E sulle cime dell’Atlante sventolò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterraneo si chiamò Mare nostro. Fummo padroni, fino al V secolo, di tutta quella regione. Oggi i Francesi
l’adocchiano e l’avranno tra non molto se noi non l’abbiamo6.
Rileggendo questo brano, Eugenio Passamonti ha considerato evidenti gli auspici mazziniani per una espansione italiana nel
Mediterraneo e, in particolare, nella realtà di Tunisi7. E, ancora,
Ferruccio Quintavalle, interpretando le stesse parole mazziniane
5
Come ha sottolineato Al Kubeïssi, anche il nazionalismo arabo si sarebbe alimentato della lettura di Giuseppe Mazzini: «Comprendendo l’esperienza del
movimento Giovane Italia [i giovani estremisti] avevano concluso che le vie
da prendere per la realizzazione dei loro fini nazionali erano quelle della cultura politica e della lotta armata. L’insistenza di Mazzini sui vantaggi
dell’unità nazionale e il suo rifiuto di riconoscere il fondamento della tesi della
lotta di classe hanno avuto grossa influenza sui giovani estremisti». Dunque,
era fuori dubbio che «la causa dell’unità che dominava il pensiero politico dei
capi fondatori delle “falangi dei fedayn arabi subiva, in ampia misura,
l’influenza dell’unità tedesca e dell’unità italiana». B. AL KUBEÏSSI, Storia del
movimento dei nazionalisti arabi, Jaca Book, Milano, 1977, pp. 43 ss.
6
Cfr. G. MAZZINI, Politica internazionale, in ID., Scritti editi ed inediti, vol.
XCII, (Politica 29), Galeati, Imola,1941, pp. 167-168.
7
Cfr. E. PASSAMONTI, L’idea coloniale nel Risorgimento italiano, Arti poligrafiche editrici, Torino, 1934, pp. 15 ss.
89
90
ha affermato: «Nel momento in cui scompariva il dogma
dell’integrità dell’impero ottomano, facilmente l’Italia avrebbe
potuto ottenere Tunisi»8. La missione italiana in terra africana
doveva, però, contribuire al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali e alla loro progressiva emancipazione
politica. Per il patriota genovese, d’altronde, «il carattere fondamentale della legge è Progresso: progresso indefinito, continuo
d’epoca in epoca: progresso in ogni ramo d’attività umana, in
ogni manifestazione del pensiero, dalla religione fino
all’industria, fino alla distribuzione della ricchezza»9.
Già, in realtà, nel 1832, quando ancora il processo di unificazione italiano era lontano dal compiersi, proprio Mazzini aveva
riconosciuto all’Europa un compito preciso: quello di diffondere
negli altri continenti, a cominciare dall’Africa, i suoi saperi, la
sua cultura, la sua civiltà, al fine di favorire il progresso, prima
spirituale e poi sociale dei popoli africani: «E questa civiltà europea, che con una mano s’innalza un trono in Europa, coll’altra
incomincia a tentar l’Africa, e l’Asia, cacciando in Algieri il principio europeo, e ponendo a fronte due simboli dell’Oriente, due
grandi del Maomettismo, tormentati tutti e due senza intenderlo
da un pensiero di incivilimento, e combattendosi l’un l’altro per
10
avere l’iniziativa dello sviluppo, non è poesia?» .
Carlo Zaghi ha puntualizzato, al riguardo, come l’idea «di
missione, che sarà una delle componenti del pensiero e della cultura europea dell’Ottocento, […] a metà del secolo sarà ripresa ed
esaltata dal Mazzini in un più ampio contesto democratico e so11
ciale» . Pertanto, Mazzini affermava che l’Europa era l’umanità,
ovvero «uno strumento di redenzione umana e civile, articola-
8
F. QUINTAVALLE, La politica internazionale nel “pensiero” e nell’“azione” di
Giuseppe Mazzini, La Prora, Milano, 1938, pp. 279 ss.
9
G. MAZZINI, Doveri dell’uomo, Vallecchi, Firenze, 1860, p. 108.
10
G. MAZZINI, La giovine Italia. Serie di scritti intorno alla condizione politica,
morale e letteraria della Italia, tendenti alla sua rigenerazione, Barile, Marsiglia, 1832, p. 233.
11
C. ZAGHI, L’Africa nella coscienza europea e l’imperialismo italiano, Guida,
Napoli, 1973, p. 119.
zione essenziale e preminente di progresso»12 e, dunque, a questa
spettava la missione di guidare e condurre l’incivilimento dei popoli africani. Così, «like several other prominent liberals and radicals of his time, Mazzini thought that Europe ought to colonize
Asia and Africa to “civilize” local populations and make them
ready for genuine self-determination»13. Come ha, inoltre, precisato Massimo Scioscioli, all’Europa, per Mazzini, spettava «la missione di aiutare i popoli del mondo a compiere lo stesso cammino
già fatto dai suoi figli, a condizione, tuttavia, che questa missione
non […] [venisse] utilizzata per giustificare una politica di rapina
brutale a danno dei popoli da “civilizzare”»14.
Il fine ultimo di ogni popolo risiedeva, per Mazzini, «nel miglioramento universale, nella fratellanza […] dell’Umanità»15.
L’associazionismo mazziniano, dunque, non si limitava alla dimensione europea, ma si proiettava anche al di fuori del continente, al fine di stabilire forme di collaborazione e di intese tra
genti solo apparentemente distanti:
La parola e l’opera vostra siano per tutti, si come per tutti è Dio, nel suo
amore e nella sua legge. In qualunque terra voi siate, dovunque un uomo
combatte pel diritto, pel giusto, pel vero, ivi è un vostro fratello: dovunque un uomo soffre, tormentato dall’errore, dall’ingiustizia, dalla tirannide, ivi è un vostro fratello. Liberi e schiavi, SIETE TUTTI FRATELLI.
Una è la vostra origine, una la legge, uno il fine per tutti voi. Una sia la
credenza, una l’azione, una la bandiera, sotto cui militate16.
Dovere delle genti d’Europa diveniva quello di aiutare, in ogni
contesto, i popoli oppressi in nome del principio di fratellanza e
della consapevolezza di condividere un destino comune:
12
Ivi, p. 130.
S. RECCHIA, N. URBINATI (eds.), A Cosmopolitanism of a Nations. Giuseppe
Mazzini’s writings on democracy, nation building, and international relations,
Princeton University Press, Princeton, 2009, p. 224.
14
M. SCIOSCIOLI, Giuseppe Mazzini: i principi e la politica, Giunta, Napoli,
1995, pp. 232-233.
15
G. MAZZINI, Doveri dell’uomo, cit., p. 52.
16
Ibidem.
13
91
Non dite: il linguaggio che noi parliamo è diverso: le lagrime, l’azione,
il martirio formano linguaggio comune per gli uomini quanti sono, e
che voi tutti intendete. Non dite: l’Umanità è troppo vasta, e noi troppo
deboli. Dio non misura le forze, ma le intenzioni. Amate l’Umanità.
[…] Siate apostoli di questa fede, apostoli della fratellanza delle Nazioni e dell’unità, oggi ammessa in principio, ma nel fatto negata, del genere umano. Siatelo dove potete e come potete17.
92
Rivolgendosi ai giovani, Mazzini riteneva necessario stimolare
nelle nuove generazioni un sentimento di sincera amicizia, capace di superare ogni barriera ideologica e ogni tipo di pregiudizio:
Amate l’umanità! Voi non potete desumere la vostra missione che
dall’intento proposto da Dio all’umanità. Dio v’ha dato la patria per
culla, l’umanità per madre; e voi non potete amare i vostri fratelli di
culla se non amate la patria comune18.
E ancora:
Oggi, bisognano uomini che predichino l’amore e l’amino, la virtù e la
pratichino, l’eguaglianza e non si velino nell’orgoglio dello scrittore,
l’azione e sieno presti a congiungersi in essa col popolo, il regno
dell’associazione e si associno, la necessità di combattere la tirannide e
l’ingiustizia e combattano, la religione del martirio e si mostrino capaci
d’affrontarla intrepidamente, siccome completamento della loro dottrina. Uomini siffatti saranno onnipotenti sul popolo19.
Non esisteva, per il patriota genovese, nessun popolo al quale tale
insegnamento non potesse arrecare benessere e prosperità. Le
stesse genti africane, così apparentemente distanti per usi, tradizioni, pratiche religiose, da quelle europee dovevano, invece,
svolgere lo stesso cammino. Anche le comunità dell’Africa legate, ad esempio, al culto animista sarebbero per Mazzini state in
grado di interiorizzare la sua dottrina. Come ha sottolineato, in
17
Ivi, pp. 52-53.
G. MAZZINI, Ricordi di Giuseppe Mazzini agli Italiani, a cura di F. Dobelli,
Croci, Milano, 1870, p. 48.
19
Ivi, p. 51.
18
tale prospettiva, il repubblicano e mazziniano Ugo Della Seta20
nella sua opera Giuseppe Mazzini pensatore:
Mazzini […] spiritualizza queste prime religioni, in quanto vuole da esse iniziata l’evoluzione religiosa dell’umanità; di qui, come applicazione della legge d’evoluzione, il primo principio della sua dottrina, il
concetto storico della Divinità, la relatività storica della sua rivelazione. Dio s’è affermato; le altre religioni dovranno quindi trasformare e
non creare, questo principio, come primo termine etico ormai conquistato […]21.
Il messaggio mazziniano, volto all’affermazione dell’autodeterminazione di ogni popolo, avrebbe finito per ispirare
l’azione del Partito Repubblicano Italiano, pronto a condannare
le imprese coloniali africane, considerandole una evidente viola22
zione del principio di sovranità nazionale . Un mazziniano come
23
Arcangelo Ghisleri , nella sua opera Le razze umane e il diritto
nella questione coloniale, sintetizzava perfettamente la posizione
del suo Partito, fedele agli insegnamenti del fondatore, e condan-
20
Cfr. U. DELLA SETA, Giuseppe Mazzini pensatore. I valori morali, morale,
diritto e politica internazionale: valori eterni, a cura di G. Limiti e M. Di Napoli, Domus Mazziniana, Pisa, 2011.
21
U. DELLA SETA, Giuseppe Mazzini pensatore. Le idee madri, Forzani e c., tipografi del Senato, Roma, 1910, p. 82. In tale prospettiva, continuava Della Seta, non
esisteva per Mazzini nessun popolo contrario al messaggio di indipendenza e libertà: «Il popolo non è indifferente, è sconfortato, è impotente a conquistare da
per sé, senza scosse violenti, l’istruzione che nessuno gli offre fraternamente».
Ivi, p. 508. Cfr. anche ID., Antimazzinianesimo di Giuseppe Mazzini, con introduzione di C. Carbonara, Tipografia editrice Glaux, Napoli, 1965.
22
Per un approfondimento, cfr. S. BERARDI, Il Partito repubblicano e le colonie
italiane: la questione somala (1948-1950), in “Mondo Contemporaneo”, n. 1, 2012,
pp. 91-118; M. TESORO, Il progetto repubblicano: da Ghisleri a Zuccarini, FrancoAngeli, Milano, 1996; ID., I repubblicani nell’età giolittiana, con prefazione di A.
Colombo e una lettera di G. Spadolini, Le Monnier, Firenze, 1978.
23
Cfr. S. BERARDI, L’Italia risorgimentale di Arcangelo Ghisleri, con presentazione di G. Pecora, FrancoAngeli, Milano, 2011; R. MAFFEI, La formazione di
un geografo: Arcangelo Ghisleri e il rinnovamento degli studi geografici in Italia 1878-1898, ETS, Pisa, 2007; A. BENINI, Vita e tempi di Arcangelo Ghisleri
1855-1938: con appendice bibliografica, Lacaita, Manduria, 1975.
93
94
nava la posizione di Giovanni Bovio24, anch’egli repubblicano,
ma assertore della superiorità della razza bianca su quelle africane25. Senza mezzi termini, Ghisleri, rivolgendosi proprio a Bovio,
evidenziava:
Ora, se dite, di non negare l’educabilità e la progressività della razza
nera, come e con quale criterio positivo possiamo noi pensare e asserire
che essa non raggiungerà mai la razza bianca? Una volta ammessa la
progressività chi può dire dove e perché dovrà arrestarsi? Sarà, come fu
per la razza bianca questione di tempo e di circostanze propizie; non
questione di incapacità assoluta26.
Quando Mazzini affermava che l’Italia aveva «dalla natura il
primato del Mediterraneo, del mare intorno al quale si decisero
27
fin quasi ai nostri giorni i fati dei popoli» , intendeva auspicare e
stimolare una significativa cooperazione, su di un piano di piena
parità, tra le genti di tale area geografica. Non si può ovviamente
affermare che l’azione italiana in Africa, come del resto quella
24
Cfr. S. BLASUCCI, Giovanni Bovio: ambiente, personalità, pensiero filosofico,
etico, giuridico, politico, Laterza, Roma-Bari, 1990; G. ANGELINI, Giovanni Bovio
e l’alternativa repubblicana. Con un’antologia degli scritti giornalistici dal 1872
al 1901, presentazione di A. Colombo, Giuffrè, Milano, 1981.
25
Giovanni Bovio, il 17 marzo 1885, nel suo discorso alla Camera dei Deputati,
riguardo l’opportunità di una spedizione italiana a Massaua, aveva infatti perentoriamente affermato: «[…] per noi un diritto alla barbarie non esiste, come
non esiste la libertà d’ignoranza, non la libertà di delinquenza. Esiste un diritto fondamentale: quello che ha la civiltà di diffondere dovunque la sua potenza innovatrice come si diffondono la luce e il calore. […] Lavoriamo e poiché
siamo seme latino, sulla scorza degli alberi scriviamo il Diritto». Cfr. R. RAINERO, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua (1869-1896), Edizioni di
Comunità, Milano, 1971, pp. 96-97. Cfr. anche G. BOVIO, Il diritto pubblico e le
razze umane, A. Morano, Napoli, 1887.
26
A. GHISLERI, Le razze umane e il diritto nella questione coloniale, Istituto
Italiano di Arti Grafiche, Bergamo, 1896, p. 58. Come ha affermato Renato
Monteleone, la posizione ghisleriana trovò il pieno appoggio dei socialisti italiani e, in particolare, quello del suo amico Filippo Turati: «Ghisleri ebbe perciò tutte le ragioni di reagire con estrema durezza alla sortita di Bovio e di
contestargli il fondamento scientifico e giuridico delle sue asserzioni». Cfr. R.
MONTELEONE, Filippo Turati, UTET, Torino, 1987, pp. 103 ss.
27
G. MAZZINI, Ricordi di Giuseppe Mazzini agli Italiani, cit., p. 17.
delle altre potenze europee, si ispirò a tali auspici28, ma pur senza
volerlo, contribuì alla diffusione di quei principi e di quelle idee,
che finirono per alimentare il nazionalismo locale nella lotta per
l’indipendenza29. E, nel 1958, l’illustre arabista Francesco Gabrieli
aveva già evidenziato che, lo stesso Occidente, finiva per essere
espulso dall’Africa all’indomani dell’assunzione, da parte dei popoli africani, di quegli ideali di democrazia, libertà ed indipendenza che si erano diffusi proprio grazie all’opera europea30.
Sarebbe, del resto, azzardato parlare di una diretta influenza
del Risorgimento italiano nei processi di rivendicazione anticolonialista e nazionale del Maghreb: tuttavia, come ha ravvisato
Salvatore Bono, si può affermare l’esistenza di «una influenza
indiretta del Risorgimento, esercitata cioè attraverso la presenza
nei Paesi maghrebini di gruppi di patrioti italiani che vi trovano
rifugio dopo gli insuccessi dei tentativi rivoluzionari e le sconfitte
31
nelle guerre di indipendenza» . Nel 1843, ad esempio, ad opera
anche di patrioti risorgimentali, si costituì ad Algeri una società
segreta, «con lo scopo di cacciare i Francesi da tutta l’Africa mediterannea»32: tale società vedeva la partecipazione di militari
28
Per un approfondimento, cfr. A. DEL BOCA, Italiani, brava gente? Un mito
duro a morire, Neri Pozza, Vicenza, 2010. Cfr. anche G. ROSSI, L’Africa italiana
verso l’indipendenza (1941-1949), Giuffrè, Milano, 1980.
29
Per un approfondimento, cfr. B. STANLEY (ed.), Missions, Nationalism, and
the End of Empire, W.B. Eerdmans, Grand Rapids, 2003; J.D. HARGREAVES, Decolonization in Africa, Longman, London-New York, 1996; G. CALCHI NOVATI,
La decolonizzazione, Loescher, Torino, 1983.
30
Per un approfondimento, cfr. F. GABRIELI, Il Risorgimento arabo, Einaudi,
Torino, 1958. Cfr. anche F. GABRIELI, U. SCERRATO, Gli arabi in Italia. Cultura,
contatti e tradizioni, Garzanti-Scheiwiller, Milano, 1997.
31
S. BONO, Uomini ed echi del Risorgimento nel Magrheb, in G. BORSA, P. BEONIO BROCCHIERI (a cura di), Garibaldi, Mazzini e il Risorgimento nel risveglio
dell’Asia e dell’Africa, cit., p. 27. Cfr. anche ID., Il Risorgimento italiano e il
Mediterraneo, in Proceedings of History Week 2005, The Malta Historical
Society, Malta, 2005, pp. 13-26; ID., Storiografia e fonti occidentali sul Maghreb
dal XVI al XIX secolo, in “Africa”, n. 2, 1973, pp. 237-254.
32
E. MICHEL, Esuli italiani in Algeria, 1815-1861, Cappelli, Bologna, 1935, p.
111.
95
96
della Legione Straniera e di popolazione araba33. Anche uno storico tunisino come Bechir Tlili, ha confermato l’influenza occidentale e, nello specifico, italiana nella formazione stessa della
cultura tunisina: «Franc-maçons et mazziniens animaient en effet
des associations culturelles et politiques dénommées ‘cercles italiens’, et organisaient leurs compatriotes […] Ainsi, les réfugiés
italiens jouaient un rôle considérable dans le développement du
pays»34. E ancora, riguardo le attività politiche svolte dagli emigrati italiani in Tunisia:
Le patriotisme italien, l’exigence d’unité italienne, la revendication
d’un régime républicain ne laissaient sans doute pas indifférents les réformateurs tunisiens. Les manifestations politiques (célébrations, fêtes)
et culturelles italiennes dans les différentes villes de Tunisie n’étaient
pas aussi sans influence sur la naissance de la pensée tunisienne moderne35.
In tale prospettiva, dunque, sia pur indirettamente, il pensiero
mazziniano era riuscito a penetrare nel contesto tunisino e a stimolare il nazionalismo locale, assieme a quella cultura europea
destinata a diffondersi anche negli altri paesi del Maghreb:
Partout l’influence culturelle et idéologique de l’Europe, de ses valeurs, de
ses institutions, de ses répresentations, de ses modèles, de ses structures, de
ses modes, de ses arts se faisait, en effet, de plus en plus accentuée, pénétrant d’abord l’intelligentsia, puis peu à peu les populations. La préponderance tecnique, militaire, économique de l’Occident apparaissait ainsi
de plus en plus éclatante aux dirigeants et aux populations de l’Oriente
et défiait, avant d’humilier et de monier, l’Umma arabo-islamique36.
Se, sia pur indirettamente, come detto, è stato possibile parlare di
influenza risorgimentale e, in particolare, mazziniana nei processi di indipendenza e affrancamento dei popoli del Maghreb, più
33
Cfr. S. BONO, Uomini ed echi del Risorgimento nel Magrheb, in G. BORSA, P.
BEONIO BROCCHIERI (a cura di), Garibaldi, Mazzini e il Risorgimento nel risveglio dell’Asia e dell’Africa, cit., p. 21.
34
B. TLILI, Les rapports culturels et idéologiques entre l’Orient et l’Occident, en
Tunisi au XIXème siècle, (1830-1880), Université de Tunis, Tunis, 1974, p. 83.
35
Ivi, p. 453.
36
Ivi, p. 463.
complesso è ravvisare tale influenza nei territori dell’Africa sub
sahariana. Infatti, come ha affermato Vittorio Antonio Salvadorini, se già nel corso del XIX secolo nel Nord Africa gli echi degli
avvenimenti italiani trovarono voce attraverso viaggiatori, esuli e
grazie anche a mezzi di informazione come i giornali, rari furono
i legami «con le regioni subsahariane, più note come luoghi di
deportazione che di speculazione economica, anche per la mancanza di frequenti, regolari e diretti collegamenti fra le marine
dei vari stati italiani e i porti sub e periequatoriali»37. Lo studio di
Salvadorini, al riguardo, si soffermava sulla realtà dell’Angola38,
ma presentava delle peculiarità valide per tutti i territori sub sahariani:
Se si dovesse affacciare qualche dubbio sulla impermeabilità alle idee
risorgimentali italiane della popolazione dell’Angola, esso sarebbe facilmente rintuzzato da rapide considerazioni statistiche […] dalle quali
si evince lapalissianamente come l’ambiente umano non fosse sufficientemente ampio e colto per la bisogna. Non sembri fuori luogo ricordare che il principio della nazionalità non era radicato nella provincia, né fra la popolazione bianca, né fra quella negra, non riconducibile
ad una sola etnia: le élites, almeno da un punto di vista culturale, non
esistevano; le masse non erano in grado di manifestare la loro volontà.
Quanto agli ideali, essi non potevano allignare in uomini abbrutiti dal
commercio di altri uomini, né trovare spazio sulla stampa che […] tardò alquanto nell’affrontare […] temi squisitamente politici39.
Dunque, se una pur indiretta ricezione degli ideali risorgimentali
e mazziniani nell’Africa vi fu, almeno nel XIX secolo, questa si
limitò alle regioni del Nord dove, anche per questioni di vicinanza geografica, tali ideali poterono trovare una loro diffusione.
Come ha precisato Giorgio Borsa:
37
V.A. SALVADORINI, Un Manifesto del 1874 per l’indipendenza dell’Angola, in
G. BORSA, P. BEONIO BROCCHIERI (a cura di), Garibaldi, Mazzini e il Risorgimento nel risveglio dell’Asia e dell’Africa, cit., p. 454.
38
Cfr. V.A. SALVADORINI, L’Angola dalla fine del Settecento al 1836, Opera Universitaria, Centro Stampa, Pisa, 1979, pp. 232-242.
39
V.A. SALVADORINI, Un Manifesto del 1874 per l’indipendenza dell’Angola, in
G. BORSA, P. BEONIO BROCCHIERI (a cura di), Garibaldi, Mazzini e il Risorgimento nel risveglio dell’Asia e dell’Africa, cit., p. 458.
97
Non si deve pensare che il Risorgimento italiano sia stato un fattore determinante nella nascita e nello sviluppo dei nazionalismi […] africani.
E tuttavia, se si considerano insieme, in una visione unitaria, (cosa che
non è stata fatta finora) gli echi, gli spunti, i riferimenti al Risorgimento che si trovano negli scrittori e negli uomini politici africani […] del
secolo scorso e di questo secolo, ci si rende conto di una attenzione ai
fatti e alle idee del Risorgimento in aree che apparivano finora ad esso
estranee40.
98
A distanza di circa un secolo, come ha anche sottolineato Guido
Montani, gli ideali già professati da Giuseppe Mazzini e Carlo
Cattaneo41, finalizzati non solo all’affermazione del principio di
autodeterminazione di tutti i popoli ma anche all’unità sovranazionale dell’Europa, sarebbero stati interiorizzati da alcuni degli
42
stessi movimenti africani di liberazione . A nulla valse, ad e40
G. BORSA, Presentazione, in G. BORSA, P. BEONIO BROCCHIERI (a cura di), Garibaldi, Mazzini e il Risorgimento nel risveglio dell’Asia e dell’Africa, cit., p. III.
41
Per un approfondimento, cfr. Z. CIUFFOLETTI, Federalismo e regionalismo: da
Cattaneo alla Lega, Laterza, Roma-Bari, 1994; C. CATTANEO, Stati Uniti
d’Italia, a cura di N. Bobbio, Chiantore, Torino, 1945; F. MOMIGLIANO, Carlo
Cattaneo e gli Stati Uniti d’Europa, Treves, Milano, 1919. Non bisogna dimenticare che lo stesso Cattaneo, nel suo saggio Il regno di Tunisi e l’Italia (in “Politecnico”, vol. XII, fasc. LXVIII, Editori del Politecnico, Milano, 1862, pp. 113135), auspicava una stretta cooperazione tra l’Italia e la Tunisia. Tale cooperazione avrebbe dovuto estendersi e riguardare tutti i popoli del Nord Africa, su
di un piano di rigorosa parità. Come ha sottolineato, al riguardo, Gianluigi
Rossi: «Il pensatore lombardo era infatti convinto dell’esistenza di un progresso indefinito dell’umanità, di un incivilimento costante per tutti i popoli della
terra, senza alcuna distinzione. Il cammino di ogni popolo verso la civilizzazione diveniva così lo strumento necessario per spezzare le catene
dell’ignoranza e della superstizione, per rendere l’uomo, ogni uomo, protagonista della storia. La sua attenzione si posava così su popoli tradizionalmente
ritenuti dai più, ancora lontani da forme di progresso e che invece al suo
sguardo attento apparivano portatori di grande civiltà. Ogni popolo era, per
Cattaneo, degno di rispetto». G. ROSSI, La cooperazione tra Italia e Nord Africa
nelle pagine di Carlo Cattaneo, in S. BERARDI, G. VALE, (a cura di), Ripensare il
federalismo. Prospettive storico-filosofiche, Edizioni Nuova Cultura, Roma,
2013, pp. 170-171.
42
Cfr. G. MONTANI, Il Terzo Mondo e l’unità europea, Guida, Napoli, 1979, pp.
36 ss.
sempio, in tale prospettiva, il tentativo compiuto nel secondo dopoguerra, da parte degli stessi direttori scolastici italiani di eliminare, dopo aver ottenuto il trusteeship su Mogadiscio43, dai libri
di testo in Somalia, ogni riferimento a Mazzini, al fine di evitare,
tra gli studenti, la diffusione delle sue dottrine44.
E proprio restando sempre coerente con il suo magistero, già
nell’estate del 1850, Mazzini, sul primo numero de “Le Proscrit.
Journal de la République Universelle”, aveva condannato la Santa
Alleanza dei Principi, sorta al termine del Congresso di Vienna
nel 1815, contrapponendovi la Santa Alleanza dei Popoli, capace
di garantire il trionfo del principio della solidarietà tra nazioni
europee:
Noi facciamo appello a tutti coloro che, come noi, credono alla libertà,
all’eguaglianza, all’umanità e provano il bisogno di dedicarsi corpo e
anima, pensiero e azione, al fine delle loro convinzioni. […] Occorre
che alle «cappelle» si sostituisca la «Chiesa», alle sette la religione
dell’avvenire. Occorre che la democrazia europea si costituisca e si affermi la Santa Alleanza dei Popoli. […] Dio è Dio e l’umanità è il suo
profeta45.
Ancora all’indomani del 1871, Mazzini, fermo «nell’idea che un
giorno l’Europa sarebbe [divenuta] una Confederazione di liberi
Stati, riconosceva tuttavia che, sebbene l’Italia e la Germania avessero raggiunto l’unità, nulla, nelle condizioni presenti
46
dell’Europa» , lasciava presagire un rapido raggiungimento
dell’obiettivo47. Ma, nel suo scritto Nazionalismo e Nazionalità,
43
Cfr. A.M. MORONE, L’ultima colonia: come l’Italia è tornata in Africa 19501960, Laterza, Roma-Bari, 2011.
44
Per un approfondimento, cfr. W. RODNEY, How Europe Underdeveloped
Africa, Pambazuka Press, Oxford, 2012, pp. 275 ss.
45
G. MAZZINI, Le peuple des proscrits, in “Le Proscrit. Journal de la République Universelle”, 1° luglio 1850. Cfr. anche F. BERTINI, La democrazia europea e il laboratorio risorgimentale italiano 1848-1860, Firenze University Press,
Firenze, 2007, pp. 27 ss.
46
F. QUINTAVALLE, La politica internazionale nel “pensiero” e nell’“azione” di
Giuseppe Mazzini, cit., p. 265.
47
Per un approfondimento, tra i tanti riferimenti, cfr. G. MASTELLONE (a cura
di), Pensieri sulla democrazia in Europa, Feltrinelli, Milano, 2007; ID., Il pro-
99
Mazzini si spingeva oltre:
100
Sì, finalmente […] noi vogliamo gli Stati Uniti d’Europa48, l’alleanza
repubblicana dei popoli […]. E questi popoli devono stringerla leale e
durevole, essere liberi ed eguali, avere coscienza di sé, affermare la
propria individualità e il proprio principio: essere insomma nazioni.
L’Umanità è il fine, la nazione il mezzo: senza essa potrete adorare,
contemplare oziosi, l’Umanità, non costituirla o tentarlo49.
Come ha precisato Giuseppe Santonastaso, l’impulso impresso da
Mazzini al diritto nazionale aveva quale finalità il superamento
del vecchio concetto di Stato sovrano e la realizzazione della federazione dei popoli50. Pertanto, ogni nazione, compiendo il suo
autonomo percorso storico, avrebbe contribuito a realizzare il fi51
ne dell’Umanità . La prospettiva mazziniana, ha rimarcato Lucio
Levi, conteneva in sé l’idea dell’unità europea e, in seconda bat-
getto politico di Mazzini: Italia-Europa, Olschki, Firenze, 1994. Cfr. anche C.
CECCUTI (a cura di), Giuseppe Mazzini dalla Giovine Europa alla Lega internazionale dei popoli. Atti del Convegno di studi Fondazione Spadolini, Nuova
Antologia, Firenze, 20 maggio 2005, Polistampa, Firenze, 2008.
48
Cfr. L. SALVATORELLI, Mazzini e gli Stati Uniti d’Europa, La Libreria dello
Stato, Roma, 1950.
49
G. MAZZINI, Nazionalismo e Nazionalità, in ID., Scritti editi ed inediti, vol.
XCIII, (Politica 30), Galeati, Imola, 1941, p. 85. Non bisogna, tuttavia, dimenticare che, ancora nel 1853, Mazzini aveva espresso una perentoria condanna
delle dottrine federaliste che lo spingeva a biasimare sia il progetto politico di
Vincenzo Gioberti, sia quello di Carlo Cattaneo: «Io considero […] il federalismo come la peste maggiore che possa, dopo il dominio straniero, piombar
sull’Italia: il dominio straniero ci contende per poco la vita; il federalismo la
colpirebbe d’impotenza e di condanna a lenta ingloriosa morte in sul nascere.
Rampollo d’un vecchio materialismo che incapace d’affermare la collettiva
unità della vita, non può coll’analisi scoprirne se non le manifestazioni locali e
ignora la Nazione e i suoi fati, il federalismo sostituisce al concetto della missione d’Italia nell’Umanità un problema di semplice libertà e d’un più soddisfatto egoismo». G. MAZZINI, Agli Italiani. Alcune pagine, Tipografia Moretti,
Genova, 1853, p. 54.
50
Cfr. G. SANTONASTASO, Giuseppe Mazzini, Centro napoletano di studi mazziniani, Napoli, 1971, pp. 138 ss.
51
Cfr. L. LA PUMA, Giuseppe Mazzini: democratico e riformista europeo, Olschki, Firenze, 1994, pp. 28 ss.
tuta, dell’affratellamento di tutto il genere umano52. Mazzini era
consapevole della difficoltà di raggiungere questi fini: se assai
complesso appariva il tentativo di conseguire l’unità europea, ancora più arduo si presentava lo sforzo di pervenire al superamento
della dimensione statale negli altri continenti come l’Africa, dove,
prima ancora di discutere di panafricanismo53, era indispensabile il
raggiungimento delle singole indipendenze nazionali.
Tuttavia, già alla conclusione del secondo conflitto mondiale,
alcuni movimenti di liberazione africani, come accennato, interpretarono gli insegnamenti mazziniani sia in riferimento alla lotta per l’indipendenza, sia a quella finalizzata alla costituzione di
forme di integrazione politica. Ad esempio, gli stessi «militanti
più impegnati, […] in una lotta tanto cruenta ed esacerbata come
quella per la liberazione dell’Algeria, non dimenticarono nei loro
scritti di fare appello alla solidarietà degli altri popoli africani, e
di offrire la propria, nella prospettiva seppur remota degli Stati
Uniti d’Africa»54. Come ha notato Gianluigi Rossi, proprio
all’indomani della seconda guerra mondiale, nella maggior parte
dei paesi africani si costituirono delle élite, formatesi nelle università europee ed americane: in tal modo alcune delle idee e dei
principi propri alla cultura europea poterono, con più facilità, essere interiorizzati dalle nuove classi dirigenti: così l’«idea di nazione, di democrazia, di uguaglianza, di libertà»55, che già si erano affermate in Occidente, trovarono una significativa diffusione
tra i popoli africani. Tale contatto finì così per produrre un duplice effetto:
52
Cfr. L. LEVI, Il pensiero federalista, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 54 ss.
Per un approfondimento, cfr. G. CALCHI NOVATI, Dal panafricanismo ideale al panafricanismo reale e l’opera di Kwame Nkrumah, in “Africa: rivista
trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italo-africano”, nn. 1-4,
2010, pp. 58-80. Cfr. anche A. ARUFFO, Patrice Lumumba e il panafricanismo,
Erre Emme, Roma, 1992; V.B. THOMPSON, Africa and Unity: the Evolution of
Pan-Africanism, Longman, London, 1977.
54
G. MONTANI, Op. cit., p. 36. In merito agli Stati Uniti d’Africa si veda L. ARDESI, Il federalismo: le esperienze continentali. Stati disuniti d’Africa, in “Nigrizia”, nn. 125-126, 2007, pp. 30-32.
55
G. ROSSI, L’Africa verso l’unità (1945-2000). Dagli Stati indipendenti all’Atto
Unico di Lomè, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2010, p. 5.
53
101
[…] da un lato questi intellettuali formatisi alla scuola dell’Europa
chiesero che i principi basilari della democrazia europea venissero applicati anche ai loro paesi, dall’altro essi hanno sottoposto a revisione
critica – pur senza rinnegarli – i propri valori originari56.
102
E, dunque, se come detto i valori tipici della cultura europea trovarono in tale contesto un loro, sia pur parziale, accoglimento, anche
alcune delle idee del nostro Risorgimento democratico, come quelle di Giuseppe Mazzini, furono fatte proprie dalle élite africane.
D’altra parte, già nel 1947, Anton Lembede57, attivista sudafricano
e primo presidente dell’African National Congress Youth League,
ricorreva agli insegnamenti mazziniani per spronare i popoli del
suo continente a condurre una lotta per la loro piena emancipazione. In tale prospettiva, secondo Lembede, il nazionalismo, lungi
dal confondersi con il fanatismo ed evitando qualsiasi legame con
il bigottismo religioso, avrebbe condotto alla piena indipendenza
politica gli Stati dell’Africa58. I suoi insegnamenti per gli Africani
erano così mutuati dalle parole di Mazzini:
Love your country…It is the home which God has given you, that by
striving to perfect yourselves therein, you may prepare to ascend Him.
It is your name, your glory, your sign among the people. Give to it
your thoughts, your counsels, your blood. Raise it up great and beautiful and see that you leave it uncontaminated by any trace of falsehood
or servitude; unprofaned by dismemberment59.
Il nazionalismo al quale si richiamava Lembede non era fine a se
stesso, ma anelava a forme più alte di cooperazione tra gli Stati
dell’Africa. «Oh!» – continuava il leader sudafricano, rivolgendosi sempre ai popoli africani, – se le parole di Mazzini potessero
solo «sink and soak into our minds and hearts!»60, si potrebbe
56
Ibidem.
Per un approfondimento, tra i tanti riferimenti, cfr. R. EDGAR, L. KA MSUMZA (eds.), Freedom in Our Lifetime. Collected Writings of Anton Muziwakhe
Lembede, Ohio University Press, Athens, 1996.
58
Cfr. A.M. LEMBEDE, In Defence of Nationalism!, in “Inkundla ya Bantu”, 27
Febbraio 1947.
59
Ibidem.
60
Ibidem.
57
compiere una missione di liberazione:
We must therefore verily believe that we are inferior to no other race
on earth; that Africa and ourselves are one; that we have a divine mission of unifying and liberating Africa, thus enabling her to occupy her
rightful and honorable place amongst the nations of the world. We
must develop race pride61.
Lo spirito di queste affermazioni pareva perfettamente coincidere
con le parole del patriota genovese che, nel 1853, aveva precisato
compiti e funzioni della Giovine Italia:
La Giovine Italia riconosce […] l’Associazione universale dei Popoli
come l’ultimo fine dei lavori degli uomini liberi. Essa riconosce e inculca con ogni mezzo la fratellanza dei popoli. Bensì, perché i popoli possano procedere uniti sulla via del perfezionamento comune, è necessario ch’essi camminino sulle basi dell’eguaglianza. Per essere membri
della grande Associazione conviene esistere, avere nome, e potenza
propria62.
Per associarsi e superare la dimensione statale era, però, indispensabile l’indipendenza, considerata condicio sine qua non per
l’affermazione del principio di solidarietà tra i popoli:
61
Ibidem. Come ha, tuttavia, sottolineato Ryan M. Inwin: «A voracious reader
well versed in European philosophy, Lembede drew not only on the work of
Western thinkers, such as Jean Jacques Rousseau and Giuseppe Mazzini, but
also South Asian intellectuals like Jawaharlal Nehru and Mahatmas Gandhi».
R.M. INWIN, Gordian Knot. Apartheid and the Unmaking of the Liberal World
Order, Oxford University Press, Oxford, 2012, p. 32.
62
G. MAZZINI, Delucidazioni sullo Statuto della Giovine Italia (1853), in L. STEFANONI, Giuseppe Mazzini, Barbini, Milano, 1863, pp. 144-145.
103
Ogni popolo […] deve, prima di occuparsi dell’Umanità costituirsi in
Nazione63. Non esiste veramente Nazione senza Unità. Non esiste Unità
stabile senza Indipendenza […] Non esiste Indipendenza possibile senza
Libertà. Per provvedere alla propria indipendenza è d’uopo che i popoli
siano liberi, perch’essi solo possono conoscere i mezzi per serbarsi indipendenti, essi soli hanno a sagrificarsi per esserlo, e senza libertà non esistono interessi che spingano i popoli al sagrifizio64.
104
Queste affermazioni rivivevano profondamente anche nelle convinzioni di un altro leader africano, il presidente ghanese Kwame
Nkrumah, certo della necessità di assicurare l’emancipazione di
ogni popolo africano prima di procedere all’integrazione politica
tra gli Stati del continente. Infatti, per Nkrumah, come ha
sottolineato in un recente studio Kwame Botwe-Asamoah:
«without political indipendence, there was no channel the Afri65
can could go through to trasform the society» .
Quando il 22 maggio 1963, si aprì ad Addis Abeba la Conferenza panafricana che avrebbe dato vita all’Organizzazione per
l’Unità Africana (OUA), proprio Nkrumah sostenne la tesi «integralista» finalizzata alla «formazione di un governo e di un parlamento sovranazionali […]»66. Nkrumah, dunque, riteneva necessaria la creazione di un governo continentale e la completa
unificazione politica africana. Tale tesi non sarebbe stata accolta,
ma avrebbe comunque testimoniato il desiderio, di parte della
classe politica africana, di tendere al superamento della dimen63
Come ha precisato Giangiacomo Vale, per Mazzini la nazione «si difende e
costruisce attraverso l’edificazione di uno Stato unitario che sia l’espressione
della volontà di tutto il popolo […], e in cui la nazione coincida con il territorio. Nel popolo si incarna così una volontà ideale comune e culturalmente
omogenea […] che ne fa un’entità monolitica». G. VALE, Filosofia e prassi del
federalismo nella polemica di P. J. Proudhon contro l’unità d’Italia, in S. BERARDI (a cura di), Patriottismo, Risorgimento e Unità Nazionale, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2012, pp. 123 ss.
64
G. MAZZINI, Delucidazioni sullo Statuto della Giovine Italia (1853), in L. STEFANONI, Giuseppe Mazzini, cit., p. 145.
65
K. BOTWE-ASAMOAH, Kwame Nkrumah’s Politico-Cultural Thought and Policies. An African-Centered Paradigm for the Second Phase of the African Revolution, Routledge, London, 2013, p. 10.
66
G. ROSSI, L’Africa verso l’unità (1945-2000). Dagli Stati indipendenti all’Atto
di Unione di Lomè, cit., p. 49.
sione dello Stato nazionale67. Del resto, sempre Nkrumah, nella
sua Autobiography, sottolineava di conoscere il pensiero di Giuseppe Mazzini e di aver tratto da questo utili e preziosi insegnamenti nella lotta all’imperialismo e all’affermazione del principio
di solidarietà tra i popoli68. Il progetto di integrazione politica
dell’Africa, da lui proposto, risentiva così anche del magistero del
patriota genovese. Nkrumah riteneva legittimo il nesso mazziniano tra rivoluzione e ideologia: per il leader ghanese, infatti,
ogni progetto rivoluzionario doveva basarsi su principi condivisi
e interiorizzati dalla collettività degli insorti, capaci così di com69
piere la loro missione . In tale prospettiva, la decolonizzazione e
l’indipendenza degli Stati africani erano soltanto i primi passi
verso l’unione del continente africano. Nella sua opera Towards
Colonial Freedom70, i riferimenti al pensiero mazziniano, erano
espliciti: «Every true revolution is a programme; and derived
from a new, general, positive and organic principle. The first
necessary is to accept that principle. Its development must then
be confined to men who are believers in it, and emancipated
from every tie or connection with any principle of an opposite
71
nature» . Per il presidente del Ghana, come già per Mazzini, il
successo della rivoluzione avrebbe permesso il trionfo
dell’ideologia a questa legata:
67
Cfr. ivi, pp. 50 ss.
Cfr. K. NKRUMAH, Autobiography, T. Nelson, London, 1957, pp. 45 ss. Cfr.
anche ID., Africa Must Unite, Routledge, London, 1963. Come ha precisato
Frans Viljoen: «In his view, the gains of freedom could only be secured if Africa
formed a bulwark against the pressures of “neo-colonialism”». F. VILJOEN, International Human Rights Law in Africa, Oxford Universityy Press, Oxford,
2012, p. 153.
69
Cfr. K. NKRUMAH, Consciencism: Philosophy and Ideology for Decolonization
and Development, with Particular Reference to the African Revolution, Monthly Review Press, New York, 1965, pp. 56 ss.
70
Cfr. K. NKRUMAH, Towards Colonial Freedom: Africa in the struggle against
world imperialism, Heinemann, London, 1962.
71
Cfr. K. NKUMAH, in E. OBIRI ADDO, Kwame Nkrumah. A Case Study of Religion and Politics, University Press of American, Lanham, 1997, p. 169.
68
105
When the revolution has been successful, the ideology continue to
characterize the society. It is the ideology which gives a countenance
to the ensuing social milieu. Mazzini further states the principle to be
general, positive and organic. The statement, elucidation and theoretical defence of such a principle will collectively form a philosophy.
Hence philosophy admits of being an instrument of ideology72.
106
Per il leader ghanese, l’unica via possibile per assicurare il completo affrancamento dei nuovi Stati dallo sfruttamento economico da parte degli ex colonizzatori, risiedeva nella costituzione di
un governo comune per tutte le nazioni del continente73. Solo così si sarebbe potuta sconfiggere l’instabilità politica e avrebbero
trovato accoglimento le istanze di rinnovamento dei popoli africani, liberi dallo sfruttamento europeo:
The intention is to use the newly independent African states, so circumscribed, as puppets through which influence can be extended […]
The creation of several weak and unstable states of this kind of Africa,
it is hoped, will ensure the continued dependence on the former colonial powers for economic aid, and impede African unity. This policy of
balkanisation is the new imperialism, the new danger to Africa74.
Già nel 1961, Nkrumah tentò di realizzare l’integrazione politica
tra gli Stati di Guinea, Ghana e Mali con il nome di Unione degli
75
Stati Africani . Tale progetto, che doveva rappresentare il primo
72
Cfr. K. NKRUMAH, in P.J. HOUNTONDJI, African Philosophy: Mith and Reality, Indiana University Press, Indiana, 1996, p. 148. Come ha precisato Ama
Biney: «Nkrumah did not clearly differentiate between philosophy and ideology, nor did he enunciate the relationship between the two terms. […] Nkrumah
referred to the Italian patriot Mazzini, who linked the necessity for a revolution
with an ideology to imbue and guide society». A. BINEY, The Political and Social Thought of Kwame Nkrumah, Palgrave Macmillan, London-New York,
2011, pp. 126 ss.
73
Cfr. K. NKRUMAH, Neo-Colonialism: the Last Stage of Imperialism, T. Nelson, London, 1965. Cfr. anche D.J. FRANCIS, Uniting Africa: Building Regional
Peace and Security Systems, Ashgate Publishing Company, Hampshire, 2006,
pp. 16 ss.
74
K. NKRUMAH, Africa Must Unite, cit., p. 179.
75
Per un approfondimento cfr. B. DROZ, Storia della decolonizzazione nel XX
secolo, Mondadori, Milano, 2007, pp. 282 ss. Come ha sottolineato Teobaldo
Filesi, il progetto di Nkrumah prevedeva l’iniziale costituzione di una Confe-
passo verso la completa integrazione politica del continente, non
trovò attuazione. L’articolo 3 della Carta di Unione, nel quale pareva rivivere lo spirito mazziniano, evidenziava gli scopi della
stessa:
To strengthen and develop ties of friendship and fraternal co-operation
between the member states politically, diplomatically, economically
and culturally; to pool their resources in order to consolidate their independence and safeguard their territorial integrity; to work jointly to
achieve the complete liquidation of imperialism, colonialism and neocolonialism in Africa and the building up of African unity76.
La tesi di Nkrumah, che come detto non risultò maggioritaria nel
1963 al momento della nascita dell’OUA, avrebbe trovato un accoglimento, sia pur parziale, nel corso del trentaseiesimo Vertice
dell’Organizzazione, riunitosi a Lomé, che adottò l’Atto Costitutivo dell’Unione Africana77. Come ha sottolineato Gianluigi Rossi, in tale circostanza, soprattutto grazie al ruolo ricoperto dalla
Libia, «il progetto di Nkrumah, ispirato ad una impostazione per
così dire massimalista del panafricanismo»78, ritornava di stretta
attualità nel tentativo di stimolare il consolidamento degli Stati
africani e di sostenere il processo di integrazione politica contiderazione degli Stati africani, che considerava indispensabile passaggio la ricostruzione economica e sociale dell’Africa, priva da vincoli con i paesi
dell’Europa occidentale. Cfr. T. FILESI, L’evoluzione politica dell’Africa, Istituto
Italiano per l’Africa, Roma, 1965, pp. 77 ss.
76
K. NKRUMAH, Africa Must Unite, cit., p. 142. La stessa Costituzione della
Repubblica del Ghana, risalente al 1960, all’articolo 2 esprimeva i
convincimenti del suo presidente di accelerare il processo per l’unità africana:
«In the confident expectation of an early surrender of sovereignty to a union
of African states and territories, the people now confer on Parliament the
power to provide for the surrender of the whole or any part of the sovereignty
of Ghana». Cfr. D.E. APTER, Ghana in Transition, Atheneum, New York,
1968, p. 374. Cfr. anche L. TOSONE, Aiuti allo sviluppo e guerra fredda:
l’amministrazione Kennedy e l’Africa sub-sahariana, Wolters Kluwer Italia,
Padova, 2008, pp. 72 ss.
77
Cfr. R. CADIN, Unione Africana (UA), estratto da Enciclopedia Giuridica,
Aggiornamento, vol. XIV, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 2006.
78
G. ROSSI, L’Africa verso l’unita (1945-2000). Dagli Stati indipendenti all’Atto
di Unione di Lomè, cit., p. 139.
107
nentale79.
Ancora oggi, tale processo appare lungo e complesso:
[…] occorrerà […] rafforzare tra i popoli africani lo spirito di solidarietà e collaborazione, nonché il gusto per la democrazia e il buon governo. Il che implica, da parte delle classi dirigenti, la volontà – che sembra sia finalmente emersa – di procedere coinvolgendo nei processi politici ed economici la società civile e i popoli del continente80.
108
In tale prospettiva, possono essere richiamate le riflessioni di un
mazziniano come Giovanni Spadolini, che senza mezzi termini,
già nel 1982, in qualità di presidente del Consiglio, aveva affermato: «l’eredità mazziniana e garibaldina non solo conserva la
più genuina vitalità anche oggi, ma può offrire suggestive e rivelatrici componenti di richiamo, di stimolo, e di impegno civile,
[…] nel risveglio […] dei popoli africani, […] [e] nella loro volontà di sviluppo, pacifico e democratico»81.
79
D’altra parte, se l’integrazione politica risultava essere il fine ultimo da conseguire, sempre Gianluigi Rossi ha evidenziato che tale obiettivo potrà essere raggiunto solo rafforzando la cooperazione in campo economico e favorendo, a pieno
titolo, i paesi africani all’interno del processo di globalizzazione, non soltanto ricoprendo un ruolo meramente passivo: «Per agevolare l’integrazione nel processo di
globalizzazione e spezzare il circolo vizioso del sottosviluppo africano, occorre in
primo luogo ridurre il gap con i paesi industrializzati in una serie di settori considerati prioritari. In questo modo l’economia africana potrà diventare competitiva e
dare dunque il suo contributo alla globalizzazione, ricevendo nel contempo da
questa un impulso positivo per il suo ulteriore decollo. È necessario quindi potenziare le infrastrutture (strade, porti, aeroporti), cui attualmente i paesi africani destinano buona parte dei loro risparmi, con la conseguenza che importanti risorse vengano distolte da settori economici immediatamente produttivi.
Altri settori cruciali nei quali è assai forte il divario con il mondo industrializzato sono quelli delle telecomunicazioni, dell’energia e della sanità». Ivi, pp.
185-186.
80
Ivi, p. 148.
81
G. SPADOLINI, Messaggio del presidente del Consiglio on. sen. Giovanni Spadolini, in G. BORSA, P. BEONIO BROCCHIERI (a cura di), Garibaldi, Mazzini e il
Risorgimento nel risveglio dell’Asia e dell’Africa, cit., p. II. Del resto, Spadolini
considerava Mazzini non soltanto il padre della democrazia repubblicana italiana, ma anche colui che seppe parlare di fratellanza tra i popoli e di integrazione europea, quando ancora l’unità d’Italia non era stata realizzata. Cfr. S.
BERARDI, Giovanni Spadolini e «il villaggio globale dell’umanità», in ID. (a cura di), L’Italia e i processi di globalizzazione. Atti del Convegno, Roma, 10
109
Abstract
This paper analyses the reception of the works of Giuseppe Mazzini in
the process of independence and political cooperation of African states.
The anti-colonial perspective of Giuseppe Mazzini, in fact, required the
collaboration between European nations and African people in order to
stimulate the latter’s moral and then political emancipation. For Mazzini,
all African people were entitled to assert the principle of selfdetermination. His doctrines therefore found, especially in the aftermath
of World War II, an indirect spread in Africa. Some leaders, such as Ghanaian Kwame Nkrumah and South African Anton Lembede, transposed
his teaching in their battles which were not only aimed at the independence of African states, but were also meant to provide the basis for a full
political integration of the continent.
maggio 2013 – Aula Magna Unicusano, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2014,
pp. 73-91. Cfr. anche B. ROSSI, L’europeismo mazziniano nel pensiero storico di
Giovanni Spadolini, Bologna University Press, Imola, 1990.
111
Nuove prospettive di ricerca
sul corporativismo in Europa
di VALERIO TORREGGIANI
Corporativismo è un termine intriso profondamente di ambiguità
e vaghezza. I suoi significati si sono stratificati nel tempo, sovrapponendosi e mescolandosi l’uno all’altro fino a comporre un
mosaico polisemico a tratti inestricabile. Residuo d’epoca medievale che collima e invade la sfera della contemporaneità, il corporativismo si ridefinisce continuamente a seconda dei tempi, dei
luoghi e delle culture, formando quello che Lucien Febvre già nel
1
1939 chiamava un fatras , un guazzabuglio di idee, di difficile decifrazione storiografica. Tre anni più tardi anche Louis Baudin,
economista francese attento studioso del corporativismo, rilevava
con una felice similitudine che la stessa parola corporazione
sembrava come una medesima etichetta applicata a bottiglie
riempite con bevande differenti2.
1
L. FEBVRE, Encore le Corporatisme, cit. in S. CASSESE, Lo Stato fascista, il Mulino, Bologna, 2010, p. 89.
2
Cfr. L. BAUDIN, Le corporatisme: Italie, Portugal, Allemagne, Espagne, France,
Librairie Générale de Droit et de Jurisprudence, Paris, 1942, pp. 4-5. È
d’obbligo citare, al fianco di Baudin, un altro autore francese, Louis Rosenstock-Frack che si distinse per attente riflessioni sul corporativismo durante il
periodo fascista: L. FRANCK, L’économie corporative fasciste en doctrine et en
112
Nel corso della seconda metà del XX secolo, tali ambiguità
crebbero esponenzialmente: recuperato nella dialettica politica, il
termine cominciò ad indicare, ed indica tutt’ora, la difesa di particolari interessi di categoria perseguiti senza riguardo alcuno per
un supposto interesse generale nazionale; contemporaneamente,
in ambito accademico il concetto venne recuperato fin dagli anni
Settanta, riformulato secondo i parametri del neo-corporativismo
per spiegare i meccanismi del funzionamento di molte società
democratiche a capitalismo avanzato nel periodo successivo alla
Seconda guerra mondiale.
Proprio la pluralità di significati, la sua lunga sopravvivenza
nel vocabolario politico-economico e la sua ampia trasversalità
disciplinare, hanno garantito al corporativismo una grande fortuna, senza purtuttavia fornire soluzioni chiare per quanto riguarda la sua definizione, che risulta ancora oggi poco chiara e
tutt’altro che univoca. Questa intrinseca ambiguità, però, se da
una parte rappresenta sicuramente una difficoltà per chi desidera
far uso del concetto, dall’altra sembra poter costituire il suo punto di forza principale: la precarietà semantica del corporativismo,
infatti, lo rende uno strumento d’analisi storiografica sufficientemente elastico, che permette di gettare uno sguardo d’insieme
su un complesso e multiforme universo di progettualità politicoeconomiche costruite, tra il XIX e il XX secolo, sul confine tra diverse tradizioni, culture e discorsi politici, le cui connessioni reciproche rimarrebbero altrimenti nell’ombra.
Obiettivo principale di questo contributo non è quello di comporre una rassegna degli studi sul corporativismo del regime fascista italiano – tema che nell’ultimo decennio ha conosciuto una
3
certa fortuna storiografica – , bensì quello di riformulare tale osfait. Ses origines historiques et son évolution, Gamber, Paris, 1934; ID., Les
étapes de l’économie fasciste italienne. Du corporatisme à l’économie de
guerre, Editions du Centre polytechnicien d’études économiques, Paris, 1939.
Brani di questi due volumi e altri brevi scritti del medesimo autore si trovano
ora tradotti in italiano in L. FRANCK, Il corporativismo e l’economia dell’Italia
fascista, a cura di Nicola Tranfaglia, Bollati Bolinghieri, Torino, 1990.
3
In questo senso esistono già esaustive rassegne. La prima, che raccoglie gli
studi fino al 1970, è quella di G.M. BRAVO, Sindacalismo fascista e corporativi-
servatorio storiografico partendo da alcune suggestioni sul tema
che spingono a riposizionare lo studio del corporativismo in uno
spazio geografico, cronologico e culturale più ampio e quindi più
complesso. In quest’ottica, accettando di chiamare corporative anche proposte che non si autodefinivano come tali, il concetto di
corporativismo – o di corporativismi, con un plurale che forse definisce meglio la realtà storica4 – riesce a dar conto della diffusione, a livello globale, di progetti, proposte e pensieri sociali, economici e politici, che condividevano alcuni obiettivi e presupposti,
ma che venivano promossi anche da soggetti non fascisti.
Il tema diventa in questo modo esponenzialmente più complesso, variegato e sfaccettato: la vastità geografica, cronologica,
politica e culturale all’interno della quale l’argomento merita di
essere studiato sposta l’attenzione dal solo mondo fascista verso
un universo molteplice, che include lo studio delle varianti del
capitalismo, delle diverse modalità di rappresentanza politica,
dell’importanza degli interessi socio-economici all’interno del
processo decisionale delle società industriali, chiamando in causa
diversi campi del sapere, dal diritto alla filosofia, dalla politologia
all’economia.
Come afferma Emmanuel Rota, infatti, «l’equivalenza corporativismo-fascismo può alimentarsi solo di una prospettiva provinciale, che non consideri l’insieme delle esperienze europee a
smo, in Il movimento sindacale in Italia. Rassegna di studi (1945-1969), Fondazione Einaudi, Torino, 1970, pp. 63 ss. Per una sintesi più recente si veda A.
GAGLIARDI, Lo Stato corporativo fascista: una ricognizione su studi e fonti, in
“Le carte e la storia”, vol. VII, n. 1, 2001, pp. 181 ss. Per i più importanti e recenti studi sul corporativismo fascista italiano si rimanda ai seguenti lavori: G.
SANTOMASSIMO, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Carocci, Roma, 2006; I. STOLZI, L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione
del potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, Giuffré, Milano, 2007;
S. CASSESE, Lo Stato fascista, il Mulino, Bologna, 2010; A. GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, Laterza, Roma-Bari, 2010.
4
Cfr. P. COSTA, Corporativismo, corporativismi, discipline: a proposito della
cultura giuridica del fascismo, in “Quaderni di Storia dell’Economia Politica”,
anno VIII, n. 2-3, 1990, pp. 403-413.
113
114
partire dalla fine della Prima guerra mondiale»5. In questa nuova
dimensione il corporativismo fascista risulta la peculiare traduzione italiana, di stampo autoritario, di quello che Sabino Cassese
ha definito come un «fenomeno mondiale, che non si è affermato
necessariamente in Stati fascisti»6. Il corporativismo fascista,
quindi, si caratterizza come un esperimento italiano di progressivo rimodellamento delle forme istituzionali e della gestione delle
relazioni socio-economiche per molti versi simile a coeve progettualità di aggiustamento e trasformazione delle forme liberalparlamentari secondo modelli di rappresentanza e di mediazione
ritenuti più consoni alle mutate condizioni sociali, economiche e
politiche della modernità industriale.
Il percorso di gestazione di questo nuovo sguardo storiografico sul problema corporativo ha le sue radici in un dibattito sorto
all’inizio degli anni Settanta in seno ad una corrente di studi politologici. I protagonisti di tale dibattito, non soddisfatti dal concetto di pluralismo, cominciarono ad applicare una screditata no7
zione di corporativismo per spiegare i meccanismi di funzionamento delle democrazie occidentali a capitalismo avanzato8. Sa5
E. ROTA, La tentazione corporativa: corporativismo e propaganda fascista tra
le file del socialismo europeo, in M. PASETTI (a cura di), Progetti corporativi tra
le due guerre mondiali, Carocci, Roma, 2006, p. 85.
6
S. CASSESE, Lo Stato fascista, cit., p. 95. La tesi di Cassese ha una gestazione che
risale ai suoi primi scritti sul tema, che per la loro importanza storiografica vale
la pena ricordare: ID., Corporazioni e intervento pubblico nell’economia, in
“Quaderni Storici delle Marche”, n. 9, 1969; S. CASSESE, B. DENTE, Una discussione del primo ventennio del secolo: lo Stato sindacale, in “Quaderni Storici”, n. 18,
1971. Sul tema si veda anche L. CERASI, Corporatismo/corporativismo e storia
d’Italia. Un percorso di lettura, in “Contemporanea”, IV, n. 2, aprile 2001, pp.
367-378.
7
Ancora nel 1990 Nicola Tranfaglia parla di un corporativismo «negletto e
abbandonato». N. TRANFAGLIA, Franck e il corporativismo fascista, in L.
FRANCK, Il corporativismo e l’economia dell’Italia fascista, cit., p. VII.
8
Cfr. S. BEER, British Politics in the Collectivist Age, Knopf, New York 1965;
ID., Modern British Politics: A Study of Parties and Pressure Groups, Faber
London, 1969; A. SHONFIELD, Modern Capitalism, Oxford University Press, Oxford, 1965. Per una rassegna storiografica degli studi sul neo-corporativismo si
vedano: O. MOLINA, M. RHODES, Corporatism: The Past, Present, and Future of
a Concept, in “Annual Review of Political Science”, n. 5, 2002, pp. 305-331; J.L.
muel Beer, ad esempio, studiando la situazione politica della
Gran Bretagna post-bellica, ritrova un sistema che definisce di
«quasi-corporativismo», dove nessun gruppo socio-economico
era lasciato senza un canale d’influenza sulle decisioni del governo, partecipando così al processo decisionale9. Proprio uno dei
protagonisti di tale filone di studi, l’economista inglese Andrew
Shonfield, gettando le basi per le successive evoluzioni
dell’analisi, affermava: «it is curious how close this kind of thinking was to the corporatist theories of the earlier writers of Italian Fascism»10.
Tali spunti di ricerca iniziarono a germogliare a metà degli
anni Settanta, quando Charles S. Maier e Philippe Schmitter, seguendo percorsi di ricerca differenti ma complementari ed entrambi decisamente influenti per la storiografia successiva, posero per la prima volta lo studio del corporativismo in una prospettiva internazionale. Per Maier, com’è noto, il decennio successivo
alla Grande Guerra segnò la nascita dell’Europa corporatista11,
caratterizzata dal passaggio del potere decisionale dai parlamenti
eletti alle maggiori forze organizzate della società e
dell’economia. Scrivendo quasi contemporaneamente, Philippe
Schmitter, nel suo famoso saggio Still the Century of Corporatism?, riprendeva e rivalutava il contributo del 1934 del teorico
rumeno Mihail Manoïlesco12, il quale profetizzava che il XX secolo sarebbe stato il secolo del corporativismo: la proposta di
Schmitter vedeva un allargamento dei confini del concetto, facendovi rientrare una vastissima moltitudine di proposte, proget13
ti politici e culturali elaborati tra il XIX e il XX secolo .
CARDOSO, P. MENDONÇA, Corporatism and Beyond: An Assessment of Recent
Literature, in “ICS Working Papers”, n. 1, 2012, pp. 1-32.
9
Cfr. S. BEER, Modern British Politics, cit.
10
A. SHOENFIELD, Modern Capitalism, cit., p. 233.
11
Cfr. C.S. MAIER, La rifondazione dell’Europa borghese. Francia, Germania e
Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale, il Mulino, Bologna,
1999.
12
Cfr. M. MANOÏLESCO, Le siècle du corporatisme, Editions Payot, Paris, 1934.
13
Cfr. P. SCHMITTER, Ancora il secolo del corporativismo, in M. MARAFFI (a cura
di), La società neo-corporativa, il Mulino, Bologna, 1981, pp. 45-85. In
115
116
Il successo degli studi corporativi dopo gli anni Settanta fu accompagnato da maggiori sforzi al fine di arrivare ad una più precisa chiarificazione dell’idea stessa di corporativismo. A pochi
anni di distanza da Schmitter, il tedesco Gerhard Lehmbruch intraprese i suoi pioneristici studi sul corporativismo liberale14, che
aprivano un ulteriore percorso di ricerca analizzando le declinazioni del corporativismo in senso liberale. Esse risultavano essere
varianti del capitalismo realizzate per meglio affrontare i problemi della globalizzazione. Sempre più, quindi, veniva sentito il
bisogno di una chiarificazione concettuale di un termine la cui
valenza analitica veniva messa in pericolo proprio dalla sua estrema e nebulosa plasticità.
A tale compito si dedicarono una serie di autori che, durante
gli anni Ottanta, riprendevano le suggestioni di Schmitter precisandole e declinandole secondo sotto-categorie analitiche che dovevano aiutare a chiarificare e semplificare l’uso di un concetto
che risultava, altrimenti, troppo vago e di difficile utilizzo. A tal
proposito i lavori ancora di Schmitter, di Berger, di Williamson e,
15
un decennio dopo, di Wiarda , sistematizzarono l’uso del termine rendendolo uno strumento euristico di grande utilità, «an approach, an intellectual framework, a way of examining and analyzing corporatist political phenomena across countries and time
periods»16. Il frutto di tale riflessione è stato quello di concepire il
corporativismo non come un’ideologia esatta, precisa e con prinquest’ultimo testo sono tradotti in italiano i più importanti contributi della
corrente anglosassone di studi neo-corporativi.
14
Cfr. G. LEHMBRUCH, Liberal Corporatism and Party Government, in “Comparative Political Studies”, n. 19, aprile 1977, pp. 91-126; G. LEHMBRUCH, P.
SCHMITTER (a cura di), Patterns of Corporatist Policy-Making, Sage, Beverly
Hills-London, 1979.
15
Cfr. S.D. BERGER (a cura di), Organizing Interests in Western Europe: pluralism, corporatism, and the transformation of politics, Cambridge University
Press, Cambridge, 1981; P. SCHMITTER, G. LEHMBRUCH (a cura di), Trends Toward Corporatist Intermediation, Sage, Beverly Hills-London, 1979; P.J. WILLIAMSON, Varieties of Corporatism: a Conceptual Discussion, Cambridge University Press, Cambridge 1985; H.J. WIARDA, Corporatism and Comparative
Politics. The Great Other “Ism”, Sharpe, New York-London, 1997.
16
H.J. WIARDA, Corporatism and Comparative Politics, cit., p. 23.
cipi ben definiti; bensì come uno spazio molteplice, delimitato da
due estremi all’interno dei quali si realizzano le diverse declinazioni del concetto. Il primo estremo è rappresentato dal corporativismo societario o pluralistico, nel quale il potere è collocato in
modo diffuso e delocalizzato presso corporazioni o gruppi corporati investiti di fatto dell’autorità di gestire l’intero sistema politico; il secondo è costituito invece dal corporativismo autoritario,
dove l’autorità suprema è invece incentrata nelle mani di un forte organo superiore – che può ma non deve per forza essere lo
Stato centrale – funzionante come intermediario, arbitro, moderatore, creatore e gestore ultimo di corporazioni e gruppi corporati da esso istituzionalizzati, ai quali viene devoluta una parte,
piccola o grande, di potere decisionale17.
Seppur apparentemente distanti dagli studi storiografici più
canonici, tali tentativi di delucidazione semantica e concettuale
hanno avuto un’importanza fondamentale anche nell’evoluzione
degli studi sul corporativismo nel periodo precedente alla Seconda guerra mondiale. Tali riflessioni, infatti, sembrano aver generato un ampliamento del raggio d’azione degli studiosi che si sono avvicinati al tema e, contestualmente, hanno contribuito ad
una definitiva presa di coscienza dell’inesistenza di un rapporto
causale tra fascismo e corporativismo: i due fenomeni, pur intersecandosi per un lungo periodo di tempo, rimangono infatti distinti per origini e percorsi. Si è quindi sentita sempre più urgente la necessità, acutamente sottolineata fin dalla fine degli anni
Settanta da Pierangelo Schiera, di ripensare parallelamente gli
estremi cronologici sia per lo studio dei corpi intermedi, tradizionalmente confinato all’ancien régime, sia del corporativismo
18
contemporaneo, relegato al periodo tra le due guerre .
Un allargamento dell’arco cronologico, quindi, risulta fondamentale per riuscire a seguire le molteplici traiettorie del pensie17
Questa sistemazione è recepita in Italia in G. TARELLO, Corporativismo, in A.
NEGRI (a cura di), Enciclopedia Feltrinelli-Fischer. Scienze Politiche, vol. 1. Stato e Politica, Feltrinelli, Milano, 1980, pp. 68-81.
18
Cfr. P. SCHIERA, Alle radici dei corporativismi moderni, in G. VARDARO (a
cura di), Diritto del lavoro e corporativismi in Europa: ieri e oggi, Franco Angeli, Milano, 1977, pp. 51-56.
117
118
ro corporativo nel XIX e nel XX secolo. Questo non significa attribuire, come suggeriscono i pur fondamentali lavori di Zeev
Sternhell, caratteristiche proto fasciste a tutte le inquietudini antiparlamentari e anti individualiste che permeavano la cultura
europea per lo meno dall’ultimo quarto del XIX secolo19;
l’insegnamento da cogliere, semmai, è ribadire come il fascismo,
fenomeno politico late comer, come viene definito dal classico
lavoro di J.J. Linz20, rielaborò, in maniera spesso confusa e dettata
dai bisogni del momento, argomenti di economia politica, di diritto e di organizzazione statale già presenti nella cultura europea21.
Dagli anni Ottanta in poi, quindi, gli studi sul corporativismo
hanno conosciuto nuovi stimoli, esplorando nuovi percorsi sia da
un punto di vista geografico che cronologico. L’idea corporativa
è stata così osservata in una prospettiva di lunga durata, che ha
contribuito ad evidenziarne la sopravvivenza all’interno del vo22
cabolario politico delle società occidentali , riscontrando notevoli elementi di continuità23. La storia delle idee corporative appare,
alla luce di autorevoli contributi, come una ragnatela di influenze, di scambi culturali, di percorsi intellettuali che crearono, fin
dal periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione francese24, una rete di pensieri corporativi che costituirono il bacino
19
Cfr. Z. STERNHELL, La destra rivoluzionaria, Corbaccio, Milano, 1997.
Cfr. J.J. LINZ, Some Notes Toward a Comparative Study of Fascism in Sociological Historical Perspective, in W. Laqueur (a cura di), Fascism. A Reader’s
Guide, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1976.
21
Fondamentali in questo senso gli studi di Z. STERNHELL, Nascita
dell’ideologia fascista, Baldini & Castoldi, Milano, 2002; E. GENTILE, Le origini
dell’ideologia fascista, Laterza, Roma-Bari, 1975.
22
Cfr. P. SCHIERA, Il corporativismo: concetti storici, in A. MAZZACANE, A.
SOMMA, M. STOLLEIS (a cura di), Korporativismus in den Südeuropäischen Diktaturen, Klostermann, Frankfurt am Main, 2005.
23
Si vedano a tal proposito le seguenti voci enciclopediche: L. ORNAGHI, Corporazione, in Enciclopedia delle Scienze Treccani, Roma, 1992; P. SCHMITTER,
Corporativismo/corporatismo, in Enciclopedia delle Scienze Treccani, Roma,
1992.
24
La Rivoluzione francese opera da spartiacque di capitale importanza
nell’evoluzione del pensiero corporativo in quanto, com’è noto, è proprio
l’opera legislativa rivoluzionaria che abolisce, con la legge Le Chapelier del
1791 l’istituzione corporativa. Ma già dagli anni successivi ad essa, nascono
20
principale per la formazione dei corporativismi interbellici. Questa tesi è stata sostenuta, con notevole forza, sia da Lorenzo Ornaghi che da Anthony Black25 che, coprendo diversi ma complementari ambienti culturali e geografici, hanno registrato puntualmente i percorsi di elementi corporativi riscontrabili nel pen26
siero di Hegel, di Proudhon, di Durkheim, di Saint-Simon e di
Otto Von Gierke. A questi, va aggiunto un accenno alla più nota
reazione corporativa proveniente dai circoli cattolici durante la
seconda metà del XIX secolo, per opera principalmente di Emmanuel Von Ketteler, di René de La Tour du Pin e di Giuseppe
Toniolo, che convergerà infine nella Rerum Novarum di Papa Leone XIII del 1891, enciclica sociale con forti elementi corporativi
che sarà un punto di riferimento importante per il futuro di tale
teoria27.
una serie di teorie anti-rivoluzionarie che contrastano la centralizzazione monistica del potere politico nelle mani del governo centrale, rivendicando
l’importanza delle categorie professionali nella gestione della società. Si veda,
ad esempio, il pensiero di Saint-Simon e degli economisti che si richiamavano
ai suoi insegnamenti. Cfr. M. BATTINI, L’ordine della gerarchia. I contributi
reazionari e progressisti alle crisi della democrazia in Francia 1789-1914, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.
25
Cfr. L. ORNAGHI, Stato e corporazione, Giuffré, Milano, 1984; A. BLACK,
Guilds and Civil Society, Metheusen & Co., London, 1984.
26
Saint-Simon risulta molto importante in quanto sembra essere il primo di
quegli intellettuali che si pongono all’incrocio di diverse tendenze – egli fu un
socialista utopico, un cattolico e un ingegnere – realizzando quella convergenza di elementi sociali, religiosi e tecnocratici che si ritroveranno nel corso dello sviluppo del corporativismo in alcune sue formulazioni. Cfr. P.M. PILBEAM,
Saint-Simonians in Nineteenth-Century France. From Free Love to Algeria,
Palgrave Macmillan, London, 2014.
27
Concentrarsi sul corporativismo di marca cattolica risulta estremamente interessante per cogliere come elementi di tale teoria sono ritrovabili in tutta
Europa seguendo proprio i percorsi del cattolicesimo sociale. Cfr. L. CERASI, Il
corporativismo “nomade”. Giuseppe Toniolo tra medievalismo, laburismo cattolico e riforma dello Stato, in “Humanitas”, vol. LXIX, n. 1, gennaio-febbraio
2014, pp. 82-103; A. MURAT, La Tour du Pin en son temps, Via Romana, Versailles, 2008; G. DE ROSA (a cura di), I tempi della Rerum Novarum, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003; J.P. CORRIN, Catholic Intellectuals and the Challenge of Democracy, University of Notre Dame Press, 2002; P. MISNER, Social
Catholicism in Europe: from the onset of industrialization to the First World
119
120
Elementi corporativi, quindi, sono riscontrabili in diverse tendenze politiche, culturali e filosofiche, che trovano il loro punto
di incontro nella critica agli elementi fondativi dello Stato liberale ottocentesco, del quale ne cavalcano la crisi in cui esso precipita alla fine del XIX secolo, e nella rivalutazione dei corpi intermedi della società quali organi necessari per la buona gestione
della medesima. Come afferma Alessio Gagliardi, «la questione
del corporativismo […] si raccorda direttamente al problema centrale della politica moderna: il problema di come conciliare una
pluralità di interessi presenti nella società con la costruzione
dell’unità del comando dello Stato»28. La crisi del monismo statale portava a compimento quel dibattito che analizzava e tentava
di cercare la soluzione alla endemica contrapposizione tra Stato
centrale e interessi socio-economici organizzati presenti
all’interno di esso.
Su tali presupposti storiografici si basano gli studi sul corporativismo prodotti nell’ultimo ventennio, i quali hanno ampliato la
discussione dal punto di vista geografico, cronologico e tematico,
tracciando le metamorfosi del pensiero corporativo in diversi
campi del sapere e in diversi paesi, europei e non europei. La lezione tratta dagli studi degli anni Settanta e Ottanta, a nostro avviso, sembra essere quella della scoperta della molteplicità intrinseca al corporativismo. Persino il corporativismo dei regimi fascisti, che in teoria dovrebbe risultare tendente all’uniformità, si
scopre invece essere formato da impostazioni e proposte anche
molto diverse tra loro, che rispecchiano, tra l’altro, la grande varietà delle componenti ideologiche che contribuirono a formare
l’ideologia fascista.
Proprio sull’idea di molteplicità interna si concentrano i più
recenti contributi sul tema del corporativismo, sottolineando,
come afferma Giampasquale Santomassimo, «che si deve avere il
War, Crossroad, New York, 1991; P. PECORARI (a cura di), Ketteler e Toniolo.
Tipologie del movimento cattolico in Europa, Città Nuova, Roma, 1977; C.
VALLAURI, Le radici del corporativismo, Bulzoni, Roma, 1971.
28
A. GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. IX.
coraggio di prendere il fenomeno sul serio»29 al fine di disvelare
la nube propagandistica, anch’essa tra l’altro importante, per indagarne le reali elaborazioni teoriche. Di tali impostazioni dà
conto il recente e importante volume di Alessio Gagliardi, che
fornisce un’agile sintesi di una materia complessa analizzando le
diverse dimensioni ideologiche e culturali delle varie forme di
corporativismo, da quella di Rocco a quella di Ugo Spirito, passando per Bottai e gli ex sindacalisti rivoluzionari30. Parallelamente agli sviluppi ideologico-politici vi è stato, in Italia e
all’estero, un dibattito giuridico molto vivace sollecitato proprio
dall’incedere e dallo sviluppo dell’esperimento corporativo, che
ha dato vita, come perfettamente descritto da Irene Stolzi, ad una
profonda riflessione tra gli scienziati del diritto che tentavano,
attraverso il corporativismo, di scardinare un’impostazione classica della scienza giuridica, ripensando il ruolo e i contenuti della
31
disciplina .
Ma la ricerca interna ai fascismi ha avuto il suo corrispettivo
in studi che hanno posto il corporativismo in una assai proficua,
e per molti aspetti ancora inesplorata, prospettiva transnazionale,
che tenta di analizzare i percorsi delle teorie corporative inseguendone le varie declinazioni che si andavano a realizzare in
luoghi e tempi diversi. Le aree di ricerca più battute sono state,
fino ad ora, quelle dei regimi fascisti, con studi sull’Italia, sul
29
G. SANTOMASSIMO, La terza via fascista: il mito del corporativismo, Carocci,
Roma, 2006, p. 12.
30
Cfr. A. GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit. Sulla molteplicità interna
al fascismo si segnala anche il seguente importante volume su quella che è stata definita la sinistra fascista: G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un
progetto mancato, il Mulino, Bologna, 2001. Un indizio del successo del corporativismo in Italia si può riscontrare nel dato che il fondatore della Cgil, Rinaldo Rigola, ebbe un’infatuazione corporativa durante gli anni ’30. Cfr. P.
MATTERA, Rinaldo Rigola. Una biografia intellettuale, Ediesse, Roma, 2011; G.
B. FURIOZZI, Il Partito del lavoro. Un progetto laburista nell’Italia giolittiana,
Ed. Nuova Era, Ellera Umbra, 1997.
31
Cfr. I. STOLZI, L’ordine corporativo, cit. Su questo tema si veda anche il volume, ricavato dagli atti di un convegno sul tema organizzato a Berlino nel
2002, A. MAZZACANE, A. SOMMA, M. STOLLEIS (a cura di), Korporativismus in
den Südeuropäischen Diktaturen, cit.
121
122
Portogallo e sulla Francia di Vichy, che rappresentano i luoghi
naturali di fioritura per progetti e idee corporative. Non è impossibile, però, pensare di ampliare ancor di più il raggio d’azione e,
ricollegandosi agli studi degli anni Settanta e Ottanta ricordati in
precedenza, aprire l’analisi distaccandola dall’ideologia e dai regimi fascisti, come dimostrano interessanti studi sull’America
Latina e sull’area francofona32.
Rifiutando l’identificazione integrale del pensiero corporativo
con l’ideologia fascista, alcuni studi hanno tentato di riposizionare il tema in uno spazio geografico più ampio, non solo analizzando le influenze del corporativismo fascista all’estero – che
com’è noto ebbe molta importanza soprattutto negli anni Trenta33 – ma sostenendo che tendenze e proposte corporative fioriscono in tutta Europa e non solo, mimetizzandosi a volte sotto
nomi ed etichette diverse, ma condividendo un’idea di società
organica, coesa, anti-individualista e inter-classista, basata sulle
associazioni di interessi privati, su dei corpi intermedi tra Stato e
società che, come in età medievale, dovevano costituire la struttura cardine dell’intera gestione politica, economica e sociale.
Rientrano così, in un discorso corporativo, le correnti del medievalismo e del gildismo inglese34, nonché le diverse versioni di un
32
Cfr. M. PASETTI (a cura di), Progetti corporativi, cit.; A. COSTA PINTO, F.C.
PALOMANES (a cura di), O Corporativismo em Português, Imprensa da Ciências
Sociais, Lisbona, 2008; D. MUSLIEDAK (a cura di), Les expériences corporatives
dans l’aire latine, Peter Lang, Berna, 2010; O. DARD (a cura di), Le corporatisme dans l’aire francophone au XXème siècle, Peter Lang, Berna, 2011.
33
Cfr. G. PARLATO, Il convegno italo-francese di studi corporativi, Fondazione
Ugo Spirito, Roma, 1990; M. PALLA, Fascismo e Stato corporativo. Un’inchiesta
della diplomazia britannica, Franco Angeli, Milano, 1991; M. VAUDAGNA, Corporativismo e New Deal: integrazione e conflitto sociale negli Stati Uniti 19331941, Rosenberg & Seller, Torino, 1981.
34
I richiami ad una società fondata sulle gilde, il corrispettivo nord-europeo
delle corporazioni medievali d’area mediterranea, sono presenti nel vocabolario politico inglese a partire dagli inizi del XX secolo, raggiungendo il proprio
apice con il pensiero dell’economista e politologo G. D. H. Cole negli anni a
cavallo della Prima guerra mondiale. Un richiamo, però, ad una felice e agricola Inghilterra medievale è costante in molti pensatori sociali inglesi, che ebbero larga influenze sulla teoria su menzionata, come, ad esempio, John Ruskin e William Morris, sicuramente i più influenti in questo senso. Cfr. M.
rinnovamento del capitalismo proposte specialmente a partire
dall’inizio degli anni Trenta per tentare di risolvere la crisi economica in corso35, ed infine, di nuovo, un mondo di provenienza
socialista ma non marxista, come ad esempio il planismo belga36
o il sindacalismo rivoluzionario francese e italiano che, com’è noto, incentrando sempre più il proprio discorso economico
sull’alleanza inter-classista di tutti i produttori si allontanava da
un’impostazione di classe per avvicinarsi sempre più a tematiche
corporative37.
STEARS, Progressives, Pluralists, and the Problem of the State, Oxford University Press, Oxford, 2002; F. MATTHEWS, The Ladder of Becoming: A.R Orage
and A.J. Penty and the Origins of Guild Socialism, in D. E. MARTIN, D. RUBENSTEIN (a cura di), Ideology and the Labour Movement, Croom Held, London,
1979, pp. 147-166; E.P. THOMPSON, William Morris. Romantic to Revolutionary,
Merlin Press, London, 1977; A.W. WRIGHT, G. D. H. Cole and Socialist Democracy, Clarendon Press, Oxford, 1971; R. WILLIAMS, Cultura e rivoluzione industriale. Inghilterra 1780-1950, Einaudi, Torino, 1968.
35
Cfr. S. MAIER, Alla ricerca della stabilità, il Mulino, Bologna, 2003; D. RITSCHEL, The Politics of Planning. The Debate on Economic Planning in Britain
in the 1930s, Clarendon Press, Oxford, 1997; L.P. CARPENTER, Corporatism in
Britain, 1930-45, in “Journal of Contemporary History”, vol. 11, n. 1, gennaio
1976, pp. 3-25. Si veda, sulla complementarietà tra corporativismo e taylorismo, sulle loro somiglianze e compenetrazioni, il giudizio di Antonio Gramsci
in A. GAGLIARDI, Il problema del corporativismo nel dibattito europeo e nei
Quaderni, in F. GIASI (a cura di), Gramsci nel suo tempo, Carocci, Roma, 2008,
pp. 631-656. Persino Keynes non fu immune ad una certa fascinazione corporativa, esplicitata nel famoso saggio del 1926 La fine del «laissez-faire», nel
quale egli afferma: «Io credo che in molti casi la dimensione ideale dell’unità
organizzativa e di controllo stia fra l’individuo e lo Stato moderno. Avanzo
quindi l’ipotesi che il progresso consista nello sviluppo e nel riconoscimento di
organismi semiautonomi all’interno dello Stato: organismi il cui criterio
d’azione, nel loro ambito specifico, sia esclusivamente il bene pubblico, come
da loro inteso, e dalle cui decisioni siano esclusi motivi di interesse privato,
benché possa risultare necessario lasciare un certo spazio agli interessi specifici di particolari gruppi, classi o professioni». J. M. KEYNES, La fine del «laissezfaire», in ID., Esortazioni e profezie, Il Saggiatore, Milano, 2011, p. 241.
36
Cfr. A. AGOSTI (a cura di), Esperienze e problemi del movimento socialista
fra le due guerre mondiali, “Quaderni della Fondazione Feltrinelli”, n. 34,
Franco Angeli, Milano, 1987.
37
Si pensi ai percorsi politici di personaggi come Sergio Panunzio, Agostino
Lanzillo e Hubert Lagardelle in Francia.
123
124
Seguendo, quindi, gli spunti forniti dalla più recente letteratura sul tema, sembra più proficuo raffigurare il tema dei corporativismi europei – di destra e di sinistra, conservatori e progressisti, fascisti e non fascisti – come una policentrica e asimmetrica
famiglia di somiglianze corporative, un’ideologia-network, un
arcipelago composito fatto di scambi reciproci, declinazioni particolari, variazioni sul tema e creazioni autonome. Si potrebbe,
quindi, ripartire dalla felice intuizione di Gianfranco Miglio, il
quale, già nel 1976, affermava che «a proposito del fenomeno
corporativo sta forse capitando qualcosa di simile a quanto accadeva ai cartografi durante l’epoca delle scoperte geografiche: passava del tempo prima che ci si accorgesse che brevi tratti di costa
esplorati, e lontanissimi fra loro, facevano parte di una sola
grande isola, o addirittura di un continente unitario»38, suggerendo così la necessità di connettere e incrociare esperienze teoriche anche apparentemente molto distanti fra loro al fine di poter ottenere una più completa visione d’insieme del fenomeno
corporativo.
Abstract
Corporatism has had, in recent decades, altering historiographic fortunes. Interpreted, in the years following the Second World War, as a
mere socio-economic appendage of Fascist ideology, the concept has
been further explored especially since in the seventies, revealing a great
variety of versions and interpretations, as well as an individual, extremely rich, deep and multifaceted story. The main aim of this article
is to present a summary of the most important currents of historical
and political studies on corporatism, focusing on those works that have
tried to broaden the analysis beyond the boundaries of Fascist ideology,
placing the concept in an international perspective and studying connections, cultural exchanges, similarities and differences between the
various corporate projects developed in Europe and the world between
the nineteenth and twentieth centuries.
38
G. MIGLIO, Le trasformazioni dell’attuale sistema economico, in “Rivista italiana di scienza politica”, n. 6, 1976, pp. 234-235.
125
Il romanzo storico del III millennio:
se il revisionismo diventa epica
dell’equivicinanza
di SIMONETTA BARTOLINI
Orientarsi nell’ormai sterminato territorio del romanzo storico
del nuovo secolo, seguendo i criteri di una mappatura omnicomprensiva, si rivela un’impresa titanica, basti, per farsi un’idea del
fenomeno, un dato empirico ricavato dal sito di vendite on line
1
della Mondadori che, alla data del 20 ottobre 2014, offriva 2703
“prodotti in Narrativa di ambientazione storica” riguardanti un
arco di pubblicazione fra il 2011 e il 2014.
Secondo la rilevazione dell’Istat, negli anni 2011 e 2012 in Italia sono state pubblicate quasi 59mila opere, circa 5000 in meno
rispetto al biennio precedente, un indice al ribasso che fa pensare
ad un ulteriore possibile diminuzione del numero di pubblicazioni nel biennio 2013-2014, complice anche la crisi economica che
ha drasticamente imposto una contrazione di consumi in tutti i
settori, per l’editoria si parla di un 20% in meno di fatturato2. In
1
www.inmondadori.it/libri/italiani/Narrativa-d-ambientazionestorica/sgnG04Z/113/sgn=G04Z.
2
http://www.istat.it/it/archivio/lettura.
126
questo panorama quei 2703 prodotti di narrativa storica risultano
essere un numero importante3 se si considera che ci stiamo riferendo ad un genere nell’ambito di una categoria di prodotto editoriale, il romanzo, che a sua volta rappresenta una frazione
dell’intera produzione. Si aggiunga a ciò che la cifra, indicata dal
sito di vendita online della Mondadori, rappresenta a sua volta solo un segmento del prodotto editoriale indicato.
Questi numeri, pur nella loro parzialità, ci dicono quanto il
“romanzo di ambientazione storica” goda di buona fortuna presso il pubblico e di conseguenza quanti scrittori si cimentino in un
genere che assicura una discreta ricezione da parte del mercato
4
editoriale, ma anche quanto sia difficile individuare uno statuto
che aiuti ad orientarsi in questa ipertrofica produzione letteraria
che, come ben indica la definizione del sito mondadoriano, raccoglie indiscriminatamente tutto ciò che può essere classificato
come romanzo di ambientazione storica.
All’interno di questa macrocategoria le distinzioni in sottogeneri sarebbero numerose: dal giallo alla biografia romanzata, dalla rievocazione di avvenimenti storici finalizzata ad una riscrittura epica del passato, alla ricostruzione romanzata di fatti che nella storiografia hanno subito un trattamento contestato.
All’interno di ciascuno di essi si dovrebbero evidenziare ulteriori
distinzioni secondo una classificazione cronologica esemplata
sulla suddivisione per grandi periodi storici: la storia egizia (il cui
modello è il celeberrimo Sinuhe l’egiziano del finlandese Mika
3
Seppure si tratti di una produzione considerevole, vale la pena segnalare che,
nello stesso sito, la categoria “Gialli Noir Avventura”, alla stessa data, registrava un’offerta pari a 17.117 titoli, dei quali 688 alla voce “Gialli storici”, fra
questi ultimi vengono compresi fra i titoli più recenti: G. DE CATALDO,
Nell’Ombra e nella Luce, Einaudi, Torino, 2014; A. CAMILLERI, La scomparsa di
Patò, Mondadori, Milano, 2000, 2014; C. LUCARELLI, Albergo Italia, Einaudi,
Torino, 2014; i romanzi di M. di Giovanni che al giallo storico ha dedicato
gran parte della sua produzione romanzesca.
4
Sullo statuto del romanzo storico e la sua evoluzione dall’’800 a oggi si veda
lo studio di M. GANERI, Il romanzo storico in Italia. Il dibattito critico dalle origini al postmoderno, Pietro Manni, Lecce, 1999.
Waltari5 i cui fasti sono stati replicati ultimamente dai romanzi
di Christian Jacq dedicati in gran parte alla figura del faraone
Ramses II), la storia antica greca e romana, Valerio Massimo
Manfredi è in questo ambito uno degli scrittori più ammirati e
seguiti insieme a Guido Cervo. Il medioevo viene rappresentato
esemplarmente dal capolavoro di Umberto Eco, Il nome della Rosa (1980), che apre una nuova stagione del romanzo storico diventando rapidamente un modello di grande fortuna6, cui farà
seguito la serie di romanzi ambientati nel medioevo inglese di
Ken Follet, I pilastri della terra (1989), e Mondo senza fine, (2007),
entrambi trasposti in miniserie per la televisione. Per quanto riguarda il rinascimento, il dopoguerra ha visto in Maria Bellonci,
con Lucrezia Borgia (1939), e Anna Banti, con Artemisia, le iniziatrici del genere biografico che Melania Mazzucco ha rinverdito recentemente con La lunga attesa dell’angelo (2008) dedicato
alla vita di Tintoretto e al suo rapporto con la figlia Marietta.
Avvicinandosi all’età moderna vale la pena di segnalare per il
’600 La chimera di Sebastiano Vassalli (1990), controcanto contemporaneo laico ai Promessi sposi manzoniani, e, dello stesso
autore, Marco e Mattio (1992) ambientato alla fine del ’700.
Per quanto riguarda l’ambientazione ottocentesca il panorama
si fa più ricco di titoli esemplari – dal Gattopardo (1958) di Tomasi di Lampedusa a Una storia romantica (2007) di Antonio
7
Scurati – che esplodono per numero e varietà con il ’900 e so5
Pubblicato per la prima volta nel 1945, nel 1954 ne fu fatta una trasposizione
cinematografica di grande successo che trasformò il romanzo in un long seller.
6
Anche per il romanzo di Eco la grande fortuna di pubblico (oltre che di critica) viene testimoniata dalla trasposizione cinematografica (1986) del testo con
un interprete di eccezione come Sean Connery nei panni di Guglielmo da Baskerville, per la regia di Jean-Jacques Annaud.
7
Fra i vari titoli abbiamo scelto di citare esemplarmente quelli di Tomasi di
Lampedusa e di Scurati non solo perché si costituiscono in qualche modo come poli cronologici entro i quali si collocano romanzi di ambientazione ottocentesca, ma anche perché, per motivi diversi, al loro apparire hanno sollecitato un non trascurabile dibattito proprio sul genere da essi rappresentato. Si
ricorderà la celebre bocciatura che Vittorini fece del libro di Tomasi di Lampedusa – inviatogli dall’autore, per la collana i Gettoni di Einaudi – fondata
sulla inattualità del romanzo storico negli anni del secondo dopoguerra che, a
127
128
prattutto in riferimento al ventennio fascista e alla II guerra
mondiale .
In questo panorama, variegato e complesso, ci limiteremo a
cercare di fare il punto su un particolare segmento del romanzo
storico ambientato nella prima metà del ’9008, che potremo indisuo giudizio, ne impediva la riproposizione in quanto genere ritenuto una
laudatio temporis acti, sostanzialmente improntato al nostalgismo e ad una
visione pessimistica contrastante con l’idea (teorizzata nel “Politecnico”) di
una letteratura neorealista, finalizzata a rappresentare una spinta ottimistica
di ricostruzione del soggetto-uomo e della società (a proposito della sfortuna
critica del Gattopardo si vedano le pagine di F. ORLANDO, L’intimità e la storia, Einaudi, Torino, 1998). Il romanzo di Scurati invece, al suo apparire, suscitò
una riflessione sulla vitalità del romanzo storico nel XXI secolo, sul concetto di postmodernità, e soprattutto provocò, da parte di G. GENNA, a sua volta autore di Hitler
(Mondadori, Milano, 2008), un tentativo di “risistematizzazione” del genere nella
contemporaneità assai prossima all’ipotesi di uno statuto (si veda in particolare F.
CORDELLI, Il nuovo romanzo di Scurati. Troppo perfetto per essere bello, in «Corriere
della sera», 30 settembre 2007 e G. GENNA, Considerazioni sul romanzo storico italiano di oggi: Una storia romantica di Antonio Scurati, 10 ottobre 2007, in
http://www.carmillaonline.com/2007/10/10/considerazioni-sul-romanzo-sto/).
8
La produzione di romanzi storici nel ’900 è concentrata nella seconda metà
del secolo, infatti nella prima metà il genere conosce una crisi significativa,
innanzi tutto per il protagonismo delle avanguardie cui fa da controcanto reattivo il rinnovato classicismo formale negli anni ’20, in entrambi i casi viene
messo in discussione il romanzo considerato genere dell’artificio manipolatore
dell’espressione dell’autenticità dell’esistenza, la letteratura preferisce percorrere la strada della prosa d’arte (V. CARDARELLI, Prologo in tre parti, in “La
Ronda”, n°1, aprile 1919, M. BIONDI, «La Ronda» e il rondismo, in Storia letteraria d’Italia, Vol. XI/ 2, Il Novecento, tomo II, a cura di G. LUTI, Vallardi Piccinin Nuova Libraria, Padova, 1993, pp. 657-698); in secondo luogo la straordinaria fioritura di memorialistica di guerra negli anni ’18-’40 (nelle sue varie
declinazioni – diari, taccuini, ricordi – compresa quella, almeno in parte, romanzesca per quanto di rilevanza numerica assai lieve) conseguente al primo
conflitto mondiale, adempie de facto anche alla residua voglia di narrativa storica tradizionale saturando l’offerta in tal senso (E. BRICCHETTO, La grande
guerra degli intellettuali, in Atlante della letteratura italiana, a cura di S.
LUZZATO e G. PEDULLÀ, III volume, Einaudi, Torino, 2012, pp. 477-489. La Bricchetto pubblica un saggio assai discutibile quanto a credibilità scientifica per i
numerosi errori ivi contenuti: individua in Papini e Prezzolini i fondatori di “Lacerba” che invece venne fondata notoriamente da Papini e Soffici, quest’ultimo
viene continuamente confuso con Prezzolini e a malapena citato fra gli intellettuali presenti al fronte, i suoi fondamentali libri di memorialistica non compaio-
care come romanzo “revisionista” mutuando l’analoga discussa
definizione attribuita ad una parte della storiografia contemporanea. In attesa di una mappatura completa dei titoli ascrivibili a
questa porzione di produzione editoriale – caratterizzata
dall’essere in controtendenza rispetto alla magna pars delle pubblicazioni di narrativa di argomento storico riguardante la prima
parte del XIX secolo più o meno fino al ’48, che solo recentemente ha conosciuto una diffusione e conseguente interesse da parte
della critica e dunque del grande pubblico – ci limiteremo a focalizzare l’attenzione su alcuni dei titoli più significativi in tal senso pubblicati nell’ultimo decennio9. Lo statuto del romanzo storico ha subito nel tempo significative modificazioni, sia nel senso di
una progressiva stabilizzazione normativa introdotta dalle Postille
al Nome della Rosa di Umberto Eco, cui corrisponde anche una significativa fioritura di manuali di scrittura creativa specificatamente riguardanti il romanzo storico, sia in quello della definizione di una poetica ad esso legata nonché al valore allegorico della
materia messa in scena10.
Nelle Postille al Nome della Rosa Eco, illustrando al lettore il processo creativo dal quale era nato il romanzo, non solo scioglieva alcune legittime curiosità come il significato del titolo, ma dichiarava la
necessità un metodo di rigore storico nell’allestimento narrativo («cono nell’elenco del libri pubblicati nel 1919, ciononostante confidiamo che i dati
riguardanti la bibliografia bellica siano esatti, secondo la tabella riportata fra il
1919 e il 1940 furono pubblicati 1488 libri dedicati alla prima guerra mondiale).
9
Una ricognizione completa di tale produzione narrativa dovrà tenere conto
della consistente pubblicazione di moltissimi titoli, sicuramente la gran parte,
presso case editrici piccole, se non addirittura piccolissime, magari a diffusione locale o afferenti idealmente all’area politica di una destra ex missina spesso nate espressamente per dare accoglienza editoriale a chi non ne avrebbe
trovata presso i gruppi maggiori per motivi di opportunità politica. Di conseguenza anche la selezione dei romanzi in base loro qualità letteraria è avvenuta senza alcun dichiarato criterio estetico (per le esigue se non inesistenti forze
redazionali di tali case editrici spesso risultato del generoso sforzo economico
di qualche imprenditore o appassionato) con il risultato che fra questa enorme
messe di titoli semisconosciuti possono trovarsi ottimi esempi di romanzo storico a tutt’oggi confusi con “onesta” paccottiglia di genere.
10
Cfr. M. GANERI, Il romanzo storico in Italia, cit., p.101.
129
130
struire un mondo il più possibile ammobiliato»11), nonché di coerenza, coesione e credibilità di azione, ambiente e Storia, per cui, per esempio, avendo l’autore deciso che uno degli assassinati sarebbe stato
trovato in un orcio pieno di nel sangue di maiale, la vicenda avrebbe
dovuto svolgersi in una stagione e in un luogo coerenti sia con la macellazione suina nel medioevo, ma anche con la presenza in Italia di
uno dei personaggi storici che appaiono nel romanzo, Michele da Cesena; di conseguenza l’abbazia veniva posta in una località di montagna dove a novembre, essendoci già la neve, e dunque abbastanza
freddo, era credibile la macellazione del maiale12.
Eco, stabilendo nelle Postille le leggi alle quali rispondeva il
complesso meccanismo del romanzo storico, formalizzava i punti
fondamentali del patto narrativo che deve regolare l’opera “mista
di storia e di invenzione”, legando le origini manzoniane con la
postmodernità, e di fatto superando la interpretazione lukàcsiana
caratterizzata da un determinismo storico di impronta marxista,
per giungere a impostare uno statuto di genere che, senza inchiodare il romanzo ad una normativa stringente, ne stabilisse i
confini necessari e le “garanzie” contrattuali nel rapporto con il
lettore («Occorre crearsi delle costrizioni, per potere inventare
liberamente13»), e autorizzava il romanzo storico ad accogliere
11
U. ECO, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 19801, le Postille, dopo essere
state pubblicate sulla rivista “Alfabeta”, dal 1983 furono poste in appendice alle
successive ristampe del romanzo. Qui si cita dall’edizione 1993, p. 513.
12
Vale la pena notare che quanto scrive Umberto Eco nelle Postille a proposito
della necessità e modalità di ammobiliare il mondo fantastico di un romanzo
(«Si può costruire un mondo del tutto irreale, in cui gli asini volano e le principesse vengono risuscitate da un bacio: ma occorre che quel mondo puramente
irrealistico, esista secondo strutture definite in partenza [...]»; p. 514) era già stato materia di analisi e definizione circa quarant’anni prima da J.R.R. TOLKIEN nel
saggio Sulle fiabe (nato come conferenza tenuta l’8 marzo 1939 all’Università di
St. Andrews in memoria di Andrew Lang, fu pubblicato nel volume Essays: Presented to Charles Williams,1947, quindi in Leaf and Niggle,1964, prima edizione
italiana in Albero e foglia, Rusconi, Milano, 1976). Si noti la somiglianza che
suggerisce un debito teorico di Eco nei confronti di Tolkien: «[...] l’inventore di
fiabe si rivela un felice “subcreatore”, il quale costruisce un Mondo Secondario
in cui la mente del fruitore può entrare. All’interno di tale mondo, ciò che egli
riferisce è “vero”, nel senso che concorda con le leggi che vi vigono» (pp. 47-48).
13
U. ECO, Postille a Il nome della rosa, cit. p. 514.
nei propri domini altri generi (per esempio il poliziesco come nel
Nome della Rosa), aprendo la strada a quella “plurigenericità” postmoderna che non di rado ha, a sua volta, lasciato il campo a
contaminazioni “di consumo14” nelle quali il romanzo storico ha
perso la propria perspicuità per trasformarsi in un generico racconto di ambientazione storica, più prossimo a quello che Eco definisce “romanzo di cappa e spada”15. Circa 25 anni dopo le Postille di Eco il dibattito si riaccende con la pubblicazione del romanzo di Antonio Scurati Una storia romantica che tenta la strada della riproposizione di una declinazione rinnovata del modello
rappresentato da Il Nome della rosa. Ovvero un romanzo ambientato nell’800, riccamente tessuto di intertestualità, dichiaratamente costruito con intensi richiami colti, e una scopertissima
metafora (i moti del 1848 per la contestazione del 1968, e il ritorno all’ordine borghese che se segue) che ha fatto parlare Cordelli
di artificio virtuoso, ma non innovativo16. Viceversa Giuseppe
Genna, ha riconosciuto al romanzo di Scurati la presenza di
quell’allegoria metastorica (il ’48 del XVIII secolo non rappresenta solo il ’68 del secolo successivo, ma tutti i periodi caratterizzati
da uno scontro fra potere e cittadino17) che gli fa compiere un
passo avanti rispetto alla semplice presenza metaforica (la traslazione di significato avviene parzialmente, solo in alcuni momenti
e non è diffusa né intride di sé tutto il testo) del romanzo di
18
Eco . La discussione teorica intorno alla vitalità del romanzo
14
Utilizziamo questo termine per comodità, ma con la consapevolezza che il
rapporto fra letteratura cosiddetta ”alta” e letteratura ”di consumo” non risponde più ai canoni validi fino a qualche decennio fa, i contorni delle due categorie sono ormai sfumati, i limiti di separazione sbiaditi e non di rado si assiste a contaminazioni virtuose o per contro di natura corruttiva.
15
Ibid., p. 532.
16
F. CORDELLI, Troppo perfetto per essere bello, cit.
17
G. GENNA, Una storia romantica di Antonio Scurati, cit.
18
A proposito dell’interpretazione di Genna occorre rilevare che contraddice –
senza peraltro porsi il problema di una chiarificazione in tal senso, pur continuando a chiamare in causa Eco e il suo romanzo – la definizione di romanzo
storico fatta dell’autore del Nome della rosa, estendendola a quello che Eco definisce invece «romanzo di cappa e spada» caratterizzato, a differenza di quello
storico propriamente detto, dalla libertà di definire la perspicuità psicologica dei
131
132
storico del XXI secolo, come si vede, non prende in considerazione quello che abbiamo definito romanzo storico revisionista; ciò
non significa che alcuni dei romanzi che andremo a segnalare
non abbiamo suscitato ampie polemiche, ma, come si vedrà, esse
sono state di natura ideologica e non teorica. Poiché il focus che
ci siamo prefissi è centrato su un romanzo storico caratterizzato da
una disposizione metodologica (appunto, revisionista) verso la storia, si dovrà tener conto di declinazioni diverse, ovvero di quella
plurigenericità che cataloga varie forme di romanzo.
Diffusosi, per ovvi motivi, dal secondo dopoguerra in poi, il
romanzo storico di taglio autobiografico (primo ad apparire nel
panorama narrativo di questo genere) riguardava le vicende di chi
aveva partecipato alla Repubblica Sociale, ovvero militato dalla
cosiddetta “parte sbagliata”19, e in seguito, a qualche anno di distanza, di chi aveva subito la prigionia in Africa, in India o in America nei campi di concentramento delle forze alleate, scegliendosi il ruolo di non-cooperatore che aveva comportato un prolungarsi della detenzione e condizioni di vita più dure rispetto a quelle di chi aveva scelto di cooperare (il più delle volte si trattava di
accettare il lavoro all’interno dei campi di detenzione). Questi romanzi, mescolavano finzione narrativa e memoria di fatti vissuti
in prima persona, mettevano in scena quella spiegazione delle scelte compiute, la loro necessità, motivazione storica ideologica e sentimentale, che la condizione di sconfitti nell’Italia, fortemente segnata dalle divisioni conseguenti alla guerra civile fra fascisti e
partigiani, non aveva permesso ai loro autori di esprimere, per ristabilire una verità equivocata e proporre un riscatto della memoria. Il primo era stato il famoso romanzo di Giose Rimanelli, Tiro
al piccione (Mondadori, 1953), dal quale nel ’61 fu tratto
l’omonimo film che vide l’esordio alla regia di Giuliano Montal20
do , seguito negli anni successivi da A cercar la bella morte di
personaggi senza ancorarla al tempo storico nel quale essi agiscono come avviene
per esempio nei Tre moschettieri di Dumas (U. ECO, Postille, cit., p. 532).
19
La definizione è da attribuire proprio a Giose Rimanelli; cfr. S. MARTELLI,
Introduzione a Tiro al piccione, Einaudi, Torino, 1991.
20
Assai discussa e discutibile la trasposizione cinematografica del romanzo di
Rimanelli fatta da Montalto; a questo proposito una voce critica è quella di
Carlo Mazzantini (Mondadori, 1986) e da La memoria bruciata, di
Mario Castellacci, (Mondadori, 1998) solo per citare alcuni dei più
noti21. Non mancò però neppure il romanzo storico vero e proprio
come quello di Enrico de Boccard, Donne e mitra, pubblicato nel
1950, forse il primo in assoluto a trattare la guerra civile fra repubblichini e partigiani dal punto di vista degli sconfitti, in un romanzo che non avesse il taglio autobiografico, e più tardi, nel 1947 il
romanzo di Giuseppe Berto, Il cielo è rosso, (scritto nel campo di
concentramento di Hereford in Texas), seguito da Guerra in camicia nera (1955) un diario romanzato che mostra un’ulteriore declinazione di questa narrativa memoriale.
Se questi testi rappresentano le più significative voci del ’900,
gli anni 2000 si inaugurano con un genere che miscela il saggio
con il romanzo. È un giornalista con la passione della storia,
Giampaolo Pansa, a proporre questo genere nel quale la finzione
è affidata alla cornice che funge da pretesto per la narrazione di
quanto l’autore ha ricavato da fonti storiche. Ne I figli dell’aquila
(Sperling & Kupfer, 2002, il primo della serie poi definita ver22
ghianamente “Ciclo dei vinti” ) il narratore dichiara di raccogliere la storia da una testimone diretta: la moglie ormai vedova
di uno dei ragazzi che scelsero con determinata consapevolezza
la “parte sbagliata” e combatterono per la Repubblica di Salò. Da
Antonio Vitti per la “Rivista di studi italiani” reperibile online
www.rivistadistudiitaliani.com/filecounter2.php?id=104.
21
Sulla memorialistica della Repubblica sociale segnaliamo: S. BARTOLINI, La
memoria rimossa, voci e atmosfere della Rsi, (Macerata, 2003) poi in S. BARTOLINI, L. GANAPINI, A. GIANNULI, G. PARLATO, A.G. RICCI, M. TARCHI, Le fonti
per la storia della RSI, a cura di A.G. Ricci, Marsilio, Venezia, 2005, pp. 53-66;
G. IANNACCONE, L’armata degli adolescenti che pagò il conto della storia. Stili
e caratteri della letteratura di Salò, in Atti del convegno Guerre et violence
dans la littérature contemporaine italienne, Univers. Stendhal-Grenoble, in
“Cahiers d’études italiennes”, n. 3/ 2005, pp. 193-207; M. BERNARDI GUARDI,
Fischia il vento urla la bufera perché portiamo la camicia nera (storie della
parte sbagliata), Pagine editore, Roma, 2007.
22
Seguiranno: Il sangue dei vinti, Sperling & Kupfer, Milano, 2003; Sconosciuto 1945, ivi, 2005; I tre inverni della paura, Milano Rizzoli, 2008; I vinti non
dimenticano, ivi, 2010; La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti, ivi, 2012 e
il dittico Bella ciao (controstoria della Resistenza), ivi, 2014; Eia Eia Alalà
(controstoria del fascismo), ivi, 2014.
133
134
una lunga serie di incontri con l’ormai anziana signora nasce la
narrazione nella quale l’autorevolezza della fonte documentaria
viene attribuita alla voce della interlocutrice-testimone che funge
da garante della verità in quanto protagonista (solo parzialmente
diretta, ma appunto con funzione di testimone) di quanto viene
narrato. Pansa introduce il testo narrativo con un Prologo nel
quale spiega che l’artificio della vecchia signora, che lo convoca
per raccontargli la vera storia dei “figli dell’aquila” avendo maturato fiducia in lui leggendo i suoi libri precedenti, gli era stato
suggerito dalle insistenze di una lettrice che lo aveva esortato a
raccontare come era finito il fascismo dopo averne scritto della
nascita (La notte dei fuochi, 2001), oltre a ciò e ai ringraziamenti
che alludono alle lunghe ricerche documentarie, il libro privo di
note e di bibliografia, quindi di esplicitazione delle fonti, pur non
recando sotto il titolo la definizione romanzo che sancirebbe il
tipo di patto con il lettore, è formalmente a tutti gli effetti un romanzo, per quanto in odore di illegittimità23. E in effetti,
all’uscita del libro, Pansa si guadagna la qualifica di romanziere
piuttosto che quella di storico, anche se quel che lo esclude dalla
categoria della saggistica è “solo” la rinuncia ad ogni citazione di
fonte bibliografica e documentaria (la cornice narrativa è unicamente un pretesto formale) che peraltro molti degli addetti ai lavori hanno individuato nei libri che, nei primi anni ’60, Giorgio
Pisanò aveva scritto raccogliendo una gran quantità di materiale,
24
ma rimanendo in una sostanziale semiclandestinità . Con il saggio storico romanzato di Pansa quella parte di storia fino ad ora
considerata materia incandescente, da trattare con molte cautele,
diventa oggetto di narrazioni più impregiudicate, libere (almeno
in parte) dal condizionamento ideologico, complice anche l’ormai
avvenuto cambio generazionale. Sulla strada di Pansa sicuramente si pone il recente romanzo di Dario Fertilio, L’ultima notte dei
23
Questo tipo di struttura si ripete più o meno sempre uguale in tutti i libri di
Pansa del cosiddetto “ciclo dei vinti”.
24
Si vedano fra gli altri G. PISANÒ, Il vero volto della guerra civile, documentario fotografico, Rusconi, Milano, 1961; Sangue chiama sangue, Pidola, Milano,
1962; La generazione che non si è arresa, ivi, 1964, Storia della guerra civile in
Italia, 1943-45, FPE, Milano, 1965-1966.
fratelli Cervi (Marsilio, 2012) che reca come sottotitolo Un giallo
nel triangolo della morte, anche in questo caso la materia, ultra
incandescente, della tragica uccisione dei sette fratelli comunisti
entrati nel mito di una ideologia che ha piano piano riscritto la
vera storia, può essere trattata solo romanzescamente; il romanzo
diventa così una sorta di maschera dietro la quale nascondere la
ricerca della verità senza scatenare l’ostracismo (che significa silenzio e oblio) dell’accademia o comunque degli storici di professione, uno scudo di formale ambiguità che ha il pregio di raggiungere un pubblico di più vasto di quanto non potrebbe fare un
saggio scientifico, e di lasciare allo scrittore libertà nel muoversi
fra verità ancora contestate25.Con il raggiungimento della maturità di quella generazione nata ben oltre la fine del fascismo,
sembra possibile avviare una rilettura restaurativa della verità di
eventi storici passati troppo frettolosamente in giudicato secondo
i criteri di un sentimento politico-ideologico che aveva caratterizzato l’immediato secondo dopoguerra, trascinandosi a lungo nella storia d’Italia, o riscoprire quanto trattenuto nelle pieghe della
storia ufficiale; in questa ottica si colloca la biografia romanzata
di personaggi rimasti nell’oblio della damnatio memoriae, come
quella scritta da Paolo Buchignani, Il santo maledetto, (Meridiano
Zero, 2014), dedicata a Marcello Gallian. Figura fascinosa di soldato postumo della prima guerra mondiale, dannunziano a Fiume, mussoliniano fedele e rivoluzionario ad oltranza anche
quando tutto era finito, scrittore con l’avanguardia nel sangue,
25
Va segnalato che il romanzo di Fertilio, a differenza di quelli di Pansa, è accompagnato da due saggi storici e da una ricca bibliografia, esso, pur avendo
avuto una buona accoglienza presso la stampa quotidiana, scatenò violente
polemiche quando ricevette il Premio Acqui Storia per il romanzo storico, entrambi (premio e romanzo) furono considerati un oltraggio alla memoria dei
partigiani per le “falsità” che secondo l’Anpi di Prato e poi di Alessandria sarebbero contenute nel libro di Fertilio (M. CERVI, Fratelli Cervi, il mito oscura
la storia, in «il Giornale», 11 settembre 2012; P. GHIGGINI, Fratelli Cervi, il libro
“eretico” di Dario Fertilio vince Acqui Storia. E l’Anpi perde le staffe, «Rep»,
http://www.reggioreport.it/2013/10/fratelli-cervi-vince-il-libro-eretico/, 26 ottobre 2014; C. CAVALLERI, Fratelli Cervi se la fiction dice più della storia, «Avvenire», 3 ottobre 2012; L’ultima notte dei fratelli cervi di Dario Fertilio, «il
Foglio», 20 dicembre 2012).
135
136
rivive sotto mentite spoglie (si chiama Matteo Galati mantenendo le iniziali del personaggio ispiratore) nelle pagine del romanzo
di Buchignani, che sceglie di dare al protagonista un nome di
fantasia, avvertendo però il lettore in esergo al libro, che «Questo
romanzo è liberamente tratto dalla vita e dall’opera di Marcello
Gallian».
Interessante e di grande successo presso il pubblico il romanzo
cripto biografico di Antonio Pennacchi, Canale Mussolini (Mondadori, 2010, premio Strega e premio Acqui) che si propone come
grande epopea epocale. La storia dei coloni veneti portati a bonificare le paludi pontine dal fascismo fondatore di città, del quale
diventano solidi sostenitori, rappresenta in assoluto e nella produzione dell’autore (noto per il romanzo autobiografico Il fasciocomunista, Mondadori, 2003) il modello narrativo dove il postmoderno si sposa con il post-ideologico, dando vita ad un romanzo storico dove il revisionismo non ha funzione di riscatto di
una verità negata, non è lo strumento per sanare il torto del silenzio, il risarcimento dell’oblio, ma piuttosto il tentativo di ritrovare quello spirito epico di equidistanza, o forse meglio di equivicinanza, alle due parti contrapposte di cui si narra, che, come
scrive Simone Weil, fa sì che Omero, nell’Iliade sia acheo quando
descrive Achille e i suoi compagni e troiano quando racconta di
Ettore e del suo popolo26. Simile, almeno negli intenti, l’epopea
generazionale narrata da Pietro Neglie, Ma la divisa di un altro
colore, (Fazi, 2014) e da Gabriele Marconi, Fino alla tua bellezza
(Castelvecchi, 2013) nonché quella famigliare di Paolo Mastrolilli,
Adelfi, (Rizzoli, 2007); in tutti e tre i romanzi la narrazione segue
il filo di vite che, iniziate nella solidarietà (fraterna nel romanzo
di Mastrolilli dove i protagonisti sono due fratelli, e cameratesca
in quelli di Marconi e Neglie che seguono le vite di vecchi commilitoni della prima guerra mondiale), proseguono dividendosi
sui fronti contrapposti di fascismo e antifascismo che hanno segnato il ‘900, a partire (nei romanzi di Neglie e Marconi) dalla
guerra civile spagnola, per finire a quella italiana. La vera novità
di questi romanzi sta, come in quello di Pennacchi, nel tentativo di
26
S. WEIL, La rivelazione greca, Adelphi, Milano, 2014, p. 58.
usare nel romanzo quella medietas storico-ideologica che restituisca il valore autentico al revisionismo sottraendolo alle facili polemiche di parte. In questo senso il romanzo storico assolve magnificamente al compito, anzi forse, proprio in virtù dell’antica qualità epica che si va a recuperare, è l’unico strumento per compiere
quell’opera di pedagogia storica popolare che ne caratterizzò parte
delle origini romantiche27.
Per concludere occorre ricordare la contro-epopea dei romanzi
di Pietrangelo Buttafuoco, in particolare il primo romanzo Le uova del drago (Mondadori, 2006) che al suo apparire scatenò in
egual misura, e in parte anche con eguale partigianeria, adesione
convinta e ripudio assoluto. Buttafuoco compie un’operazione
che ha qualche somiglianza con la contro-epopea degli indiani
d’America dopo l’epica wasp della conquista delle terre di frontiera. Ma nel caso di Buttafuoco la materia, e soprattutto il soggetto della contro-epica, è quel complesso coagulo di nazismo,
fascismo, islamismo che trovò nello scontro con mafia alleata con
gli americani in una Sicilia mai diventata moderna, un terreno
dai contorni ancora fumosi, densi di misteri, leggende, dove
l’antico si fonde continuamente con il moderno, provocando cortocircuiti storici imprevedibili e suggestivi.
La reazione al romanzo non poteva che essere violentissima sia
in difesa che in attacco28, ma quel che veramente è interessante del
sistema narrativo del romanzo storico di Buttafuoco, proseguito in
parte nel successivo Il lupo e la luna, (Bompiani, 2011), è il tentativo
di richiamare i modi, seppure nella declinazione e contaminazione
della contemporaneità, del canto tradizionale, il cuntu che è coralità
popolare e si richiama nei modi alla storia di antiche gesta evocanti
27
M. GANERI, Il romanzo storico in Italia, cit., p. 110.
Ci asteniamo dal dare conto dei vari interventi sul libro di Buttafuoco poiché si tratta per lo più di polemiche che poco hanno a che vedere con la qualità letteraria del romanzo; vale solo la pena di segnalare l’acrimonia violenta,
reazione al limite dell’isterismo, che mal si attaglia ad un critico come Andrea
Cortellessa che sul “Caffé illustrato” del gennaio-febbraio 2006 si lancia in una
energica stroncatura che ha più il sapore di un attacco personale piuttosto che
di una meditata lettura impregiudicata, per quanto legittimamente negativa,
di un romanzo.
28
137
138
le avventure del paladino Orlando iconizzate sui carretti siciliani da
tempo immemorabile, e trasferita nel teatro dei pupi. Cultura antica
sopravvissuta nelle pieghe di una storia dall’evoluzione indubbiamente anomala rispetto al resto d’Italia, che utilizza il dialetto come
strumento di conservazione forzosa, come gergo culturale esclusivo
e in parte escludente (come ogni gergo), per mantenere il contatto
fra letteratura alta e tradizione popolare. Buttafuoco allestisce un
romanzo difficile, che forse non può diventare modello di genere,
che si può amare o esserne respinti, ma che indubitabilmente rappresenta un esperimento intellettuale e letterario non trascurabile,
ma forse neppure ripetibile.
E in effetti l’ultimo romanzo storico dello scrittore catanese
cambia modello, e con I cinque funerali della signora Goering,
(Mondadori 2014) entra sul territorio della metafora i cui soggetti
non sono i personaggi o le loro vicende, ma il culto dei corpi e in
parte dei corpi defunti. Ma questa è veramente un’altra Storia!
Abstract
In the varied and complex scenery of the historical novel, a particular
focus is currently being placed of a particular section, the one set in the
first half of the twentieth century which we could identify with the ‘revisionist’ novel, borrowing the controversial definition given by part of
the current historiography. Pending a complete mapping of the titles
ascribed to these publications characterized by the fact of standing opposed to the greater part of the publications of historical fiction concerning the first part of the nineteenth century more or less up to 1848,
which only recently has met a diffusion and subsequent interest from
critics and then the general public. We will only focus on some of the
most significant titles published in the last decade.
139
Il salvataggio dell’esercito serbo
nel 1915
di MILA MIHAJLOVIC
Introduzione
Il 23 luglio 1914, alle 18.00, a Belgrado, il diplomatico austroungarico barone Giesl von Gieslingen, personalmente consegnò la
nota dell’ultimatum nelle mani di Laza Pacu, ministro delle finanze serbo e incaricato dal governo a trattare con l’Austria. Solo
cinque giorni dopo, la dichiarazione della guerra.
L’Italia allora faceva parte della Triplice Alleanza, con
l’Austria-Ungheria e la Germania. Il trattato della Triplice era
stato rinnovato per la quinta volta con la firma a Vienna del 5 dicembre 1912 e sarebbe scaduto nel 1920, con una opzione fino
all’8 giugno 1926. La parte più importante del Trattato era costituita dall’articolo 7. Esso imponeva il mantenimento dello statu
quo nei Balcani, nelle coste adriatiche e nel Mar Egeo; se ciò però
fosse diventato impossibile – se cioè, anche in conseguenza
dell’azione di una terza Potenza, l’Austria-Ungheria o l’Italia si
fossero trovati nella necessità di modificarlo con un’occupazione
temporanea o permanente – questa occupazione non avrebbe avuto luogo che dopo un preventivo accordo fra le due Potenze, fon-
140
dato sul principio del compenso reciproco. Pertanto, a qualunque
vantaggio territoriale o d’altra natura che ciascuna di esse ottenesse in più dello statu quo, sarebbe dovuto corrispondere analogo compenso alla potenza alleata. L’Italia non nascondeva quindi
una certa insofferenza per la politica espansionistica dell’AustriaUngheria, soprattutto in seguito all’annessione austroungarica
della Bosnia Erzegovina, per la quale ci fu un acceso dibattito nel
Parlamento di Roma durato per ben quattro giorni, dal 1° al 4 dicembre 1908.
L’Italia e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale
Un solo giorno dopo l’ultimatum dell’Austria-Ungheria alla Serbia, dunque, il 24 luglio, Antonino Paternò Castello, marchese di
San Giuliano e ministro degli Esteri italiano, prese visione dei
particolari dell’ultimatum e protestò con l’ambasciatore tedesco a
Roma, dichiarando che se fosse scoppiata la guerra austro-serba,
sarebbe derivata da un premeditato atto aggressivo di Vienna.
Contemporaneamente, scrisse al Re, dicendo, tra l’altro: «Siamo
entrambi (con Salandra) convinti che sia difficilissimo, forse impossibile, certo pericoloso trascinare l’Italia a prender parte ad una
eventuale guerra provocata dall’Austria e fatta nell’interesse
dell’Austria». Lo stesso 23 luglio 1914, San Giuliano, scrivendo da
Fiuggi dove si trovava per le sue non buone condizioni di salute, al
Segretario Generale agli Esteri, De Martino, faceva presente che
«Salvo suo diverso avviso parmi che Avarna e Bollati dovrebbero
subito dichiarare che se l’Austria farà occupazione territoriale anche temporanea in Serbia senza il nostro previo consenso, agirà in
Atti Parlamentari, Legislatura XXII, discussioni. Roma, Camera dei Deputati,
libro 32, anno 1908.
G. FERRAIOLI, Politica e diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo. Vita di Antonino di San Giuliano (1852-1914), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007, pp.
815-816.
ASMAE (Archivio Storico Ministero Affari Esteri), DDI (Documenti Diplomatici Italiani), Serie IV, 1908-1914, vol. XII, doc. 470, di San Giuliano al Re, 24
luglio 1914.
violazione dell’articolo settimo e noi perciò facciamo tutte le nostre riserve».
Lo stesso 28 luglio, subito dopo la dichiarazione di guerra austroungarica alla Serbia, la Russia mobilitò le forze armate su tutto il confine occidentale; questo preoccupò la Germania che il 1°
agosto dichiarò guerra alla Russia e due giorni dopo alla Francia.
Il 5 agosto la Gran Bretagna dichiarava guerra alla Germania. A
fine mese, anche il Giappone dichiarava guerra alla Germania.
Richiamandosi all’articolo 4 del Trattato, nel Consiglio dei
ministri italiano del 2 agosto fu decisa la neutralità, comunicata
ufficialmente la mattina successiva.
La posizione italiana non sorprese l’Austria. Due settimane
prima, il 15 luglio, l’ex ambasciatore austriaco a Roma, ora Segretario di Stato agli Esteri, Jagow, aveva scritto a Tschirsky,
l’ambasciatore tedesco a Vienna: «L’opinione pubblica italiana si
è mostrata sin qui tanto serbofila quanto in generale è austrofoba. Non v’è per me dubbio di sorta che in un conflitto austro-serbo
essa si schiererà per la Serbia». Il 3 agosto, l’ambasciatore austriaco a Roma, Merey, informava il ministro Berchtold: «Nel colloquio
che ebbi ieri, il ministro degli Esteri espose nuovamente i motivi
che costringevano l’Italia alla neutralità. Osservò specialmente che
gli enormi sacrifici ed i pericoli di una guerra non avevano per essa alcuna proporzione con gli eventuali vantaggi».
A quell’annuncio, l’Austria reputò molto probabile un attacco
italiano ed il Comando Supremo diede precise direttive al generale Rohr, comandante delle forze del fronte sud-est: «Da molti
indizi si deduce che l’Italia si prepara a realizzare le sue aspirazioni sulle nostre province meridionali, tanto più che tutto il nostro esercito campale è impegnato su altri fronti (...) Quindi, non
si può precisare per ora, quando e come potranno avere luogo le
prime azioni di guerra; tuttavia, deve essere in noi il fermo pro
ASMAE, DDI, Serie IV, 1908-1914, vol. XII, doc. 449, di San Giuliano a De
Martino, 24 luglio 1914.
L. ALBERTINI, Le origini della guerra del 1914, Bocca, Milano, 1942, vol. II, pp.
374-375 e 421.
Ibidem.
141
142
posito di opporsi a questa azione nel modo più risoluto».
La neutralità in Italia ottenne inizialmente consenso unanime,
ma dietro le quinte si preparava un altro scenario. L’ambasciatore
a Mosca, Andrea Carlotti, riferì a San Giuliano che Sazonoff, ministro russo degli esteri, gli aveva confidato un accordo di massima
già raggiunto fra Parigi, Londra e Pietrogrado, per assicurare
all’Italia le condizioni necessarie per la sua supremazia
nell’Adriatico nonché il Trentino. Ciò dava spazio agli avversari
della neutralità, cui primo sostenitore era Sidney Sonnino, nuovo
ministro degli Esteri, insieme al premier Antonio Salandra. Sonnino vedeva un intervento militare dell’Italia ancora prima che la
situazione nei Balcani fosse compromessa.
Nel frattempo, la situazione politica era in continua evoluzione. L’Italia e la Romania firmarono, il 23 settembre 1914, un accordo per abbandonare la neutralità contemporaneamente, a cui
avrebbe fatto seguito un nuovo accordo per aiuto militare reciproco in caso di aggressione austriaca. A fine ottobre, la Turchia
si schierò con la Germania contro l’Intesa, mentre, poco dopo, il
Portogallo si affiancò all’Intesa.
Il Patto di Londra. L’Italia entra in guerra
Nonostante avesse, il 2 agosto 1914, scelto «la neutralità poderosamente armata e pronta ad ogni eventualità» – come dichiarò
Salandra alla Camera – l’Italia non restava inattiva. Fin
dall’autunno del 1914, il ministro degli Esteri Sonnino iniziò le
trattative con entrambe le parti per cercare di ottenere i maggiori
compensi possibili e il 26 aprile 1915, concluse le trattative segrete con l’Intesa mediante la firma del Patto di Londra, con il quale
l’Italia si impegnava a entrare in guerra entro un mese. Inoltre,
l’accordo prevedeva che la Gran Bretagna avrebbe agevolato
Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito, L’esercito italiano nella Grande
Guerra 1915-1916, Roma, 1983, vol. II, pp. 207 ss.
ASMAE, DDI, Serie V, vol. I, doc. 133, Carlotti a di San Giuliano, 1029/50,
dell’8 agosto 1914.
l’intervento italiano con un prestito di almeno 50 milioni di sterline, mentre all’Italia venivano promesse la frontiera del Brennero, Gorizia e Gradisca, l’Istria fino al Quarnaro, la Dalmazia centrale, Valona ed il Dodecaneso, nonché Adalia in Asia Minore.
Il 3 maggio successivo fu dichiarato esaurito il trattato della
Triplice Alleanza, fu avviata la mobilitazione e il 23 maggio fu
dichiarata guerra all’Austria-Ungheria. Nel frattempo, crollava il
fronte russo dei Carpazi, sfondato dall’offensiva del generale tedesco von Mackensen; la Serbia si fermava, dopo aver liberato
Belgrado dagli austroungarici, lasciando al nemico tutto il tempo
per ritirarsi e riorganizzarsi, avanzando, però, con le proprie
truppe verso Durazzo, mentre i Montenegrini ne approfittavano
puntando su Scutari; il corpo franco-britannico era nettamente in
difficoltà contro i Turchi nella penisola di Gallipoli.
La dichiarazione di guerra italiana aveva sorpreso gli ambasciatori italiani a Vienna e a Berlino:
Nella mia lunga carriera – scriveva Giuseppe Avarna, ambasciatore
italiano a Vienna al suo collega ed amico Riccardo Bollati, ambasciatore italiano a Berlino – non ho mai visto condurre la nostra politica estera in modo così bestiale e così poco leale come è stata condotta dacché Sonnino è alla Consulta. (…) Quanto all’idea di denunziare il Trattato all’Austria-Ungheria senza denunziarlo alla Germania, essa è una
di quelle finesse puerili e sciocche che possono venire solo in menti così ristrette come quelle dei nostri attuali governanti.
Tuttavia non era sorpresa più di tanto l’Austria. Appena pochi
giorni prima, il 20 maggio 1915, il Comando Supremo aveva inviato direttive già operative all’Arciduca Eugenio, comandante
delle forze nei Balcani e poi del fronte sud-ovest: «In caso di conflitto con l’Italia, Vostra Altezza, tenendo riunite le forze, avrà il
compito di assestare un colpo decisivo al nemico che avanzerà. A
questo scopo, Vostra Altezza riunirà al più presto nella zona ad
ASMAE, DDI, Serie V, 1914 – 1918, vol. III, doc. 682, Lettera di Avarna a Bollati del 13 maggio 1915. Cfr. anche C. AVARNA DI GUALTIERI (a cura di), Il carteggio Avarna – Bollati. Luglio 1914 – maggio 1915, Quaderni della Rivista
Storica Italiana, Esi, Napoli 1953, p. 92.
143
144
occidente di Agram le truppe a disposizione». Inoltre, mentre
Sonnino dava informazione alle ambasciate italiane della dichiarazioni di guerra all’Austria-Ungheria, lo stesso giorno 24 maggio,
Francesco Giuseppe indirizzò un proclama ai suoi popoli: «Il Re
d’Italia ci ha dichiarato la guerra: un tradimento quale la storia
non conosce fu compiuto dal Re d’Italia contro i suoi due alleati».
Il piano strategico dell’esercito italiano, sotto il comando del
Capo di Stato Maggiore generale Luigi Cadorna, prevedeva di intraprendere un’azione offensiva/difensiva per contenere gli austro-ungarici nel loro saliente incentrato sulla città di Trento e
sull’Adige, concentrando invece lo sforzo offensivo verso est, dove gli italiani potevano contare a loro volta su un saliente che si
proiettava verso l’Austria-Ungheria, poco a ovest del fiume Isonzo. L’obiettivo era la rapida conquista di Gorizia e l’avanzamento
verso Vienna passando per Trieste. Sul fronte italiano furono
ammassati circa mezzo milione di uomini e in un primo tempo
gli italiani erano in posizione nettamente migliore dal nemico.
Le trattative diplomatiche e le sconfitte alleate nel 1915
L’Italia nel preparare la sua offensiva contro l’Austria vedeva
l’urgenza e la necessità di un’azione serba contro l’AustriaUngheria che servisse sopratutto da rallentamento allo spostamento in atto delle truppe austriache dal fronte serbo su quello
italiano. Sottopose alla Serbia un’offensiva da sferrarsi in direzione
di Lubiana in concomitanza dell’attacco italiano sull’Isonzo: piano
accettato ma mai attuato, preoccupandosi, invece, la Serbia più del
confine e del territorio albanese, territorio al quale l’Italia era strategicamente interessata. L’occupazione serba dei territori albanesi
non si arrestava e a Nicola Squitti, ambasciatore italiano in Serbia, che aveva chiesto spiegazioni a Belgrado, venne data la seguente spiegazione:
Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito, L’esercito italiano nella Grande Guerra cit., vol. II bis, doc. 28, pp. 245 ss. Agram è il nome antico di Zagabria.
Jovanovic mi ha detto stamane che truppe serbe hanno occupato Elbassan tanto nell’inseguimento del nemico, quanto per impedire massacri
minacciati dagli albanesi musulmani sulla numerosa popolazione cristiana di quella città. Egli ha soggiunto letteralmente che il Governo
serbo non ha intenzione di occupare Durazzo, ma ha dovuto estendere
la sua azione militare sul territorio albanese per non lasciare il confine
aperto come è stato finora alle incursioni delle bande, organizzate e dirette da austriaci e turchi... Pašić mi ha confermato occupazione serba
di Piscopia e di Podgradez, aggiungendo che prossimamente sarà occupata anche Elbassan, ma senza intenzione di arrivare a Durazzo.
Elbassan non era in una posizione strategica tale da potere
giustificare un’occupazione serba e ciò alimentò i sospetti italiani; oltre tutto, le incursioni elleniche in territorio albanese, segnalate dal console d’Italia a Monastir, creavano ulteriori preoccupazioni: un avanzamento delle incursioni, sia serbe che greche, avrebbe potuto sollecitare l’intervento della Bulgaria, che aveva da
tempo mire espansionistiche sui territori della Macedonia serba
ed era desiderosa di vendicare le sconfitte subite ad opera della
Serbia durante la seconda guerra balcanica. In quella fase del
conflitto, la Bulgaria era ancora indecisa tra i due schieramenti e
l’Italia, con gli alleati, si prodigava in trattative diplomatiche per
attirarla dalla parte dell’Intesa.
L’ambasciatore Imperiali, riferendosi alle dichiarazioni di Pašić ed ai colloqui con i Bulgari, intervenne da Londra spiegando
al ministro alcune sue perplessità e suggerendo che «converrebbe
allo stato attuale informare francamente Belgrado dell’entità degli acquisti territoriali riservati alla Serbia in base al nostro accordo (...) subordinato allo scrupoloso rispetto da parte dei serbi
delle limitazioni da noi imposte in Albania e Dalmazia». Tale
suggerimento, però, non trovò affatto d’accordo Sonnino, il quale
chiarì categoricamente: «Non ritengo opportuno informare Governo serbo dei particolari degli accordi di Londra. Non siamo
disposti a riconoscere acquisti che la Serbia faccia in Albania
ASMAE, DDI, Serie V, 1914 - 1918, vol. IV, doc. 125, Squitti a Sonnino, 690/23,
dell’8 giugno 1915.
ASMAE, DDI, Serie V, 1914 - 1918, vol. IV, doc. 133, Imperiali a Sonnino,
703/230, del 7 giugno 1915.
145
146
senza il nostro consenso».
L’atteggiamento italiano sulle clausole del Patto di Londra irritò i serbi: il governo di Nish, avendo saputo quanto bastava per
alimentare sospetti, fece girare voci che l’esercito serbo non aveva alcuna intenzione di preparare la promessa offensiva in concomitanza con l’azione italiana sull’Isonzo. La situazione subì ulteriori complicazioni quando l’ambasciatore Imperiali riferì al
ministro Sonnino anche alcune voci di origini francese o russa su
un possibile accordo per garantire alla Serbia, in cambio della
Macedonia, la Croazia. L’ambasciatore Carlotti da Mosca confermò l’idea francese, nata per placare la rivendicazione serba sul
Banato rumeno. Alla qual cosa era fortemente contraria l’Italia,
soprattutto per la nascita, in tal modo, di un forte stato serbo vicino al «suo futuro stato dalmata».
Dalla frenetica corrispondenza diplomatica si evince il corso
confuso delle trattative: la Serbia sarebbe stata anche disposta a
cedere la Macedonia, ma in compenso chiedeva la Croazia e il
Banato; ma, contemporaneamente, era evidente che la Romania
sarebbe entrata in guerra con l’Intesa a condizione che ottenesse
il Banato. E gli alleati sapevano bene che la Serbia temeva particolarmente che il Banato potesse finire ad altri.
Alcuni rappresentanti diplomatici dell’Intesa a Sofia, tra cui
l’ambasciatore italiano, accentuavano i dubbi e le perplessità della Bulgaria ad entrare in guerra; essa, unicamente interessata al
possesso effettivo della Macedonia serba – cosa, peraltro, non
gradita alla Russia –, continuava ad ammassare, contro gli ammonimenti dell’Intesa, numerose unità militari lungo la frontiera
con la Serbia. A questo punto, i diplomatici si misero d’accordo
che alla Bulgaria non venisse più data alcuna risposta alle sue richieste, insistendo, invece sulle condizioni alle quali si sarebbe
dovuta attenere in caso di entrata in guerra. All’accordo fece seguito una sollecitazione del 15 luglio, nella quale si chiariva categoricamente alla Bulgaria che gli alleati si attendevano una ces-
ASMAE, DDI, Serie V 1914 - 1918, vol. IV, doc. 269, Sonnino a Imperiali, 547,
dell’8 giugno 1915.
sazione di ogni attività militare lungo le frontiere serbe.
Il ministro Sonnino ricevette, il 29 luglio 1915, dall’ambasciatore
inglese a Roma una nuova comunicazione da presentare alla Serbia,
nella quale si chiedeva ogni possibile cooperazione con la Bulgaria
e il 31 luglio anche il testo della nuova nota da presentare alla Bulgaria. In questa comunicazione, presentata a Sofia il 4 agosto da
Inghilterra, Francia, Russia e Italia, si formulava, da parte del
Capo del Governo inglese Edward Grey, la promessa della cessione alla Bulgaria della parte «incontestata» della Macedonia
serba, già indicata nella carta annessa al trattato serbo-bulgaro
del 1912, a condizione che la Bulgaria, entro il 20 settembre, dichiarasse guerra alla Turchia; gli alleati, pertanto, erano pronti
a «garantire la cessione della Serbia alla Bulgaria di tanta parte
della Macedonia quanta era compresa entro la zona incontestata dal trattato serbo-bulgaro del 1912, non appena avranno portato la guerra a una conclusione vittoriosa».
Si accelerarono i tempi. Gli alleati invitavano sia la Serbia che
la Bulgaria a rispondere al più presto, ma la risposta che ricevettero non era affatto quella desiderata: il 6 settembre 1915, a Pless,
Germania, Austria-Ungheria e Bulgaria firmarono una convenzione militare, alla quale aderì anche la Turchia, con l’impegno
ad agire contro la Serbia entro trenta giorni.
ASMAE, DDI, Serie V, 1914 - 1918, vol. V, doc. 430, Sonnino agli ambasciatori,
719, del 15 luglio 1915.
Idem, doc. 492
Idem, doc. 710.
147
La seconda invasione austro-ungarica della Serbia
148
Dopo gli insuccessi del 1914, le forze austroungariche sul fronte
serbo erano ora passate sotto il comando del generale tedesco
August von Mackensen e l’11° armata tedesca fu ritirata dal fronte orientale per appoggiare il nuovo tentativo di invasione della
Serbia. La situazione in Serbia, già oltremodo dissanguata dalle
due guerre balcaniche (1912-1913) e dalla prima invasione austroungarica, era aggravata anche dal fatto che gli Alleati non
riuscivano a fornirle adeguati aiuti. Nel tentativo di stabilire un
collegamento diretto, il 5 ottobre 1915 truppe anglo-francesi
sbarcarono a Salonicco, in Grecia, paese formalmente neutrale
ma lacerato dai dissidi tra la fazione pro-Germania del re Costantino I e quella pro-Alleati del primo ministro Eleftherios Venizelos. Il giorno successivo, generale von Mackensen diede avvio all’invasione e le forze austro-tedesche attraversarono fiume
Sava, attaccando la Serbia da nord e da ovest, mentre l’11 ottobre, le truppe bulgare l’attaccarono da est.
Il 19 ottobre, con l’inizio delle ostilità della Bulgaria contro la
Serbia, «il Governo italiano, d’ordine di S.M. il Re, dichiara esistere stato di guerra fra l’Italia e Bulgaria». Lo stesso giorno,
Sonnino proponeva a Cadorna una iniziativa balcanica:
«l’invocato nostro concorso nella lotta balcanica, sollecitato dai
nostri alleati, può prendere varie forme: una di queste è quella
che si riferisce ad una progettata spedizione attraverso Albania»
Intanto, Essad pascià Toptani, primo ministro d’Albania, aveva
consegnato al console italiano a Durazzo una relazione con lo
stato delle vie di comunicazioni nell’eventualità di uno sbarco alleato in Albania: «Strade: in tre settimane avranno finite strade
carrozzabili di Durazzo - Cavaia - Pechini - Elbassan e Durazzo Tirana - Elbassan... Alleati se si valessero dell’Albania come seconda strada di congiungimento con la Serbia, Essad, cessata la
neutralità albanese, offrirebbe il concorso di 50.000 uomini armati con fucili Mauser sotto il suo comando».
Idem, doc. 3664 del 19 ottobre1915, doc. 933.
ASMAE, DDI, Serie V, 1914-1918, vol. V, Sonnino a Cadorna, telegramma
Sonnino il 20 ottobre inviò un telegramma a Salandra informandolo che «c’è da aspettarsi che una buona parte dei serbi, non
potendo più resistere ai nemici in Serbia, si rifugino nell’Albania.
Se si dovesse fare qualcosa, bisognerebbe fare presto».
L’esercito serbo, attaccato e quasi circondato da preponderanti
forze austro-tedesche e bulgare, venne progressivamente respinto
verso sud-ovest. Vennero bloccate le truppe francesi che risalivano da Salonicco verso nord per congiungersi con i serbi e, sconfitte, furono obbligate alla ritirata. Le truppe serbe cercarono di
arrestare l’avanzata degli Imperi centrali ma, nelle furiose battaglie tra 10 novembre e il 4 dicembre, dovettero soccombere.
All’inizio del dicembre 1915, i bulgari avevano occupato tutto il
territorio della Macedonia serba, ma non osarono varcare il confine greco. Pochi giorni dopo, l’esercito serbo iniziò la ritirata da
Prizren, in Kossovo, e, attraverso il Montenegro, cercò di farsi
strada nel nord dell’Albania verso il mare. Il 25 novembre fu ufficialmente confermata l’entrata dei serbi nel territorio albanese
e con ciò iniziò la più grande ritirata che la storia europea ricordi, la grandiosa epopea dell’eroismo, del sacrificio e della volontà
di un intero popolo che commosse il mondo.
L’esercito serbo in Albania
In un momento di tensione, di grande confusione e di forti pressioni, il premier Salandra espose a Cadorna la necessità di un esame congiunto da parte del Governo e del Comando Supremo
dell’intera vicenda, specialmente dopo le rinnovate richieste del
ministro Sonnino per l’invio di truppe italiane; il primo ministro
propose almeno l’invio di un piccolo corpo militare, peraltro già
pronto nei porti pugliesi. In quella prospettiva, già il 30 ottobre
una compagnia da sbarco della marina italiana aveva preventivamente occupato lo scoglio di Saseno, all’imboccatura della rada
di Valona. Il generale Cadorna si era sempre opposto, anche o1260/18 del 19 ottobre 1915; idem, Relazione di Essad pascià Toptani, doc. 934.
ASMAE, DDI, Serie V, 1914-1918, vol. IV, Sonnino a Salandra, doc. 945.
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150
stinatamente, alla spedizione a Valona, convinto che le condizioni topografiche della zona non fossero affatto favorevoli per
una efficace copertura con poche forze. Ma, il 13 e il 14 novembre, mentre giungevano le prime informazioni sugli insuccessi
del Corpo di Spedizione alleato in Macedonia contro i bulgari
lungo la valle del Vardar, si incontrarono a Roma Cadorna, Salandra, Sonnino, Zuppeli e Carcano e prevalsero le ragioni di
Sonnino, come scrisse Cadorna: “Dovetti a mia volta accondiscendere all’invio di sufficienti forze in Albania, al precipuo
scopo di proteggere la ritirata dei serbi, ma mi opposi allo intendimento del ministro degli Esteri di fare occupare con 21
battaglioni il triangolo Valona-Durazzo-Elbassan”. Cadorna
riteneva che dall’Albania non si poteva esercitare nessuna influenza sulla guerra europea, per cui le forze colà inviate sarebbero
state perdute ed isolate. Egli continuava a ripetere che il valore
dell’Albania consisteva, per l’Italia, nel possesso della Baia di Valona, la quale, insieme con il porto di Brindisi, permetteva di dominare ogni accesso all’Adriatico.
Così, il 3 dicembre 1915, con la ritirata su Salonicco
dell’esercito del generale Sarrail e con i bulgari oramai a Monastir, sbarcò a Valona il primo scaglione del Corpo speciale italiano in Albania; esso avrebbe dovuto presidiare Valona e Durazzo
e quella minima parte di territorio indispensabile per la loro difesa, offrire il maggiore rifornimento possibile alle truppe serbe e
procedere allo sgombero dei prigionieri austriaci di cui i serbi avessero voluto disfarsi. Già il giorno dopo, la Brigata Savona,
messa sotto il comando del generale Guerrini, iniziò il trasferimento da Valona a Durazzo. Per motivi di sicurezza, il comandante del Corpo di Spedizione, generale Emilio Bertotti, ordinò il
trasferimento per via terra e non per mare.
In quei giorni, i primi gruppi dell’Esercito serbo iniziavano ad
arrivare a Scutari. La situazione nella città era notevolmente confusa e l’ambasciatore serbo a Roma rinnovava la richiesta per
l’invio di truppe italiane. Il 18 novembre, Nikola Pašić aveva di
L. CADORNA, Altre pagine sulla Grande Guerra, Mondadori, Milano, 1925,
pp. 114-115.
nuovo incaricato il ministro serbo a Roma di esprimere a Sonnino la necessità di un aiuto militare italiano, possibilmente effettuando uno sbarco a Santi Quaranta.
Il 4 dicembre si rinnovò la richiesta serba, trasmessa da Squitti
a Sonnino, pregando di inviare in Albania «almeno un solo reggimento, per fermare l’agitazione sobillata dagli agenti austrobulgari», a cui Sonnino chiariva che:
L’Italia non ha assunto alcun obbligo di assicurare trasporti e sbarchi
sulla costa albanese e montenegrina. Abbiamo fatto e faremo tutto il
possibile, dipendentemente alla nostra situazione d’inferiorità strategica sull’Adriatico, ed alle forze che abbiamo disponibili. La Francia ha
ritirato ultimamente 12 cacciatorpediniere che aveva assunto impegno
di aggregare alla nostra flotta e, solo in seguito a nostre energiche pressioni, si appresta a restituircele.
Il 6 dicembre ebbe inizio la seconda Conferenza di Chantilly
tra gli alleati. L’Italia illustrò le operazioni sul fronte italoaustriaco in Albania, dopo di che si dichiarò disponibile a spedire
una divisione per conservare il possesso di Valona e Durazzo e
per aiutare l’esercito serbo in ritirata.
Il 10 dicembre, la Commissione mista, costituita il 23 novembre a Roma e composta dagli addetti navali di Francia, Inghilterra e Russia, dall’addetto militare serbo e dai rappresentanti dei
ministeri della marina e della guerra italiani, approvò la proposta
italiana di accogliere l’intero esercito serbo, oltre ai prigionieri e
ai profughi, a Valona. L’ambasciatore italiano, nell’appoggiare la
richiesta serba di un celere invio di truppe nell’Albania settentrionale, informò il ministero di essersi reso conto che i serbi
contavano quasi esclusivamente sull’aiuto italiano per un immediato e abbondante rifornimento di viveri e di mezzi e per
ASMAE, DDI, Serie V, 1914-1918, vol. IV, doc.119, Pašić a Sonnino del 18 novembre 1915.
ASMAE, DDI, Serie V, 1914-1918, vol. IV, doc. 171, Squitti a Sonnino del 4 dicembre 1915.
ASMAE, DDI, Serie V, 1914-1918, vol. IV, doc. 186, Sonnino agli ambasciatori,
1768, del 9 dicembre 1915.
151
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l’arrivo di forti contingenti militari.
Il 16 dicembre la spedizione italiana in Albania era stata completata con l’arrivo a Valona di circa 20.000 uomini. Una decina
di giorni dopo, l’addetto navale inglese e l’addetto militare serbo,
tornati a Roma dopo una visita in Albania, riferirono che il trasporto dei viveri si svolgeva in modo soddisfacente e che 60.000
soldati serbi, in buone condizioni di salute, erano stati raccolti fra
Medua e Scutari.
Gli alleati stavano concentrando a Brindisi i vettovagliamenti
che sarebbero stati trasferiti via mare in Albania con scarico a
Durazzo ed a San Giovanni di Medua. A fine novembre, sei velieri italiani, carichi di grano ed altre derrate fornite dalla Francia, destinate a soccorrere i serbi, erano stati inseguiti dai sottomarini austriaci che ne avevano silurati tre. Qualche giorno dopo, un altro trasporto italiano saltò in aria per effetto di una mina
nella baia di Valona causando parecchi morti. Ecco come furono
descritte le condizioni e le operazioni portuali che si svolgevano a
San Giovanni di Medua:
Dei 20 trabaccoli di cui si dispone per lo scarico dei piroscafi, due sono
ancora carichi di merce: lo scarico di questi si effettua per mezzo di
un’imbarcazione che accosta ad una specie di pontile, dove i soldati
(serbi e montenegrini) portano a terra un sacco per volta. A terra si accumulano ... merci di ogni genere esposte ad ogni intemperie ed alle offese dei velivoli e delle navi. Se le navi austriache avessero colpito le
botti di petrolio che erano sulla spiaggia, a quest’ora Medua sarebbe in
fiamme. Da terra queste merci partono con carri e buoi per Scutari. Le
attuali cattive condizioni della strada immobilizzano per ore i carri, che
normalmente impiegano tre giorni e che non possono portare più di tre
quintali... In queste condizioni, aggravate dalla mancanza di capace direzione, da continui allarmi e da altre difficoltà, la merce già a Medua
può rimanervi delle settimane.
M. MONATANARI, Italiani e Serbi in Balcania durante la Prima Guerra Mondiale, Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito, Memorie Storiche Militari, Roma, 1983, pp. 207 ss.
L’opera di soccorso dell’esercito italiano
Il 19 dicembre, la colonna italiana sotto il comando del generale
Guerrini raggiunse Durazzo quasi contemporaneamente ai primi
reparti serbi. Nella sua marcia attraverso il fiume Semeni, aveva
risalito l’interminabile colonna dei prigionieri austriaci condotti
dai serbi verso Valona. Il 7 dicembre, un primo gruppo di 1.500
prigionieri stava giungendo a Durazzo. Ma, per timore di insurrezioni popolari contro Essad Pascià, si decise, seguendo
l’orientamento delle autorità locali, di tenere sgombera Durazzo
dai prigionieri, concentrandoli prima a Kavaja e poi avviandoli
a Valona.
I serbi accorrevano in massa a Valona, sapendo che lì già si
trovava il Re Pietro. La situazione a Valona è descritta nel suo diario dall’ufficiale italiano Giuseppe Corni:
Non v’ha dubbio che la presenza di Re Pietro in Valona costituisca un
certo impedimento per l’esecuzione degli ordini impartiti dal nostro
comando. Difficili ad essere eseguiti, per l’impossibilità di imporre
norme tassative di tempo e di luogo alle colonne che giungono d’ogni
lato e giungono naturalmente disorganizzate; la presenza del Re diventa come un centro naturale d’attrazione, ciò che il comando italiano intende ad ogni costo evitare.
I serbi e i loro prigionieri giungevano in uno stato terribile.
Essi offrivano uno spettacolo pauroso e sulla strada rimanevano
morti e moribondi. Di questo informava il Governo il console italiano di Monastir riparato a Valona, Luigi Romano Lodi Fé:
Sulla via di Valona si profila una massa nera. È una lunga colonna di
prigionieri austriaci. Arriva lentamente, scortata dai nostri bersaglieri.
Procedono a gruppi, sorreggendosi. Non sono più uomini, sono spettri
vaganti, dagli occhi pieni di follia e di morte. Formano gruppi strani.
Cinque e sei di essi camminano appoggiandosi ad una pertica che due,
meno sfiniti, reggono all’estremità: ma di tanto in tanto, qualcuno abbandona l’appoggio e si lascia cadere per non rialzarsi più. Un altro
prende il posto del caduto, appoggiandosi a quella pertica dell’agonia.
G. CORNI, Riflessi e visioni della grande guerra in Albania: diario di un ufficiale, Alpes, Milano, 1928, alla data del 21 dicembre 1915.
153
Quelli che vengono dietro si spostano per non inciampare nel caduto e
proseguono indifferenti, tentando, ma invano, di affrettare il passo per
arrivare più presto al mare, al luogo di sosta per l’imbarco, che già vedono. Ma la maggior parte di essi è giunta a Valona per morirvi, perché
nonostante ogni miglior volontà, lo zelo dei soldati, l’affannarsi dei
medici, le condizioni dei prigionieri sono tali da non poter bastare a
salvarli gli approvvigionamenti di cui disponiamo. La galletta, la carne
in conserva sono cibi immangiabili e indigeribili per quegli stomaci siffatti dal lungo digiuno e dalle malattie. Ma dove trovare latte e brodo
per tutta questa gente? Sono sporchi oltre ogni immaginazione. Hanno
i piedi nudi, deformati, sanguinolenti. Portano in capo avanzi di fez incolori, pezzi di tela da sacchi; indossano pastrani laceri e nulla più...
Sembra ormai certo che i serbi giunti o che stanno per giungere a San
Giovanni di Medua non potranno provvedere alle operazioni di imbarco
dei loro prigionieri e perciò essi dovranno ripiegare su Durazzo; ma anche a Durazzo esistono le stesse difficoltà, per cui 40.000 di essi dovranno
continuare sino a Valona la triste Via Crucis.
154
Si succedettero altre colonne. Di fronte a un quadro così orrendo, il provvedimento, già preso, di allestire ad Arta un campo
di isolamento si palesò insufficiente. Non rimaneva che un imbarco immediato per prevenire le epidemie: ma ciò non riuscì ad
evitare l’insorgere del colera su alcuni piroscafi, il che, tra l’altro,
provocò una minore disponibilità di navi, dovendo ognuna di esse essere sottoposta a disinfezione e quarantena prima del reimpiego. Il 16 dicembre erano partiti da Valona i primi prigionieri
diretti alla stazione sanitaria dell’Asinara in Sardegna. Il 27 dicembre erano stati evacuati circa 19.000 prigionieri. Gli ultimi
5.000 furono trasferiti nel gennaio 1916.
Ecco ora la descrizione dell’Esercito serbo fatta dal testimone
Paolo Giordani:
Erano a centinaia, a migliaia, a decine di migliaia i soldati e i profughi,
i prigionieri e le donne, tutt’insieme confusi in un fantastico mondezzaio di cenciame brulicante d’insetti e di scheletri viventi, irrigiditi dai
crampi dello stomaco vuoto, tutt’insieme attanagliati dal morso della
sete e del digiuno, vittime dell’ultima battaglia, la più aspra, combattuta per cento giorni e cento notti a denti stretti contro la propria carne
ASMAE, Serie II, Personale, M 24, Luigi Romano Lodi Fé a Sonnino, 16 dicembre 1915.
dolorante di tutti i dolori, contro il pantano e la roccia, contro il colera
e la cancrena. Avevano tutti lo stesso volto di fame e di febbre, su cui
gli occhi affondavano la loro vitrea fissità come un ultimo lume e gli
angoli della bocca schiumavano il rigurgito verdastro dell’erba maciullata, e i più, appena riuscivano a toccar la riva, a vedere il mare, si accasciavano in un’immobilità c’era lo spasimo pietrificato, come se quella visione tanto a lungo sognata nella terribile marcia, ora stagnasse
d’un tratto sotto la loro pelle incrostata e tirata sulle ossa, l’ultima goccia di sangue.
Ci sono, per le nostre carni mortali, ferite anche più orribili di quelle
che la mitraglia e la lama sanno aprire, come ci sono energie di resistenza che vanno assai oltre la morte delle carni stesse e segnano il
ritmo della vita per giorni e giorni dopo che quelle sono state distrutte.
Uomini che, digiuni da una settimana, camminavano ancora fra sterpi
e acquitrini, arrampicandosi su giogaie impervie, strisciando per sentieri petrosi, coi piedi gonfi e sanguinanti, furono raccolti dai nostri
come morti e non erano morti. Sopravviveva al corpo finito l’avidità
del mare, la volontà della salvezza.
Nessun campo di battaglia certamente avrà mai visto torture così orribili, pene così tremende, né é possibile immaginare nulla di più immondo di più raccapricciante che quell’umanità fradicia di sudiciume,
piagata dal lungo cammino, appestata dalle malattie più schifose, eppure così terribilmente viva in corpi di putredine... Degli eroi che nel dicembre del 1914 avevano ricacciate e distrutte le armate di Potjoreck,
non viveva in quei corpi che l’anima, sdegnosa della viltà della resa e,
dinnanzi allo spettacolo di tante agonie, la tragedia morale di un’intera
nazione che, per sfuggire alla tenaglia dell’invasore, aveva segnato il
cammino della propria salvezza, dai confini della patria al mare, di una
scia di boccheggianti e di cadaveri, sembrava rimpicciolirsi quasi a
riassumersi nella tragedia fisica di ognuno.
Tutta la Serbia agonizzava in ciascuno dei suoi figli, ma in ogni agonia
era l’orgoglio di una razza di prodi i quali al giogo della straniero preferivano la morte.
Il 18 gennaio, un ufficiale italiano visitò il campo militare di
raccolta di Drisit e così annotò nel suo diario:
Vado a Drisit, al campo di concentrazione delle reclute serbe...
Io non trovo parole per descrivere lo spettacolo tristissimo, angoscioso,
che offre quel mucchio di miseria e di spasimi; l’orrore e il senso di pie
STATO MAGGIORE DIFESA, Per l’Esercito serbo. Una storia dimenticata, a cura
di m. Mihajlovic, s. l., s. d., (ma Roma, 2014), pp. 51.
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tà e nello stesso tempo di repulsione, che prende l’anima, e la strazia, e
l’agghiaccia, davanti a questa scena terrificante e inenarrabile. Inenarrabile, altro aggettivo, che sembra vuoto di significato e nonostante è
l’unico vero, è l’unico che, affermando una negazione, dica lo schianto
dell’anima davanti a questa massa umana abbandonata alla morte,
ammucchiata come luridi cenci, all’aria aperta, sotto la brina, a 7 ed 8
gradi sotto zero....
Nessuna costruzione possibile di baraccamenti. Qualche tenda. Eppoi il
carnaio. La paglia umida e infetta marcisce in un putridume asfissiante,
in una poltiglia sudicia...
Sono così giovani, queste reclute serbe! I più sono ragazzi. E piangono. Questi ragazzi, che già mostrarono cuore di forti, ora possono
piangere, sfiniti come sono dal freddo... morsi ancora dalla fame tormentosa.
Manca tutto, qui. È uno strazio sentire la propria impotenza davanti a
tanta sventura. Non c’é da dare a questi poveri cirenei della croce della
Serbia, che un po’ di galletta e un po’ di carne in conserva di Chicago,
inviate dagli inglesi. Ah! Queste scatolette di carne in conserva, come
le ricorderemo con ribrezzo, se un giorno avremo la ventura di tornare
salvi, se non proprio sani, alle nostre case...
E muoiono. In media ne ho visti seppellire duecento al giorno, vittime
di malattie di ogni sorta. Su questi campi di concentramento la dea del
malaugurio rovescia il suo vaso... E pensare che queste reclute, per la
loro età, dovrebbero essere e certamente sono la parte più resistente
dell’esercito in ritirata!
Si seppelliscono un po’ alla buona, anzi, molto alla buona; ma almeno
hanno una fossa e qualche palata di terra sopra, perché i cani randagi e
i lupi non possono rosicchiarne le membra....
156
Nel Natale 1915, i cinque Governi interessati ad assistere
l’armata serba, non riuscivano a coordinare alcunché di buono.
La maggioranza dei serbi si trovava tra Podgorica e Scutari,
un’aliquota fra Podgorica e Ipek, il resto ad Elbassan. Quando le
forze raccolte nella regione di Scutari raggiunsero i 50.000 uomini, Pašić si lamentò per la mancanza di aiuto offerto dall’Italia. I
serbi si erano un po’ illusi sulla possibilità di un immediato e abbondante rifornimento di viveri e mezzi da parte italiana direttamente in Albania. Anche il Re Pietro avrebbe desiderato riorganizzare l’esercito in Albania, ma, alla fine, dovette cedere di
fronte alle minacce degli austriaci e dei bulgari dislocati alla
G. CORNI, Op. cit., alla data del 18 gennaio 1916.
frontiera. Di questo, l’ambasciatore Fasciotti informava il ministro Sonnino: «Pašić comunica di aver 150.000 combattenti che
l’Italia si è rifiutata di ospitare mentre il generale Sarrail non ne
vuole più ricevere per ragioni igieniche e si sarebbe rinunziato a
farli sbarcare a Corfù di fronte alle proteste della Grecia sicché
dovrebbero essere mandati a Bistra. Pašić partecipa anche
dell’Intesa che abbandona Serbia».
Il 31 dicembre, tra San Giovanni di Medua e Durazzo, si era
raccolta una massa di 140.000 mila serbi con 35.000 cavalli e
10.000 capi di bestiame, oltre a più di 100.000 prigionieri e profughi. Continuando l’offensiva, il 4 gennaio l’armata austroungarica attaccò il Montenegro e il 13 entrò in Cettigne. Il Re Nicola, dopo aver chiesto, il quattro, l’armistizio respinto dagli austriaci, si ritirò a Brindisi accompagnato dagli italiani il 20 gennaio. Il Montenegro chiese la resa ed il 23 gennaio l’ultimo convoglio italiano lasciava Medua. Dopo che i serbi avevano proposto alla commissione di Roma di investirsi direttamente
dell’autorità necessaria per dirigere il servizio di assistenza e dopo che fu deliberato di dare al generale britannico Taylor il controllo dei rifornimenti, l’8 gennaio il tenente di vascello Legnani
telegrafava da Medua:
Ammiraglio inglese (Troubridge) dichiara irrazionale imbarco truppe
numerose Medua ed declina ogni responsabilità. Non ha nessun ordine
né da suo Governo, né da Governo serbo. Generale francese Mondesir,
dopo aver dichiarato ammiraglio inglese che Francia provvederà trasporti esercito, non ha provocato alcuna disposizione. Nessuna autorità,
ne francese, né inglese, né serba non sa cosa fare. Tutti cercano disinteressarsi questione. Stando così le cose, solo su Italia grava onere trasporti.
Il 14 gennaio 1916, il Governo italiano aveva ricevuto, attraverso il suo ambasciatore De Bosdari, una nota del Governo
francese nella quale si diceva:
«Governo ellenico, conscio dei suoi obblighi verso Potenze
ASMAE, DDI, Serie V 1914 - 1918, volume V, doc. 321, Fasciotti a Sonnino,
134/8, del 15 gennaio 1916.
M. MONTANARI, Op. cit., pp. 222 ss.
157
158
firmatarie del trattato del 1863 e preoccupato dallo stato sanitario
della popolazione del regno, non potrebbe consentire riorganizzazione a Corfù dell’esercito serbo».
Vista la situazione di stallo e constato che né la Francia né
l’Inghilterra prendevano decisioni sul trasporto dei resti
dell’esercito serbo da Valona a Corfù, anche il ministro della Marina italiano fece presente che non poteva assumersi tale ulteriore onere gravoso nella sua totalità e in tal senso il ministro Sonnino invitava i Governi inglese e francese ad assumere «tra loro
in tempo gli opportuni accordi allo scopo di assicurare il trasporto dei serbi da Valona a Corfù ed il necessario per loro rifornimento».
Anche la Grecia contribuiva a far crescere la confusione, resistendo alla richiesta di accogliere i resti dell’esercito serbo a Corfù,
ufficialmente «per motivi di ordine giuridico e sanitario».
L’evacuazione in Italia
In questo modo, l’intero onere di evacuazione di tutto l’esercito
serbo venne a gravare sull’Italia. L’impresa fu imponente, non
solo per numero di assetti: di navi, personale, mezzi, ma anche
per la destinazione del trasporto. Quasi tutto l’esercito serbo, i loro prigionieri e i profughi furono trasferiti dalle coste albanesi in
Italia, e solo in un secondo momento, dopo alcuni mesi, a Corfù,
Biserta e alle altre destinazioni. Il trasporto si svolgeva attraverso
convogli protetti da navi da guerra.
Le disgraziate condizioni delle spiagge albanesi con fondali
bassi e acque paludose impedivano l’approdo e soprattutto la
lunga permanenza dei grossi piroscafi alla riva; per questo moti
ASMAE, DDI, Serie V, 1914 - 1918, vol. V, doc. 313, nota presentata
all’ambasciatore italiano in Grecia, Alessandro De Bosdari il 14 gennaio 1916.
ASMAE, DDI, Serie V, 1914 - 1918, vol. V, doc. 315, Sonnino agli ambasciatori,
120, del 14 gennaio 1916.
ASMAE, DDI, Serie V, 1914 - 1918, vol. V, doc. 323, De Bosdari a Sonnino,
138/20, del 15 gennaio 1916.
vo si decise di utilizzare mezzi di piccolo tonnellaggio, con un
maggiore numero di viaggi, per imbarcare con maggior sollecitudine a Durazzo, a San Giovanni di Medua e alle foci del Vojussa le truppe e i profughi, che poi a Valona erano trasbordati sui
grandi piroscafi per la traversata dell’Adriatico. L’Italia, così, si
presentò in Adriatico con una flotta di queste piccole unità a vela, a vapore, a motore a scoppio. Fu come una gara di generosità
e di ardimento bandita dalle autorità navali italiane: la struttura
marittima della penisola, militare e civile, rispose all’appello con
fede pari alle difficoltà delle scorte ed i rischi di offese e di sorprese dall’attigua piazza di Cattaro, in mano austriaca. A garantirne la sicurezza, doveva sempre perlustrare il mare un forte nucleo di unità della marina da guerra, anche se il carico da proteggere fosse stato quello di un solo e piccolo “Palatino”, che i romani conoscevano per il traffico sul Tevere di Ripagrande, ma che
pure in quell’occasione portava viveri preziosi per qualche giorno
ancora di resistenza di chi lottava contro un nemico agguerrito e
contro la fame.
La situazione si era aggravata ulteriormente quando la situazione militare impose il ritiro dall’Adriatico delle navi francesi ed
inglesi e a gestire l’evacuazione dei serbi l’Italia rimase completamente sola. Continuò da Valona e Scutari l’esodo dei soldati
serbi e dopo che il 23 gennaio gli austriaci avevano occupato Scutari, il 26 il Consiglio dei Ministri italiano si diceva pronto ad abbandonare Durazzo ma non Valona. Il 9 febbraio si concluse
l’imbarco dei serbi a Durazzo e il ministro Pašić trasmise un
messaggio al Governo italiano:
Ultimato il trasporto dei serbi dall’Albania, esprimo i ringraziamenti
più sinceri del Governo Reale per l’intervento immediato ed efficace
della Regia Marina italiana e per l’opera di tutte le altre autorità, grazie
alle quali, lo sgombero si è potuto effettuare con rapidità e con piena
soddisfazione.
G. GALLI, Fanti d’Italia in Macedonia 1916-1919, Omero Marangoni Editore,
Milano, 1934.
159
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E il Colonnello Mitrovitch, comandante del quartier generale
serbo, volle salutare negli ufficiali e negli equipaggi
dell’incrociatore “Città di Catania” tutta la Marina italiana, a cui si
disse fiero di rendere l’omaggio affettuoso e riconoscente del popolo di Serbia.
Bene è intesa – egli aggiunse – dall’Esercito serbo la vostra opera nobilissima per il trasporto dell’intera armata, compiuto in così breve tempo su mare infido e superando gli ostacoli e difficoltà innumerevoli.
Ora e sempre per quest’opera, vi accompagnino, o marinai d’Italia, la
gratitudine e i voti di tutta la Serbia, che sulle vostre navi oggi rinasce
per affermare il suo sacro diritto all’esistenza contro l’aggressione e
l’oppressione nemica!
Il 23 febbraio, lo sgombero di tutte le truppe serbe a piedi era
ultimato anche a Valona, compreso quello di circa 6.000 montenegrini. Rimaneva la cavalleria serba che raccoglieva 13.500 uomini con un numero leggermente superiore di cavalli. Dalla metà
del dicembre 1915, sulle navi italiane e sotto la scorta della Marina Militare italiana, furono trasportati 260.895 profughi e militari
serbi, con un movimento complessivo di 250 piroscafi. Inoltre, altri 100 piroscafi furono utilizzati per il trasporto di 300.000 quintali di materiale vario necessario alle traversate. Furono tratti in
salvo anche 24.000 prigionieri dell’Esercito serbo, 68 cannoni e
vario materiale bellico. Complessivamente furono necessari 248
viaggi.
Il trasporto di tutto l’esercito serbo, dei prigionieri e dei profughi da Durazzo, Valona e San Giovanni di Medua coinvolse un
movimento colossale di piroscafi di squadriglie di cacciatorpediniere, torpediniere e motoscafi della Marina militare italiana che
si concentrò per tre mesi consecutivi principalmente sulle rotte
dei triangoli Brindisi-Durazzo-Valona e Brindisi-Valona-Corfù.
La dimensione dello sforzo era gigantesco e costituì la prima grande operazione umanitaria durante un conflitto.
Occorre notare che queste cifre riguardarono esclusivamente
il trasporto dei serbi, con comprendendo sia quelle che si riferi
STATO MAGGIORE DIFESA, cit., pp. 99-100.
vano al traffico dei rifornimenti apprestati dalla Marina Italiana
agli eserciti serbo-montenegrini prima della loro ritirata, sia tutte
le altre relative al trasporto di uomini e materiale bellico e logistico per il Corpo d’occupazione italiano in Albania e per la base
navale di Valona, trasporto che fu compiuto contemporaneamente a quello dei serbi, fra gli stessi porti e sulle stesse rotte, senza
mai creare intralci o ritardi nello sgombero delle truppe in ritirata, anzi, integrandolo ed aiutandolo per la maggiore economia
dei mezzi. In questa magnifica operazione della sua Marina,
l’Italia perse diverse migliaia di uomini e tre navi, ma «ad ogni
modo, non un solo soldato serbo è perito in mare».
Conclusioni
Nonostante il fatto che nel salvataggio degli eserciti e della popolazione serba e montenegrina, l’Italia, tra tutti gli alleati, abbia
sostenuto quasi interamente il peso e la responsabilità
dell’operazione, l’impresa della Marina italiana è rimasta quasi
del tutto sconosciuta. Un’impresa che, dal punto di vista strategico, cambiò le sorti della Grande Guerra, al pari di quanto avvenne, nella Seconda Guerra Mondiale tra il 25 maggio e il 3 giugno
1940, con lo sgombero di oltre 300.000 soldati inglesi e francesi da
Dunkerque, nella Francia Settentrionale.
Dopo lunghi anni segnati dalle strenue e massacranti battaglie
di trincea e davanti un’evidente e già ben delineabile disfatta degli Alleati sul fronte meridionale balcanico, l’esercito serbo, compiendo uno sforzo sovrumano, in un fulmineo attacco riuscì a
spezzare il fronte nemico e continuò con un’inarrestabile avanzata, dimostrandosi l’unico tra gli Alleati capace a decidere la vittoria di tutta la Grande Guerra. La vittoria non tardò e si compì
meno di due mesi dopo.
Ma quell’esercito della vittoria, che fece e guidò l’avanzata,
non ci sarebbe stato quel fatidico 15 settembre 1918, se qualche
anno prima, sulle sponde del mare in Albania, non ci fosse stata
Agenzia Stefani, Comunicato del 23 febbraio 1916.
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la Regia Marina a salvarlo, portandolo in Italia.
Allo stesso tempo, questo intervento della Marina italiana fu
una vera e propria “operazione umanitaria” ante litteram, la prima importante, vasta e articolata operazione di aiuto e soccorso
civile e militare di tutti i tempi.
Abstract
In the middle of the winter of 1915/1916 the Serbian Army, in the jaws
of the army of the Central Powers, was forced to retreat followed by
masses of people. On the Albanian coastline of the Adriatic they were
all saved thanks to the magnificent humanitarian-military operation of
the Italian Royal Navy, assisted by French and English ships, and
transferred to the opposite shore of the sea. Of all the Allies, Italy bore
almost the entire burden and responsibility for this undertaking. From
December 12, 1915 to February 29, 1916 the Italian Navy evacuated
from Albania: 260,895 Serbian soldiers and refugees, 24,000 Austrian
soldiers - prisoners of war of the Serbian Army, 10,153 horses, 68 cannons and 300,000 tons of food and supplies. The Serbian government,
military leaders, King Petar I Karadjordjevic and Regent Aleksandar I
were also evacuated with the army. A total of 248 water crossings were
conducted utilizing 350 ships. In the same operation 6,000 Montenegrin
soldiers along with King Nikola I and his family were also evacuated.
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Il documento che si presenta, Comme l’Armée serbe fut sauvée
par la Marine italienne, fu pubblicato nel 1917 dall’Institut Italien
de Paris contemporaneamente al volume di Paolo Giordani, La
Marina italiana nella guerra europea. Per l’esercito serbo, Alfieri
& Lacroix, Milano 1917, voluto dall’Ufficio speciale del ministero
della Marina anche con una edizione in lingua francese. Entrambi i documenti pongono in giusta luce il ruolo della Marina italiana nel salvataggio dell’esercito serbo tra il 1915 e il 1916.
Il volume di Paolo Giordani è stato recentemente riedito dallo
Stato Maggiore della Difesa (Per l’esercito serbo. Una storia dimenticata, a cura di M. Mihajlovic, Roma 2014). Il documento che
qui si presenta, pur essendo edito, fu conservato solo in archivio e
qualche copia finì presso privati. Una di queste, attraverso
l’ufficiale medico Manlio Cace e suo figlio Guido, è giunto a Mila
Mihajlovic che lo ha corredato di uno studio che qui pubblichiamo come introduzione storica al documento e che è stato presentato all’Accademia serba delle scienze e dell’arte di Belgrado nel
novembre 2014.
L’importanza del documento risiede nel fatto che si tratta di
una relazione ufficiale che il Governo inviò nelle capitali europee
per sottolineare il ruolo e l’impegno italiani nella vicenda del salvataggio dell’esercito sebo; vicenda che, già allora, fu travisata,
relegando quella dell’Italia a una presenza essenzialmente tecnica e logistica, mentre in realtà il peso assolutamente maggiore
dell’impresa fu a carico della Marina italiana.
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Il testimone bugiardo.
Il crollo del campanile di Venezia
Il primo grande disastro artistico del Novecento provocò
un’ondata emotiva mondiale, grazie anche alla
diffusione di abili contraffazioni fotografiche
di GUGLIELMO DUCCOLI
Il crollo del campanile veneziano di San Marco, avvenuto alle
9,47 del 14 luglio 1902, presenta molti punti d’interesse sotto il
profilo giornalistico, sociologico e iconologico. La notizia ebbe
enorme impatto sia in Italia sia all’estero, in un’epoca in cui Venezia esercitava ancora appieno il suo fascino romantico. Vi era
dunque lo scalpore per l’arte ferita, e, almeno in Italia, anche
quello per un disastro tutt’altro che imprevedibile. Il collasso della torre era infatti stato annunciato da segnali inequivocabili,
puntualmente denunciati dal proto della basilica marciana Pietro
Saccardo ma ignorati dai responsabili governativi. Essi avrebbero
anzi insistito in alcuni improvvidi lavori che si sarebbero dimostrati fatali e, una volta resisi conto del crollo imminente, non avrebbero fatto nulla per scongiurarlo.
Il campanile era già stato ampiamente restaurato in passato.
Nel 1745, dopo l’ennesimo danno provocato da fulmini, l’ingegner
Bernardino Zendrini lo aveva irrobustito tramite una sorta di ca-
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micia in mattoni agganciata alla struttura medievale con chiavi in
pietra d’Istria. Il paragone fra l’ardito e felice intervento eseguito
al tramonto della Serenissima e la colpevole incuria del regno
d’Italia risultava impietoso. Alcuni quotidiani tedeschi dubitarono
che gli Italiani fossero in grado di riedificare la torre e proposero
che il compito fosse affidato a ingegneri d’oltralpe.
Le polemiche sulle responsabilità del crollo, così come quelle
sulla futura riedificazione, avrebbero riempito le colonne dei
giornali per mesi. Gli scandali, però, non bastano a giustificare
una così vasta e profonda sensazione destata dall’avvenimento.
Essa ha invece a che fare con la diffusione di un gran numero di
falsi fotografici che in poche settimane fecero il giro del mondo
sotto forma di cartoline postali. Le “istantanee” del collasso ritraggono la torre nel momento del crollo e oggi rappresentano
dei veri classici della contraffazione. Alcune rivelano grande abilità, considerando i mezzi tecnici dell’epoca e l’assenza di una
consolidata tradizione falsaria in campo fotografico. Fu proprio
l’innocenza dei tempi, nei quali la fotografia sembrava una prova
indubitabile della realtà storica, a ingannare i giornali e i lettori.
L’esperienza non aveva ancora abituato a diffidare dell’immagine
catturata dal vero, e il clima positivista tendeva a dar credito alle
fotografie più inverosimili. Si pensi che ancora nel 1921 Arthur
Conan Doyle difendeva l’autenticità di lastre che ritraevano fate
e spiritelli, mentre foto ingenue di ectoplasmi costituivano prova
certa di attività spiritiche anche in circoli accademici di alto livello. Ogni fotografia, insomma, era considerata un esito di laboratorio, il risultato di un esperimento scientifico e perciò stesso intrinsecamente veridica.
C’era però chi sapeva distinguere. All’epoca del crollo, il settimanale “Illustrazione italiana”, edito a Milano da Treves, faceva
già da tempo ampio uso della fotografia, che ogni anno rubava
nuovo spazio all’incisione (pur di qualità eccelsa) nell’intento di
offrire un supporto visivo più autorevole e d’avanguardia.
L’attenzione dei Treves verso il progresso tecnologico è attestato
lungo tutto il periodo di gestione, dalla fondazione del 1873 fino
alla cessione a Garzanti del 1939, provocata dalle leggi razziali.
Non solo fotografie, ma anche treni, dirigibili, automobili, aerei,
nuovi sistemi di comunicazione: l’entusiasmo dell’editore per le
nuove frontiere fu sempre sincero e profuso sull’intero spettro
dell’innovazione. È proprio la consuetudine con la testimonianza
fotografica a salvare l’“Illustrazione italiana” dalla trappola dei
falsi del 1902. Invece di pubblicare il momento dello schianto o
riprodurlo in disegno, Treves inviò a Venezia giornalisti e fotografi per ottenere quello che può essere considerato uno dei primissimi fotoreportage d’inchiesta nella storia del giornalismo italiano. L’editore sostenne anche il sindaco di Venezia Filippo
Grimani, che già a poche ore dal disastro stanziava i primi fondi
per la ricostruzione della torre “come era, dove era”. Nel nuovo
secolo, i precetti di John Ruskin ed Eugène Viollet-le-Duc, fautori
della ricostruzione in forma storica, cominciavano a essere messi
in discussione e i progetti per un campanile più moderno non
mancarono. Prevalse tuttavia l’opzione tradizionalista: una torre
pressoché identica all’originale venne inaugurata il 25 aprile
1912, giorno di san Marco. L’emissione di francobolli delle Regie
Poste sottolineava con il motto “come era, dove era” la scelta filologica. Mezzo secolo dopo, in un clima culturale di completa rottura con il passato, Cesare Brandi avrebbe stimmatizzato quella
decisione in Teoria del restauro (1963) in quanto «ripropone il
problema della copia ricollocata al posto dell’originale».
Trascorsi altri cinquant’anni, possiamo oggi constatare appieno l’effetto della decisione: l’ondata emotiva del 1902 è del tutto
obliata; chi osserva il campanile di San Marco lo vede genuinamente cinquecentesco, come se nessun crollo fosse mai avvenuto,
e anche chi ne conosca le vicende fatica a credere che l’edificio
abbia solo un secolo di vita. I falsi fotografici, così, risultano ora
più inverosimili che mai, perché il ricordo del disastro che volevano testimoniare è stato cancellato dalla consuetudine visiva e
dalla forza della ricostruzione filologica.
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Il Canaletto ritrasse l’intervento operato dall’ingegnere camuno Bernardino
Zendrini nel 1745, dopo che un fulmine ebbe gravemente danneggiato la struttura muraria della torre. Il restauro si dimostrò particolarmente ardito, innovativo ed efficace.
173
Una delle più popolari immagini da cartolina che ritraevano l’esatto istante
del crollo fu realizzata dal fotografo Zago. La nuvola di fumo venne creata utilizzando abilmente una doppia esposizione di alberi carichi di neve.
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Un’altra celebre contraffazione del momento del disastro. Tutti i fotomontaggi
mostrano la torre che collassa su se stessa. In effetti i danni agli edifici circostanti furono modesti (a eccezione della perduta loggetta alla base del campanile e un angolo della libreria del Sansovino).
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Apertura del lungo articolo che l’“Illustrazione Italiana” dedicò al crollo del
campanile marciano. L’editore Treves dimostrò particolare attenzione per la
vicenda e non cessò mai di seguirla da vicino lungo tutto il decennio che condusse alla riedificazione della torre nelle esatte forme d’origine.
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Già dal primo articolo dedicato al disastro dall’“Illustrazione Italiana”, si nota
il carattere di vero e proprio fotoreportage. Gli inviati si premurarono di raccogliere notizie sulla storia del campanile, sui precedenti storici dovuti a fulmini e terremoti, sulle cause del collasso, sul problema delle macerie. Più tardi
si sarebbero appassionati alla polemica ricostruttiva, sostenendo la tesi della
riedificazione filologica.
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Oltre a rappresentare un problema, il cumulo di detriti divenne esso stesso un
monumento al disastro e fu ampiamente rappresentato, in Italia e all’estero,
sia da fotografie sia da illustrazioni artistiche. Dopo avere recuperato alcuni
scarsi elementi salvatisi dal crollo (come la campana maggiore, detta “Marangona”), si decise di gettare le macerie a mare presso Punta Sabbioni.
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Le fondamenta del campanile dopo lo sgombero delle macerie e i primi lavori
di consolidamento.
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Lo stato di avanzamento dei lavori nel 1910. La nuova torre comprendeva anche un ascensore.
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Copertina della «Domenica del Corriere» dopo l’inaugurazione del campanile
rinnovato, avvenuta il 25 aprile 1912, giorno di san Marco.
In coincidenza con la fine dei lavori, le Regie Poste dedicarono al campanile
una serie di francobolli in cui spiccava il motto del sindaco veneziano Filippo
Grimani, che aveva guidato la riedificazione in chiave filologica: «Come era,
dove era».
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Alessandra Cavaterra, La rivoluzione culturale di Giovanni Gentile. La nascita dell’Enciclopedia italiana, Cantagalli, Siena, 2014.
Nel 70mo anniversario della morte di Giovanni Gentile numerosi
studi si sono susseguiti nell’indagine della sua produzione intellettuale e delle sue vicende biografiche. Alessandra Cavaterra ci
offre un denso e articolato saggio su quello che costituisce un autentico monumento della cultura italiana, quell’Enciclopedia che
il filosofo e Giovanni Treccani pensarono come un grande progetto nazionale, necessario al prestigio della nuova Italia.
L’Autrice ne ripercorre la genesi e la struttura con uno sguardo
privilegiato, considerata la sua attività di molti anni
nell’Archivio storico dell’Istituto della Enciclopedia italiana. Uno
sguardo capace di metterne a fuoco il carattere di strumento per
una pedagogia nazionale e che quindi quasi per necessità doveva
collocarsi al di sopra dei partiti e dello stesso spirito di parte, come dichiarato nel Manifesto della Enciclopedia italiana inviato ai
potenziali collaboratori. Nell’ambito di una vasta letteratura in
merito, il saggio si caratterizza, come sottolinea Giuseppe Parlato
nella sua introduzione, per superare l’idea che l’opera nasca per
esaltare la cultura di un fascismo divenuto regime in quel 1925
che vede l’inizio del progetto enciclopedico. E non solo perché è
ben difficile immaginare che un’opera di questo livello potesse
essere anche solo pensata nel breve intervallo che intercorre tra il
discorso del 3 gennaio 1925 e la fondazione dell’Istituto il 18 febbraio dello stesso anno, ma soprattutto perché a collaborare
all’opera furono chiamati studiosi di ogni estrazione per conferire alle voci il massimo respiro e la massima rappresentatività.
182
Molti dichiarati antifascisti o comunque afascisti aderirono
all’iniziativa, persino molti di religione israelita – oltre 150 tra
direttori di sezione, redattori, anche donne – che continuarono a
collaborare anche dopo le leggi razziali; e infine molti dei pochi
docenti che non giurarono fedeltà al regime nel 1931 rimasero attivi nell’Enciclopedia. L’Autrice ricostruisce le motivazioni dei
rifiuti e ne mostra la natura più personale che politica, più legata
all’intreccio di amicizie e inimicizie che a ragione ideologiche,
più per polemica nei confronti della riforma gentiliana della
scuola che per rifiuto del fascismo sotto la cui egida comunque
l’opera nasceva. Allo stesso modo le accettazioni degli studiosi
non si caratterizzarono per adesione al regime, ma per il proprio
prestigio e la propria carriera accademica, ma soprattutto, in
molti, per la necessità di compiere un dovere nel collaborare a
quello che si apprestava a diventare, con tutta evidenza, un esame di maturità nazionale. Non a caso i fascisti radicali contestarono l’Enciclopedia per il suo carattere inclusivo, privo delle
stimmate fasciste e ne fecero un “caso” che accompagnò tutta la
realizzazione dell’opera. Inoltre, se il lavoro enciclopedico doveva
riscattare la cultura italiana dall’obbligo umiliante di ricorrere a
testi inglesi, francesi o tedeschi, non mancarono collaboratori
stranieri, ben 517 rappresentativi di ben 39 Stati diversi.
Parallelamente, l’Autrice ricorda come lo stesso Mussolini,
che certo riuscì a tenere a bada le polemiche degli “intransigenti”,
considerasse l’Enciclopedia non un lavoro apologetico, ma un elemento essenziale per la costruzione di una identità nazionale,
per una nazionalizzazione delle masse che passasse attraverso la
nazionalizzazione degli intellettuali. Per questo “perdonò” dissonanze e acconsentì sempre o quasi nel lasciare al direttore scientifico piena libertà in un’azione che mirava a comporre in “concorde discordia” le diverse voci e gli antagonismi. Il vero ostacolo
che Gentile si trovò a dover affrontare e superare fu quello della
Chiesa cattolica che interveniva pesantemente su tutte le voci
“sensibili” e cercava di esercitare un’azione censoria su ogni
lemma che non contenesse e magari valorizzasse le posizioni cattoliche. L’Autrice ricorda come Gentile includesse in un elenco
successivo di collaboratori il cardinale Ehrle, monsignor Carusi,
monsignor Gramatica, padre Agostino Gemelli, padre TacchiVenturi ed altri prelati, religiosi e dignitari della Santa Sede. È
noto, e nel libro viene ricordato, che «L’Osservatorio Romano»
del 27 marzo 1926 rimarcasse che l’inserzione di tali nomi non
fosse stata concordata, lasciando intendere, a chi lo volesse, che
non era autorizzata e che anzi la Chiesa si ponesse in posizione
critica, se non ostile, dinanzi al lavoro enciclopedico. L’attacco
venne portato da un lungo editoriale del quotidiano cattolico milanese «Italia» del 30 marzo 1926 dal titolo Una enciclopedia cattolica, in cui si sosteneva che la presenza di alcuni cattolici tra i
collaboratori dell’Enciclopedia avrebbe dato vita a un’opera eclettica, incoerente e che per questo bisognava pensare alla creazione di un’enciclopedia cattolica piuttosto che collaborare a
un’opera laica. La prospettiva di una simile concorrenza preoccupò Gentile per il rischio di perdere molti collaboratori, ma anche Treccani per il pericolo commerciale che comportava, tanto
che l’editore scrisse al filosofo se non fosse opportuno addirittura
far visita al papa per chiarire l’equivoco. A questa e altre obiezioni, Gentile rispondeva, ricorda l’Autrice, ricorrendo alla distinzione tra politica e tecnica, riportando il lavoro enciclopedico
in quest’ultimo ambito. Si può notare, come già fece Croce, che
per difendere la sua creatura, Gentile introducesse una distinzione che era estranea al suo pensiero, caratterizzato fin dalla fondazione dell’attualismo, da un’unica categoria, logica e insieme
metafisica, quella del pensiero. Ne L’atto del pensare come atto
puro del 1911, ma pubblicato l’anno successivo, si chiarisce che
nulla trascende il pensiero che è assoluta immanenza; il pensiero
nella sua attualità è al di là del tempo, è eternità e come tale determina l’annullamento di ogni molteplicità. Addirittura nel
Sommario di pedagogia come scienza filosofica, che matura negli
anni in cui Gentile lavorava all’Enciclopedia, aveva negato
l’esistenza della tecnica come strumento educativo, per riportarla
all’unità dello spirito dal quale il manuale, il metodo didattico,
l’esercizio, la tecnica appunto, devono scaturire dall’animo
dell’alunno e rifluire in ogni istante nel processo spontaneo della
formazione spirituale. Riportare l’Enciclopedia sotto l’insegna
della tecnica significava nient’altro che negarle il valore pedago-
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gico che essa indubbiamente possedeva nelle intenzioni di tutti
gli attori, interni ed esterni, coinvolti. Certo la distinzione permetteva di superare o tacitare le diatribe, soprattutto con la Chiesa per non dare l’impressione che l’opera si ponesse “contro” la
religione; il che avrebbe determinato il rischio di perdere acquirenti in modo significativo, oltre a tradire la considerazione gentiliana della religione come prezioso strumento formativo per le
giovani generazioni. Non è improbabile, però, che il motivo che
ha condotto il filosofo a sacrificare la coerenza teoretica sia proprio quello di salvare un’operazione di cultura militante al servizio della nuova Italia, in questo davvero coerentemente alla sua
concezione dell’intellettuale che non sta alla finestra, ma sulla
strada. Se lo stare alla finestra consente di assumere un atteggiamento distaccato, contemplativo, puro, essere in strada significa politicizzare le idee, mischiarsi con il popolo, agire e vivere
con passione la cultura, anche se ciò comporta un inevitabile
compromesso con la coerenza astrattamente intellettuale. Si tratta in fondo di una sottolineatura di come l’Enciclopedia possa
davvero considerarsi, per Gentile stesso, l’opera e l’azione culturale più importante e incisiva.
La seconda parte del volume ricostruisce in modo analitico e
sistematico le fasi di lavorazione alle diverse sezioni
dell’Enciclopedia. Sono pagine che ci portano davvero dentro
questa grande fucina, mostrandoci un lavoro di straordinaria intensità, se si pensa che il I volume uscì nel 1929 e poi gli altri 34
con regolare cadenza trimestrale fino alla conclusione nel 1937 e
come già l’anno successivo iniziasse la pubblicazione delle Appendici. Ciò che emerge è un lavoro intensissimo anche per le
difficoltà di stabilire tra le diverse discipline e i singoli lemmi i
necessari confini, di evitare o accettare “contaminazioni”. Si tratta della parte più originale del libro della Cavaterra, che lo distingue dalla pur cospicua letteratura sull’Enciclopedia e che fa
giustizia di un altro luogo comune su Gentile, quello della lettura
esclusivamente umanistica della cultura. Tra le sezioni in cui il
lavoro fu più alacre e dove si segnalarono i nomi più importanti
della cultura scientifica italiana del presente e del successivo avvenire ci sono quelle di scienze aereonautiche, agrarie, astrono-
miche, geologiche, chimiche, medico-chirurgiche, statistiche e finanziarie, fisiche, mineralogiche, climatologiche e geografiche,
oltre a molte altre che stanno a testimoniare, come scrive
l’Autrice, che si «voleva coprire ogni branca del sapere» e non
certo, o non solo, per un’esigenza di completezza per così dire
“architettonica” del lavoro, quanto per l’intento pedagogico e politico di coinvolgimento di tutte le espressioni della cultura e più
in generale dello spirito nazionale italiano. Progetto funzionale
alla rivoluzione che viene richiamata nell’opera del libro e che
consiste, come sottolinea Parlato nell’introduzione, nel dimostrare «che era possibile mettere d’accordo gli italiani su un progetto
culturale, sulla individuazione di un’identità non di sangue ma di
cultura».
All’iniziativa arrise un successo straordinario, sia per pubblico - affascinato dall’elegante veste grafica e dal battage pubblicitario - sia per la capacità di ricostruire quella «complessità organica», come scrive l’Autrice, che sfuggisse all’eclettismo e fosse
polifonia armoniosa delle diverse anime culturali della nazione
che si fondevano in quella della nuova Italia. Il successo arrise
perché, come sempre accade nelle imprese culturali di valore,
seppe cogliere e interpretare l’esigenza sentita di un’opera che
sapesse coniugare divulgazione e scientificità nel quadro di un
grande progetto nazionale.
RODOLFO SIDERI
185
Eugenio Garin - Ugo Spirito, Carteggio 1942-1978, a cura di
Michele Lodone, Edizioni della Normale, Scuola Normale
Superiore Pisa, 2014.
186
Quest’anno ricorre il decennale della morte di Eugenio Garin
(1909-2004), uno dei nostri più autorevoli storici della filosofia e
della cultura dell’Umanesimo e del Rinascimento, molto noto anche a livello internazionale. Una buona occasione per ricordarlo è
questo carteggio con Ugo Spirito (1896-1979), personalità altrettanto importante, ma che è stata sempre incline a sviluppare una
filosofia della storia piuttosto che una storia della filosofia, ossia
a fornire interpretazioni complessive e quasi normative tanto del
passato quanto del proprio presente. Insomma, da una parte uno
storico, dall’altra un filosofo. Ruoli vissuti da entrambi
all’ennesima potenza, fino al limite delle rispettive possibilità di
ricerca. Uno storico puro, un filosofo puro. Ad accomunarli
l’incontro con Giovanni Gentile, sia pure in epoche differenti, ma
anche la provenienza da una giovanile formazione universitaria
di impianto positivistico. Garin era stato allievo a Firenze di Ludovico Limentani (studioso ebreo, allievo di Ardigò e Vailati, e
che sarebbe poi stato allontanato dall’insegnamento nel 1938 a
seguito delle leggi razziali), mentre Spirito si era formato nella
scuola del positivismo giuridico e criminologico del socialista Enrico Ferri a Roma, facoltà di Giurisprudenza.
La comune originaria matrice positivistica avrebbe conferito
un tratto di originalità e una certa dose di impermeabilità rispetto all’onnipervasivo sistema filosofico dell’attualismo, ovvero la
versione gentiliana dell’idealismo neo-hegeliano. Una versione
dal fascino potente, da cui entrambi furono attratti e, sotto alcuni
aspetti, travolti. Spirito compì un viaggio fin dentro il cuore
dell’attualismo tanto da diventare «il più inquieto, ma in un certo
senso, paradossalmente, il più fedele degli allievi di Giovanni
Gentile, sempre insoddisfatto di ogni posizione raggiunta, ma acutamente sensibile, anche se in un suo modo tutto personale, ad
alcune delle esigenze più profonde del pensiero contemporaneo».
Così scriveva lo stesso Garin all’indomani della scomparsa di
Spirito, ereditandone la direzione di quel “Giornale critico della
filosofia italiana” che era stato fondato da Gentile nel 1920 e che,
dopo il suo assassinio, era rinato dalle ceneri della guerra civile
proprio per volontà di quell’allievo insieme inquieto e fedele. Il
“Giornale critico” negli anni Venti e, in parte, anche nei Trenta era
stato la culla e la palestra per molti giovani talenti filosofici che
beneficiarono della sostanziale egemonia culturale esercitata dal
magistero gentiliano, mercé anche l’influente ruolo politico che il
filosofo di Castelvetrano ricoprì almeno nel primo decennio del
ventennio fascista. Nel secondo dopoguerra la rivista radunò invece le sparse e lacerate membra di un ambiente culturale che era
stato alquanto fervido, ma che le vicende belliche e la fine tragica
di Gentile inevitabilmente fecero esplodere.
Questo carteggio ci aiuta, quanto meno, ad intuire l’atmosfera
che si dovette respirare nell’ambiente attualistico post-gentiliano.
Leggendo la corrispondenza tra Garin e Spirito, scorrendo i molti
nomi che compaiono, quasi sempre per motivi legati proprio alla
composizione del “Giornale critico” numero dopo numero, si ha
l’impressione di un mondo che resta in piedi sulla base di alcuni
equivoci, o meglio: su dei non detti, delle reticenze, talora quasi
degli imbarazzi. È probabilmente quel che accadde ad una fetta
assai consistente della cultura storica e filosofica italiana nel passaggio dal fascismo alla Repubblica, che molto doveva, in termini
sia di debito intellettuale sia di carriera accademica e istituzionale, a Giovanni Gentile. Figura quanto mai ingombrante al termine della guerra, e forse, anche per questo, eliminata fisicamente
prima che si instaurasse un nuovo regime politico e si creasse un
nuovo establishment. Ci fu chi, spesso in piena onestà intellettuale, si era mosso anzitempo in direzione del magistero crociano,
un modo per transitare verso un idealismo meno compromesso
con il fascismo e sufficientemente recuperato al liberalismo. Un
liberalismo più volto al passato prefascista, che non accontentò
personaggi come Guido Calogero, ad esempio, che procedettero
oltre, con innesti di socialismo più o meno temperato. Ci fu chi,
invece, compì un vero e proprio balzo, per approdare su altra
sponda, filosofica come politica. Uno storicismo anti-idealistico
che poteva attrarre comunque proprio per quel sostantivo, e su
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cui lavorò molto abilmente il Togliatti che decise il rilancio
dell’opera di Gramsci, riproposta proprio in tale ottica.
Rientra esattamente in questa lungimirante operazione di
strategia politico-culturale la favorevole recensione su “Rinascita” che il segretario del Pci, sotto la consueta firma di Roderigo di
Castiglia, ebbe a scrivere per uno dei più noti lavori di Garin,
Cronache della filosofia italiana, pubblicate da Laterza e vincitrici nel 1955 del prestigioso Premio Viareggio. Lo storico
dell’Università di Firenze ne rimase profondamente colpito e lusingato e da allora più rapido e marcato si fece il suo avvicinamento al Pci, mercé anche un crescente interesse per gli scritti
gramsciani e una comune idea di scuola laica avversa alle politiche della Dc.
Come ha ricordato un suo allievo, Michele Ciliberto, Garin fu
un intellettuale assai vicino al Pci, se non dichiaratamente comunista, che però non fu mai “marxista”, e anche questa peculiarità
dovrebbe essere materia di riflessione per una più attenta storia
della cultura politica italiana del secondo Novecento.
Tenendo conto di queste vicende proprie dell’intera cultura italiana del secondo dopoguerra, si può leggere in filigrana anche
il rapporto di Garin con Spirito. Quest’ultimo fu determinante
per la carriera accademica del primo, come si comprende da una
lettera del 27 febbraio 1949 e da una preziosa nota apposta da
Michele Lodone, attento curatore del carteggio. Spirito fu infatti
nella commissione giudicatrice del concorso per professore straordinario di Storia della filosofia all’Università di Cagliari, vinto
appunto da Garin (gli altri due usciti nella terna finale furono
Enzo Paci e Mario Dal Pra). Chi ha studiato la vita e l’opera di
Spirito sa bene il peso che questi ebbe nella vita accademica della
filosofia italiana del secondo dopoguerra, addirittura fino ai primi anni Settanta. Nel frattempo, però, Garin sviluppò un progressivo distacco dal “Giornale critico”, che si acuì dopo la discussione del ’59 su filosofia e storia della filosofia. Qui emerse
una divergenza di posizioni teoriche che, all’epoca, era anche sinonimo di distanza ideologica. Ad un certo momento, non fosse
stato per il cordiale rapporto con Spirito e il senso di riconoscenza, è probabile che Garin avrebbe completamente chiuso con la
rivista. Questo è il giudizio di Lodone, che però forse non tiene
sufficientemente conto di cosa significava la direzione di Ugo
Spirito. Il pluralismo dei contributi al “Giornale critico” diventò,
anno dopo anno, sempre più ampio e l’atteggiamento del direttore sempre più dialogante con le nuove correnti filosofiche che di
volta in volta giungevano dall’estero. Spirito fu in ciò pienamente coerente con quanto andava sviluppando ormai da anni in
nome del suo “problematicismo” e di quanto ne era ulteriormente
conseguito sul piano della visione tanto della storia universale
quanto delle relazioni umane. A tal proposito è degna di nota la
recensione che Garin fece per la trasmissione radiofonica “Terzo
Programma” al terzo libro della trilogia spiritiana post-(od ultra)
gentiliana: La vita come amore (1953). Emerge una comprensione
acuta e profonda, nonché simpatetica, del momento teoretico
raggiunto da Spirito, appena approdato al suo “onnicentrismo”,
facilmente dialogante sia con posizioni di forte laicismo sia con
posizioni di cattolicesimo che si sarebbe poi detto “progressista”.
C’è una nota stesa da Garin nel 1981, all’indomani della morte
dell’amico e collega Pietro Piovani, professore di Filosofia morale
all’Università di Napoli, avvenuta prematuramente un anno prima, in cui si colgono elementi per comprendere cosa si stava
muovendo nei primissimi anni Cinquanta nell’animo e nella
mente dell’allora quarantenne studioso del Rinascimento. Scriveva Garin, con riferimento alla prima ampia monografia
d’impianto teorico pubblicata da Piovani, Normatività e società
del 1949: «Ricordo che, letto il libro, subito ne stesi per il “Giornale critico” una recensione piena di consensi – che non uscì mai
– sottolineando quelle che mi sembravano le esigenze emergenti
di un nuovo razionalismo etico, ed insistendo a un tempo nella
polemica contro gli esiti irrazionalistici degli epigoni
dell’idealismo, e della loro pretesa “scienza”. Non a caso Ugo Spirito non la pubblicò e preferì un altro recensore». Che fu poi Giuseppe Semerari, come si evince da una lettera inviata da Spirito a
Garin e datata 17 luglio 1950. Da queste parole, pur successive di
oltre trent’anni rispetto ai fatti narrati, emerge abbastanza chiaramente come l’allievo di Limentani stesse sempre più maturando una linea storiografico-filosofica improntata ad uno storici-
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smo anti-idealistico, verso cui anche Piovani, allievo di Giuseppe
Capograssi, stava evidentemente muovendo i primi passi. Detto
ciò, Garin si sarebbe più tardi, all’inizio degli anni Novanta, dedicato alla pubblicazione delle opere filosofiche di Gentile, lavoro
che sempre Ciliberto ha definito «assai importante per comprendere il complicarsi del giudizio di Garin su tutto il Novecento italiano ed europeo», e soprattutto avrebbe ereditato la direzione
del «Giornale critico» dalle mani di Spirito e l’avrebbe mantenuta per un venticinquennio, fino al 2004, anno della sua morte.
DANILO BRESCHI
Alice Martini, «Prigionieri nel nostro mare». Il Mediterraneo, gli Inglesi e la non belligeranza del «Duce» (19391940), Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2013.
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Il panorama degli studi sull’Italia negli anni della Seconda guerra
mondiale si è arricchito recentemente con la pubblicazione del
libro di Alice Martini relativo ai mesi della cosiddetta “non belligeranza” sino all’intervento deciso da Mussolini. Opportunamente però, il punto di partenza del libro è il marzo 1939 quando Hitler, in spregio agli accordi firmati a Monaco soltanto pochi mesi
prima, decise la cancellazione di ciò che restava della Cecoslovacchia dalla carta geografica dell’Europa. Il brusco risveglio europeo, provocato dal “colpo di Praga” del 15 marzo, viene seguito
infatti dall’Autrice tanto nelle capitali occidentali quanto – soprattutto – a Roma dove erroneamente si pensò che il minaccioso
dinamismo del partner dell’Asse potesse essere sfruttato a proprio vantaggio sulla scena internazionale.
Correttamente l’Autrice, però, respingendo le tesi di quanti
ancora indulgono a voler leggere la politica estera fascista unicamente in chiave ideologica o solo in funzione delle sue ambizioni imperiali, sottolinea – sulla scorta della lezione defeliciana
– il carattere eminentemente pragmatico delle scelte diplomatiche del duce ed evidenzia la fondamentale ambiguità dei rapporti
tra i due partner dell’Asse. L’esistenza di quest’ultimo, infatti,
non aveva mai impedito a Mussolini di tentare quella che lo stesso Grandi aveva definito la politica del «doppio passo» compendiantesi nel tenere aperti i contatti con gli occidentali – e Londra
in particolare – nella speranza di ottenere da essi sempre maggiori concessioni sfruttando la minaccia di un rafforzamento della Germania corroborato da una completa, ma sempre ipotetica,
entente tra Roma e Berlino. Come opportunamente sottolineato,
tale politica non venne ripudiata nonostante, proprio dal marzo
del ’39 in poi, i margini di manovra di Palazzo Chigi andassero
restringendosi col progressivo irrigidimento delle posizioni anglofrancesi nei confronti di Hitler. La stessa invasione
dell’Albania fu infatti decisa piuttosto in funzione antitedesca,
192
per frenare l’espansione dell’influenza germanica nei Balcani e
riaffermarvi il predominante ruolo dell’Italia. Con tale spirito il
Patto d’Acciaio fu valutato dunque da Palazzo Venezia come un
ulteriore elemento di pressione verso gli Alleati ma anche quale
clausola di assicurazione contro ulteriori “sorprese” da parte di
Berlino. Gravissimo errore di valutazione, certo, ma che derivava
in sostanza dall’illusione di poter disporre ancora di diverso tempo prima dell’inevitabile scontro tra Germania hitleriana e potenze democratiche e di poter dunque continuare a sfruttare la
situazione di fluidità sulla scena internazionale così creatasi. A
riprova di ciò, i rapporti con l’alleato tedesco furono sempre lasciati intenzionalmente a livello embrionale, senza intavolare con
esso un serio dialogo sulle priorità strategiche in caso di guerra e
senza concordare preventivamente una linea politica comune.
I primi indizi sulle reali intenzioni di Hitler, contenuti nei ripetuti e puntuali rapporti di Attolico, suscitarono pertanto a Roma incredulità e stupore. In queste condizioni non può sorprendere che, una volta chiaro come a Berlino si volesse la guerra,
dopo il colloquio tra Ciano e Ribbentrop a Salisburgo, l’obiettivo
principale della politica mussoliniana fosse costituito dalla ricerca di una soluzione di compromesso che evitasse il conflitto sino
agli ultimi minuti prima dello scoppio delle ostilità. Contrariamente a quanto consolidatosi in alcune correnti storiografiche,
infatti, dal volume emergono nuove conferme di quanto la ricerca di un compromesso sulla questione polacca che evitasse il ricorso alle armi sia stata molto più di una scelta di facciata imposta solo dal precario stato della preparazione militare italiana. La
decisione della non belligeranza, dunque, per quanto travagliata
per motivazioni psicologiche o imposta dall’oggettiva inferiorità
delle armi italiane rispetto a quelle dei belligeranti, costituì un
estremo tentativo di Mussolini di recuperare un minimo di quella
flessibilità diplomatica che la guerra aveva drammaticamente ridotto. L’aspetto più appariscente di tale ricerca della flessibilità si
tradusse quindi in un marcato allontanamento dalle posizioni tedesche e un contemporaneo riavvicinamento al campo degli Alleati. Mentre prendeva slancio tale politica, attuata da Ciano sotto la stretta supervisione di Mussolini, i mesi della non bellige-
ranza vengono seguiti dall’Autrice seguendo l’interessante prospettiva dei rapporti economici con la Gran Bretagna di cui fu
protagonista l’Ufficio Guerra Economica. Il miglioramento delle
relazioni con la Gran Bretagna risulta infatti evidente dalle carte
dell’Uge, soprattutto attraverso i negoziati per giungere a una soluzione del problema posto dall’applicazione del blocco navale
alleato alle merci dei Paesi neutrali e della questione del rifornimento di carbone necessario all’industria italiana che veniva
spedito dalla Germania principalmente per via marittima. Organo di natura eminentemente tecnica, l’Uge godette di ampia autonomia anche se, come l’Autrice puntualizza opportunamente, i
suoi membri ebbero la tendenza a spingersi oltre quanto magari
preventivato nei “piani alti” della politica. Ciò derivava soprattutto dal fatto che la composizione dell’Ufficio era stata curata
dallo stesso Ciano, che ne aveva selezionato i membri in base ai
loro sentimenti antigermanici. L’operato dell’Uge beneficiò sempre, però, del benestare di Mussolini al quale ogni passo in direzione di Londra poteva risultare utile per il suo tentativo di convincere – o forzare – Berlino a una composizione negoziata del
conflitto. Come acutamente rilevato, inoltre, la creazione
dell’Uge ben si inseriva nel contesto più generale della politica
mussoliniana di burocratizzare l’azione di governo, tendenza che,
come è noto, si sarebbe poi accentuata durante il corso della
guerra. In questo contesto, i due discorsi di Ciano nel dicembre
1939 al Gran Consiglio del Fascismo e alla Camera dei Fasci e
delle Corporazioni costituirono il punto massimo raggiungibile
dalla politica di equidistanza tra i due campi in lotta. Come sottolineato dall’Autrice però, il vero punto di non ritorno della non
belligeranza sarebbe stato costituito proprio dal fallimento dei
negoziati economici con la Gran Bretagna e dalla decisione di
Whitehall di imporre al duce la scelta tra l’accettare l’acquisto di
carbone inglese in cambio di forniture italiane di materiale bellico agli Alleati o di subire in pieno gli effetti del blocco navale
anglofrancese. La posizione inglese, minuziosamente ricostruita
dall’Autrice attraverso le carte del Foreign Office, permette infatti al lettore di comprendere l’evoluzione della politica britannica
verso l’Italia ma anche di coglierne la fondamentale ambiguità
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stante la riluttanza del Cabinet londinese a riconoscere
l’inquilino di Palazzo Venezia come un partner affidabile e di pari livello nel Mediterraneo. Che tale fosse l’obiettivo dell’Italia
risulta chiaro dalle trattative condotte mediante l’Uge, che miravano alla abolizione del certificato di origine sulle merci importate, e dal rifiuto di Roma a sottostare al razionamento delle importazioni che Londra andava imponendo ai Paesi neutrali sfruttando il suo dominio sui mari. Proprio nei giorni in cui si verificava
la rottura, per inciso, la Caproni aveva firmato gli accordi preliminari per la fornitura di 400 apparecchi militari destinati alla
Gran Bretagna. La crepa apertasi tra Londra e Roma fu, come è
noto, abilmente sfruttata da Hitler che offrì di soddisfare il fabbisogno di carbone italiano via terra nonostante i problemi che tale
scelta comportava per il sistema ferroviario tedesco. Il miglioramento delle relazioni con la Germania divenne quindi subito evidente, specie dopo la visita di Ribbentrop e l’incontro al vertice
tra Mussolini e Hitler al Brennero. Sarebbe però sbagliato vedere
nella marcia di avvicinamento a Berlino il segno di una decisione
di Mussolini a intervenire nel conflitto già dal marzo del ’40.
Come l’Autrice ben sottolinea, lo stesso promemoria segretissimo
del 31 marzo stilato dal duce non conteneva una visione strategica precisa e soprattutto non prevedeva date certe per l’entrata in
guerra. Lo stesso concetto di guerra parallela, contenuto in quelle
righe, era l’ennesima spia di quell’affannosa ricerca di un margine di azione indipendente anche nel caso che l’Italia avesse dovuto prendere le armi contro gli occidentali. Sarebbero stati, come è
noto, soltanto il crollo rovinoso della Francia sotto il peso delle
armate naziste e i segnali di cedimento nel campo alleato a spingere il duce alla fatale decisione di associare il nostro Paese alle sorti
della Germania hitleriana.
EMILIO GIN
Livio Spinelli, Il Sionismo in Italia e nella politica estera fascista, Pagine, Roma, 2013.
Il saggio di Livio Spinelli – scrittore, pubblicista e docente – si
propone un obiettivo audace; chiarire e far luce su uno degli aspetti più delicati e controversi, nonché il più oscuro e meno conosciuto, della storia politica dell’Italia del Ventennio ovvero l’atteggiamento del Partito fascista italiano nei confronti della
popolazione ebraica italiana e, in particolar modo, del movimento sionista italiano. Nel libro, tuttavia, non si parla solo di Italia
fascista, ma anche dei rapporti, altrettanto oscuri e poco conosciuti, intercorsi tra la Germania nazista di Hitler e la comunità
ebraica tedesca, anche questi trattati con dovizia di dettagli e citazioni tratte da documenti originali. Il libro, nonostante il tema
impegnativo, scorre facilmente. La prosa è chiara e semplice e i
riferimenti alle note, che sono poste al termine di ognuno dei
dieci capitoli di cui consta il libro, risultano immediatamente identificabili. Gran parte delle informazioni, inoltre, è elegantemente inserita nel testo, dimodoché la lettura dello stesso non
viene in alcun modo rallentata.
Il libro si apre con la trattazione dell’attiva partecipazione degli ebrei italiani non solo come semplici iscritti al partito fascista,
bensì anche come veri e propri fondatori dello stesso. Basti pensare che la sala in cui si svolse la cerimonia della fondazione dei
“Fasci di Combattimento”, una saletta del “Circolo degli Interessi
Industriali, commerciali e agricoli”, a piazza Sepolcro n. 9, la domenica del 23 marzo del 1919, fu messa a disposizione dal presidente Cesare Goldman, finanziere e uomo politico ebreo, nonché
massone, e che un gran numero di ebrei italiani aderirono entusiasticamente al partito fascista, e dimostrarono più volte la loro
lealtà al Duce e alla Patria partecipando in gran numero alle “
Giornate della Fede” e alle offerte dell’oro alla Patria. Spinelli
tuttavia dimostra anche come non sia corretto affermare che tutti
gli ebrei italiani fossero fascisti, giacché un buon numero di essi,
soprattutto intellettuali, si opposero al regime e combatterono
Mussolini e il suo partito fin dai primi anni, pagando tale scelta
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con la carriera, le percosse, l’esilio e, talvolta, la vita.
Dopo aver fatto chiarezza sui controversi e complicati rapporti
tra fascismo e massoneria, il libro prosegue spiegando brevemente il movimento Sionista, nato ufficialmente a Basilea il 31 agosto
del 1897 con il nome di Organizzazione Sionista Mondiale. Tale
rapido excursus è indispensabile per la comprensione delle dinamiche trattate nei capitoli successivi, in quanto spiega chiaramente come sia stato possibile che le visioni e le linee di azione
del movimento sionista italiano e del Partito fascista, prima, e del
movimento sionista tedesco e del Partito nazionalsocialista, poi,
coincidessero in toto per quanto riguardava la soluzione alla
“questione ebraica”, ovvero il ritorno del popolo ebraico in Palestina, nella “Terra Promessa”. Mussolini, da buon politico e diplomatico quale era, riuscì a favorire il transito di decine di migliaia di profughi ebrei, provenienti in gran parte dalla Germania
di Hitler, per la Palestina facendoli transitare per il porto di Trieste, guadagnandosi nel contempo anche l’appoggio della popolazione araba, il tutto in chiave anti-britannica e in vista di un disegno egemonico sul Mediterraneo.
Come nota Spinelli, il numero di ebrei italiani che migrarono
fu esiguo; dopotutto essi erano ben integrati in Italia, non erano
oggetto di discriminazioni di alcun genere e si riconoscevano in
primis come italiani, e poi come ebrei, e in quanto italiani la loro
unica patria era l’Italia. Ma mentre in Italia le cose stavano così,
in Germania Hitler mobilitò addirittura le SS affinché facessero
emigrare il maggior numero possibile di ebrei tedeschi verso la
Palestina. Gran parte di questi coloni era sionista e, curiosamente, era guardata con una certa ammirazione e a tratti con sincera
simpatia perfino dalle alte sfere del partito nazista, in quanto i
Sionisti si identificavano come appartenenti alla “razza ebraica” e
anelavano al ritorno nella loro antica patria. Le idee di “razza” e
il concetto di popolo legato alla propria patria erano concetti
chiave dell’ideologia nazista, che invece considerava con il massimo disprezzo gli ebrei tedeschi che cercavano di assimilarsi,
considerandosi in primis tedeschi e aventi come patria la Germania, e in secundis ebrei.
Si stima che quasi il 10% della popolazione di religione ebraica
tedesca emigrò in Palestina, aiutata – come detto in precedenza –
dallo stesso Mussolini, e sembrerebbe che il mutato atteggiamento
nazista verso gli ebrei sia iniziato ad affermarsi sempre più marcatamente in concomitanza con la continua e drastica riduzione del
numero di ebrei che lasciavano la Germania.
Successivamente, viene trattato l’argomento della nascita della Marina israeliana, e del ruolo centrale che Mussolini, con il
suo consenso al progetto, rivestì, e del vitale contributo del Generale Guido Aronne Mendes, che scelse la Scuola Marittima di Civitavecchia come sede per la formazione dei quadri della futura
Marina di Israele, e di quello del Capitano Nicola Fusco, l’allora
direttore della scuola stessa. Tale corso permise a quasi 200 ebrei
provenienti da ogni parte d’Europa di specializzarsi nella carriera
marinara. Va ricordato, però, che il supporto italiano a tale iniziativa, più che da motivazioni politiche fu mosso da considerazione di carattere prettamente economico, basate sul rientro in
Italia di ingenti capitali generati proprio da questa nuova Marina.
L’Autore non manca di trattare l’argomento del “salvataggio”
da parte di Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII, del suo amico Guido
Mendes, il “Patrono” della Scuola Marittima di Civitavecchia allorquando, due mesi dopo il luglio del 1938, mese in cui fu pubblicato il Manifesto della razza, furono emanati i provvedimenti
antisemiti. Pacelli infatti riuscì dapprima a far emigrare Mendes
e tutta la sua famiglia in Svizzera e, nel 1939, fu il Segretario di
Stato del Vaticano, Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI,
ad ottenere i certificati di immigrazione per la Palestina per i diretti interessati.
Il libro di Spinelli costituisce uno studio serio, ben argomentato
e documentato su aspetti poco conosciuti e divulgati della politica
filosionista di due potenze – l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista – solitamente associate all’antisemitismo e getta luce
sulle motivazioni politiche ed economiche, ma anche geopolitiche
e, nella fattispecie, antibritanniche, di tale politica, almeno fino al
1938, anno contrassegnato dall’emanazione delle leggi razziali in
Italia e dalla famigerata “Notte dei Cristalli” in Germania.
VALERIO DI ZENZO
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SIMONETTA BARTOLINI è docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT).
Si occupa di storia della cultura del Novecento con particolare riferimento alle avanguardie storiche, alla prima guerra mondiale e all’evoluzione
del romanzo. Tra le sue recenti pubblicazioni: Ardengo Soffici, il romanzo della vita, Le Lettere, 2009; Mistica sostantivo femminile. La mistica
laica di Cristina Campo, in La «santa» affabulazione. I linguaggi della
mistica in Oriente e Occidente, La Finestra editrice, Lavis, 2012; Il fanciullino nel bosco di Tolkien. Pascoli: la fiaba, l’epica e la lingua, Polistampa, 2013. È componente della giuria del Premio Strega.
SILVIO BERARDI è professore associato di Storia contemporanea presso
la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi Niccolò Cusano – Telematica Roma. I suoi studi si incentrano soprattutto sul pensiero federalista e repubblicano italiano tra Ottocento e Novecento. Tra le
sue recenti pubblicazioni: Francesco Saverio Nitti. Dall’Unione Sovietica agli Stati Uniti d’Europa, Anicia, 2009; L’Italia risorgimentale di Arcangelo Ghisleri, FrancoAngeli, 2010; Mary Tibaldi Chiesa. La prima
donna repubblicana in Parlamento tra cooperazione internazionale e
mondialismo, FrancoAngeli, 2012.
GUGLIELMO DUCCOLI è giornalista pubblicista e si occupa da molti anni di divulgazione storica. Ha ideato e realizzato l'Atlante storico interattivo per l'Enciclopedia multimediale Rizzoli-Larousse (2003), e ha
diretto i periodici “L'Illustrazione Italiana” e “Civiltà” (2011) per l'editore My Way Media. Attualmente dirige il progetto “Historyca” per la
realizzazione del primo sito web interamente dedicato alla valorizzazione della fotografia storica.
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MILA MIHAJLOVIC è giornalista, scrittrice, storica italiana di origine
serba; lavora in Rai (Roma) dal 1985. È autrice di cinque libri di carattere storico-documentario e legati ai rapporti tra l'Italia e i Balcani; l'ultimo, Per l'Esercito serbo - una storia dimenticata, è stato edito dallo
Stato Maggiore della Difesa nel 2014. Ha tradotto in italiano vari libri
di scrittori serbi e montenegrini. Da diversi anni collabora come docente con il Centro Lingue Estere dell'Arma dei Carabinieri.
GIUSEPPE PARLATO è professore ordinario di Storia contemporanea
all’Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT). Si è occupato di storia del Risorgimento italiana e del fascismo e attualmente si
occupa della storia della destra italiana. Tra le sue recenti pubblicazioni: Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia (19431948), il Mulino, 2006; Mezzo secolo di Fiume. Economia e società a
Fiume nella prima metà del XIX secolo, Cantagalli, 2009. È presidente
della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.
GREGORIO SORGONÀ dottore di ricerca in Storia politica e sociale
dell’Europa moderna e contemporanea presso l’Università di Roma 2 –
Tor Vergata. Ha pubblicato monografie e saggi sulla storia politica italiana del Novecento. Ha pubblicato recentemente La svolta incompiuta:
il gruppo dirigente del Pci dall'8. all'11. congresso (1956-1965), Aracne,
2011.
VALERIO TORREGGIANI è dottorando in Storia d’Europa: politiche, istituzioni società (XIX-XX secolo) presso l’Università degli Studi della
Tuscia. I suoi interessi di ricerca ruotano principalmente intorno alla
diffusione delle idee corporative in Europa tra la fine del XIX secolo e
la metà del XX secolo. Attualmente sta lavorando ad una tesi dottorale
che intende analizzare tale diffusione in Gran Bretagna nei primi
trent’anni del XX secolo.