Bollettino Completo 1977 - Società Tarquiniese Arte e Storia

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Bollettino Completo 1977 - Società Tarquiniese Arte e Storia
PRESENTAZIONE
La Società Tarquiniense d’Arte e Storia è lieta di presentare ai Soci e agli amici il
sesto Bollettino annuale che riporta l’attività svolta durante l’anno 1977.
Il Consiglio Direttivo, in conformità dei fini statutari, ha promosso in quest’anno
numerose manifestazioni culturali.
Desideriamo ricordare la celebrazione del 50° anniversario del soggiorno a
Tarquinia dello scrittore inglese D.H. Lawrence, che nelle sue opere ha illustrato
Tarquinia, la sua storia e i suoi monumenti.
La celebrazione a cui hanno partecipato numerosi gli studenti degli istituti scolastici
di Tarquinia, è stata onorata dalla presenza dell’Addetto Culturale dell’Ambasciata
d’Inghilterra a Roma, e si è conclusa con lo scoprimento di una lapide che ricorda
l’avvenimento.
Oltre alle interessanti conferenze culturali tenute nell’Auditorium di S. Pancrazio e
delle quali diamo in questo bollettino ampio resoconto, la Società ha curato il restauro e la
conservazione dei monumenti.
La Curia Vescovile ha affidato alla nostra Società la custodia della Chiesa di S. Maria
in Castello, edificio tanto importante nella storia della nostra Città. Questo edificio,
recentemente restaurato dalla Soprintendenza ai Monumenti per il Lazio, data la sua
vetustà ha bisogno di una assidua opera di conservazione per impedire il progresso della
degradazione.
A questa opera di conservazione si è provveduto e si sta provvedendo con una
simpatica e felice iniziativa che ha coinvolto la nostra Società, artigiani e ditte di Tarquinia.
In breve tempo, con la generosa collaborazione di questi volenterosi, a cui è giusto vada il
plauso e il ringraziamento della Società e dei cittadini, si è potuto procedere al rifacimento
della gradinata di accesso, a restaurare infissi e porte, e a ripulire tutto l’ambiente. Si dovrà
poi procedere al restauro dell’interno, pavimento, ambone e marmi. L’amore per i
monumenti della città, e la buona volontà riscontrata in tante persone, ci fa sperare per la
prosecuzione dell’opera.
Il Comune, da parte sua, ha provveduto al diserbo dei muri e si è impegnato per la
sistemazione del piazzale antistante l’edificio.
Un’altra opera di recupero e di restauro ha interessato una serie di tele con scene di
carattere religioso. Il Socio Renzo Balduini, con la sua ben nota perizia, ha provveduto alla
sostituzione dei telai e al restauro pittorico.
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Lo stesso è stato fatto per una grande tela, già Pala di un altare nella Chiesa
dell’Addolorata e raffigurante S. Filippo Benizi.
Nel campo editoriale è stata condotta a termine la tanto desiderata pubblicazione
delle “Croniche di Corneto” del concittadino Muzio Polidori.
Questa pubblicazione, che illustra le vicende storiche di Corneto fino al secolo XVI, è
stata presentata al pubblico dal compianto Prof. Ottorino Morra, ed ha avuto una
lusinghiera accoglienza, che incoraggia a proseguire nella raccolta di altri documenti che si
vorrebbe portare a conoscenza della cittadinanza, per una migliore e più vasta coscienza
della storia e dei costumi di Corneto.
Le mostre di arti figurative, pittura e scultura, hanno nel nostro Auditorio di San
Pancrazio una degna e appropriata sede molto ricercata da artisti locali e italiani per le loro
esposizioni.
Il Comitato direttivo non ha trascurato le iniziative turistiche e, in collaborazione
con l’Associazione Pro-Tarquinia, sono state organizzate gite turistiche nelle vicine località
del Lazio come Blera, Civitacastellana, Nepi, Sutri, il Monte Cimino e inoltre a Padova e
Venezia, offrendo ai soci la possibilità di vedere e ammirare tante bellezze naturali e
artistiche d’Italia.
L’attività della nostra Società è confortata dal largo consenso riscosso tra la
cittadinanza come lo dimostra il numero dei soci che al 31 dicembre 1977 è salito a oltre
400 iscritti.
Questo successo è d’incoraggiamento e di stimolo a procedere con sempre maggiore
impegno sulla via intrapresa, sicuri che non mancherà la simpatia e l’appoggio di tutta la
cittadinanza.
L’Assemblea, riunita il giorno 8 gennaio 1978, accogliendo la proposta del
Presidente, ha acclamato Socio Onorario il prof. Mario Moretti “per la sua opera di
studioso delle antichità etrusche, in riconoscimento dell’attività svolta per i monumenti di
Tarquinia e per le benemerenze acquisite verso la nostra Società”.
Nella stessa assemblea è stato conferito il diploma di benemerenza al Geom.
Francesco De Cesaris “per aver conservata la memoria della nostra Società, consegnatagli
dall’Avv. Latino Latini, in un periodo in cui la Società stessa era stata presso che
dimenticata, rendendo possibili la sua rinascita e la nuova attività, e alla Sig.ra Letizia
Asquini, “per la sua generosa oblazione per la pubblicazione delle “Croniche di Corneto”.
Abbiamo ricordato l’attività svolta nel 1977, che aggiunta a quanto è stato possibile
realizzare nei sei anni di vita delle rinata Società, pensiamo che sia di giusta soddisfazione
per tutti quanti hanno operato e collaborato per l’attuazione del nostro Statuto.
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Non rimane altro che esprimere a tutti i Soci ed Amici un vivo ringraziamento per la
simpatia con cui ci hanno seguito e la comprensione che sempre ci hanno dimostrato, e
formulare l’augurio che la nostra Società sempre unita possa continuare nella sua azione
per un migliore avvenire della nostra Tarquinia.
Vivat, floreat, crescat!
IL PRESIDENTE
Cardinale Sergio Guerri
LE TOMBE DI CORNETO
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Chi antepone ad ogni altro piacere quello d’un pranzo al “Café de Paris” ed una
passeggiata sul “boulevard”, non dovrebbe viaggiare mai. Su tutto avrebbe da ridire.
Ovunque andasse, nemmeno in cambio di pochi spiccioli, potrebbe assicurarsi le migliori
piacevolezze e sentirsi al sicuro da ogni inconveniente. Quali potrebbero essere, in verità,
queste piacevolezze? Quelle che solo le anime volgari sarebbero in grado di gustare, e che si
basano sulla vanità e sulle tendenze più comuni. E’ la consapevolezza di questa grande
varietà che richiama Parigi e dintorni ventimila inglesi, ed è l’ignoranza di questa stessa
verità che fa scontenti tanti viaggiatori che mandano volentieri al diavolo il capriccio che li
ha stimolati, ad esempio, a venire in Italia.
Prima di salire in diligenza, bisognerebbe fare un esame di coscienza e domandarsi
assai seriamente se non si preferisca invece una colazione servita da camerieri in livrea o le
stravaganze più in voga, così come avviene al “Café de Paris”.
Fra questi viaggiatori che non hanno fatto con troppa precisione i loro calcoli, uno
dei più curiosi è forse colui che incontrai, tempo fa, a Corneto in visita alla necropoli
dell’antica città di Tarquinia, precisamente quella che fu patria dei due Tarquini, re di
Roma. E’ chiaro che non si tratta d’un recente passato. La curiosità infatti che da qualche
anno a questa parte attira i viaggiatori a Corneto e a Civitavecchia, ha per obiettivo le
tombe che risalgono almeno a duemila anni fa, e forse a quattromila; niente potrebbe
smentire queste congetture.
Solo mi sembra assai sufficientemente provato che la curiosità dei Romani non ha
avuto alcuna contezza di queste tombe che, in effetti, sono misteriosamente nascoste un
metro circa sotto terra. Il viaggiatore parigino che era con me, credeva di poter ammirare
alcune graziose statuette dorate poste magari su dei magnifici specchi o dentro armadi di
palisandro. Invece una guida vestita da contadino, lo invitò a discendere nelle tombe
sotterranee assicurate appena da porte posticce che s’aprono dopo giri di grosse chiavi d’un
palmo di lunghezza; e per arrivare a queste porte, bisogna attraversare dei fossati ripidi e
scivolosi ov’è facilissimo fracassarsi l’osso del collo, specie quando è piovuto. Mai vidi un
uomo più furioso del mio amico viaggiatore, così divertente nella sua collera contro l’Italia:
“Signore, diceva spesso, ve lo posso giurare, da Marsiglia che non tocco cibo! E solo per
assistere a simili orrori!”.
I viaggiatori che hanno previsto, nella loro decisione, questi piccoli inconvenienti,
vengono da Roma a Corneto per cercare delle attestazioni d’arte che al tempo dei Tarquini
avrebbero potuto avere valore archeologico se fin da allora fossero state conosciute. Assai
probabilmente queste tombe non sono state profanate per la prima volta che nel bassoImpero. Dimenticate successivamente, furono scoperte di nuovo verso il 1814 per un puro
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caso dovuto a un aratro. Un contadino del Principe di Canino lavorava il suo campo nei
pressi di Canino, grossa borgata che ha dato il titolo a Luciano Bonaparte, fratello
dell’Imperatore Napoleone. Questo grazioso borgo è posto all’interno, a cinque o sei leghe
da Corneto e dal mare, presso il fiume Fiora, e quasi nel cuore dell’antica Etruria. Il bove
del contadino che arava, cadde dentro una buca profonda quattro o cinque metri; ci si
accorse subito che si trattava di una sorta di cantina piuttosto vasta, per cui bisognò
praticare una scala sul fondo per far risalire il bove. I contadini s’accorsero allora che le
pareti interne della cantina erano rivestite dei colori più vistosi.
Subito la loro fantasia italiana concluse che la singolarità di questi colori si dovesse
ad opera recente; e siccome erano sicurissimi che a memoria d’uomo nessuno aveva
lavorato in quel loro campo, credettero ciecamente che qualche mago fosse venuto qui per
costruire presso di loro queste stanze sotterranee. Vi avevano trovato otto o dieci vasi d’un
bel colore arancio, ornati di pitture nere che rappresentano uomini e cavalli. Questi
contadini non ignoravano del tutto il valore di questi antichi vasi che portarono a Roma; e
dato che l’esagerazione non è mai mancata al carattere degli italiani, chiesero 1.400 franchi
in cambio dei loro vasi, al primo antiquario che incontrarono. La loro sorpresa fu grande
quando videro prendersi in parola, ma non ebbero la prudenza di stare zitti. Appena di
ritorno dal borgo, si vantarono della loro buona fortuna cosicché il Principe di Canino,
proprietario del fondo, intentò loro una causa per risarcimento.
Io non so se il Principe vinse questa vertenza, ma egli si mise subito a fare degli
scavi, trovando vasi che vendette a 700 mila franchi. Le principali scoperte ebbero luogo
sulle sponde del fiume Fiora, breve corso d’acqua che separa lo Stato Romano dalla
Toscana e va a gettarsi, dopo aver fluito sur un letto di rocce calcaree, nel mare sotto
Montalto. Vennero trovati soprattutto molti vasi e bronzi in una collina artificiale chiamata
dalla gente del luogo la Cuccumella, e nello spazio situato fra la Cuccumella e la Fiora. Nel
1835 si fecero degli scavi nella medesima città dell’antica Vulci, sulla riva destra del Fiora,
e si trovò, fra altri reperti preziosi, una magnifica statua in bronzo che fu acquistata dal Re
di Baviera.
Ma per ritornare ai 700 mila franchi ricevuti dal Principe di Canino in cambio dei
suoi vasi, i primi a pagare con piacere quest’enorme somma furono gl’Inglesi ed i Tedeschi.
I Francesi non vi parteciparono che per 5.000 franchi, il che sta a denotare quanto sia
aleatorio presso di noi il gusto per l’arte, specie se non è giustificato dalla moda. Ora i
poveri vasi di Corneto come avrebbero potuto essere alla moda? Non erano protetti da
nessuno.
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Uno studioso straniero mi ha informato che il numero del “Monitore” del 28 luglio
1830, (l’ultimo “Monitore” del regno di Carlo X, venne stampato nel mezzo della battaglia
di cui, naturalmente, non fa parola), contiene una lunga lettera che spiega assai bene cosa
sono in realtà i vasi di Corneto, alcuni dei quali sono completamente neri, altri
rappresentano delle figure nere su fondo rosso mentre altri invece hanno delle figure rosse
su fondo nero. Ho certamente scandalizzato quello studioso straniero quando gli ho detto
che non si è mai letto sul “Monitore” che i decreti di nomina dei Ministri: e che, quanto agli
articoli letterari, vi si trova un non so che di ufficiale e d’illeggibile. Ho aggiunto che le
antichità non saranno mai di moda in Francia per la ragione che certi ciarlatani troppo
conosciuti ne hanno fatto un loro esclusivo dominio. E in Francia, paese di ciarlatanerie e
di cricche, nessuno vuole essere vittima di ciarlatani troppo conosciuti.
C’è una ragione ancora più evidente perché le antichità non siano mai veramente di
moda a Parigi: bisogna avere una certa disposizione per comprenderle. Questa
disposizione profonda che ci manca è il grande merito degli Inglesi e l’unico merito dei
Tedeschi: questi popoli, per vendicarsi del nostro spirito e consolarsi che solo dopo dieci
anni i loro teatri nazionali non rappresentano che alcuni brani di M. Scribe, ci chiamano
superficiali.
Io non sarò affatto ingiusto verso questi signori; né discuterò del loro sincero amore
per le antichità. Il Re di Baviera, dopo aver fatto acquistare alcuni vasi di Corneto e di
Canino per centinaia e centinaia di migliaia di franchi, è venuto di persona a visitare le sei
tombe scoperte a Corneto. Ed ha voluto farsele illustrare nei maggiori dettagli possibili, dal
celebre cavalier Manzi che ha scritto delle interessantissime dissertazioni sull’origine di
queste tombe, e dal signor M. Acolti, uno studioso del luogo. Il Re è disceso in tutte le
tombe e siccome il contatto con l’aria altera subitamente i colori vivaci di cui le loro pareti
sono rivestite, Sua Maestà ha fatto venire da Roma il signor Ruspi, pittore assai noto e
soprattutto assai coscienzioso, ordinandogli di intrattenersi due settimane in questa
necropoli per fare delle copie esatte sia delle quattro pareti che del soffitto di ciascuna
tomba.
Ventidue tavole, della misura degli originali, sono esposte in due sale del Museo di
Monaco ed offrono la riproduzione del colore più vivace, se non il più vero, e del disegno
più sublime. La maniera con cui i busti sono disegnati, ricorda ciò che c’è di più bello nelle
figure del Partenone; ma ciò che è grandemente singolare, è che le mani hanno appena
forma umana.
Abbiamo avuto occasione, tre anni fa, di vedere il signor Ruspi lavorare ad altre
nuove riproduzioni di queste pitture singolari: esse rappresentano in generale cerimonie
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funebri e combattimenti: le figure vanno da 60 a 100 centimetri di altezza. Ci siamo
assicurati che il signor Ruspi non aggiungesse nulla al disegno di per sé sublime e alla
lucentezza dei colori originali. Mai, ad esempio, egli ha voluto modificare le mani che
rassomigliano del tutto a zampe di ranocchi. Ma noi sappiamo che dopo tre anni i colori di
questi affreschi sono notevolmente sbiaditi. Un cane lupo, posto ai piedi della tavola, in
una scena raffigurante una cerimonia funebre, e di cui si ammira la icasticità e lo spirito, è
scomparso del tutto.
I vasi di Corneto a Parigi sono appena conosciuti grazie alla vendita delle collezioni
del signor Durand, l’uomo che in questi ultimi anni ha più di ogni altro conosciuto il valore
venale degli oggetti d’arte. Il signor Durand raccontava che fin dal 1792 aveva percorso la
costa dell’Etruria, da Pisa a Civitavecchia fino a Cerveteri, trovando in ogni contrada otto o
dieci vasi in vendita: ma giammai aveva potuto sapere dai contadini come se li fossero
procurati. E’ vero che questa disinformazione era compensata dalla modicità delle loro
pretese. Il signor Durand otteneva per due scudi al pezzo (11 franchi) dei vasi che valevano
due luigi a Roma e sei luigi a Londra.
Verso il 1802, alcuni inglesi, amici del celebre John Forsyt, venuti a Civitavecchia
per una battuta di caccia al cinghiale, avviandosi lungo la riva del mare, verso Montalto,
trovarono alcuni soldati, incaricati di sorvegliare le torri poste lungo la riva, che, per
cacciar via la noia, bersagliavano coi loro fucili dei magnifici vasi dipinti, di 60 centimetri
circa di altezza. Questi vasi, sebbene colpiti da parecchi proiettili, furono pagati carissimi
dagli Inglesi. Scherzi di questo genere hanno messo i vasi in grande considerazione presso i
contadini dei dintorni di Canino, Montalto, Corneto, Civitavecchia e Cerveteri.
Il signor Donato Bucci, appassionato amatore, vecchio negoziante di stoffe
(commercio che ha abbandonato per quello dei vasi), ha acquistato dai proprietari terrieri
il diritto di scavare in vaste località. Siccome le tombe etrusche sono piccole cantine
accuratamente ricoperte da tre o quattro piedi di terra, all’esterno non s’avverte nulla:
bisogna allora andare alla scoperta. A tal uopo, il signor Bucci fece scavare, in senso
trasversale alla piana, dei fossati molto angusti, profondi quasi due metri, e lunghi a volte
quattro o cinquecento passi. Se su cento tombe che s’incontrano, se ne trova una sola che
non è stata precedentemente devastata, la speculazione è eccellente. Gli operai che vi
vengono impiegati e che provengono dall’Aquila, nel regno di Napoli, sono pagati in
ragione di 23 bajocchi (25 soldi) al giorno; sono di un’estrema onestà e consegnano
fedelmente alla persona che li fa lavorare le pietre scolpite, gli assi romani ed altre
medaglie che trovano, in notevole quantità, in questa antica terra della civiltà, ora incolta e
pressoché deserta. Questi operai aquilani riconoscono al primo colpo di piccone la terra
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che da otto o dieci secoli non è stata mai discoperta. Sembra che verso l’anno 800 o 1000 le
tombe di Corneto fossero state visitate da due categorie di curiosi: gli uni che cercavano i
metalli e lasciavano i vasi, se prima non li frantumavano dalla rabbia; altri che invece
avevano per obiettivo la ricerca dei vasi.
Ma io m’accorgo che è tempo di descrivere le tombe dove si trovano i vasi dipinti e i
“buccheri”. Una tomba etrusca è una piccola camera lunga 12 o 15 piedi, larga 8 o 10 piedi,
alta fino a 8 piedi, ed è rivestita ordinariamente di affreschi molto ben conservati e assai
vivaci al momento in cui la tomba viene aperta. Queste tombe, quasi tutte nascoste sotto
qualche piede di terra, sono per la maggior parte scavate nel nenfro, pietra tenera del sito.
Nelle nicchie scavate o costruite attorno alla tomba, come ripiani di un armadio,
sono deposti i corpi, dentro a delle casse basse di nenfro. Qualche volta, in luogo di
scheletri, non vi si trovano che resti di ossa bruciate. Sembra che, terminata la tomba, si
colmasse lo scavo là dov’era stato effettuato; almeno oggi, all’esterno, nulla rivela in senso
assoluto l’esistenza di una tomba. In generale, tre o quattro piedi di terra ricoprono la
parte superiore e per arrivare alla piccolissima porta d’accesso, bisogna discendere di
dodici e anche di quindici piedi sotto il livello comune del piano elevato dove si trova la
necropoli di Tarquinia.
Mi affretto ad aggiungere che ci sono delle tombe, forse di diverso periodo, che si
avvertono grazie ad un “montarozzo” di quindici o venti piedi d’altezza. Si trova nei dolci
declivi un susseguirsi di colline deserte verso la costa, da Montalto a Cerveteri, e delle
fratture geologiche alte da quindici a venti piedi. Spesso in queste rocce, generalmente
assai friabili, ci sono scavate delle tombe; ma non credo che siano della stessa epoca o forse
dello stesso popolo delle tombe di Corneto che consistono in un piccolo sotterraneo
ricoperto da tre piedi di terra.
Io parto da questo principio: i Romani cercavano di mettere in mostra le loro tombe,
gli Etruschi a nasconderle. Una tomba, per i Romani, rappresentava un episodio di gloria
mondana; presso gli Etruschi era forse l’adempimento di un rito obbligato da una religione
misteriosa e gelosa della sua potenza. Per non dare credito a tutte le immaginazioni del
celebre Niebuhr, prive di prove, resta sufficientemente dimostrato che verso il periodo
della fondazione di Roma, l’Etruria era governata da sacerdoti assai gelosi della modesta
parte d’autorità che non potevano in alcun modo affidare ai capi civili della nazione (i
lucumoni). I sacerdoti etruschi, ad esempio, ritardarono forse troppo la guerra inevitabile
che i lucumoni volevano fare contro l’invadenza di Roma. I Romani collocarono le loro
tombe lungo le grande strade; una tomba romana mira sempre ad essere una costruzione
rilevante; vi si metteva un’iscrizione che indicasse le cose ragguardevoli che il personaggio,
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ivi sepolto, aveva fatto per il bene della propria patria. Probabilmente i sacerdoti etruschi
non ammettevano affatto questa idea mondana e deteriore dell’utilità; bisognava obbedire
prima di tutto agli Dei.
La maggior parte dei viaggiatori ha visto nelle sale Vaticane, e io oso dirlo con una
sorta di rispetto, la tomba di quell’antico Scipione che fu console, e che meritò assai dalla
sua patria. L’iscrizione che ci rivela queste cose è scolpita in lettere irregolari e malformate;
l’ortografia è anteriore a quella di Cicerone, cosa che non frena un giovane studioso
francese che asseriva essere stata questa iscrizione rifatta al tempo del basso Impero:
probabilmente questo giovane studioso che apparterrà all’Istituto, non ha mai visto il
Vaticano. Si vede, a partire da questa tomba di Scipione fino alle centinaia meno note, che
una tomba romana fu sempre, anche in tempi vicinissimi alla fondazione della città, un
monumento elevato alla gloria tutta mondana d’un personaggio più o meno importante per
le sue gesta o per la sua dignità.
In generale, tombe etrusche a sud del Tevere non se ne trovano affatto e tanto meno
tombe romane a nord di questo fiume. Una tomba romana è generalmente un edificio
isolato, alto da venti a trenta e anche sessanta piedi, e collocato sul fianco di una via
consolare, in posizione evidente. Un Etrusco credeva, al contrario, di non poter troppo
nascondere la tomba di chi gli fu caro. Questo costume gli veniva forse dall’Egitto?
L’antica necropoli di Tarquinia è quella che gli stranieri visitano più comunemente,
per il fatto che si può raggiungere da Roma in appena nove ore. Questa necropoli si trova a
un miglio da Corneto, grazioso centro originale per il carattere dei propri edifici, e posta
anch’essa a 19 leghe da Roma. La necropoli di Tarquinia era grande come venti volte la
città, cosa del resto naturalissima per chi vuole fabbricare dei cimiteri immortali. E’ in
questa necropoli che i signori Bucci e Manzi di Civitavecchia hanno eseguito vasti scavi.
Essa ha una lunghezza di una lega e mezza e una larghezza di tre quarti di lega.
Ad eccezione di qualche piccolo “ montarozzo”, niente traspare all’esterno: non si
vede che una pianura ricoperta di macchie quasi allo stesso livello della collina su cui
Corneto è posta; si domina il mare che è appena a una lega di distanza. L’amore per
l’agricoltura che comincia a risorgere nei dintorni di Roma, si è giovato delle lunghe fosse,
scavate per la ricerca delle tombe, per piantare olivi. La magnifica strada dovuta alla
generosità del papa Gregorio XVI e che da Roma conduce a Pisa, seguendo la costa del
mare, passa a dieci minuti dalla necropoli di Tarquinia e vicinissima alla piccola necropoli
di Montalto dove il signor Manzi ha appena scoperto un vaso dipinto, valutato ottanta
luigi, i manovali aquilani, nell’avvicinarsi alla piccola porta della tomba che conteneva
questo magnifico vaso, trovarono dei frammenti di carbone e due cerchi di ruote in ferro;
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se ne concluse che il personaggio sepolto in quella tomba doveva essere un famoso
guerriero, e che il suo carro di guerra era stato bruciato davanti alla porta del sepolcro.
I vasi si trovano posti, in queste piccole camere sotterranee, in ogni sorta di
posizione, sia sui ripiani o nelle nicchie scavate lungo la parete, sia sospesi a chiodi piantati
alle pareti. Il signor Donato Bucci aveva nei suoi depositi di Civitavecchia delle coppe che,
dopo esser state appese a dei chiodi per un lunghissimo periodo di tempo, avevano finito
per aderirvi, portando via, fissata ad una delle anse, una parte del chiodo ossidato al quale
esse erano appese.
Una società di appassionati delle arti di Roma raggiunge Civitavecchia; si fa
procurare un permesso di scavo in una delle necropoli dei dintorni; si recluta una
compagnia di nove manovali aquiliani che, a 25 soldi a persona, costa 11 franchi e 5 soldi al
giorno; e in dieci giornate, cioè per 112 franchi e 50 centesimi, uno può vedere sotto i
propri occhi uno scavo assai interessante. Vi si prova lo stesso piacere che andare a caccia.
E’ assai improbabile che in 10 giorni non si trovino dei vasi del valore di almeno un
centinaio di franchi. Se ci s’imbatte in una tomba non ancora profanata, si trovano scanni e
fiaccole di bronzo, spesso degli orecchini, diademi, bracciali flessibili leggerissimi, ma
mirabilmente lavorati, e dell’oro, purissimo. In generale, una tomba non ancora esplorata
vale da 500 a 600 franchi.
Don Alessandro Torlonia, che ha consacrato una parte della sua immensa fortuna a
proteggere le arti, ha fatto fare l’anno scorso degli scavi in differenti siti del suo ducato di
Ceri. I suoi manovali hanno trovato in una sola tomba dei bracciali e degli anelli che, dopo
tanti secoli, avevano ancora conservato una flessibilità perfetta. Uno solo di quei
braccialetti, che poteva benissimo adattarsi ad ogni braccio e di un oro assai più puro di
quello dei napoleoni, pesava 84 napoleoni d’oro.
Ho notato che, quando si visita una tomba, dopo aver ammirato la forma elegante
dei vasi, i treppiedi di bronzo e altri oggetti scoperti, l’umana curiosità si perde
inevitabilmente in un’oziosa discussione: ci si domanda - In quale epoca queste tombe
sono state costruite?
E’ stata appena costruita a Parigi, in via d’Anjou Saint-Honoré, una chiesetta in stile
gotico. I posteri crederanno che questa chiesa appartenga al XII secolo. A Roma, l’estrema
civilizzazione del secolo di Augusto e l’avversione alla guerra provocarono il disgusto delle
cose utili, quand’anche si fosse cessato di amare il bello: tutte le arti cercarono di destar
sorpresa per qualcosa di nuovo o di bizzarro. La buona compagnia fu angustiata da una
sorta di malattia simile al nostro gusto per l’architettura del rinascimento e per i mobili del
medio evo. Alcuni patrizi romani ebbero la fantasia di farsi seppellire nelle tombe etrusche.
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Io ho visto in una di queste tombe una pittura evidentemente romana. In un’altra, mi sono
state mostrate le croci del cristianesimo. Non si potrebbe concludere che queste tombe
siano state edificate sotto Costantino e i suoi successori?
Per essere ammesso d’altronde nel novero così rispettabile degli archeologhi,
bisogna saper a memoria Diodoro di Sicilia, Plinio e una dozzina d’altri storici; in più
bisogna aver abiurato ogni rispetto per la logica. Quest’arte importuna è il nemico accanito
di tutti i sistemi: come può ora un libro di archeologia attirare l’attenzione del mondo,
anche superficialmente, senza l’apporto d’un sistema un po' originale? Conosco undici
teorie sull’origine dei vasi dipinti e delle tombe etrusche nascoste sotto terra. La più
assurda è, almeno mi sembra, quella che presume che tutto ciò sia stato fatto sotto
Costantino e i suoi successori.
La teoria che adotterei egregiamente e che proporrei al lettore, pur convenendo che
è disgraziatamente priva del tutto di prove sufficienti, è quella che mi è stata insegnata dal
venerabile padre Maurizio, il quale, per un decennio, ha diretto scavi numerosi e
importanti. Quest’uomo venerabile, d’un assoluta amabilità ed informato su tutti gli storici
del passato, come noi Francesi lo siamo per Voltaire, pensa che le tombe, che noi scaviamo,
appartengono a un popolo molto antecedente agli Etruschi, forse contemporanei dei primi
Egiziani; e che come oggi la nostra religione ci insegna a collocare dei crocefissi sopra
l’ultima dimora di chi ci è stato caro, così presso questo popolo primitivo si collocavano dei
vasi o almeno delle coppe nelle tombe che si voleva onorare.
Un certo signor Dempstev, colto archeologo di Firenze, ha pubblicato, parecchi anni
fa, in dieci volumi “in folio”, la storia delle teorie inventate nel suo tempo. Conosco sei od
otto volumi in 8° tedeschi, ciascuno dei quali pretende di risolvere definitivamente la
questione che ci interessa. Parecchie di queste opere sono scritte con molta profondità:
tutte se ne infischiano della logica e ammettono, come prova inoppugnabile, frasi
pomposamente belle; oppure, come Niebuhr, per dimostrare una certa cosa, aggiungono
una supposizione alla cosa provata; e, due pagine dopo, partono dalla medesima
supposizione come d’un fatto incontestabile. E’ così che si diventa famosi al di là del Reno.
Tutto ciò che si può accordare a questi signori che si divertono della nostra superficialità, è
che essi sanno a memoria quindici storici o poeti del passato. E non è poco: una testa che
contiene tutto ciò può contenere altro?
Non ho riportato che due fatti sufficientemente provati di tutte queste opere
tedesche.
I vasi scoperti nelle tombe di Tarquinia, a nove ore da Roma, non sono stati
conosciuti dai Romani e sono antecedenti a loro. Plinio fu un uomo preciso, qualità assai
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rara in antico; come tutti i Romani, era primo di tutto cittadino della sua repubblica poi ha
cercato nella storia naturale di esaltare il suo paese. Come tutti i buoni Romani, era assai
geloso delle arti e dell’eleganza della Grecia: avrebbe per caso dimenticato di parlare delle
figure ammirevolmente disegnate e dei vasi che sono stati trovati nascosti sotto terra, a
nove ore da Roma?
Cicerone, se non m’inganno, racconta che alcuni veterani appartenenti ad una
legione di Cesare, avendo ottenuto dei possedimenti nelle vicinanze di Capua, trovarono,
mentre coltivavano quei campi, dei vasi antichi; ma quel poco che Cicerone racconta di
questi vasi non è minimamente confrontabile alla specie di quelli che si trovano nelle
tombe di Tarquinia.
Credo che queste tombe saranno note fra una decina d’anni.
Marzo 1837
HENRY BEYLE
(STENDHAL)
“Revue des deux mondes”
1 settembre 1853
Paris
(traduzione di BRUNO BLASI)
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Miti e realtà del Risorgimento Italiano
Nelle città italiane vi sono vie dedicate a Federico Confalonieri, a Pietro Maroncelli,
a Giorgio Pallavicino, a Giovanni Arrivabene, a Silvio Pellico, i famosi martiri dello
Spielberg. Mancano, invece strade dedicate a Silvio Moretti o ad Andrea Vochieri.
Naturalmente cito solo qualche nome per semplificare. Il problema è questo. Poiché la
storiografia sabauda si è fabbricata dei martiri non sempre tali ma comunque di parte
moderata perché la storiografia democratica non ha ancora provveduto a ripristinare la
verità e a fare le debite sostituzioni? Lo ha fatto la Chiesa radiando i santi poco attendibili.
Naturalmente chi paga con il carcere e con un carcere duro ha sempre diritto ad una
retribuzione morale, ma mi pare sia lecito, trattandosi di martiri, a cominciare a
distinguere chi ha subito il carcere da delatore e chi invece ha saputo resistere a tutte le
pressioni senza tradire i compagni.
Federico Confalonieri, ad esempio, il Confalonieri dei nostri libri di testo elementari
che tanto ci commuoveva, è stato un delatore. Fu lui che senza gli fosse torto un capello,
mise la polizia austriaca in condizioni di far saltare tutta l’organizzazione liberale.
“Se una grazia mi sarà data d’invocare un giorno dall’imperatore, se qualche titolo
mi sarà acquistato al sovrano favore, chiederò che il mio nome non vada macchiato dalla
taccia di cospiratore o di perturbatore dell’ordine pubblico”. Così scriveva nel novembre
del 1823 Federico Confalonieri in una memoria al tribunale austriaco -e continuava: “Il
sovrano punisca in me l’errore e sarò contento se il mio esempio potrà far ravvedere gli
altri; ma lasci che, con fronte afflitta ma non mai macchiata io possa riprendere posto tra i
suoi sudditi fedeli e fra gli onesti miei concittadini”.
E Piero Maroncelli così scriveva al grande inquisitore Antonio Salvotti il 2 dicembre
1821: “Mio signore e padrone mio vero osservandissimo, ho finito il lavoro che v’ho
promesso... e pretendo in compenso che voi ci facciate grazia di una visita e sappiate che
non vi farà più buona la scusa che non avete niente da dirci perché, veramente, noi non
vogliamo sapere niente. Sappiate che qui si sta bene e tenete per fermo che qui ci siete
adorato e che la vostra presenza ci fa bene proprio all’anima e al corpo”.
La lettera scritta dal carcere di Venezia così conclude: “ Del resto io giuro che non vi
parlerò della causa perché sarei ben pazzo e incivile se turbassi la vostra bella
conservazione dalla quale raccolgo tanti frutti di buone lettere. Lo stesso mio giuramento
ve lo fanno e qui lo trasmettono per procura il conte Laderchi e il conte Arrivabene”.
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Naturalmente sia Laderchi che Arrivabene, come lo stesso Maroncelli, furono dei
grandi delatori che fecero arrestare decine di congiurati.
Come è noto il Confalonieri dopo la condanna allo Spielberg chiese ed ottenne un
colloquio col Metternich che ebbe luogo il 2 febbraio 1824. Questo colloquio è sempre stato
presentato - come quello di Vignale tra Vittorio Emanuele II e Radetsky - in una versione
esattamente contraria alla verità. Infatti nella relazione all’imperatore austriaco fatta dal
Metternich sul colloquio è scritto tra l’altro:
“Ella ha dichiarato - al capo della polizia austriaca marchese Torresani - di voler fare
delle rivelazioni.
Ho letto le sue deposizioni, fra esse mi hanno sorpreso particolarmente quelle della
seconda metà di luglio e dei principi di agosto del 1822 nelle quali ella ha dato schiarimenti
ai giudici sull’influenza che l’estero ha esercitato sopra gli avvenimenti rivoluzionari
dell’Italia. Ciò appartiene alla mia sfera.
Io le parlo delle rivelazioni politiche che Ella ha già fatte, le indico perfino gli
interrogatori. Ella quindi mi deve capire se pure mi vuole capire...
Se posso dirle una parola di verità - risponde Confalonieri - sono ai suoi comandi:
ognuna di quelle parole solleverà la mia coscienza”.
“Portato che l’ebbi a questo punto - continua il Metternich - gli chiesi in qual
maniera potrebbe trovarsi maggiormente sollevato nell’adempimento della sua promessa
se (per le ulteriori rivelazioni che riguardavano le congiure liberali negli altri paesi)
desiderava prendere ancora per base le sue deposizioni oppure dedicarsi ad una relazione
nuova sulla base di quesiti che mi sarei riservato di fargli pervenire”.
Il Confalonieri preferì la seconda forma dicendo: - Alle domande risponderò
servendomi di tutto quanto mi è noto. Lo farò col sentimento del mio pieno dovere.
Alla relazione del Metternich risponde l’imperatore ordinando che i quesiti al
Confalonieri vengano inviati in tutta segretezza per mezzo del governatore della Slesia e
della Moravia e con lo stesso tramite portare le risposte a Vienna. “Mi riprometto
dall’oculatezza dell’Eccellenza Vostra - raccomanda l’imperatore al Metternich - che in
queste pratiche si proceda con la più grande cautela e segretezza per modo che sia
gelosamente evitata ogni popolazione che potesse compromettere Confalonieri dinanzi ai
suoi compagni di carcere”.
Le delazioni dei congiurati erano tanto più riprovevoli poiché - ad esempio i nobili secondo la legge austriaca, sempre rispettata, non potevano essere puniti col bastone
mentre potevano essere condannati a morte solo i rei confessi.
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L’articolo 430 del codice penale austriaco stabiliva infatti: “Si potrà pronunziare la
pena di morte solo nel caso in cui il delitto sia legalmente provato con la confessione del
reo. Se l’inquisito sarà accusato soltanto dalla deposizione dei complici o dal concorso delle
circostanze, potrà essere condannato, tutt’al più, a vent’anni di carcere”.
E veniamo a Silvio Moretti che potremo definire il martire sconosciuto senza
macchia e senza paura. Scrive lo storico Alessandro Luzio: - Nei processi del 1821, l’unica
eccezione (alla dilagante delazione) splendida eccezione fu rappresentata da Silvio Moretti
un eroico patriota bresciano la cui fama non è così grande come invero egli più d’ogni altro
dei suoi compagni di congiura meriterebbe. Arrestato, nella carrozza che lo conduceva a
Milano nonostante fosse sorvegliato da tre gendarmi si taglia la gola con un temperino. Del
tentato suicidio i gendarmi si accorgono solo a Milano dove viene salvato in extremis.
Guarito viene interrogato ma nega di avere tentato il suicidio.
“Un uomo - scrive nella sua relazione il Salvotti - che poteva mantenere imperterrito
questo silenzio lasciava presagire quale sarebbe stato il suo contegno rispetto ai fatti
politici di cui lo si accusava”.
Moretti negò sempre tutto, anche quando fu messo a confronto di compagni che lo
accusavano dei quali non nascose l’amicizia e lodò la proibità.
Nonostante tutti gli interrogatori si mantenne sempre sulla negativa e alla fine fu
condannato a 14 anni di Spielberg. Poco prima di partire per la tragica fortezza, Moretti
chiese di parlare con l’inquisitore Salvotti al quale disse:
“Non indicherò i due o tre compagni che ella ancora non conosce (i nomi di tutti gli
altri li avevano rilevati i suoi compagni). L’ho fatta chiamare perché mi piacerebbe sentire
da lei come ha potuto ottenere tante confessioni da quegli stolti. Quando si entra in una
congiura bisogna essere disposti a morire per la causa che si abbraccia. Se tutti avessero
osservato il mio sistema saremmo tutti salvi”.
Moretti morì nello Spielberg e sarebbe giusto che una delle tante strade dedicate a
Federico Confalonieri venisse assegnata a lui.
Andrea Vochieri fa parte di quel consistente nucleo di mazziniani che furono
arrestati, torturati e poi fatti fucilare da quella commissione speciale militare: creata da
Carlo Felice che giudicava in base ad una serie di norme, in base alle quali, ad esempio,
doveva essere condannato alla fucilazione alla schiena non solo chi compiva atti
rivoluzionari ma anche colui che, venuto a conoscenza anche vaga di una società segreta
non l’avesse immediatamente comunicata ai suoi superiori. Come vedete di fronte a queste
norme il codice austriaco era un modello di liberalismo e di umanità.
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Cominciano così le fucilazioni: il 20 maggio 1833 viene fucilato il caporale
Tamburelli perché aveva letto e dato da leggere ad un commilitone un fascicolo della
Giovine Italia, il 10 giugno viene fucilato il tenente Efisio Tola mentre il sergente furiere
che lo aveva denunciato viene promosso, d’ordine, del re, sottotenente.
Il generale Pinelli ufficiale di parte moderata che percorse tutti i gradi della carriera
e finì comandante della divisione territoriale di Bologna nel 1865, così scrisse nella sua
Storia militare del Piemonte pubblicata nel 1855: “Così i colleghi del povero Tola, dopo
avere mirato ad occhi asciutti il di lui scempio, festosi accoglievano a mensa il giuda che
venduto lo aveva ed a tali generosi sensi educavansi sotto il regno di Carlo Alberto gli
ufficiali di un esercito che pugnar doveva un giorno per l’indipendenza italiana. Qual
meraviglia se, surta l’aurora della libertà italiana, se proclamata la costituzione, molti
furono i tiepidi, molti gli increduli?”.
Ma arriviamo a Vochieri. Il 22 giugno, dopo una meravigliosa resistenza alle torture
inflittegli dal comandante la piazza di Alessandria, il reazionario conte Galateri, viene
condotto al supplizio. Gli si fa percorrere la strada che passa sotto casa sua, lo si fa sostare
in modo da fargli udire distintamente i pianti della moglie che era stata precedentemente
avvertita.
La donna era in attesa del quarto figlio, non resse allo strazio e svenne. All’entrare
nel Campo di Marte dove doveva avvenire la fucilazione - racconta Piero Pieri nella sua
storia militare del Risorgimento - il frate cappuccino che lo accompagnava gli disse su
incarico del Galateri: “Siete ancora in tempo a salvare la vita propalando”.
“Andiamo” fu la risposta di Vochieri. La fucilazione venne eseguita non da ufficiali
regolari ma da aguzzini inesperti. Undici fucilate esplose ad intervalli non bastarono a
finirlo: allora un sergente ebbe pietà, si accostò al moribondo che gemeva e con un ultimo
colpo di fucile gli trapassò il cranio.
Ecco. Alcune delle vie dedicate a Silvio Pellico che fu un fior di delatore, che
all’inquisitore austriaco fece i nomi del suo benefattorre Porro Lambertenghi, di
Giandomenico Romagnosi e di molti altri, propongo di dedicarle, invece, ad Andrea
Vochieri. Come è noto, il Pellico
- cosa abbastanza singolare - fu convertito al
cattolicesimo dal grande inquisitore austriaco Salvotti. Uscito dallo Spielberg, da liberale
che vi era entrato si trasformò in un cieco reazionario al servizio dei conti Barolo. Ecco un
brano del suo opuscolo “I doveri dell’uomo” scritto per il popolo nel 1834: “Fa tutto ciò che
sta in te per essere utile cittadino e poi lascia che le cose vadano come vanno. Metti qualche
sospiro sulle ingiustizie che vedi. Tu, verosimilmente, rimarrai nella sorte che nascesti...
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Non appiglisi mai a te quel basso odio che rode sovente i meno ricchi e i poveri verso i più
ricchi”.
Povero Pellico. Non seppe mai darsi pace che il suo libro “Le mie prigioni” fosse
interpretato da tutta Europa come un atto di accusa contro l’Austria, lui che l’aveva scritto
come un invito alla rassegnazione. Tanto che si potrebbe affermare come, a volte Dio rende
ciechi colore che vuole salvare.
E veniamo a un personaggio che, a suo modo, fu anche lui un martire ma che
dovrebbe essere finalmente riscattato dal silenzio in cui lo hanno confinato non solo i
monarchi e i moderati, per ovvie ragioni, ma anche i democratici per ragioni un po' meno
comprensibilii.
Dunque: il 15 maggio 1843 viene ripescato in un canale nei pressi di Bruxelles il
cadavere di un uomo e Vincenzo Gioberti, esule anche lui nel Belgio, effettuerà
ufficialmente il riconoscimento ufficiale dell’amico e compagno di esilio.
Il morto è il conte piemontese Carlo Bianco di Saint Jorioz seppellendo il quale, nota
il Luzio Gioberti, seppellì anche le proprie illusioni. Chi era questo Carlo Bianco di cui tutti
i libri di testo dalle elementari ai licei dovrebbero diffusamente parlare?
Facciamo un passo indietro. Nel marzo del 1821 la guarnigione di Alessandria si
ribella, inalbera la bandiera tricolore e chiede la costituzione. Nella cittadella praticamente
nelle mani dei carbonari succedono cose abbastanza singolari per cui la truppa pretende ed
ottiene di nominare i propri ufficiali. Fra questi vi è Carlo Bianco che è chiamato a far parte
della Giunta di Governo col grado di tenente colonnello.
Voi sapete come andarono le cose. Il Piemonte chiama in aiuto gli austriaci agli
ordini del Bubna che mette in fuga le truppe ribelli alla Bicocca, a quella Bicocca che 27
anni più tardi vedrà la sconfitta di Carlo Alberto.
Carlo Bianco, raggiunto dalla condanna a morte che colpisce tutti i partecipanti del
moto, riesce a fuggire o, per meglio dire, viene messo in condizioni di fuggire perché tutti i
ribelli trovano a Genova i passaporti fatti preparare dal re.
Carlo Bianco, dopo varie peripezie va in Spagna dove era in corso la guerra tra i
costituzionalisti tra cui militavano tutti gli esuli liberali d’Europa, e le truppe del duca
D’Angouleme chiamate a reprimere i moti liberali spagnoli.
Naturalmente Bianco si arruola tra i primi, tanto più che tra le truppe del
reazionario D’Angouleme vi era Carlo Alberto, mandatovi da Carlo Felice ad espiare le
simpatie liberaleggianti di cui aveva dato maldestra prova durante la reggenza. Carlo
Bianco assume il comando dei Lancieri Italiani coi quali da bravo ufficiale di stato
maggiore vuole effettuare le classiche azioni da manuale di guerra. Ma ne viene distolto da
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anziani popolani spagnoli che lo educano ad un nuovo modo di fare la guerra. Chi sono
costoro? Sono i superstiti nuclei di partigiani che hanno opposto, in Spagna, quell’epica
resistenza all’invasione napoleonica che costò ai francesi seicentomila morti, senza che
questi potessero mai impegnarli in campo aperto. Carlo Bianco si fa allora raccontare tutti
gli episodi di cui quei superstiti furono protagonisti, dei mezzi messi in opera per rendere
impossibile la vita alle guarnigioni, degli assalti a sorpresa, dei pozzi avvelenati, delle
buche contenenti una canna appuntita che metteva fuori uso i cavalli, delle strategie.
Carlo Bianco annota tutto, e dopo varie peripezie che lo conducono a Malta pubblica
un libro in due volumi intitolato “Della guerra nazionale d’insurrezione per bande
applicata all’Italia. Trattato dedicato ai buoni italiani da un amico del Paese”.
E’ il primo trattato della guerra partigiana (che Mazzini, riassume per renderlo più
agile e più accessibile) alla quale il Bianco chiama tutto il popolo, comprese le donne. Di
vigorosa ispirazione patriottica il trattato si impone per la lucida analisi della situazione
italiana e Carlo Bianco è il solo patriota del 1821 cui Carlo Alberto ha negato il rientro in
Italia e solo dopo il suicidio causato dai debiti, dalla condotta non certo irreprensibile della
moglie, il re consente che la vedova rientri a Torino e anzi ammette nell’esercito il figlio
Alessandro.
Questo Alessandro, ufficiale d’ordinanza del generale Bava nel 1849, è capitano del
corpo di spedizione che nel 1860 invade il regno di Napoli e trovandosi alla frontiera
pontificia prende nota della condizione di quei paesi, degli abitanti, del brigantaggio che vi
impera e nasce così un libro: “Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863” che
gli costò il grado di capitano di Stato maggiore. Muore il 25 febbraio 1893 e certo il suo
libro pur non essendo all’altezza di quello del padre, ha un grande merito: quello di
presentare il brigantaggio come una rivolta contadina motivata dalle condizioni spaventose
di vita in cui quella gente viveva.
Ecco, io vorrei che qualche maestra elementare - e se ce n’è qualcuna presente la
sollecito a farlo - raccontasse ai suoi alunni la storia di questo padre e questo figlio e
lasciasse perdere la storia di Teresa Confalonieri che va dall’imperatrice a scongiurare di
salvare il marito dalla morte.
Carlo e Alessandro Bianco sono i protagonisti di quell’Italia reale che sono sempre
stati soffocati dalla retorica di quell’Italia ideale che non c’è mai stata e, forse, mai ci sarà.
GILBERTO NANETTI
Conferenza tenuta nell’Auditorium di S. Pancrazio il 23-1-1977
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Dall’Ulisse Sumero all’Ulisse di Joyce
Di tutti gli eroi antichi l’unico che abbia avuto una fortuna eccezionale è stato Ulisse.
Dante in una lettura simbolica del suo viaggio vide il cammino dell’uomo iniziato nella
notte dei secoli quando per la prima volta un bruto (il corpo umano di fango della Bibbia)
investito di una luce immensa che riscattò la sua carne dalla condizione di ogni altra carne,
divenne uomo prendendo coscienza di sè, dell’altro da sé sia questo sotto, accanto o sopra,
nonché dei rapporti reciproci comprendendo la differenza radicale oramai posta tra sé e gli
animali.
Fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza.
Dante non specifica che questo cammino è nella libertà, perché nella sua concezione
cristiana questo è ovvio; Dio, creato il mondo, ne ha dato le chiavi all’uomo dicendogli di
continuare la sua opera; l’uomo ha intelligenza sufficiente per decidere esattamente;
dipende da lui seguire la ragione o no; la felicità sta in pugno all’uomo. Neppure la caduta
dei progenitori blocca tale vocazione, anche se ora più faticosa; Dio è sempre accanto
all’uomo, pronto anche a morire per lui, per salvarlo, per liberarlo.
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Identico il problema nel poema di Gilgamesh, ma in termini capovolti quanto al
destino dell’uomo: l’uomo è nato per servire non per essere servito, e la morte è il premio
di questo servizio. Potesse l’uomo almeno alleggerire la pena del vivere se proprio non è
possibile evitare la morte! ma anche questo è impossibile; l’uomo vive nell’ansia continua
di incappare nell’ira divina, né d’altra parte riesce con l’intelligenza a conoscere il pensiero
degli dei; anche la magia, la divinazione, la preghiera, l’offerta o i sacrifici non riescono a
togliere la tragica incertezza. I destini non sono in mano all’uomo; solo gli dei dispongono
del me (analogo ai concetti noti in etnologia di mana e orenda) forza impersonale
immanente nella materia viva e morta, forza increata, immutabile, sussistente.
Di qui la tensione, sottesa a tutto il poema, tra l’uomo che aspira alla libertà e il
limite che la nega, sia questo rappresentato dagli uomini, dalla natura o dal destino,
tensione che cominciata con l’uomo dovette via via intensificarsi quanto più l’uomo sentiva
di poter con l’intelligenza dominare la natura, raggiungendo un altissimo grado durante la
rivoluzione neolitica e toccando l’acmè in uomini di particolari capacità come Gilgamesh
quando nelle primitive comunità rette e democrazia il Consiglio degli Anziani e
l’Assemblea degli adulti li chiamò, dando loro pieni poteri, a difendere il villaggio dalla
cupidigia dei vicini e a soddisfare le esigenze dello stesso anche se con danno delle
comunità confinanti.
Lugal fu il titolo con cui venne chiamato l’uomo eletto, cioè lu “uomo” e gal
“grande” per distinguerne l’eccezionalità del potere rispetto a quello del sangu mah, capo
di un tempio con tutte le sue complesse dipendenze, e dell’ensi, capo del tempio più
importante della città e nello stesso tempo con autorità su tutti gli altri templi della città.
Potere limitato nel tempo e nei fini quello del lugal, ma non nell’ampiezza; meno ampio
quello del sangu mah e dell’ensi, ma non elettivo. Non si esclude la possibilità di un
conflitto tra il lugal e le altre due autorità, potenzialmente aperto verso la distinzione tra
politica e religione, conflitto che tuttavia fu superato quando il re, come rappresentante del
dio della città, assommò in sé anche l’autorità religiosa, ottenendo anche, in certe epoche,
di essere divinizzato. Ma anche tra l’organo elettore e il lugal poteva sorgere conflitto,
quando cioè il lugal si riteneva autorizzato o in grando di interpretare in senso in senso
più lato il potere concessogli.
Il poema di Gilgamesh comincia appunto con un tale conflitto: Gligamesh ritiene di
non avere più limiti al suo potere; tutti debbono piegarsi ai suoi capricci e volontà. La città
si ribella e chiede ad Anu, il dio del cielo venerato nella città, di intervenire; così viene
opposto Enkidu a Gilgamesh che per la prima volta si vede limitato nel suo strapotere.
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E’ l’avvio alla storia di successive sconfitte, aprendo solo la prima di esse gli occhi di
Gilgamesh che per la prima volta si vede limitato nel suo strapotere. E’ l’avvio alla storia di
successive sconfitte, aprendo solo la prima di esse gli occhi di Gilgamesh su un valore
positivo, l’amicizia, mentre le altre non gli procurano che la più cruda amarezza. Di fronte
a questo problema svaniscono tutti gli altri che pure dovevano preoccupare gli uomini al
tempo di Gilgamesh in Uruk, la città di cui è re, posta nella terra di Sumer nella Bassa
Mesopotamia. Nel poema nessun cenno dei rapporti con le altre città-stato di Sumer;
nessuna menzione di Nippur come il centro religioso della regione; nessuna precisazione
sulla topografia della città; appena una rapida menzione delle mura della città e
dell’Eanna; la guerra contro Humbaba per avere il legno di cedro necessario alle
costruzioni è mascherata da motivi di giustizia; vi è già nota la scrittura, ma non sappiamo
a quale grado di sviluppo. Insomma nel poema la vicenda sembra situata fuori del tempo e
dello spazio, come vicenda eterna.
In realtà gli scavi hanno accertato ad Uruk due centri sacri, Eanna “casa del cielo” e
Kullab, dove erano venerati il dio del cielo, Anu, capo del panteon, e Ishtar (in sumero
Innanna), assimilata col pianeta Venere, qui considerata di genere femminile, figlia di Anu
e Antu, mentre altrove è detta figlia di Sin, il dio Luna, e sorella di Shamash, il dio Sole.
Enki, Enlil e Shamash, pur essi citati nel poema, avevano invece le loro principali sedi di
culto rispettivamente in Nippur, Eridu e Larsa. Uruk è testimone nel IV millennio a.C. di
un processo più intenso che altrove di urbanizzazione e specializzazione del lavoro come
confermano i dati archeologici e afferma il mito di Innanna ed Enki dove Innanna
trasferisce da Eridu ad Uruk le istituzioni civilizzatrici identificate col me, tra cui la geshtu
“l’intelligenza” che nasce dall’ascoltare. L’architettura si precisa in uno stile che costituirà
un modello per le altre città. L’economia, fondata sull’agricoltura e sull’artigianato e
integrata con l’economia pastorale raggiunge verso il 3000 a.C. un tale sviluppo da
consigliare alle autorità della città l’elezione di un uomo capace di difenderla e farla
progredire.
Nel poema l’eletto è Gilgamesh che costruisce mura possenti attorno alla
città e fa una spedizione in un paese lontano per rifornire la città del legno e materiali
occorrenti per le costruzioni. Il progresso materiale forse si accompagna anche ad una
evoluzione in senso spirituale della religione con l’affermazione del culto del Sole accanto a
quello sensuale di Venere.
La Lista dei re ci dice la posizione di Uruk nella storia anche se questa lista va presa
con cautela per gli anni impossibili di regno attribuiti ai vari re, divenendo credibile solo a
partire da Ur-lugal (variante Ur-Nungal), figlio di Gilgamesh, che regnò anni 38. A
Gilgamesh, che nella Lista é detto figlio del gran sacerdote di Kullab, sono attribuiti 126
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anni di regno; l’eroe si situa così al confine fra la storia e la preistoria come il predecessore
Dumuzi (o Tommuz) coi suoi 100 anni di regno, il quale anticipa la situazione propria dei
re mesopotamici come rappresentante del dio della città che è anche di soggiacere alle
vicende di morte e resurrezione annuale in sintonia con la natura. Decisamente mitiche
appaiono invece la figura di Meskiaggasher, figlio di Utu (il dio Sole numero), che inizia la
serie dei re di Uruk con 324 anni di regno divenendo gran sacerdote re di Eanna; del figlio
Enmerkar (420 anni di regno), il quale costruì Unug, nome sumero di Uruk; del pastore
Lugalbanda (1200 anni di regno). E’ tuttavia possibile che questi tre re testimonino un
processo di organizzazione politica a più alto livello avviato, pur entro limiti ristretti, fin
dall’inizio del calcolitico (5000-3400 a.C.) quando nel villaggio iniziò una progressiva
differenziazione nel lavoro e nelle funzioni sociali che doveva concludersi con la nascita
delle città all’inizio dell’età del bronzo (3000 a.C.).
Gilgamesh potrebbe essere vissuto proprio verso il 3000 a.C. o poco più tardi se
appartiene alla storia e non al mito. Comunque molte sono le menzioni di lui come re di
Uruk; basti citare l’iscrizione di Anam, dove Gilgamesh è detto costruttore delle mura di
Uruk, quella di Tummal, dove è ricordato come costruttore del Numumburra di Enlil a
Nippur, infine il poema sull’Assedio di Uruk, che pone Gilgamesh contemporaneo di re
noti da altre fonti. La spedizione poi contro Humbaba richiama l’espansione verso nordovest della civiltà sumera attestata da reperti archeologici, e nello stesso tempo la minaccia
a Sumer in questo tempo da tale direzione, minaccia ricordata in un testo, mentre altri
dati, proponendo l’identità fra Humbaba e la divinità paleosiriana Kombabos, chiariscono
che Humbaba non ha nulla a che fare con un dio elamico dal nome affine, anche se non è
da escludere che Uruk abbia cercato di rifornirsi anche nell’Elam del materiale occorrente
per il suo sviluppo. Ben poco invece sulla storicità o meno di Gilgamesh possiamo ricavare
dall’analisi del suo nome e di quello dell’amico Enkidu.
Non è improbabile che la leggenda di Gilgamesh sia cominciata vivente l’eroe o
subito dopo la sua morte con vari canti tra loro autonomi che ne celebravano le imprese
eroiche e la singolare figura morale. In realtà ci restano, benché in ombra rispetto al
poema, vari componimenti su Gilgamesh: Gilgamesh e il paese del vivente; Gilgamesh e il
toro celeste; Gilgamesh, Engidu e gli Inferi; Gilgamesh e Agga; La morte di Gilgamesh.
Non va poi sottovalutata l’informazione dataci dallo stesso poema che Gilgamesh scolpì
tutto il suo travaglio su una stele anche se la scrittura ai suoi tempi era certo appena agli
inizi. Comunque il poema, così come lo possediamo, dovette nascere più tardi, sempre in
sumero, forse al tramonto della III dinastia di Ur, quando stava per crollare per sempre la
civiltà sumera, venendo rielaborato forse subito dopo in paleobabilonese a Larsa, città
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sacra al dio Sole. L’ignoto autore, o autori, forse prima sumero, poi babilonese, tenne conto
dei componimenti sul personaggio che confermavano la sua interpretazione, senza cedere
alla tentazione di ridurre il poema a biografia o a storia, ma proiettando sulla eccezionale
figura dell’eroe, già di per sé disponibile per tale operazione, la propria problematica
insieme con la meditazione sulla caducità di ogni cosa, anche grande, anche se espressa in
forme belle e in sapiente organizzazione. Il poema può essere l’epicedio della splendida e
potente civiltà sumera, sopraffatta da uomini “barbari” come i primi Amorriti invasori di
Sumer.
Il poema, trascritto quasi letteralmente in caratteri cuneiformi assiri tra la fine della
dinastia cassita (1160 a.C.) e il regno di Tiglaptileser I (1112-1074 a.C.), entrò nella
biblioteca annessa al palazzo reale di Ninive al tempo di Assurbanipal (668-629 a.C.). Nella
redazione neoassira appare in XII tavol, numero sacro che nel poema si accompagna al 3 e
al 120 dello stesso sistema sessagesimale; ma nel poema ricorrono pure i numeri 7, 14, 50 e
10000, dei quali gli ultimi due appartengono al sistema decimale.
Purtroppo di un poema così bello non è possibile avere un quadro completo per le
troppe lacune del testo; delle 3600 linee della redazione primitiva resta appena la metà. Si
sfruttano così ad integrazione frammenti di epoche diverse, spesso di redazioni diverse,
talora traduzioni che però appaiono non raramente piuttosto dei rifacimenti. Poco
giovamento all’intellezione di aspetti particolari - giacché il tema centrale è ben chiaro offre l’arte figurativa, in particolare i cilindri con le loro scene mitologiche e religiose,
perché nessuna di queste scene richiama con sicurezza episodi o figure del poema, e se il
ciclo in esse rappresentato sembra quello di Gilgamesh, gli episodi sono difformi da quelli
del poema. Anche con questi limiti tuttavia il poema occupa nella storia della poesia epica
un posto importantissimo essendo possibile seguirne le vicende lungo un arco di oltre 1500
anni; per esempio la storia del diluvio, che ora occupa nell’ultima redazione la tavola XI, e
che ci è nota anche da un poema sumero, è certo un’aggiunta abbastanza recente, anche se
collocata al posto giusto; e non è certo l’unico elemento esterno che sia accolto dal poema
ormai orientato in una precisa interpretazione del vivere.
In realtà il poema presenta un intrecciarsi di concezioni arcaiche e recenti, una
simbiosi di dati storici, religiosi e sociali, una problematica filosofica così tra loro
interagenti che lo studioso fatica non poco a collocare in una esatta prospettiva storicoculturale le singole componenti. La stessa genesi del nucleo centrale del poema è con
difficoltà definibile perché, se il punto di partenza è la biografia di Gilgamesh nell’arco più
interessante della sua vita, dal punto di vista filosofico lo stesso va forse cercato anche nella
crisi scoppiata al tramonto della civiltà sumera, mentre è arduo definirlo dal punto di vista
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religioso: è possibile infatti che nel poema restino almeno tracce del culto ctonico con la
vicenda alterna della vita-morte della vegetazione incarnata nei due paredri della MadreTerra che incarnano rispettivamente la stagione della vegetazione, quando la natura è un
prorompere di forme e di vita, e quella opposta, sia che vi trionfi il sole che dissecca o
l’inverno che gela spegnendo ogni vita, almeno in apparenza. In questa prospettiva Enkidu
e Gilgamesh possono essere accostati in Sumer a Tammuz e Ningishzida, in ambiente
cananeo a Mot e Aleyn, o in ambiente greco a Castore e Polluce, o a Edipo e Laio, mentre in
area latina si può citare la coppia Romolo e Remo.
Non per questo tuttavia il poema manca di unità e di coerenza psicologica. Il poeta
sa armonizzare tra loro lungo una convincente linea di sviluppo sia i temi proposti da una
esperienza sofferta sia quelli sorgenti da un ambiente storico-sociale in piena evoluzione:
tema della vita precosciente che situa l’uomo sul piano degli animali (Enkidu che vive con,
e come, gli animali nella innocenza di chi non conosce né il bene né il male né civiltà né
problemi né tormenti): tema della donna che distruggendo questa innocenza porta l’uomo
alla coscienza e alla civiltà, ma nello stesso tempo lo può riportare alla condizione ferina se
l’istinto sessuale non è ordinato alla fondazione di una famiglia e comunque all’amore (la
prostituta con la sua sessualità riscatta Enkidu dalla ferinità: Ishtar trasforma in animali i
suoi amanti); tema dell’affermazione della personalità in opposizione ai limiti che la
circoscrivono (Enkidu che vuole misurarsi con Gilgamesh; Gilgamesh che rifiuta il limite
della morte); tema dell’eroismo che vince il tempo grazie alla gloria che dona (lotta di
Gilgamesh contro Humbaba); tema della saggezza (i consigli degli Anziani e di
Utnapishtim), tema della giustizia (Enkidu combatte contro Gilgamesh; Gilgamesh
combatte contro Humbaba per affermare non solo sé, ma la giustizia); tema del piacere che
distoglie l’uomo dalle grandi azioni (parole di Siduri a Gilgamesh); tema del fascino della
forza virile (Ishtar si innamora di Gilgamesh che la rifiuta rinfacciandole la forza
corruttrice); tema dell’amicizia (la coppia Gilgamesh ed Enkidu); tema del combattimento
contro animali (lotta dei due eroi contro il toro e quella di Gilgamesh contro mostri
all’inizio del suo viaggio); tema della malattia e della morte ineluttabile; tema della
ricompensa oltre la morte; tema del diluvio; tema del paradiso terrestre dove la morte non
ha potere (terra di Utnapishtim); tema dell’albero della vita e del serpente che lo rapisce;
ecc.
Se l’abilità del poeta è grande nel comporre in unità artistica dati e temi così
eterogenei, non minore si palesa nel distribuire le vicende sui piani divino e umano, di
continuo tra loro intersecantisi e all’interno dilaniati da contraddizioni. A fatica il dio
supremo Anu riesce a salvare l’equilibrio cosmico di cui uomini e divinità fanno parte
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(diluvio). Gilgamesh non in Anu ha fiducia, bensì in Shamash, il dio Sole, trasparente
allusione alla razionalità che investe della sua luce e dei suoi uomini. Di fronte sta Isthar
che conosce solo la legge dell’istinto in particolare sessuale, mentre Shamash vuole
essenzialmente l’affermazione della giustizia. Tra gli dei Shamash, il dio giusto, è il più
vicino all’uomo e gli addita nella norma etica il modo per sfuggire alla tragicità di un
esistere che dipende dalla spesso imprevedibile volontà degli dei. L’uomo non riesce a
leggere il pensiero divino se questo non si cala sul paino razionale accessibile alla ragione,
né la divinazione o la magia riescono a svelare il mistero, se esso si cela in latebre
irrangiungibili. Shamash, non Ishtar, illumina il cammino dell’uomo cui sono compagni da
una parte i sogni, quasi fari che esplorano lo spazio da percorrere, dall’altra il coraggio, se
non la disperazione di chi, pur vedendo impari le proprie forze, preferisce la morte
piuttosto che la resa.
L’eroe combatte da solo; nessuno gli è accanto ad incoraggiarlo nella ricerca
affannosa dell’immortalità, anzi v’è chi lo invita a rinunciare a tale impresa
abbandonandosi al piacere, chi ne lo dissuade dicendogli i pericoli e gli ostacoli cui va
incontro, e v’è anche chi gli ricorda il duro destino dell’uomo. Solo la moglie di
Utnapishtim tenta, per compassione, di aiutarlo in questa difficile impresa, ma invano. Nel
momento supremo nessuno fa fuggire il serpente, quasi incarnazione del fato crudele o del
male, che rapisce a Gilgamesh, addormentato per stanchezza, il ramo di vita: né la moglie
di Uthnapishtim, né Enki, che pure nel diluvio fu dalla parte dell’uomo contro l’inflessibile
Enlil, né Ishtar che nel suo volto materno protestò per la strage degli uomini nel diluvio e
neppure Shamash, il dio della giustizia. Assenza amara quest’ultima, anche se non
denunciata, come a dire giusto il destino dell’uomo di servire gli dei e morire anche se
questo servire è come un partecipare alla loro azione ordinatrice e costruttrice. Il poema di
Gilgamesh anticipa il poema babilonese del “Giusto sofferente”.
Ma il dolore umano non nasce solo dallo spazio incolmabile tra i limiti umani e
l’onnipotenza divina, bensì anche dall’uomo, dal suo egoismo, dalla sua volontà di
sopraffazione per affermare sé a spese degli altri. Accanto al buono c’è il malvagio come
accanto al dio ci sono gli spiriti cattivi; se non che questi non possono prevalere sulla
divinità, l’uomo malvagio può invece prevalere sul buono. Perché gli dei tollerano questo?
Altro è il discorso sui mali che l’uomo si attira con la sua malvagità; ma che dire di quelli
che capitano agli innocenti come le malattie e le disgrazie? La risposta è che è stato violato
l’ordine, ma si tratta di un ordine formale, senza un contenuto etico. Gilgamesh attende da
Shamash, che tutto vede, un ordine più alto.
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Un’opera con una tale problematica non poteva sorgere che nell’ambiente dell’Edubba “casa delle tavolette”, cioè della scuola annessa ai grandi templi, dove accanto ad un
insegnamento comune doveva essercene anche uno per iniziati o comunque a più alto
livello; basti pensare alla ricca produzione sapienzale mesopotamica, alle soglie ormai della
filosofia, e alla ingente quantità di osservazioni astronomiche accumulate che non
potevano non sollecitare gli studi matematici verso la scoperta dell’ordine fisico in
opposizione o alternativa rispetto a quello divino.
In campo più propriamente religioso il problema della caducità degli imperi e il
morire di ogni cosa non poteva trovare risposta soddisfacente nella vicenda, constatandosi
che in natura, dopo la morte, la natura rinasce anche se questa vicenda trascritta in termini
rituali, richiamava il passaggio dal caos primordiale all’ordine ad opera di Marduk, la cui
opera era appunto celebrata nella festa del Capodanno. Se rinasce la natura, non rinasce
l’individuo: la morte non abbandona la sua preda. Se almeno, visto che alla morte non si
sfugge, la vita oltre tomba fosse passabile! ma anche questo è negato, e solo chi ha figli o
parenti o amici che lo ricordino o ha lasciato fama di sé può sperare una condizione meno
grave. Oltre questo limite l’E-dubba non riesce ad andare.
Tanta tensione di pensiero calandosi in una esperienza esistenziale non poteva
trovare espressione adeguata che nella poesia. Nel poema rade volte l’ispirazione,
sostenuta dal ritmo giambico-anapestico dei versi, scade a toni prosaici. Lo stupore del
poeta di fronte alla bellezza della natura, alla grandezza delle gesta eroiche, alla tremenda
potenza divina accompagna la meditazione. Nessuno spazio per la comicità o la mediocrità,
ma un aprirsi di orizzonti di foreste meravigliose, di monti inaccessibili che il sole ogni
giorno traversa, di pianure dove gli animali vivono liberi, di mari misteriosi pieni di
insidie, di oasi di pace e di piacere, cui si contrappone il tenebroso regno della morte.
Punto di partenza e di arrivo la città di Uruk dalle splendide mura dove la vita ferve
intensa: città di artigiani, di contadini e di commercianti in scambio attivo col mondo dei
pastori, città di giovani guerrieri, di saggi anziani, di donne trepidanti per i loro cari. Al
centro delle città l’E-anna, la dimora terrestre del dio Anu, cui è a fianco quella di Ishtar, la
dea che sa amare e odiare. Al centro della vicenda Gilgamesh, grande e nello stesso tempo
debole, quasi figura bifronte, anticipazione di essere contraddittori come Adone. Il poetafilosofo è alle soglie della coscienza dei due volti della realtà: assoluto e contingente, eterno
e tempo, essere e non-essere, maschera fissa e apparenza mutevole. Gli dei sono, l’uomo
esiste. Il frammento di divinità che è in lui non lo riscatta dalla colpa originaria.
Il poema ebbe una fortuna immensa nell’antico Oriente. Ci restano frammenti di
redazioni diverse trovate nei luoghi più lontani da Sumer; sorvolando sulla biblioteca di
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Ninive, donde deriva gran parte del poeta rimastoci, frammenti sono stati trovati a
Megiddo in Palestina (sec. XIV a C.), ad Ugarit in Siria (sec. XIV a.C.), ad Harmal, ed
altrove. Gli Hurriti ne fecero una versione nella loro lingua verso la metà del II millennio
a.C.; lo stesso fecero gli Hittiti alla stessa epoca. Numerose consonanze tra l’Odissea e il
poema di Gilgamesh lasciano supporre che Omero conoscesse almeno le linee generali di
questo penetrato in Occidente o per via di mare, tramite gli Achei frequentanti il porto di
Ugarit, o per via di terram tramite i mercanti che facevano capo all’emporio commerciale
di Hattushash, la capitale degli Hittiti, o forse per diffusione popolare tramite gli staterelli
sorti nell’Anatolia occidentale al crollo del grande impero hittito. Omero comunque o non
intese o rifiutò la concezione sottesa al poema partendo da una definizione ben diversa dei
rapporti dell’uomo con gli dei, se pure il poema giunse a lui nella sua sostanziale interezza
o non invece in una versione popolare semplificante. Del resto ai tempi di Omero la
filosofia in Grecia era ancora da nascere, senza dimenticare poi che a suo tempo prenderò
l’avvio non dalla morale come in Mesopotamia, ma dalla fisica, scelta significativa che
approderà alla filosofia dell’essere, mentre il pessimismo del poema sembra portare alla
filosofia del non-essere, che non ammette riscatto neppure con l’astuzia di Ulisse: o se
riscatto si vuole, questo è offerto, ma illusoriamente, dalla gloria di imprese eroiche. Il
richiamo ad Ercole si presenta qui naturale, ma il Gilgamesh che rivive in Ercole è l’eroe
caro alla fantasia popolare che ammira il campione della giustizia e del diritto e il
domatore di belve, non l’espressione di una esperienza meditata e sofferta; è il Gilgamesh
della glittica, non del poema. Va qui però chairito che di fronte a questo atteggiamento
pessimista la Mesopotamia ne conobbe anche uno di senso opposto come quello emergente
dal poema Ludul bel nemeqi “Voglio lodare il Signore della sapienza”, in cui il giusto dopo
tante disgrazie alla fine trova giustizia; questa vi appare in sostanza ancorata ad un logos
non ignoto alla speculazione teologica mesopotamica come sembra suggerire la
successione Enki, Marduk, Nabu; Enki, detto anche Ea “casa delle acque”, è dio delle acque
sotterranee che alimentano la vegetazione e riempiono i pozzi, in rapporto con il mitico
Oannes che insegnò all’uomo le arti; nello stesso tempo come signore del sottosuolo è ABZU “dimora del sapere”, divinità amica dell’uomo. Marduk, suo figlio, è l’ordinatore
dell’universo nella tradizione babilonese; Nabu, figlio di Marduk, è dio della scrittura,
quindi anch’esso in rapporto col pensiero. E’ interessante che nel mito di “Innanna ed
Enki” le istituzioni civilizzatrici, identificate coi me, sono trasferite da Eridu ad Uruk; fra
questi me è la gesthu “l’intelligenza” che nasce dall’ascoltare, mentre Gilgamesh, detto nel
poema a lui intitolato “colui che tutto vide”, giunge alle sue conclusioni non in base ad
informazioni ricevute, ma per esperienza da quando “vide” per la prima volta con stupore
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la bellezza gagliarda di Enkidu, a quando con orrore ne vide il disfacimento operato dalla
morte, a quando lo rivide povera squallida ombra di morte. Anche l’Ulisse omerico che
vanta una intelligenza più spesso orientata agli inganni, alla fine approda alla sua isola da
tanto sospirata appagandosi degli affetti dei suoi cari; ma una tradizione diversa,
attraverso la mediazione latina, preannuncia l’interpretazione dantesa, mentre in Oriente
Alessandro Magno nella tradizione popolare e dotta assomma tratti di Gilgamesh, di Ercole
e di Ulisse come documenta il cosiddetto Callistene, raccoglitore nel Romanzo di
Alessandro delle leggende del re macedone sparse in tutto l’oriente; questa interpretazione
passerà poi nell’Occidente medievale tramite Giulio Valerio Polemio traduttore o rifacitore
nel IV sec. d.C. della stessa opera.
Con Dante Ulisse è inserito in una prospettiva cristiana di cui, mentre accoglie
l’ansia della liberazione dai limiti, rifiuta tuttavia l’essenza che non è la conoscenza, ma
l’amore. Per avere esperienza di ogni cosa, in sostanza per soddisfare una inesauribile sete
di conoscenza, abbandona padre, moglie, figlio, patria con una scelta senza pentimenti; e
fallirà. Ma la ragione dello scacco non è per aver rifiutato i limiti, ché per Dante è “follia” o
hybris accettarli quando il nostro destino è oltre, bensì per aver creduto che il sapere senza
amore possa riempire il cuore umano; la dimensione umana è più ricca di quanto non
pensino la Confindustria, i sindacati o i partiti o di quanto con degnazione le permettano i
filosofi. Non è qui in gioco un aut aut, ma l’uomo nella sua interezza che è corpo, ragione,
volontà, con esigenze distinte. Gilgamesh rivive in Ulisse, ma solo fino alle Colonne
d’Ercole e solo per l’ansia di uscire dai limiti; la scelta fatale, scelta cosciente e libera, tra
amore e sapere è solo di Ulisse che se non avesse dato malvagi consigli sarebbe nel Limbo,
tra coloro che al Cristo presentatosi per liberarli dissero: “Grazie, ma non abbiamo bisogno
di Te”. Questo in sostanza dice Dante, e lo ripeterebbe tuttora ai tecnocrati, ai politici, agli
scienziati.
Gilgamesh è al di là di tale scelta: nessun dio si offerse per liberarlo. Se Dante,
novello Ulisse, non fallisce, è perché rifiuta la scelta opponendole una lettura più profonda
della dimensione umana che non è spirito o materia, eterno o tempo, assoluto o relativo,
ma è sintesi di questi valori; per usare termini danteschi è un nove, alla cui radice sta il tre,
cioé un Pensiero o Sapienza che si cala nel tempo-spazio, (potenza) perché una Volontà,
che è Amore, liberamente ha fatto tale scelta, e se questo processo è dall’alto in basso, da
Dio all’uomo, il cammino di Dante è dal basso all’alto al recupero di questo sapere la si
attua per amore; in termini allegorici è un seguire prima Virgilio, poi Beatrice fino ad
incontrare il Cristo, in cui nel finito incontra l’infinito.
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La suggestione della interpretazione dantesca, stranamente più vicina a quella
sumera che a quella di Omero, favorisce in età moderna accanto a ripensamenti dell’Ulisse
omerico altre incarnazioni dell’eroe. Se l’Ulisse foscoliano non cede alle lusinghe delle
sirene, cede invece all’ambizione quando si fa assegnare senz’averne diritto, le armi di
Aiace; ma giustizia verrà fatta e un viaggio tempestoso sarà la sua purificazione.
Sorvolando sulle interpretazioni di Graf e di Tennyson, Pascoli vede Ulisse passare,
immerso per stanchezza nel sonno, accanto ad Itaca senz’avvedersene; sonno fatale, come
quello di Gilgamesh. La felicità ci passa accanto e non ce ne avvediamo; la felicità si
comprende solo quando è svanita. E’ vicina, tra le mura famigliari, tra gli amici, e noi la
cerchiamo lontano; è nell’espletamento del dovere, e noi rifiutiamo sdegnosamente tale
parola per chiudervi solo gli altri; è nel coraggio quotidiano; è nel coraggio quotidiano per
non cedere a mille compromessi, e tante viltà, e noi la cerchiamo nei discorsi sulla
giustizia, ottimo alibi per le nostre ipocrisie. Odisseico anche Alexandros infaticabile nel
suo rifiutare i limiti; ma giunto ai confini della terra s’avvede di avere conquistato il Niente
E così piange, poi che giunse anelo:
piange nell’occhio nero come la morte;
piange dall’occhio azzurro come il cielo.
Anche lui è passato accanto alla felicità senza riconoscerla; come sarebbe stato più
felice se fosse rimasto nella sua casa, tra i suoi cari! I sogni avrebbero colmato ben meglio
la sua sete dell’illimite. Ma in L’ultimo viaggio anche i sogni tramontano lasciando un
amaro senza fine, anche quelli che sogni non furono, bensì realtà: risalpato da Itaca per
rivedere i luoghi toccati nel vario peregrinare di dieci anni prima, Ulisse non li riconosce
più, sparite o mutate le persone, spenti gli antichi entusiasmi. Approda allora al lido delle
Sirene per sapere se mai s’illuse quando la prima volta partì da Itaca.
Son io! son io, che torno per sapere!
Ma nessuna risposta:
E il vecchio vide un gran mucchio d’ossa
d’uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente
stese sul lido, simili a due scogli.
Agli antipodi l’Ulisse dannunziano, superuomo che scavalca nella sua energia ogni
limite, domando anzitutto i limiti che il corpo imbelle oppone alla sua volontà di acciaio;
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impersonato nella figura del giovane pittore ed esploratore Guido Boggiani, finirà
assassinato nell’America meridionale ad opera di selvaggi obbedendo al fato che lo
“spingea senza tregua
più oltre, più oltre, nel nuovo.
Più umano l’Ulisse di Saba che ripercorrendo i luoghi già visti nella sua giovinezza
s’avvede che non è spenta l’antica volontà di ricerca; al largo lo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
Con Joyce può chiudersi questa rassegna delle interpretazioni di un eroe nato ad
Uruk cinquemila anni fa e non ancora stanco nel suo cercare perenne; e non perché Joyce
cronologicamente sia l’ultimo che abbia affrontato il tema o, sotto forma allegorica, con più
ampiezza, ma perché è l’unico che sappia offrire all’eroe una “uscita di sicurezza”, in altre
parole la salvezza; ed è la salvezza che già propose Dante. La fatalità di un camminare vano
è dissolta come nebbia sotto i raggi del sole, e l’uomo è messo davanti alle sue
responsabilità o vigliaccherie o egoismi. Se Gilgamesh, sha nagba imuru “colui che tutto
vide”, si chiude in uno sconforto senza ricatti dopo aver visto sbarrate dall’esterno tutte le
porte, l’Ulisse di Joyce cioè il trafficante ebreo Leopold Bloom non può non vedere che la
salvezza è lì a sua portata di mano; dipende da lui aprire o chiudere la porta, cioé vedere o
no oltre i sensi, e leggere il senso della vita. Ciò che appunto riesce alla moglie, pur
soffocata da limiti umani:
“amo i fiori desidererei che tutta la casa affogasse di rose Dio del cielo non c’è
niente come la natura le montagne selvagge e il mare e le onde che galoppano e la
campagna bella coi campi di avena e di grano e di tutte le belle greggie che vanno a
spasso ti rallegrerebbe il cuore vedere fiumi larghi fiori di tante specie di forme di
profumi di colori che spuntano dappertuno persino nei fossati delle primavere e delle
violette è la natura quanto a quelli che negano Dio non darei un soldo per tutta la loro
scienza perché non cominciano a creare qualcosa non sanno nulla tanto varrebbe che
cercassero di impedire che il sole si levi domani mattina è per voi che il sole brilla”...
IL POEMA DI GILGAMESH
riassunto
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Il poema si apre con la presentazione di Gilgamesh quale eroe “che tutto vide”,
trasparente allusione all’esperienza che egli verrà via via maturando, e della quale è dato
un cenno sommario, a cominciare dalle grandi opere fatte in Uruk, la città che è stato
chiamato ad abbellire, arricchire, proteggere. Cosciente delle proprie capacità Gilgamesh,
inorgoglito dal successo, ritiene di poter comandare al di là dei limiti fissati dai
rappresentanti della città quando venne eletto re. Di fronte a lui nessuno può vantare
diritti, neppure lo sposo; Gilgamesh rivendica a sé non solo lo “jus primae noctis” ma il
diritto al possesso in ogni senso degli uomini e delle donne, come se fosse un Dio.
I cittadini, stanchi di questo comportamento, non avendo forze sufficienti per
opporglisi, ricorrono ai grandi dei e in particolare ad Anu, il dio protettore di Uruk, che
allora ordina ad Aruru, la dea che ha creato l’uomo, di crearne uno pari a Gilgamesh,
affinché sappia, lottando, farlo rientrare nei limiti; Gilgamesh deve sapere che se per due
terzi è dio, per un terzo è uomo, quindi non può vantare diritti non suoi. Aruru ubbidisce e
anzitutto forma in sé l’immagine di Anu, quasi uno stampo che riempie di argilla
impastata; crea così Enkidu, quasi animale selvaggio in forma d’uomo.
Enkidu “non conosce né la gente né il paese”; “assieme alle gazzelle” ed agli animali
egli vive e va all’abbeveratoio. Un giorno qui lo fronteggia un cacciatore, ma non lo vince;
lo affronta ancora un secondo ed un terzo giorno finché impaurito di fronte alla forza
eccezionale di Enkidu racconta tutto a suo padre elencando i danni da lui fatti: riempie i
pozzi, fa fuggire le mandrie e le greggi, strappa le trappole, non lascia che si lavori la
campagna. Il padre consiglia allora di andare da Gilgamesh a chiedere aiuto già
prevedendo il consiglio che darà. Così avviene. Gilgamesh non va lui in persona a domare
Enkidu ritenendo che non giovi la forza per indurre quell’uomo selvaggio a rispettare le
norme del vivere civile. Consiglia invece il cacciatore di portare con sé all’abbeveratoio una
prostituta, probabilmente una di quelle addette al culto di Ishtar. Essa saprà educarlo. Il
cacciatore segue il consiglio e parte con la prostituta giungendo all’abbeveratoio dopo tre
giorni. Due giorni attendono, finché vengono le bestie a dissetarsi e con esse Enkidu.
Quando il cacciatore lo riconosce, lo addita alla prostituta perché inizi la sua opera. Enkidu
rimane incantato di fronte alla bellezza di lei dimenticando il bestiame del quale finora era
stato compagno. Sei giorni e sei notti sta con lei finché “saziato della sua voluttà” si rivolge
verso il suo bestiame; ma questo fugge da lui, non più riconoscendolo. Enkidu cerca di
raggiungerlo, ma si avvede che gli sono venute meno le forze fisiche, mentre si è acuita
l’intelligenza. Si siede allora ai piedi della prostituta che comincia a dirgli: “Saggio sei, o
Enkidu, sei come un dio”, invitandolo quindi a rinunciare per sempre alla compagnia degli
animali, entrando invece in quella degli uomini; gli descrive quindi la città di Uruk coi suoi
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templi e col suo re Gilgamesh, aggiungendo che è re prepotente. Enkidu è preso da
sentimenti opposti; da una parte “il suo cuore sapiente cerca un compagno”, dall’altra
intende dare una lezione al re prepotente e mostrargli che “chi è nato nella campagna, la
sua forza è potente”! La prostituta, contenta che Enkidu accetti di entrare in Uruk, descrive
a vivi colori la vita della città e la bellezza del re invitando Enkidu a mutare la sua
avversione contro Gilgamesh: “Gilgamesh, Shamash lo ama!”; gli dei gli han dato
l’intelligenza. Aggiunge che Gilgamesh ha visto in sogno un uomo forte che lo vinceva, poi
in un secondo sogno un’accetta che cadeva: allora egli portò prima il forte, poi l’accetta alla
madre, perché ne facesse un suo uguale. La donna conclude dicendo che la madre,
“Ninsun, la sapiente”, invitata da lui a spiegargli i sogni, rispose che tanto l’uomo forte che
l’accetta indicano che “un compagno potente viene in aiuto dell’amico”. Enkidu rimane
pensieroso; capisce che sta per trovare un compagno, anche se il primo incontro sarà uno
scontro per mostrare al re che gli è pari. Il motivo della lezione da dare passa in
second’ordine.
La cortigiana, rivestito Enkidu di abiti civili, lo porta alla mensa dei pastori
insegnandogli a mangiare e bere educatamente come un uomo. Quando il suo animo si è
rasserenato grazie a “sette boccali” di liquore, Enkidu si unge d’olio, si veste come uno
sposo, poi prende l’arma per i pastori con soddisfazione di tutti per il suo comportamento,
quando un giorno vede uno che, giunto da poco, parlava coi pastori. Enkidu chiede alla
cortigiana di parlare, fissa intensamente Enkidu; certo vede in lui l’unico che potrebbe dare
una lezione al re prepotente per le sue malefatte che subito comincia ad elencare. Alle
parole di quell’uomo Enkidu prende la decisione: andrà ad Uruk per dare una lezione al re.
Parte e la cortigiana gli tiene dietro. “Egli entrò in Uruk dai mercati”. La gente accorsa
diceva: “Come è del tutto uguale a Gish!” (abbreviazione di Gilgamesh). E tutti sono
contenti che ora Gilgamesh ha trovato chi gli insegna a non abusare del potere. Gilgamesh
intanto - era sopraggiunta la notte - si avvia per dormire con Ishhara, quando Enkidu gli
taglia la via. Comincia subito lo scontro; sono vicini alla porta del mercato. Gilgamesh
vuole entrarvi perché tutti vedano come egli punisce chi osa opporglisi, ma Enkidu “non
lasciò entrare Gish”. La lotta, durissima, si conclude con la vittoria di Enkidu, il quale però
a sua volta riconosce che il dio Enlil ha dato la regalità a Gilgamesh. Così divengono amici.
Un giorno Gish vede Enkidu piangere; ne chiede la ragione. Enkidu risponde che si
sente abbattuto. Gilgamesh allora gli propone un’impresa eroica: uccidere Humbaba
estirpando dal paese ciò che vi è di cattivo e portare via i suoi cedri. Enkidu non è
entusiasta della proposta perché sa quanto sia terribile Humbaba; già fu nella sua foresta
quando vagava col bestiame. Gish gli ribatte che non bisogna temere la morte.
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“L’umanità numerati sono i suoi giorni,
tutto ciò che essa fa è un soffio”.
Se morrà combattendo, avrà una gloria che non perirà. Alla fine Enkidu si lascia
convincere. Gli artigiani preparano le armi. La gente accorre alla grande porta per vedere
gli eroi partire; vengono dai mercati anche gli anziani, ai quali Gish dice che cosa si accinge
a fare. Gli anziani lo dissuadono dall’impresa, ma Gish, rivolto ad Enkidu, dice che se
anche avesse paura, partirebbe lo stesso. Allora gli anziani consentono all’impresa. A
questo punto Gish prega il dio Shamash di poter tornare; ora è lui ad aver paura. Gli
artigiani intanto gli portano le armi, chiedendogli quando ritornerà, mentre gli anziani gli
dànno consigli sulla strada da prendere: sia prudente; ricordi che Enkidu conosce la
strada; il dio Shamash e lo spirito di Lugalbanda, antico valoroso re di Uruk, lo
proteggano! Faccia sempre libazioni pure a Shamash! Enkidu conforta Gish: lo guiderà lui
al mostro. Gilgamesh prima di partire va con l’amico dalla madre Ninsun per informarla
dell’impresa e invitarla a levare preghiere per loro a Shamash. Ninsun allora, vestitasi
come richiesto, sale sulla terrazza dove fa un’offerta e leva una preghiera a Shamash,
perché il figlio possa estirpare tutto il male del paese. Scesa dalla terrazza, raccomanda la
vita del figlio ad Enkidu.
Gli eroi partono di passo veloce; “lo spazio di un mese e quindici giorni essi
coprirono in tre”. Giungono alfine ad una montagna sulla quale Gish versa farina per avere
un sogno favorevole da Shamash (lacuna). Sono davanti alla porta gigantesca oltre la quale
è la foresta di Humbaba. Enkidu incantato le parla come ad un uomo (lacuna). Alla fine
Gilgamesh invita l’amico: “Discendiamo nella selva e non abbiamo paura!”. Intanto gli
racconta di averlo visto, in sogno ammalato, perché in Uruk espresse timore per questa
impresa. Enkidu risponde che effettivamente si sente fiacco, ma Gilgamesh gli ribatte:
“Saremo noi vigliacchi”? I due amici, di nuovo solidali nell’impresa, partono verso la
foresta. Dalla porta d’entrata vedono le strade e i sentieri che tagliano la foresta
meravigliosa e Humbaba che passeggia. Mentre aspettano che Humbaba venga loro
incontro, Enkidu chiede il significato di un sogno fatto: “Eravamo sulla cima di una
montagna e la montagna cadde... Domani avverrà così”. Gli amici riprendono il cammino;
altra volta Gish versa farina per avere un sogno. Viene la notte e Gish ha un sogno pauroso:
tuoni, tenebre, fuoco. (lacuna) Riprendono il cammino; viene la notte. Gish ha altro sogno
pauroso: una montagna lo getta a terra, gli afferra i piedi, poi un uomo lo libera e gli dà da
bere facendolo contento. Enkidu spaventato per questi sogni vuole tornare (lacuna). Gish
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prega Shamash perché l’aiuti contro Humbaba. Otto venti si levano contro il mostro e lo
bloccano. Humbaba si arrende dicendo:
“Lasciami libero, Gilgamesh, a me tu sii signore, io però a te sarò schiavo”.
Enkidu però consiglia di uccidere il mostro. Così “la testa di Humbaba essi
tagliano”.
Gilgamesh, lavatosi, rivestitosi di abiti puliti con mantello e cintura e messa la tiara
in testa, incanta con la sua bellezza Ishtar, la dea Venere che ammirandone la forza e la
bellezza gli si offre come amante promettendogli ricchezze e felicità. Gilgamesh però
rifiuta, rinfacciandole l’infedeltà e per di più la malvagità, giacché essa trasformò finora
tutti gli amanti in animali. Ishtar offesa chiede vendetta ad Anu, il dio del cielo, suo padre.
Anu sembra minimizzare la cosa; allora Ishtar insiste perché mandi un toro celeste contro
Gilgamesh; in caso contrario essa farà perire il mondo. Anu è restio ad accontentarla,
perché se manderà il toro, ci saranno sette anni di carestia. Ishtar risponde che farà in
modo che ci sia lo stesso abbondanza di viveri per uomini ed animali. Anu alla fine si piega
alla richiesta e manda il toro. Questo, dopo aver abbattuto 1200 uomini, si avventa contro
Enkidu. Momenti terribili; alla fine, mentre Enkidu tiene fermo il toro, Gilgamesh lo
uccide; i due amici allora gli strappano il cuore, che offrono a Shamash. Irritatissima Ishtar
lancia una maledizione contro Gilgamesh. Allora Enkidu, strappata una coscia al toro, la
getta sulla faccia della dea, insultandola. Mentre Ishtar con le donne addette al suo servizio
fa il compianto sulla coscia del toro, Gilgamesh invita gli artigiani e gli armaioli ad
ammirare la bellezza delle corna del toro che dona in ringraziamento a Lugalbanda. Poi,
lavatisi nell’Eufrate, i due amici tornao ad Uruk. Tutti vengono incontro esaltandoli. Segue
una grande festa a palazzo. Nella notte, mentre tutti dormono, Enkidu vede dei sogni che
narra all’amico.
Egli ha visto il dio Anu chiedere in un’assemblea degli dei la condanna a morte di
Gilgamesh, l’uccisore di Humbaba. All’intervento di Enlil perché fosse Enkidu invece a
morire, Shamash ribatteva che nessuno dei due doveva morire essendo Enlil l’istigatore
all’uccisione del mostro. A questo punto Enlil rinfacciava a Shamash l’amicizia coi due
eroi: “Perché da loro come da tuoi compagni ogni giorno sei disceso?” Così, come sempre
secondo il sogno, Enkidu si ammalava a morte maledicendo la prostituta come se la morte
non regnasse anche fra le bestie. A queste parole Shamash rimproverava Enkidu: la morte
non regna solo nelle città, tra le persone civili! E poi perché non tenere conto che la vita
civile presenta tanti vantaggi? Perché Enkidu dimentica che proprio nella città di Uruk ha
incontrato un amico come Gilgamesh e il rispetto di tutti? “Ascoltò Enkidu la parola
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dell’eroe Shamash... e il suo cuore furente si acquietò”. Così, sempre in sogno (lacuna)
Enkidu moriva mentre Gilgamesh levava altissimo il compianto.
In un altro sogno Enkidu ha visto cose terribili: “gridava il cielo, la terra
rispondeva... solo io stavo”. Enkidu si sentiva ghermire dalla morte: “come le unghie
dell’aquila erano le sue unghie”, che lo portavano “nella casa dalla quale chi entra non
eesce, sulla strada dalla quale l’andata non ha ritorno”. Qui trovava gli antichi re, sacerdoti,
indovini, incantatori che vivevano come sulla terra. Quando la regina dell’inferno vide
Enkidu... (lacuna).
Come previsto in sogno, Enkidu davvero muore. Allora quando un po' del mattino
brilla, Gilgamesh intona un lamento pieno di pathos, in cui rievoca la potenza dell’amico, le
imprese fatte insieme, l’affetto che lo legava ad Enkidu (lacuna). Gilgamesh, davanti a quel
cadavere, si sente gelare il sangue nelle vene. “Io, quando morrò, non sarò come Enkidu?
Lo spavento è entrato nel mio animo, la morte temo”. Fuor di sè si slancia allora per la
campagna urlando che non vuole morire. V’è uno spiraglio: un uomo come lui,
Utnapishtim, l’eroe del diluvio, ha ottenuto di non morire; perché non potrebbe anche lui,
Gilgamesh, avere lo stesso privilegio? Così parte per andare a chiedere ad Utnapishtim il
segreto dell’immortalità.
Si avvia verso il monte Mashu dove sono le porte attraverso le quali il sole,
Shamash, ogni giorno entra ed esce. Ivi sono a custodia giganteschi uomini-scorpioni, la
cui vista spaventa l’eroe. La moglie di uno lo riconosce: “Due parti di lui sono dio, un terzo
di lui è umanità”. Allora l’uomo-scorpione chiedere a Gilgamesh: “Perché sei venuto per sì
lontana via”? Gilgamesh risponde che vuole andare da Utnapishtim “per interrogarlo sulla
morte e sulla vita”. L’uomo-scorpione rimane meravigliato di fronte a tale intenzione; mai
nessuno ha fatto tale cammino!
E ne descrive le innumerevoli difficoltà precisando anche quanto sia lungo. Siccome
l’eroe insiste, l’uomo-scorpione lo lascia entrare. La porta immette nell’interno del monte
dove è fitta oscurità. Cammina e cammina, quando, raggiunte “nove ora doppie, egli sentì il
vento settentrionale”; poi dopo una marcia faticosa, ecco la luce, ecco un albero
meraviglioso, i cui rami di lapislazzuli portano frutti stupendi. (lacuna).
Dalle profondità del mare vicino la donna, che ivi abita, cioè Siduri, scorge l’eroe
rimanendo stupita che dal suo cuore escano sospiri come dal cuore di una donna. Nello
stesso tempo però per prudenza chiude a chiave la porta della casa posta sulla terra dove
frattanto essa è entrata.
Gilgamesh sente il rumore del chiavistello e chiede perché essa si sia chiusa entro la
casa; egli vuole entrare a costo di forzare la porta. La donna allora gli chiede perché sia così
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agitato; e Gilgamesh le racconta tutta la sua storia concludendo che è in viaggio alla ricerca
del modo per evitare la morte. La donna però gli dice: “Gilgamesh, dove corri? La vita che
tu cerchi non troverai”. E gli consiglia di mangiare, bere, danzare, cantare, godere delle
piccole gioie che offre la vita, cogliere la bellezza della casa e la dolcezza della vita
famigliare. Ma è come se parlasse al vento; Gilgamesh è irremovibile dal suo proposito,
anche dopo che essa gli ha descritto i pericoli del viaggio. Allora lo informa che nel mezzo
della foresta c’è il battelliere di Utnapishtim che sta cogliendo menta; se è possibile, passi il
mare con lui per andare da Utnapishtim; se non è possibile, torni indietro.
Gilgamesh incontra il battelliere che gli dice il suo nome, Urshanabi, mentre a sua
volta l’erore gli dice il suo. Poi gli chiede di traghettarlo, mentre gli narra la sua storia, la
disperazione per la morte di Enkidu, la volontà di sfuggire alla morte. Urshanabi è disposto
ad accontentarlo, ma come fare se Gilgamesh nel suo furore, prima ancora di incontrarlo,
ha spezzato le pietre magiche lasciate da Urshanabi fuori della foresta prima di entrarvi?
V’è però un rimedio: tagli nella foresta centoventi pertiche da sessanta cubiti, le
calafati, faccia loro la punta e poi le porti a lui. Gilgamesh fa come ha detto. Salgono allora
sulla nave e partono; “una navigazione di un mese e quindici giorni fu compiuta in tre
giorni!” Alla fine raggiungono le acque della morte. Qui il viaggio è faticoso perché la nave
avanza solo se spinta da pertiche sempre più lunghe. Guai se Gilgamesh toccasse le acque
della morte! Esaurite le pertiche, Gilgamesh si spoglia, poi alza con le sue mani gli abiti.
Utnapishtim intanto s’avvede che la nave avanza ma non grazie alle pietre magiche e che su
di essa non c’è il suo battelliere Urshanabi; forse gli abiti tenuti in mano dall’eroe non lo
lasciano vedere. Quando Gilgamesh sbarca, Utnapishtim gli chiede chi sia, poi quale sia lo
scopo della visita. Gilgamesh gli espone il dramma della sua vita, concludendo che per
venire da lui ha affrontato fatiche e pericoli di ogni genere. Non lo deluda ora che è riuscito
a raggiungerlo! Utnapishtim gli risponde: “Per sempre costruiamo le case? Per sempre
apponiamo i sigilli (sui documenti)? Dura sempre l’amore tra fratelli? L’odio contro il
nemico? Per sempre i fiumi si gonfiano? Il dormiente e il morto, essi sono uguali?”. Anche
l’uomo valoroso muore. Nessuno può sfuggire al destino di morte. Gli dei “concedono la
morte e la vita, della morte non rendono noti i giorni”.
Gilgamesh risponde dicendo di essere un uomo come lui. Come quindi poté sfuggire
alla morte? Utnapishtim risponde: “Ti manifesterò, Gilgamesh, una cosa segreta e un
mistero degli dei a te dirò”. Comincia così il rapporto del diluvio. Gli dei avevano deciso di
distruggere col diluvio Shuruppak, “città divenuta antica”; allora il dio Ea (noto anche col
nome di Enki) gli diede l’informazione parlandogli attraverso un canniccio e suggerendogli
di abbandonare i beni per salvare la vita. A questo scopo avrebbe dovuto costruire una
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grande nave. Utnapishtim non sapeva però che cosa avrebbe dovuto dire alla gente
incuriosita di tale costruzione. Ea gli suggerì di dire che Enlil lo scacciava dalla città e nello
stesso tempo avrebbe fatto cadere una pioggia di ogni abbondanza. La gente non capì
l’inganno, e così Utnapishtim poté costruire in pace la nave con l’aiuto di numerosi
artigiani. Alla fine vi caricò tutto ciò che aveva di prezioso, vi fece entrare il bestiame, gli
animali da campagna, gli artigiani, infine la famiglia, e si chiuse dentro. Cominciò allora il
diluvio, nel momento stabilito da Shamash. Fu una scena apocalittica: tuoni mai uditi,
lampi, venti violentissimi, pioggia a dirotto. Perfino gli dei avevano paura; invece nella
nave si attendeva senza timore che cessasse questo finimondo, mentre il capitano della
nave faceva le manovre opportune perché essa potesse prima salire dolcemente, poi
posarsi altrettanto dolcemente sulla terra. Sei giorni e sette notti durò il diluvio; al settimo
cessò il vento meridionale e con esso la pioggia. “Tutta l’umanità era cambiata in fango”.
Utnapishtim, aperta la finestra, vide la luce. Commosso si mise a piangere. Lontano
sorgeva un’isola. La nave andava verso il paese di Nisir, dove si fermò. Il settimo giorno
egli fece uscire una colomba che ritornò: non aveva trovato ove posarsi. Allora fece uscire
una rondine, e ritornò, ma il corvo più non tornò. Allora uscì con tutti dalla nave e fece un
sacrifizio di ringraziamento. Gli dei accorsero come mosche al profumo delle offerte. A
questo punto Ishtar gridò che Enlil, il promotore del diluvio, non aveva diritto al sacrifizio.
Intanto arriva proprio Enlil irritato che qualche uomo si sia salvato; Nimurta gli dice che
Ea svelò il segreto ad Utnapishtim. Segue gran discussione tra Ea ed Enlil. Alla fine Enlil
benedice Utnapishtim e sua moglie concedendo loro l’immortalità. Se Gilgamesh, conclude
Utnapishtim, vuole lo stesso resista al sonno per sei giorni e sette notti! Gilgamesh però
non resiste. La moglie di Utnapishtim intanto ogni giorno faceva un pane che gli poneva a
fianco. Dopo sette giorni Utnapishtim lo sveglia, e per mostrargli quanto abbia dormito gli
fa contare i panti tanto più raffermi quanto meno freschi. Gilgamesh scoraggiato s’accinge
a tornare. Ma proprio mentre sta per salpare, Utnapishtim, su consiglio della moglie, gli
offre l’ultima possibilità: scenda nel pozzo a prendere la pianta della giovinezza. Gilgamesh
scende e la prende; se non che quando al ritorno, assetato, scende in un altro pozzo per
bere, un serpe gli porta via la pianta preziosa. E’ la fine, il fallimento. Non resta che il
ritorno pieno di tristezza. Il battelliere lo accompagna fino ad Uruk dove Gilgamesh gli fa
ammirare la bellezza e forza delle mura.
Se l’episodio del diluvio si inserisce abbastanza bene nel poema, pur essendo
evidentemente estraneo in sé al motivo centrale del poema, quanto è detto nell’ultima
tavola appare incomprensibile se non teniamo presente il poema sumero Gilgamesh,
Enkidu e gli Inferi, di cui qui è utilizzata la seconda metà: la dea Innanna (nome sumerico
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della dea Ishtar) vede sulle rive dell’Eufrate un alberello-huluppu, forse simbolo della
fecondità, che, piegato in malo modo dal vento del sud, viene coperto dalle acque del
fiume. Allora lo strappa portandolo ad Uruk perché, cresciuto, le dia legno sufficiente per
costruire una sedia e un letto; si vuole forse così indicare il periodo di maturazione sessuale
proprio dell’uomo e della donna. Passano gli anni e di questo albero ormai grande si
impadroniscono il Serpente “che non conosce incanto”, che fa il nido ai piedi dell’albero,
l’Uccello-tempesta che pone i suoi piccoli sulla punta più alta, mentre il demone femminile
della lussuria occupa la parte mediana dell’albero. Quando la dea vede ciò comprende di
non poter usare dell’albero, cioè, fuori del mito, vede che la forza fecondante è in fase di
eclisse come accade nella stagione secca e nell’inverno prima che la vegetazione riprenda il
suo ciclo. Ma ecco che il giorno dopo Gilgamesh, forse avvisato da Shamash, uccide il
Serpente e fa fuggire l’uccello e il demone, permettendo così alla dea di fare la sedia e il
letto; cioè la dea riprende la sua azione di dea della fecondità, mentre Gilgamesh è il suo
paredro. Con il legno tuttavia la dea sembra non fare quanto dapprima aveva divisato
giacché costruisce un pukku
e un mikku che non sappiamo interpretare, ma che
probabilmente sono simboli sessuali. Fin qui la prima parte del poema citato che richiama
il mito della discesa di Ishtar agli inferi e quello del suo rapporto col paredro Tammuz.
Naturalmente qui Gilgamesh ha con la dea rapporti di segno opposto a quelli indicati nel
poema. Certo per questo l’ignoto autore del poema di Gilgamesh non utilizzò tutta questa
prima parte del poema sumerico su citato.
La tavola comincia col lamento di Gilgamesh al quale sono caduti sotto terra i due
simboli che permettevano all’eroe di esercitare la sua forza sessuale prepotentemente al di
là di ogni legge. Il passo riprende il tema iniziale del poema, se non che questo, qui, non ha
lo sviluppo quale appunto offre il poema di Gilgamesh, ma si inarca immediatamente sul
tema conclusivo della vita dopo morte. Inoltre l’autore, dimenticandosi che Enkidu è già
morto e sotterra, inserisce il racconto della sua discesa agli inferi che richiama ad evidenza
quello della discesa di Ishtar agli inferi, con ciò sottolineando ancora una volta il tema
dell’alternanza dei tempi della fecondità con quelli della infecondità. Accettando questa
interpretazione il poema sumero Gilgamesh, Enkidu e gli Inferi suggerisce che Gilgamesh
ed Enkidu siano antichi paredri della dea e precisamente Enkidu, il paredro della stagione
verde, e Gilgamesh, di quella secca in cui il sole sembra spegnere ogni vita. Si vedano per
analogia i miti di Mot e Aleyn ad Ugarit, di Castore e Polluce in Grecia.
Gilgamesh dice ad Enkidu di scendere sotterra a prendere i due oggetti: all’uopo gli
dà delle norme perché non resti, per errore, preda degli inferi. Enkidu esegue l’ordine ma
quanto alle precauzioni raccomandategli, fa esattamente il contrario; e così non ritorna alla
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vita. Disperato Gilgamesh va da Enlil e da Sin (dio Luna), ma solo Ea gli dà un aiuto
invitando Shamash a far penetrare negli inferi un suo raggio, perché Enkidu possa uscire.
Enkidu esce, ma solo per pochi minuti. I due amici si abbracciano commossi; poi
Gilgamesh chiede come sia la vita dei morti. Enkidu la descrive crudamente: squallore e
miseria; solo chi ha qualcuno che si ricordi di lui e gli porti da mangiare e da bere, vive
sopportabilmente; chi non ha nessuno, si ciba dei rifiuti dei morti. Il poema finisce, qui,
ma in altro poema La morte di Gilgamesh è detto che l’eroe, dopo la morte, divenne re
degli inferi.
GIAN BATTISTA ROGGIA
Bibliografia essenziale
1) - L’epopea di Gilgamesh con introduzione di G. B. Roggia su “La formazione del
poema e i problemi dello spirito nell’antico Oriente”. - Milano, Bocca, 1944.
2) - M. David, Le Dieux et le destin en Babylonie. - Paris, Presses universitaires de
France, 1949.
3) - H. Frankfort, La royaouté et les dieux.Paris, Payot, 1951.
4) G. Rinaldi, Storia delle letterature dell’antica Mesopotamia. - Milano, Nuova
Accademia, 1957.
5) G. Furlani, Miti babilonesi e assiri. - Firenze, Sansoni, 1958.
6) W. G. Lambert, Babylonian Wisdom Literature. - Oxford at the Clarendon Press,
1960
7) G. R. Castellino, Sapienza babilonese. - Torino, SEI, 1962.
8) S. Moscati, L’alba della civiltà, vol. 3 - Torino, UTET, 1976.
9) G. B. Roggia, Einleitung zu das Gilgamesh-Epos. Sta in Das Gilgamesh-Epos, p.
178-218. - Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1977.
Conferenza tenuta nell’Auditorium di S. Pancrazio il 9-4-1977.
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LO SCANDALO MANZONI
Se un significato della parola scandalo può essere quello di indicare qualcosa che
turbi la suscettibilità, non si può non riconoscere nel caso del Manzoni una componente
appunto scandalistica, che, per i clamori che desta, sovente provoca l’indignazione, e
quindi lo scandalo, di molti.
Clamore derivato sia dai toni altisonanti della sua fama, sia dal contenuto delle
sue opere.
Una fama, quella del Manzoni, che può, oltre tutto, parere a molti usurpata, ciò
che rende ancor più bruciante l’insofferenza verso gli effetti che essa suscita.
Una valutazione della fama dell’autore dei “Promessi Sposi” implica, per essere
obiettiva, un riesame delle opere manzoniane attuato con severi, rigorosi e spassionati
criteri d’analisi; da questi ultimi, poi, potrà conseguire o una scoperta di valori prima
sfuggiti o la conferma di un’operazione mistificatoria avvenuta appunto nel caso dei
meriti del Manzoni.
Non essendo qui possibile tentare un’esplorazione capillare degli scritti
manzoniani, resta più agevole prendere in considerazione l’eventuale contenuto
scandalistico in essi espresso ed anche vedere se per caso non sia proprio quel contenuto
a suscitare lo scandalo che si riflette, appunto, nella valutazione della fama.
Già collocandosi nel suo particolare momento storico, il Manzoni, per
l’inequivocabile impegno religioso, si denuncia provocatorio, in quanto pone in crisi
quella mentalità fidente in un progresso che si svolge costantemente da condizioni meno
perfette ad altre nuove e più perfette. Mentalità che si esprime anche in una valutazione
della religione, considerata un momento embrionale dal quale si svilupperà poi la
filosofia.
Agli inizi dell’800 si assisteva ad una restaurazione religiosa attuata anche in
forma politica (espressa emblematicamente dalla Santa Alleanza, che, appunto nella
qualifica di Santa, indicava già un’impostazione ideologica). Ed ancora: un significativo
movimento culturale come il Romanticismo trovava pretesti d’ispirazione anche in
momenti religiosi.
Sia il fatto politico, sia quello culturale si proiettano in maniera vistosa come
espressioni della religione del secolo scorso, mentre niente delle singole e personali
esperienze religiose parrebbe tale da meritare di assurgere ai fastigi della storia.
L’azione politica della restaurazione e quella culturale del Romanticismo si
prestano appunto a testimoniare posizioni retrograde o imperfette come le sole possibili
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per un sistema del tipo di quello religioso: posizioni che denunciano e confermano come
ormai superato dalla storia tale sistema.
La fortuna di una simile valutazione viene però a scontrarsi con il fenomeno
rappresentato dal Manzoni, il quale male si concilia, pur essendo religioso, con lo spirito
della Restaurazione e con il Romanticismo.
Lo scrittore lombardo, infatti, non può venir colto in posizioni conservatrici, con
volontà di restaurazione o aderente cieco ad un’avanguardia che, come il Romanticismo,
nel darsi una forma, impedisce sviluppi.
Uomo dalle riconosciute assonanze illuministiche, curioso ed attento, egli non
respinge per preconcetti, ma ricerca ed analizza dimostrando così una sensibilità critica
in netta antitesi con il modello conformistico dello zelo religioso.
Il conciliare ricerca intellettuale ed adesione religiosa è una delle difficoltà di
quanti si pongono di fronte al fenomeno Manzoni senza rinunciare a quel punto delle loro
convinzioni che esclude tale tipo di conciliazione.
L’uomo di fede diventa quindi un naturale bersaglio di chi avversa quella sua fede,
non sempre però in quanto fede, ma piuttosto in quanto fede avversata.
Una crisi di coscienza per chi crede nel progresso pensato come divenire sicuro di
una confusa coincidenza tra divenire cronologico e passaggio qualitativo, avviene
quando questa personale fede si scontra con la realistica contestazione di tale mito
escatologico.
Il Manzoni rappresenta appunto un attacco rivolto a mettere in crisi certe
sicurezze e, nel tempo stesso, è destinato a dar forza ideologica ad una resistenza.
Da ciò gli attacchi alla cattolicità del Manzoni, che viene indicata, di volta in volta,
come imperfetta o incoerente, come carenza intellettuale o lacuna dello spirito.
Altre volte, se l’impegno del Manzoni non è discusso, ne viene però criticato il
riflesso nell’opera, cercando di bloccare l’autore dei “Promessi Sposi” in una condizione di
ineccepibile esecutore, padrone indiscusso di uno strumento linguistico dal quale trarre
commozioni estetiche, senza però poter raggiungere momenti di adesione intellettuale.
Non bastasse lo scandalo suscitato dalla religiosità del Manzoni, s’aggiunge poi
quello provocato dalla sua sensibilità rivoluzionaria. E’ naturale che ogni rivoluzionario
abbia il suo diretto avversario in chi vuol mantenere una condizione che, al contrario, il
rivoluzionario si adopera per modificare radicalmente. Nel caso del Manzoni, invece,
l’avversione non viene espressa solo da parte conservatrice, ma anche da taluni
rivoluzionari: quelli, però, che intendono usare della Rivoluzione con intenzioni
monopolistiche.
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Nella realtà, si possono sorprendere taluni, intenti a raggiungere una modifica
radicale; quel loro tipo d’impegno, però, non garantisce in assoluto che l’azione si muova
in senso progressista e che non sia piuttosto un’operazione a ritroso, reazionaria.
Quello che distingue in senso progressista non è solo quindi la meccanica
rivoluzionaria adottata, ma le intenzioni progressiste che eventualmente animano
quell’azione.
Senso progressista che non può essere sufficientemente riconosciuto nelle
enunciazioni di propositi, quanto, piuttosto, in un’effettiva loro applicazione.
Si avrà quindi una sicura rivoluzione progressista quando si cercherà di attuare
una radicale modifica, diretta allo scopo di un reale progresso, il quale dovrà essere
valutato e riconosciuto alla luce di operazioni rigorosamente critiche, che superino, con
questa loro qualità, gli errori.
Quando la rivoluzione non progressista cerca di conquistare il potenziale
rivoluzionario per servirsene per i propri scopi, uno dei maggiori ostacoli lo incontra nel
trovarsi di fronte quanto denuncia la natura pretestuosamente progressista che la
anima.
Da ciò il ricorso a tutto quello che può servire a sminuire l’efficacia d’interventi che,
appunto, pongono in crisi l’operazione monopolizzatrice intrapresa.
Il nemico più sicuro dei falsi rivoluzionari progressisti è, quindi, chi mantenendo
vivo in sé e negli altri il senso critico, attua un continuo rovesciamento di posizioni per
raggiungere una visione completa dei fatti.
Operazione, quella del rovesciamento, di sicura natura rivoluzionaria, in quanto
provoca una costante, radicale modifica della realtà, che si vorrebbe fissa ed immobile da
parte dei conservatori e dei falsi rivoluzionari.
Il Manzoni è appunto uno di quegli uomini che, durante la loro vita, hanno
perseguito un ininterrotto riesame, pronti a respingere risultava negativo alle loro
valutazioni.
Si pensi alla rivoluzione operata nel rifiutare per il teatro le regole aristoteliche,
nel ripudiare parte della sua stessa opera.
Si ricordi la carica rivoluzionaria dell’autore di un acclamato romanzo storico che
conclude con la negazione di quel genere letterario. Penetrando più nei particolari, si
potrà ritrovare un esempio della volontà sovvertitrice del Manzoni in un punto del suo
romanzo, quello in cui compaiono Don Ferrante e la sua biblioteca.
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Inutile riprendere qui l’analisi dell’episodio narrativo. E’ invece preferibile
osservare se da esso non sia possibile dedurre qualcosa di diverso e di più significativo
rispetto a quanto bastava a formare la consistenza estetica di quel particolare.
Nel primo abbozzo del romanzo, il “Fermo e Lucia”, al personaggio e ai suoi libri
veniva riservato maggior spazio di quello che sarebbe poi apparso nella stesura
definitiva.
Ho accennato altrove a come il primo Don Ferrante si presentasse più ricco di
particolari comici e a come l’autore vi trovasse lo spunto per una considerazione:
“Quando ora si considera quali cose fossero a quei tempi tenute generalmente per vere,
con che fronte sicura sostenute, e predicate, con che fiducia applicate ai casi, e alle
deliberazioni della vita, si prova facilmente per gli uomini di quella generazione una
compassione mista di sprezzo e di rabbia, e una certa compiacenza di noi stessi / .... / Ma
dietro questa compiacenza viene anche facilmente un sospetto. E se anche noi ora viventi
tenessimo per verissime cose che sieno per dar molto da ridere alle età venture? / ... / E
perché no? Guardandoci indietro, noi troviamo in ogni tempo una persuasione generale,
quasi unanime d’idee la cui falsità è per noi manifesta, vediamo queste idee ammesse
senza dibattimento, affermate senza prove, anzi adoperate alla giornata a provarne altre
/ ... / Sarebbe una storia molto curiosa quella di tutte le idee che hanno così regnato nelle
diverse età, delle origini, dei progressi e della caduta loro. Si vedrebbero le più solenni
stravaganze, raccolte insieme, e tenute da una circostanza comune, di essere state
universalmente avute in conto di verità incontrastabili / ... / Ma una storia siffatta, oltre
la curiosità, potrebbe avere anche uno scopo importante. Osservando riunite tante
opinioni false e credute si verrebbero certamente a scoprire molti caratteri generali,
comuni a tutte / ... / Questi caratteri scoperti, potrebbero poi servire come di uno
scandaglio per noi: si potrebbe osservare se fra le idee dominanti al nostro tempo, ve
n’abbia alcune nelle quali questi caratteri si trovino; e cavarne un indizio per osservarle
con più attenzione, con uno sguardo più libero e più fermo, e con un certo sospetto per
vedere se mai non fossero di quelle che una età impone a se stessa come un giogo che le
età venture scuotono poi da sè con isdegno. Giacché, è cosa troppo probabile che anche
noi ne abbiamo di tali: e sarebbe pretensione troppo tracolante il crederci esenti da una
sciagura comune a tutti i nostri predecessori. Io credo che molte delle nostre opinioni
attuali si troverebbero avere di quei caratteri; anzi alcuno di essi vi è tanto
manifestatamente, che senza studio, alla prima occhiata si può scorgere”.
Soppresse queste pagine e sfrondato dal comico il personaggio, il Manzoni ci
ripropone quei concetti fra le righe dedicate a Don Ferrante. L’autore, troppo convinto
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della verità espressa, non ce ne priverà, ma, da artista, la farà risultare da una nostra
più attenta meditazione del personaggio.
Si opera in tal modo un’azione rivoluzionaria: il Manzoni pone degli interrogativi,
delinea la “storia curiosa” della fortuna delle idee, ne trae delle conclusioni che
determinano un rovesciamento di criteri di giudizio ed invitano ad una meditazione,
insinuando il dubbio di aver voluto frenare le certezze che potrebbero rivelarsi, invece,
presunzioni.
Non è né l’esaltazione abituale degli antichi, né l’altrettanto facile ad incontrarsi
loro denigrazione: a queste posizioni il Manzoni sostituisce l’’esigenza di un
approfondimento che non si concluda una volta per tutte, ma si sottoponga a più rigorose
e rinnovate verifiche.
Sempre nei “Promessi Sposi”, l’ottavo capitolo ci presenta il susseguirsi degli
avvenimenti successivi al tentativo di forzata celebrazione del matrimonio di Renzo e
Lucia.
I due promessi, presentatisi con l’inganno - e con i necessari testimoni - in casa di
Don Abbondio, si scontrano con la reazione di quest’ultimo: a commento del parapiglia
che ne consegue, quel personaggio dell’opera che è il trascrittore e talora il commentatore
aggiunge: “Renzo che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di
soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un
oppressore; eppure, alla fine de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in
fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima;
eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così
andava nel secolo decimo settimo”.
In un’altra opera, pochissimo conosciuta, dopo aver ricordato la presa e la
distruzione della Bastiglia e, inoltre, la mitizzazione dell’avvenimento, il Manzoni
scriveva: “Nei tempi moderni e in un vasto Stato, la ragion d’essere del despotismo non è
in un recinto fiancheggiato da torri è circondato da fosse, ma nelle circostanze che
dispongono gli animi a subirlo, e qualche volta a desiderarne uno, per sottrarsi ad uno
peggiore, o alla licenza; che non è come la definiscono molti, l’eccesso della libertà, ma
una pessima specie di despotismo; quello cioè dei facinorosi sugli uomini onesti e
pacifici”.
Nel primo caso viene puntualizzata una valutazione di fatti d’invenzione, in modo
da allontanare un’epidermica osservazione dell’accaduto, evitando così che il carattere di
prepotenza dell’azione di Renzo determini dei troppo conseguenziali giudizi e, al tempo
44
stesso, impedendo che le sembianze di vittima trasformino in una vittima effettiva Don
Abbondio.
Operazione, quindi, che rimette in giusta luce l’accaduto e tende a promuovere
un’attenzione per gli avvenimenti che ne superi l’immediatezza.
Per la Bastiglia il caso si fa più impegnativo: si ha di fronte un episodio storico non un’invenzione poetica come nel romanzo - con le interpretazioni che ne erano
conseguite, interpretazioni tali da determinare delle “opinioni... rinchiuse in formule
brevi ed assolute / . . ./ tanto più facili a entrar nelle menti, e più tenaci a rimanerci”.
Al Manzoni preme la conquista di una vera libertà: da ciò la necessità di poter
riconoscere quanto essa sia reale, non un mito.
La distruzione della Bastiglia non impediva che sorgessero poi altre limitazioni
della libertà: nella valutazione del Manzoni vengono precisati i pericoli che appunto in
uno stato moderno si presentano.
Uomo del secolo scorso (privo, quindi, di quell’esperienza che, nei nostri tempi, ci
offre con abbondanza diverse testimonianze della possibilità e dell’effetto del
soffocamento della libertà) il Manzoni appare tuttavia lucido nel delineare lo spettro del
totalitarismo che incombe sugli stati moderni.
Minaccia sottile nel presentarsi, tanto da non suscitare sempre delle immediate
resistenze, spesso anzi accolta come salvatrice.
Il Manzoni aveva assistito ai mutamenti politici avvenuti ai suoi tempi e ne aveva
analizzato i meccanismi messi in atto per conquistare i consensi.
La sua sensibilità politica infatti lo portava a preoccuparsi piuttosto per quel tipo
di operazione insinuante e non tanto per gli interventi brutalmente e dichiaratamente
repressivi.
Egli, attento nel sottolineare la falsa prepotenza di Renzo, mette anche in guardia
da alcuni particolari momenti politici nei quali non sempre è facile definire le esatte
responsabilità. Inoltre precisa quei punti che segnano la discrepanza tra enunciazioni
vuote di potere e situazione reale.
Si pensi all’orpellosa severità delle Gride, che denunciano, più che un’effettiva
autorità, una sicura impotenza.
Il Manzoni indica anche come, oggi giorno, il tiranno tradizionale possa essere
sostituito da una “combriccola arrivata al potere e avente in ogni città, in ogni borgo, in
ogni villaggio una clientela di soggetti capaci di tutto, padroni dei municipi, e investiti di
attribuzioni più ampie e speditive, risoluti e vigilanti; nel mantenere la tirannia
generale”.
45
Tutti sanno difendersi da chi si presenta ad offendere la libertà proclamando a
chiare lettere di farlo, o, perlomeno, tutti pensano di riconoscere la dannosità di costoro:
l’importante è invece essere pronti a capire anche quando l’offesa si maschera da difesa.
Per il Manzoni, compito dei governanti è di servire i governati, facendo sì che alla
massa sia più facile il bene. “Un governo qualunque, o sia in mano d’uno solo o di più,
ereditario o elettivo, stabile o provvisorio, come si vuole, non fa che il suo dovere facendo
ai governati tutto il bene che può”. E ancora: “Essere ben amministrati non è una
ricompensa che i popoli meritano per delle loro buone qualità; è un loro diritto, e il
dovere di chiunque è incaricato della loro amministrazione”.
Ideale, questo, che si contrappone in maniera veramente radicale a quanti invece
vedono nelle popolazioni qualcosa da sfruttare o da manovrare.
Il Manzoni in questo modo esprime la sua indiscussa opposizione al totalitarismo
inteso come azione politica che vuol far suoi gli individui, trasformando le loro esigenze e
volontà nelle proprie, realizzando una condizione nella quale le opposizioni restino
annullate e venga soffocate la libertà d’analisi, respinte le realtà individuali e mistificata,
come deprecabile negazione, ogni autonomia. Il totalitarismo è inoltre costretto, per
realizzare i suoi scopi, a proiettare nel futuro tempi migliori, proponendo quale
strumento operativo la rivoluzione.
Questa, a sua volta, ha nei momenti futuri una ragione d’essere: sarebbe
impossibile,
infatti,
giustificare
altrimenti
un’azione
che,
in
quanto
divenire
trasformante, non può avere nell’oggi lo scopo, perché ciò non renderebbe necessario il
mutamento e ne deriverebbe quindi la non necessarietà della rivoluzione stessa.
L’esigenza escatologica comune sia al totalitarismo sia alla rivoluzione rende
quindi facilmente confondibili tra loro i due diversi tipi di azioni politiche, tanto più che
entrambe ricorrono (la prima essendole connaturale, la seconda per opportunità
pratiche) a dei meccanismi totalizzanti.
Confusione che determina l’ambiguità e la conseguente errata lettura dei momenti
rivoluzionari come fatti totalitari, ed, ancor più, il contrabbandare per rivoluzionari
degli intenti che sono invece totalitari.
Il Manzoni, di fronte ad un’azione politica, non si lascia fuorviare da enunciazioni
o programmi; egli compie una verifica dei risultati: come nella storia non si lascia
entusiasmare dalle azioni dei grandi personaggi, così non si lascia sedurre dalla
proclamazione dei Diritti dell’Uomo: “Molti degli assiomi, o norme, o precetti contenuti in
quel lavoro / .... / il mondo / .... / non gli aveva ricevuti da essa, non aveva neppure avuto
bisogno di essa per rammentarseli / .../ tanto più che la sua promulgazione precedette di
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poco un tempo, in cui il disprezzo e la violazione di ogni diritto arrivarono a un sogno da
lasciar in dubbio se nella storia ci si trovi un paragone”.
Egli non accetta che gli uomini vengano condizionati dal pretesto della necessità,
non ritiene, come precisava l’Amerio, che “la politica / possa prendere / l’uomo in un
punto del tempo e sacrificarlo all’uomo di un altro punto del tempo”.
Manzoni, nel respingere la necessità, ricorda Voltaire che la definiva “la scusa dei
tiranni”. Lo scrittore lombardo s’opponeva ad essa nello stesso modo in cui respingeva il
machiavellismo del fine giustificatore dei mezzi.
Sottile moralista, il Manzoni non solo ritiene che il fine non giustifichi i mezzi, ma,
ancor più, per lui l’ingiustificabilità di un fine si denuncia già in quella stessa dei mezzi,
che, appunto in quanto ingiustificabili, non possono condurre che a risultati altrettanto
ingiustificabili.
Il Manzoni, cantore degli umili, che ricerca una “rivoluzione autentica, che non si
traduca in una beffa per l’uomo”, si trova logicamente a doversi scontrare con quanti
degli umili non vogliono il riscatto, ma la strumentalizzazione.
Molti falsi rivoluzionari sono certamente tra coloro che accusano l’autore
lombardo d’essere un fautore della rassegnazione perché trovano in lui il rifiuto di inutili
agitazioni.
E’ pur vero che i “Promessi Sposi” l’opera sua più nota, si presentano come la storia
di un matrimonio contrastato e dei fatti che ne conseguono, dai quali sortirà poi la
positiva soluzione finale, ma è anche possibile vedervi la descrizione degli effetti d’un
malgoverno e delle prepotenze che esso rende attuabili, la denuncia del male che si
riversa come conseguenza sui singoli indifesi, ai quali è impedito il soddisfacimento delle
proprie private esigenze, proprio perché la realtà politica nella quale si trovano immersi
è tale da permettere appunto l’arbitrio dei potenti ed il soffocamento della libertà degli
Umili.
Un contesto dunque sicuramente politico, nel quale non sono certamente i potenti
ed i prepotenti che vengono posti a modello, mentre nei confronti degli Umili la posizione
del Manzoni non è evidentemente quella di chi ne auspica lo sfruttamento.
Egli respingeva il realismo politico espresso dal Machiavelli ed auspicava la quasi
utopica (quindi di natura rivoluzionaria) immediatezza del bene, mentre al tempo stesso
si mostrava realistico nel considerare che i poteri crollano quando, in effetti, non son già
più poteri, pur mantenendosi tali del formalismo giuridico.
Scriveva infatti: “Autorità mantenuta e deliberazione forzata erano due cose
difficili a conciliarsi”.
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“E’ proprio delle vaste insurrezioni l’attaccarsi ad una qualche autorità già
esistente, la quale metta in una forma legale i loro voleri, sicchè non paiano imposti da
una mera forza materiale”.
Egli quindi riteneva anche che il potere si ottiene non tanto per un diritto ad
averlo, ma in quanto conclusivo avallo esterno d’una preesistente condizioni di forza.
“L’autorità che i Comuni erano invitati ad assumere l’avevano già esercitata di
fatto”.
“Uno scompiglio di cose, nel quale a chi era la parte del governare, ne erano levati
i mezzi”.
Per spiegare come mai una “moltitudine” non riuscisse a rivestire un’autorità,
precisava che ad essa “mancava di far paura”.
Il Manzoni continua a denunciare la dannosità della prepotenza, dalla quale si
determina una storia che è per lo più quella scritta dai vincitori e contro la quale egli si
muove anche cantando un Napoleone non “sfolgorante in soglio” ma chino innanzi al
“disonor del Golgota”, una Ermengarda non regina ma sposa respinta, due piccoli
proprietari lombardi con le loro tribolazioni.
Ed ancora egli indica la prepotenza fatta prima alla legge, poi consumata sugli
Untori, i mali del Terrore in Francia esplosi quando una fazione riuscì a rendersi
padrona.
Tutto questo ubbidendo ad un severo impegno civile che contempla per
l’intellettuale le funzioni dell’opposizione, svolta, questa opposizione, al servizio del bene
della comunità: opposizione che non si concilia con il servilismo verso il potere, ma che
anzi si mantiene vigile ad indicare ed a scoprire sotto quali spoglie si mascheri il principe
e quali siano le sue colpe, senza farsi fuorviare da mimetismi, sorprendendolo sia nelle
evidenti e consacrate posizioni di “alto affare” proprie del potere, sia in altre più
subdolamente mascherate, quelle del prepotere.
Molto resterebbe da aggiungere; diversi sono i punti da ribadire, infiniti i
particolari trascurati. Non è certo qui possibile fare tutto quello che resta, anche volendo
estendere oltre i limiti della sopportabilità l’intervento. Ma a questo punto, prima di
terminare, vorrei aggiungere alcune considerazioni conclusive.
Si è dunque cercato d’impostare una valutazione del potenziale scandlistico del
Manzoni: potenziale che, ci preme ricordare, investe la globalità dell’Opera dello scrittore
e che non si può cercare o bloccare in una parte soltanto dei suoi scritti.
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Una valutazione che sia interpretativa del Manzoni (che deve restare l’unica fonte
di riferimento) respingendo e trascurando la marea dei giudizi ed, ancor più, l’esegesi dei
giudizi, lasciando affiorare il possibile la voce dello stesso Manzoni.
La voce di un uomo che ha infastidito ed infastidisce quanti sono scandalizzati
dalla sua profonda fede cattolica e dall’accanimento rivoluzionario con il quale egli
colpisce il malgoverno, mantenendo vivo, nel fare ciò, un esercizio critico che non si lascia
condizionare dai conformismi.
Spero inoltre, se non d’aver convinto, almeno d’esser riuscito ad insinuare il dubbio
che un autore come il nostro non meriti né di essere trascurato, né di finir vittima di
giudizi semplicistici.
GIAN FRANCO GRECHI
Conferenza tenuta nell’Auditorium di S. Pancrazio il 28-5-1977
Accadde a Corneto
cento e più anni fa...
Mi trovavo una Domenica a Messa nella Chiesa della mia Parrocchia, quella di San
Leonardo. La Chiesa non porta lo stesso nome, si chiama “Santa Maria Addolorata”, ma
viene detta semplicemente “La Chiesuola”. Io di solito non vado lì; motivi di vario genere
mi conducono la Domenica mattina in un altro Luogo Sacro, l’antica, bella, romantica
Chiesetta dell’Annunziata, la “Chiesa delle Orfanelle”. Non appena giro l’angolo della sua
strada, essa mi viene incontro con l’Architettura della sua facciata romanica, e con quel suo
bellissimo rosone mi guarda e mi invita. Vi trovo dentro una atmosfera raccolta e
tradizionale che mi aiuta a concentrarmi nel mio rivolgermi a Dio, sempre così difficile, e vi
trovo inoltre un coro di piccoli angeli, il Coro delle bambine dell’Orfanotrofio, che con i
loro canti mi commuovono alle volte fino alle lacrime, perché penso che il Signore, che
pure ascolta tutti, debba ascoltare ancora di più queste piccole innocenti, e noi che ci
presentiamo dietro di loro.
La “Chiesuola” è pur sempre legata ai miei ricordi della fanciullezza, ahimé quanto
ormai lontana; sono nato a cinquanta passi da Essa, e per parecchi anni ci siamo trovati
ogni mattina davanti alla “Fontana di Piazza”, io alla mia finestra e Lei sulla sua “facciata”,
tutti e due dinanzi agli altri nostri dirimpettai, la Chiesa di Santa Maria del Suffragio, la
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Loggia del Comune, la Torre dell’Orologio. Abbiamo assistito insieme ogni mattina ed ogni
sera di primavera ai voli folli di diecine e diecine di “rondoni” che partendo dall’alto della
Torre, in un cerchio sempre uguale e sempre nuovo, vanno in picchiata a sfiorare il muro
della facciata della Chiesa, si abbassano ancora a sfrecciare davanti all’angolo della mia
vecchia casa per poi rialzarsi di nuovo verso la Torre, giuocando a rincorrersi e riempiendo
l’aria con il loro stridio tanto simile a quello di un “branco di ragazzini” scatenati nel
giuoco.
Dicevo dunque che mi trovavo alla Chiesuola per la Messa. Non riuscivo però a
seguire lo svolgersi della Preghiera; ero un po'distratto e vagavo con la mente e con gli
occhi ad altre cose. Guardavo le pareti dell’Edificio, con gli intonaci un po' scrostati e le
tinte vecchie e sbiadite, rigate da colature; un insieme troppo squallido per la Casa di Dio.
Pensavo a quei “Padri Serviti” che nel 1700 erano riusciti, pur tra tante contrarietà di ogni
genere, a costruire questo loro Tempio, che l’avevano abbellito con cornice e stucchi
decorosi, con un pavimento di marmo, un bell’Altare monumentale. Chi sa quanta pena
rivederlo oggi; chi sa poi quale sbalordimento, per Loro che tanto vanto avranno espresso
per quell’Altare, vedere l’Officiante servirsi di un Altaruccio da “Messa al Campo”, per di
più voltato di spalle al Tabernacolo, dove si conserva l’Eucaristia.
Questi ed altri pensieri mi distraevano, e lo sguardo, in cerca del meglio, mi andava
alla bella sepoltura del Cardinale Quaglia, sulla parete di sinistra, e poi, naturalmente, al
più piccolo Sepolcro della parete di destra, quello di Domenico Boccanera, più piccolo ma
tanto più umanamente vicino a chi lo guarda, sormontato da quell’Angioletto pensoso e
sognante, con quel ritratto di un uomo severo e saggio che sembra tolto da un album di
uomini illustri, e con quella iscrizione che lapidariamente descrive una vita intera. Ve la
ricordate? E’ in latino, e tradotta suona all’incirca così:
QUI GIACE IN PACE - DOMENICO di BENEDETTO
F. BOCCANERA - DI FAMIGLIA PATRIZIA. - FU A
CAPO DEL COMUNE IN TEMPI DIFFICILISSIMI - ED
A QUESTO FU PRESIDIO E SALVEZZA. - TRASMISE AI
FIGLI LA RELIGIONE RICEVUTA DAGLI ANTENATI. MORI’ etc. etc. - LA MOGLIE MARIANNA MENICUCCIA
E I FIGLI - PIANGENTI POSERO.
Fu proprio nel rileggere quel “.... DIFFICILLIMIS TEMPORIBUS MUNICIPIO
PRAEFUIT...”che mi ricordai di aver visto qualche tempo addietro un documento del
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nostro Archivio che riguardava appunto quei tempi e quel Personaggio, Domenico
Boccanera, allora Confaloniere del Comune, ossia Capo del Governo civile di Corneto.
Dopo la Messa volli rileggere quel Documento ed ora voglio narrarVi i fatti da esso
conservati per Noi.
Ricordiamo prima di tutto alcune cose di quei tempi. L’Amministrazione del
Comune era elettiva, come oggi, e a Capo di essa c’era il Confaloniere, eletto dal Popolo.
Certamente era qualche cosa di più del “Sindaco” che lo sostituì dopo il 1870, data
dell’Annessione dello Stato Pontificio, e quindi anche di Corneto, all’Italia unificata.
Pensate che il Confaloniere, durante il suo mandato, aveva un suo appartamento nel
Palazzo Comunale, ed anche una Cappella privata dove poteva assistere alle Cerimonie
religiose. Nel Palazzo aveva anche la sua Sede, il suo “Quartiere”, la “Guardia Civica”, che
veniva chiamata semplicemente “La Civica”, forte del suo Capitano e di numerosi militi.
Corneto
a
quell’epoca
faceva
parte
della
“Delegazione
di
Civitavecchia”,
amministrativamente rappresentata da un “Governatore Locale”.
Veniamo ora ai fatti narrati. Nel Luglio 1848 compare per le vie di Roma e viene
diffuso in Provincia un foglio a stampa contenente un “Esposto alla Camera dei Deputati
di Roma sopra una ribellione di alquanta Civica e Popolo procurata in Corneto a
pregiudizio dell’interesse privato e della Legge”. Vi si narra che il 30-6-1848 il “Cursore”
di Civitavecchia, accompagnato dalla “Forza Carabiniera” e da “Testimoni”, tutti di
Civitavecchia, si portarono in Corneto per eseguire una sentenza del Tribunale di
Commercio di Roma contro il Confaloniere della Città, Domenica Boccanera, reo di essersi
rifiutato di pagare una cambiale di 1040 scudi; dovevano esigere il pagamento o arrestare e
carcerare il Boccanera. Questi viene sorpreso sulla Piazza del Comune, a pochi passi dal
Quartiere della “Civica”, mentre si trova a colloquio con un amico, Benedetto Mariani, e
rifiuta ancora di pagare la somma richiesta perché non dovuta; oppone anche che per
antico privilegio il Confaloniere può essere arrestato solo per ordine o con il nulla osta di
una Autorità Superiore e non da un “Cursore” qualsiasi. Più di lui però reagisce il Mariani,
uomo, dice il “Foglio”, “che per Provincia può dirsi ben ricco”. In breve, accorrono molti
Cittadini e “alquanto Civica”; il Cursore, i Carabinieri e i Testimoni vengono circondati, si
strappa loro di mano il Confaloniere e i documenti che lo condannano. Lo stesso
Governatore locale sig. Antonio Adriani, intervenuto nel frattempo, spalleggia il Mariani, i
Cittadini e la “Civica”, “cosa veramente invereconda”. Il “Cursore” viene arrestato e messo
in guardina, i Carabinieri vengono accompagnati fuori della Città e rispediti a
Civitavecchia, i Testimoni si salvano solo con la fuga. Il Foglio prosegue poi narrando altri
fatti evidentemente travisati o addirittura falsi: che essendo sfuggito loro un certo Di
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Nicola, i Cornetani inferociti presero e malmenarono il figlio di costui; che furono invase le
“Case di ben onesti e tranquilli Cittadini non solo, ma pur le Chiese di Monache con la più
nera esecrabile impudenza a mano armata”.
Era una rivolta bella e buona, che offendeva ogni diritto e violava ogni Legge e
doveva quindi essere esemplarmente punita se si voleva evitare che certi fatti accadessero
anche altrove, ammoniva il Figlio.
Confesso che alla fine di questa prima lettura ero sconcertato. Ma come questo
Boccanera, questo Galantuomo, questo Confaloniere dei “tempi difficilissimi”, non pagava i
debiti e voleva anche aver ragione!.
Questo Mariani, un Notabile, un Morigerato, si mette ad aizzare il Popolo alla
sommossa! E il Governatore Locale, questo Rappresentante del Potere Centrale, anche un
Lui un sovvertitore! I Cornetani che malmenano i ragazzi incolpevoli, assaltano le Chiese e
i Monasteri! Via, mi pare un po' troppo. Ma che era questo, un Paese di Briganti? Matti per
giunta!.
Ma vediamo che cosa dice quest’altro Documento. Si tratta di una “Risposta al sig.
Cristoforo Tuccimei (autore del Foglio sopra descritto) sulla pretesa ribellione di Corneto
li 30-6-1848”.
Cari miei, ora la cosa cambia completamente aspetto, i fatti cambiano di significato.
Ma che ribellione, dice l’estensore del Documento, <<... a porre le cose sul suo (sic) vero
aspetto... eccomi con semplice narrativa a contare l’accaduto, acciò in ogni epoca si
conosca la verità nel vero suo nudo, affinché in ogni tempo consti e sia palese l’innocenza
del Governatore, del Mariani, del Boccanera, dell’intero Popolo Cornetano e sua Civica,
tutti dipinti con neri colori, ed epiteti ingiuriosi dal Cristoforo Tuccimei>>. E qui esce
fuori un’altro personaggio un <<... famigerato Luigi Mastelloni, falsario di cambiali e
pagherò all’ordine, cognito all’intera Provincia per le sue dissolutezze, colui che usò modi
inonestissimi nel sedurre, sorprendere e poscia sposare una delle Signorine della nostra
Città, appartenente alle prime famiglie del Patrimonio>>. E sapete quali furono questi
modi inonestissimi per <<.... ritrarre dal Monastero l’onesta Fanciulla?>> <<Si
mascherò da Notaro, e Cancellier Vicarile, e con falso mandato sorprese la troppo
credula Badessa, e così ritirò dal Sagro Asilo l’inesperta Donzella”. Qui si intravede tutto
un antefatto di lotta per un non voluto matrimonio, con dinieghi famigliari che finiscono
con la forzata entrata della Donzella in Monastero; Donzella che però, inesperta quanto
volete, al ratto dovette essere consenziente, ci scommetterei. E sapete chi ebbe come
compare il Mastelloni in questo fatto? Il “Dinicola”, quello che i Cornetani volevano
bastonare, perché sarà stato sicuramente coinvolto anche nel fatto del loro Confaloniere.
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Il famigerato Mastelloni dunque, sempre seguendo il secondo Documento, era
riuscito ad avere in mano delle cambiali firmate cinque anni innanzi da Domenico
Boccanera, da questi regolarmente pagate alla scadenza ma rimaste in mano dell’ex
Creditore, che però aveva rilasciato al Boccanera una dichiarazione liberatoria.
Insomma, per farla breve, una di queste cambiali, di 1040 scudi, come vi ho detto
vecchia di cinque anni, era servita al Mastelloni e ai suoi Comparsi per avere dal
“Tribunale di Commercio” di Roma una sentenza che condannava il povero Boccanera a
pagare la cambiale e le spese pena la carcerazione.
Il Documento aggiunge che questa fu una decisione settaria, perché le
testimonianze, la perizia calligrafica sulla “girata” della cambiale, i precedenti penali e
commerciali, tutti deponevano contro il Mastelloni e i suoi compari. Ma a parte l’iniquità o
meno della sentenza, questa non era esecutiva, perché era stata impugnata davanti al
Tribunale della Sacra Rota, che aveva avocato a sé la causa, sospesa l’esecutorietà e chiesto
al Boccanera di depositare la somma in contestazione in attesa del definitivo giudizio, cosa
che il Boccanera aveva fatto.
Il Mastelloni era riuscito però, con i suoi intrallazzi e per la precarietà dei tempi, ad
arrivare ai fatti del 30-6-1848.
Bisogna ricordare che a quell’epoca si era in piena contestazione del Potere
temporale del Papa. Questi, nel successivo Novembre, in seguito ai fatti di Roma, dovette
anzi fuggire e rifugiarsi a Portici presso il Re di Napoli, dando così campo libero a quella
Repubblica Romana che cadde poi alla fine del 1849 per l’intervento delle truppe francesi
mandate dall’Imperatore Napoleone III. Voglio ricordarvi che parte di esse si accamparono
anche a Corneto, nella Chiesa di S. Maria in Castello, dove se ne conserva il ricordo in
vecchie iscrizioni graffite nei marmi.
In quel clima di già strisciante rivolta, con Mamiani Ministro dell’interno, De Rossi
Ministro di Polizia, ogni azione contro “l’ancien regime”, specialmente se rivolta contro i
rappresentanti del Partito da abbattere, avrà trovato buona accoglienza; avviene anche
oggi, sarà avvenuto allora, avverrà sempre, purtroppo.
Questi sono gli antefatti; ma il fatto, la sommossa, la ribellione?
Tutto travisato e quindi tutto falso, ammonisce il Documento; eccolo il fatto, ve lo
racconto io.
“Il giorno 30 Giugno 1848 il Mastelloni, nascondendo (sic) Carabinieri forestieri,
Cursore non cittadino, a pochi passi dal Quartiere Civico, sulla pubblica Piazza, sorprese
il Boccanera e tentò carcerarlo, mettendogli le mani addosso, minacciando di legarlo a
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fronte che Egli dicesse sono il Confaloniere, cui i solleciti del Mastelloni rispondevano
(cosa falsissima) avere il permesso del Delegato”.
“Benedetto Mariani Uomo ricco, onesto, tranquillo, ma sensibile alle ingiurie
dell’amico, col quale parlava, colla sua naturale voce maschia, e sonora, gridava: pago io
sul momento, faccio sicurtà, che bricconata è questa di legare il Primo Magistrato, Civica
accorrete a liberare il nostro Confaloniere! I tranquilli Cittadini, la truppa Civica corse in
folla a circuire il Cursore inonesto, li Carabinieri forestieri, e mentre si discuteva....
sopraggiunse il Governatore che ad evitare scandali di sommo rilievo intimò al Cursore
di desistere, e liberare il già circondato Confaloniere”.
Sembra qui che la colpa maggiore sia da addossare alla “naturale voce maschia e
sonora del Mariani”! I Carabinieri rispediti d’autorità a Civitavecchia, il Cursore fuggito e
rifugiato in casa di un certo Valletti, tutto servì soltanto ad evitare guai maggiori. E quel
“Testimonio” preso dalla popolazione “furiosa”? La colpa fu quasi sua, “che volendo per
forza fuggire fu alquanto malmenato, ma non ferito, non contuso, non battuto, .... e solo
fu accompagnato fino al Quartiere con urli, fischi, contumelie.
“Naturalmente poi lo sdegno si risvoltò a perseguire il Manutengolo, il complice...
Vincenzo Di Nicola, riguardato per uomo cattivo, in odio alla popolazione intera” (vecchi
rancori), ma Egli riuscì a fuggire”. In casa del Valletti fu trovato il Cursore che “si
consegnò più per sua garanzia che per altro nelle pubbliche carceri, accompagnato solo
da una moltitudine con urli, fischi e schiamazzi, e li dimorò per otto giorni sino a tanto
che fu tranquillamente scortato dalla pubblica forza a Civitavecchia”. Tutto il resto che “si
asserisce nella contraria Legenda dal più che cognito Tuccimei è falso. Sono, queste,
favole della sua malvagità, sono parto della sua sempre infesta fantasia, sono gratuite
asserzioni per coonestare un tanto attentato, si irregolare procedura, per confondere
fatti, per pescare nel torbido... sia vituperio, infamia a chi ha meditato, in oltraggio della
gratitudine, amicizia, compassione, quest’atto illegale, inverecondo, da fare epoca nei
fasti di Corneto”.
L’Amministrazione Comunale si schierò tutta dalla parte del suo Confaloniere, e con
due esposti, in data 10 e 11 Luglio 1848, si precisarono i fatti ai Ministri Mamiani, Galletti e
De Rossi, manifestando, si intende, la “pubblica esecrazione” verso gli Autori di “quest’atto
illegale e inverecondo”.
Non è difficile immaginare che questa Amministrazione Comunale avrà poi avuto
vita molto contrastata nel periodo della Repubblica Romana, durante il quale Essa restò in
carica malgrado “le minacce tremende dell’intruso Governo provvisorio”, rifiutandosi di
nominare i suoi rappresentanti per l’elezione dei Deputati alla Costituente. Il fascicolo del
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nostro Archivio contiene anche una lettera del 25-10-1849 della “Commissione Municipale
di Corneto” indirizzata “Alla Santità di nostro Signore PIO PAPA NONO felicemente
regnante”. Al Papa, che si accingeva a tornare a Roma e riprendeva così il suo potere
temporale, i Cornetani facevano nuova professione di fedeltà, e ricordavano a Lui le
traversie trascorse in quel periodo e le prepotenze subite. Il Papa rispondeva da Portici il 611-1849 riconoscendo i meriti dei Cornetani “.... In attestato di che, ed a pegno del
singolare amor nostro verso di Voi, con tutta l’effusione del paterno Cuor nostro
compartiamo affettuosamente a Voi stessi, e a tutta codesta Città, a Noi carissima,
l’Apostolica Benedizione”.
A questo punto facciamo insieme qualche considerazione, prima sulle vicissitudini
sociali e politiche di quei tempi e sui fatti che ne sono seguiti fino ad oggi, poi sui
Personaggi e sull’episodio di cui abbiamo parlato.
Con il rientro di Pio IX a Roma alla fine del 1849 le cose non ritornarono più al loro
posto come prima. Ci eravamo messi ancora una volta uno straniero in casa, i Francesi, sia
pure in veste di alleato e protettore del Potere costituito. Gli avvenimenti del
“Risorgimento” in atto nel resto d’Italia si ripercuotevano nello Stato Pontificio generando
un clima di perenne incertezza. Nel 1861 la guerra vi ritorna con i fatti di Mentana, finché
nel Settembre del 1870 il “Potere temporale” cessa di fatto di esistere e subentra lo “Stato
risorgimentale” dell’Italia unita. Restava la cosidetta “Questione Romana” che sembrò
risolta, dopo tanti vani tentativi, dal Concordato del 1929, riconfermato nell’art. 7 della
“Costituzione” del 1946, ma che oggi viene contestato da ogni Parte.
Lo Stato risorgimentale durò, con fasi alterne e varia fortuna, fino al 1922, quando
fu soppiantato dallo “Stato fascista” e poi, nel 1946, dallo “Stato repubblicano”, ancora
“felicemente regnante”. Ogni trapasso ebbe la sua brava Costituente e la sua Costituzione,
più o meno attuata. Perfino nelle promesse ogni trapasso è stato uguale all’altro; ognuno
ne ha fatte tante ma non le ha mai mantenute.
La “Liberal Democrazia” promessa dal Risorgimento è finita come tutti vediamo.
Basata sull’individuo e sulla capacità e sul merito del singolo, è stata tradita e si è fatta
irretire dalla ideologia secondo cui ognuno dovrebbe utopisticamente aver diritto a tutto
senza il corrispondente dovere di contribuire secondo le sue possibilità e capacità di lavoro.
Lo Stato, ossia tutti Noi, dovrebbe provvedere a fornire di tutto ogni Cittadino, anche
quelli che lo beffeggiano e lo combattono apertamente.
Qui tutti viviamo aspettando la “Befana”, che puntualmente e a scadenze fisse,
almeno finora, viene e lascia i suoi doni più o meno abbondanti: per i Dipendenti pubblici,
anche per quelli che niente fanno perché niente hanno da fare; per i Dipendenti dei
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carrozzoni delle “Imprese Statali”, ridotte ormai a brandelli e sotto “Cassa Integrazione”,
sempre più affollata e traballante; per i Partiti, per gli Enti inutili, per i Parlamentari. Lo
strano è poi che invece di festeggiarla ogni giorno, la cara e benefica Befana, abbiamo
provveduto a sopprimerla. Ma solo per i Bambini.
Si tratta di argomenti in cui è meglio non addentrarsi; ognuno se ha occhi può
vedere e se ha orecchie può intendere.
Ritorniamo dunque ai nostri Personaggi. Essi dormono tutti il sonno della pace e
noi abbiamo già compiuto una sorta di forzatura nei loro confronti ricordandone i fatti che
abbiamo narrato. Ormai al di sopra della mischia essi oggi, se potessero, ci direbbero la
verità dei fatti, ma ahimè!, da che esistiamo, i morti, dovunque e comunque interrogati,
mai hanno risposto; segno chiaro che non possono o non vogliono farlo.
Accettiamo dunque anche noi, dopo 130 anni, l’Apostolica benedizione di allora. E
così sia.
CESARE DE CESARIS
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Donne e femministe nella tradizione, nella storia e nella letteratura
Non vorremmo attribuire al termine “femminismo” quel significato esasperante che
oggi si cerca di dargli, nel tentativo di imporre il problema all’attenzione del mondo intero,
con marcata puntualità, anche se il più delle volte si arriva al cattivo gusto di certe
dimostrazioni e di certi distintivi che finiscono poi sempre col ricadere negativamente su
chi li propone e su chi li esercita.
Vorremmo invece ricondurre il discorso su un terreno più corretto, meno
accidentato e più fertile di idee se non di atti, principiando col dire che il femminismo
almeno per noi, è lo sforzo di autodeterminazione della donna sulla sorte del proprio
destino e sulla scelta del proprio lavoro: il proposito di collaborazione in quel contesto
della famiglia che è la prima cellula della società: il coraggio di incidere in qualche modo
sugli eventi della storia: la maniera corretta di mutare sensibilmente, non certo
radicalmente, una situazione preesistente. Purché la donna sappia anche assumere ogni
responsabilità nel settore della vita o nella parte che direttamente la riguarda, e non abbia
a compromettere quello dell’uomo che ha scelto per una vita in simbiosi. Il femminismo
infatti non nasce né può esaurirsi totalmente nel sesso, dal momento che l’intelletto ha una
collocazione, grazie a Dio, più elevata e con un senso diremmo di anatomica aristocrazia.
Siccome ogni cosa di questo mondo finisce sempre per avere un punto di partenza
ed uno di arrivo, prendiamo le mosse dalla storia, o dal mito se si vuole: vale a dire dalla
promessa che Iddio fece all’alaba dei tempi, preannunciando un evento grazie al quale
l’umanità tutta sarebbe stata riscattata da una donna, dato che dalla donna era scaturito il
demone della superbia e della ribellione. E poiché due femministe sono state all’origine
una del genere umano l’altra della redenzione, cominciamo a esaminare brevemente ma
attentamente le figure di Eva e Maria: la madre di tutti i viventi e la madre di Gesù.
Se è pur vero che il mito è costellato spesso di fulgidi esempi che hanno impresso
agli eventi soluzioni coraggiose e determinanti, la storia però, fino a questo secolo in cui
viviamo, ci ha dato esempi che noi, per economia di tempo, trattiamo in sintesi, tenendo
soprattutto presente quel principio vichiano secondo cui “le tradizioni volgari devon aver
avuto pubblici motivi di vero, onde nacquero e si conservano da intieri popoli per lunghi
spazi di tempi!”; cioè, in parole povere, ogni favola o leggenda ha sempre avuto, alla base,
un principio di verità storica, arricchita poi, per necessità poetica, dalla fantasia: e con la
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speranza che si possa offrire al sesso interessato una serie di occasioni che diverranno poi
motivi per una ricerca e uno studio più approfondito su di un tema così vasto e
appassionante. Almeno lo osiamo sperare.
La Bibbia, di tutte le memorie scritte dagli uomini in maniera organica, è il libro
incontrovertibilmente più arcaico: per cui non possiamo non partire dalle prime pagine
della Genesi dove si parla dell’origine dell’uomo, soprattutto per affermare - e ce lo
perdonino le signore qui presenti - un dato di primogenitura; e per ricordare anche che la
donna è derivazione di quello. E siccome entrambi sono opere d’arte dell’universo e della
creazione, si dovrebbe pur dire che, in arte, quel che vale è l’opera prima, l’originale e non
la copia, anche la più fedele possibile, o una sua diretta derivazione. Se poi, nell’economia
della procreazione l’uno è concepibile soltanto nell’indispensabilità dell’altra, pur tuttavia
fin dai primi tempi l’uomo ha mantenuto sulla donna, a torto o a ragione, e fin che ha
saputo e voluto - e le condizioni ambientali e sociali glielo hanno permesso - quel concetto
suprematico, proprio per essere stato la prima creatura terrena intelligente, uscita dalla
volontà del Creatore.
Che dice infatti la Genesi riguardo alla prima donna?
“E colla costola che aveva tolto ad Adamo, il Signore formò la donna e la condusse
davanti a lui. E Adamo disse - Ecco finalmente l’osso delle mie ossa, la carne della mia
carne. Questa sarà chiamata VIRAGO, perché è stata tratta dall’uomo - Adamo non dice
infatti donna (che in latino significa signora) ma VIRAGO che dovrebbe, in termini
semantici, aver radice da VIR: e che dell’uomo ha conseguentemente pure il modo di agire
e di operare. Ed osiamo affermarlo per il fatto che in lingua ebraica il maschio umano si
chiama ISH e la donna ISHA’. Altro riscontro lo troviamo nella lingua spagnola, che è poi
neo-latina, dove l’uno è detto VARON e l’altra VARONA. Ed è evidente tutto ciò per il fatto
che a quei tempi le condizioni di vita e di sopravvivenza, per la prosecuzione della specie,
erano del tutto diverse da una certa letteratura vezzeggiativa così cara alla donna di oggi.
Dio non ha discriminato sulla colpevolezza dell’una o dell’altro, come umanamente si
sarebbe portati a giudicare, ma ha coinvolto nello stesso destino terreno entrambe le
creature con parità di colpa e di espiazione.
Dunque è stato Iddio ad attribuire primamente alla donna il suo vero significato, il
suo posto nel mondo della creazione dove c’è il VIR e la VIRAGO. Il giudizio poi, secondo
la promessa, di porre inimicizia fra Maria e la causa del male, ci sta a dimostrare
l’importanza della redenzione, (sia che la si accetti o che la si contesti), da parte di una
VERGINE che non esita di affrontare il giudizio del mondo e dello sposo promesso, per
una maternità arrivata a lei al di là dell’intervento umano. Ed erano tempi, si badi bene,
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quelli in cui le donne adultere o presunte tali, venivano lapidate fuori delle città o
addirittura ripudiate, ossia esposte alla vergogna e al ludibrio di tutti. Maria dunque non
teme lo scandalo ed una condizione tutt’altro che comoda, umanamente parlando, ma si
sottopone al giudizio del giovane sposo, dopo aver accettato servilmente una maternità che
non veniva da lui. Nemmeno oggi, con la spregiudicatezza dei tempi e dei costumi in cui si
vive, nessuna ragazza poco più che sedicenne sarebbe in grado di presentarsi al suo uomo
nella medesima condizione di Maria, senza temere scandalo e soprattutto oltraggio. Questo
senso del suo femminismo non si esaurisce in questo unico episodio, ma si protrae per
tutto il resto della sua vita terrena. Certe sdolcinature, certe oleografie della nostra civiltà ci
sembrano del tutto fuorvianti: ad eccezione di pochi artisti che han saputo capire il
significato e apprendere una lezione che è poi sempre stata una lezione di stile di vita. E
chiudiamo questo episodio col dire che Eva, la Virago, e Maria, la Vergine hanno un
medesimo attributo: giacché in latino Virago è derivazione o sinonimo di Virgo. C’è di
mezzo una sola questione di vocale, in più o in meno.
Mutando o salendo di tonalità, tanto per uscire da una sequela cronologica di temi,
virago e vergine, anche se “sui generis” furono gli attributi di Elisabetta I d’Inghilterra a cui
faceva spesso riscontro il vezzeggiativo di Gloriana, ma più sovente quello di Vergin Queen,
ossia di Regina Vergine. Né poteva essere altrimenti all’occhio del mondo per esser
divenuta capo spirituale di quella chiesa anglicana, nata dallo scisma di Enrico VIII, suo
padre: quindi una dignità sacra da salvaguardare di fronte al popolo e al mondo. Da vera e
propria papessa. Anche se nulla avesse a che vedere con quella papessa Giovanna che una
tradizione popolare, fiorita intorno al XIII secolo, aveva fatto salire sopra il soglio di Pietro.
Argomento assai curioso che non poteva certo sfuggire all’attenzione di Gioacchino Belli
come spunto narrativo intorno a certe sedie stercorarie, collocate nel portico della Basilica
Lateranense. Che dovette poi essere un motivo di ironia per certo femminismo affiorante,
con minore intensità di oggi, anche ai suoi tempi. Ecco il sonetto:
Fu ppropio donna. Buttò vvia ‘ r zinale
prima de tutto e s’ingaggiò ssordato;
doppo se fesce prete, poi prelato
e ppoi vescovo, e arfine cardinale.
E ccquanno er Papa maschio stiede male,
e morze, c’è chi disce, avvelenato,
fu ffatto Papa lei, e straportato
a ssan Giuvanni su in zedia papale.
Ma cqua sse sciorse er nodo a la commedia;
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che ssanbrutto je preseno le dojje
e sficò un pupo lì ssopra la ssedia.
D’allora st’antra ssedia sce fu messa
pe ttastà ssotto ar zito de le vojje
si er Pontefisce sii Papa o Ppapessa.
Ma scherzo a parte, Elisabetta I ebbe tale il senso della sua autorità che da sola e in
mezzo a mille perigli, ricostituì il regno d’Inghilterra con decisioni le più coraggiose e
temerarie, e con un tempismo ed un intuito più che donnesco. Non cedette a debolezze
umane sia come sorella di Maria Stuarda la cui testa fece ruzzolare sul patibolo, sia come
donna di fronte al tradimento di Robert Devereux, conte d’Essex, suo favorito, che finì
sotto il filo della mannaia nella torre di Londra. La sua statura di regina, ma più la sua
presunta natura di vergine furono degne di una virago o di un’eccezionale femminista da
predisporre le strutture di un impero che si protrasse nei secoli, dopo aver trasferito quel
sole che non tramontava mai dai possedimenti del sovrano di Spagna, su quelli che poi
formarono il Commonwealth britannico, dando il colpo di grazia all’invincibile armata di
Filippo II; ma senza mai cessare anzi vieppiù accentuando il richiamo delle sue passioni,
dei suoi amori e dei suoi più terribili umori. Uno scrittore del nostro tempo ne traccia
questo profilo “Alta di statura, con il volto scarno e il mento aguzzo simile a quello di sua
madre, Anna Bolena, così come ce l’ha tramandata il ritrattista Federico Zuccari.. La sua
mente e il suo temperamento erano troppo virili per attrarre adoratori, e la sua esagerata e
quasi stravagante eleganza fu probabilmente dovuta all’assenza o all’atrofia di più
femminili istinti”.
“Femina quasi virago, crudelissima e di grande animo” così il cronista Sanuto
definisce Caterina Sforza, figlia di Galeazzo, visconte di Milano, donna che nei suoi 46 anni
di vita ebbe tempo di alternare ai suoi lineamenti leggiadri di giovinetta quelli d’una
indomita guerriera; al punto che, alla morte del primo marito, il conte Girolamo Riario,
nipote di Sisto IV, fece predominare in lei tale veemenza da affrontare, a Forlì, Cesare
Borgia, serrata in una corazza e alla testa delle sue armate, tenendo il Valentino
imbottigliato per oltre un mese fuori della città. E se dovette cedere, fu per tradimento del
suo amante che fece capitolare la fortezza della città romagnola.
Quand’anche, insieme ai suoi cinque figli, venne rinchiusa per più d’un anno nella
prigione di Castel Sant’Angelo in Roma, la donna orgogliosa e indomita subì crisi di
mistico ardore, accettando la sventura come necessaria espiazione. Proprio lei che aveva
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gridato al momento di farsi riconoscere per quel che era, la frase “O il ducato o la fine del
mondo”.
Quando non guerreggiò, amò - scrisse uno storico del tempo - giacché da una mano
essa teneva il potere, dall’altra l’amore. E in ogni manifestazione aperta e clamorosa della
sua femminilità, tutta la sua figura s’illuminava. Era donna negli abbandoni come nei
risvegli eroici e cruenti della sua carne. Infatti ebbe un secondo, poi un terzo marito, tal
Giovanni de’ Medici, dal quale ebbe l’ultimo figlio degno di lei e dell’altrui stirpe, Giovanni
dalle Bande Nere.
La sua vita, in tutta la storia del Rinascimento, è un vasto episodio eroicosentimentale. Tanto che i Francesi di Luigi XII, che ebbero a che fare direttamente con lei e
con altri, dissero “In Italia credevamo di trovare degli uomini e trovammo delle donne:
credemmo di trovare delle donne e trovammo degli uomini”.
Giacché siamo in tema di Caterine, non possiamo trascurare la figura di Caterina II
di Russia, insigne femminista più che di insediarsi come zarina sul trono della Santa
Russia. Colta intelligente e sensibile, non trascurò nelle sue coraggiose iniziative politiche e
sociali, d’ispirarsi ai principi innovatori, se non rivoluzionari, dell’Illuminismo Francese,
attingendo ai nuovi ordinamenti giuridici di Montesquieu e dell’italiano Beccaria; mentre
non eliminò anzi accentuò la piaga dei servi della gleba, combattendo ferocemente i
rivoluzionari fra cui il cosacco Pugacev che si era messo a capo della rivolta e di cui
s’interessò Alessandro Puskin nel suo bellissimo romanzo “La figlia del capitano”.
Pur nelle sue iniziative affrontate con animo e sentimento virili, non fece mai morire
in lei i sentimenti femminili se alcuni vollero definirla, per la sua dissolutezza nella vita
privata, la Semiramide del Nord.
A tutte queste vicende “cateriniane” non rimasero mai insensibili i letterati: come
fece Puskin con Caterina II, così Honoré de Balzac che scrisse un bellissimo saggio sulla
figura di Caterina de’ Medici, un insolito personaggio fiorentino. Testualmente citiamo le
sue parole “Caterina de’ Medici salvò la corona di Francia, mantenne l’autorità regale in
circostanze che avrebbero fatto soccombere più di un grande principe. E trovandosi di
fronte a fazioni e ambizioni, le fu necessario dar prova delle più nobili qualità, dei doni più
preziosi dell’uomo di stato, mentre era presa di mira dagli scherni della stampa. Per cui la
figura di Caterina, nella storia del XVI secolo in Francia, si rivelò come quella di un grande
re”.
Anche se per il popolo francese essa era e rimaneva “la straniera” seppe tener fronte
alle avversità sia dopo la morte del marito Enrico II, sia per conto del Delfino minorenne. E
senza tentennamenti, sottoscrisse quel micidiale decreto contro gli Ugonotti, più noto
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come la strage di S. Bartolomeo, per trionfare col cattolicesimo sul calvinismo e sui suoi
nemici in tutta la Francia.
Anche se si presenta difficile il passaggio, non si può non contrapporre a tante
omonime, Caterina Benincasa, la senese che poco più che ventenne s’inserisce, come suora
domenicana, in una sommossa popolare a Siena, per salvare due suoi fratelli, facendoli
rifugiare, fra le contrade in rivolta, in un ospedale del luogo. Un animo, quindi, tenace,
guerresco, risoluto, avventuroso, mistico, stando a quanto scrisse, riguardo al matrimonio
spirituale di Caterina con Cristo, Raimondo da Capua, alla cui cura la giovinetta era stata
affidata: “Ecco ti sposo a me nella fede, a me tuo Creatore e Salvatore. Da qui innanzi,
agisci virilmente e senza alcuna titubanza, a tutto quello che ti sarà messo davanti”.
Infatti a 22 anni cura gli appestati: a 28 a Pisa organizza una Crociata per riscattare
dagli infedeli il possesso di Gerusalemme e dei luoghi santi: né esitò a scrivere lettere con
parole di fuoco e di rampogna al vescovo di Ostia, il francese Pierre d’Estaing, e al
rappresentante del papa in Italia, Gerard du Puy, per denunciare e toglier di mezzo la piaga
del nepotismo, dell’immoralità, dell’avarizia e della superbia, i malanni della Curia papale
“dove troppi prelati si comportano da lupi e trafficanti della divina Grazia”. A 29 anni va
con una consorella ad Avignone in Francia, affrontando un viaggio che metteva paura e
pensiero, dati i tempi, agli stessi eserciti e condottieri, per richiamare con l’autorità che le
derivava da Dio ma vieppiù dai suoi convincimenti, il papa Gregorio XI, che ritorna a
Roma, sbarcando nel 1376 nel nostro porto di Corneto. Né devesi dimenticare il coraggio
che questa giovinetta mostrò nei confronti di Tuldo, condannato a morire per le sue
nequizie: non solo lo convertì, prima dell’esecuzione capitale, ma lo accompagnò sereno sul
ceppo, stringendogli la mano e ponendo poi le sue sotto il capo per raccoglierlo non appena
la scure l’avesse spiccato dal tronco.
Ci sarebbero eroine “femministe” di questa taglia oggidì? Naturalmente senza
bottiglie incendiarie, senza armi, senza violenza, ma armate della fiducia in se stesse, della
bontà delle proprie idee, dell’amore verso la società? Dispiace constatare come a una
patrona d’Italia, così coraggiosamente femminista, debbano far riscontro legioni di ragazze
che esasperandone la lotta, equivocano sul termine e fanno addirittura dell’anarchia
sessuale, di un femminismo a rovescio, riducendosi allo stato aberrante dell’omosessualità
come una conquista sociale, molto ma molto più illogicamente di quanto abbiano fatto,
nella notte della mitologia, le Amazzoni che, pur sostituendo il maschio nel suo più
peculiare attributo, quello del guerriero, non potevano tuttavia fare a meno di esso per la
naturale prosecuzione della specie. Anche se poi uccidevano i figli maschi e allevavano le
sole femmine a cui amputavano la mammella destra per maggiore destrezza nell’uso della
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spada e della lancia. Quanti esempi non ci saprebbe offrire ancora la mitologia! Basti
pensare a Medea, ad Arianna, ad Elena di Troia, ad Elettra, a Camilla
... la gran Volsca virago che n’addusse
di cavalieri e di caterve armate
sì bella gente . . .
E a quant’altre ne cita la storia: Lucrezia, Aspasia, Saffo, Cleopatra, Teodolinda,
Marozia. Nonché alle eroine dei romanzi e della saga dei Nibelunghi. Né devonsi tacere le
vicende di Giuditta che, dopo aver reciso la testa del re Oloferne, viene accolta dal popolo
ebreo osannante “Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu la gioia di Israele, tu l’orgoglio del
popolo nostro”. Né il coraggio di Dalila e quello di Ester o le passionali complicità di
Betsabea, trasmessici dalla Bibbia. E che dire delle nostre antenate, le donne etrusche, che
in tempi in cui la donna era relegata nei ginecei o nelle cucine, riuscirono ad essere
ammesse ai banchetti pubblici, unitamente agli uomini e ai mariti, senza alcuno scandalo e
senza imbarazzo alcuno? Furono le prime a rompere una millenaria tradizione di servaggio
e di discriminazione.
Chi avrebbe mai pensato, nel secolo XV, che una pastora di 19 anni fosse in grado di
cingere un’armatura e marciare in testa a un esercito per la liberazione del proprio paese?
Eppure Giovanna d’Arco, la pulzella d’Orleans, non solo lo fece combattendo contro gli
Inglesi al servizio del suo re, il Delfino di Francia, ma seppe affrontare il rogo come eretica
presunta, ma più, si badi bene, per aver indoddato degli abiti maschili. Ecco l’accusa
dell’Inquisitore: “E veniamo alla questione degli abiti mascolini: per l’ultima volta, volete o
no abbandonare questa impudente acconciatura e vestirvi come si conviene al vostro
sesso?”.
Quando Giovanna decide di firmare la sua accusa per por termine a un processofarsa dove si legge “Ho abominevolmente peccato portando vesti immodeste, di più ho
scorciato i capelli secondo la moda degli uomini, ho cinto la spada ecc. ecc.” si ribella infine
stracciando il documento e dichiarando coraggiosamente “Senza queste cose io non posso
vivere. Accendete pure il rogo: credete voi che io lo tema quanto il vivere come il topo in
una buca?”.
E’ vero che siamo nel 1431, ma quanti autodafé non si dovrebbero alzare oggi per
simili reati? Questo di Giovanna d’Arco si che é femminismo: e non le manifestazioni
odierne nelle piazze del mondo per dichiarare magari l’impossibilità di una qualsiasi
convivenza tra i due sessi. Anzi si rifiuta addirittura l’incontro con l’uomo per una ragione
di matriarcato a dispetto, che se è vero sia riscontrabile in epoche della storia e del mito, è
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pur vero che per la teoria dei corsi e ricorsi storici simili errori si ripetono inesorabilmente
e puntualmente nel modo più illogico, caparbio, rabbioso e irrazionale nella società
contemporanea. Giacché nessuno strumento, nessun marchingegno, nessuna macchina, la
più perfetta possibile, potrà mai sostituire quel sentimento e quell’obbligo all’amore a due,
che Manzoni disse non solo essere imposto dalla natura, ma comandato da Dio nel
matrimonio.
Un curioso episodio che rivela forse la stravaganza di un atteggiamento femminista
che vuole sostituirsi alle attribuzioni dell’uomo, che sono poi sempre quella procreazione e
della sopravvivenza della specie, ce lo riferisce Michel De Montaigne, in una pagina del suo
libro “Viaggio in Italia attraverso la Francia, la Svizzera e la Germania”. Egli racconta “Da
pochi giorni c’era stata un’impiccagione in un luogo vicino chiamato Montiraudet, per
questa causa: sette o otto ragazze dei dintorni di Chaumont avevano complottato di vestirsi
da uomini e di continuare così la loro vita nel mondo. Fra le altre una, sotto il nome di
Maria, era venuta in questo luogo di Vitry a guadagnar la propria vita come tessitore. Qui si
era fidanzata con una donna che è ancor viva. Ma per qualche disaccordo intervenuto fra
loro, la cosa non era andata oltre. Essendosi poi trasferita nel detto Montiraudet e
continuando a guadagnar sempre la vita con quel mestiere, si era innamorata di una donna
che aveva sposato, convivendo quattro o cinque mesi con lei, a quanto si dice, con
soddisfazione di questa; ma essendo stata riconosciuta da qualcuno del detto Chaumont,
ed essendo stata portata la cosa dinanzi al giudice, fu condannata ad essere impiccata: ciò
che essa diceva di preferire piuttosto che ritornare a vivere nello stato di donna, e fu
impiccata per invenzioni illecite atte a supplire alle deficienze del suo stato”.
Siamo nel 1580.
Chi portò invece abiti maschili, senza rischiare nè il rogo né la forca, fu la scrittrice
Aurore Dupin, una donna francese del secolo scorso la quale, dopo una vita abbastanza
tranquilla, abbandonò a 30 anni marito e figli per vivere sola a Parigi, sotto il nome di
George Sand, forse per proseguire quella missione che qualche tempo prima, in piena
rivoluzione francese, aveva abbracciato e propugnato Marie Olympe De Gouges la quale,
dopo aver fondato due clubs femministi, chiamati l’uno “Societé fraternelle” e l’altro
“Societé des femmes rivolutionnaires” presentò alla Costituente, dopo il 1789, una
“Dichiarazione dei diritti della donna” con l’appoggio del marchese De Condorcet e
dell’abate Emmanuel Joseph Sieyès. La De Gouges venne ghigliottinata a Parigi per ordine
di Massimilian Robespierre che si era opposto tenacemente alla proposta; il marchese De
Condorcet si avvelenò nel carcere mentre l’abate Sieyès sfuggì alla morte per essersi saputo
barcamenare fra il Direttorio, il Consolato, l’Impero e la Restaurazione.
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Ma George Sand, pur nel suo coraggioso femminismo, che fu più che altro un vezzo
letterario per una ricerca di notorietà, non cessò mai di amare passionalmente sia De
Musset che Chopin. Ci volle quello scanzonato di Shaw per affermare che mentre George
Sand viveva come un uomo, faceva quasi quasi vivere da donna, per divertimento, i suoi
Chopin e i suoi De Musset. Malignità a parte, tutta la sua opera di scrittrice e i suoi
romanzi tendono ad una liberalizzazione della donna, ma non all’abolizione del rapporto
amoroso che lei, anzi, ebbe e trovò la forza di incentivare per la creazione propria e l’altrui,
con altrettante opere d’arte sia letterarie che musicali.
Dopo la Francia, forse per il detto che gli eroi e le eroine fioriscono sempre sul
sangue dei martiri, il femminismo ebbe una sua dilatazione in Germania, per opera del
tedesco Theodor von Hippel che scrisse il libro “Uber die Bürgerliche verbesserung
der Weiber” ossia “Intorno alla riforma borghese della donna” nel 1792; mentre
in Inghilterra Mary Wollostonecraft, seconda moglie dell’infelice poeta Percy Shelley,
pubblicò il libro “Vindication of the righs of women” cioè “Rivendicazione dei
diritti della donna”; e dove Emmeline Pankhurst fondava, un secolo dopo, in testa alle
suffragette inglesi, la “Womenìs social and political union”, vale a dire “L’unione
sociale e politica delle donne”, facendo ottenere il voto politico a tutte le donne
inglesi, grazie a una legge votata dal Parlamento nel 1918.
Ma già in Finlandia il voto alle donne era stato concesso nel 1906 e in Norvegia nel
1907; negli Stati Uniti d’America si costituì nel 1913 il “National Women’s Party” e solo
dopo sette anni, nel 1920, le donne ottennero il diritto al voto politico; in Danimarca e in
Russia nel 1918; in Svezia nel 1919. Non bisogna però dimenticare che già in questo paese,
in tempi più lontani, perciò più apprezzabili, una regina fece parlare molto di sè: Cristina
di Svezia. Non crediamo ci sia stata femminista più colta, più tenera, più umana di questa
sovrana che si trovò sulle spalle, a soli sei anni, la responsabilità di un trono, in un paese
forse ancora corrusco di tradizioni barbariche e di sanguinose vicende. Da giovinetta,
prima con la reggenza poi da sola, si occupò direttamente e assai bene degli affari dello
Stato, in considerazione del fatto che crebbe in mezzo ad una guerra, metà politica metà
religiosa, nota come la guerra dei trent’anni. Non per questo tralasciò le letture letterarie e
filosofiche, se fece convenire a Stoccolma tutti i più celebri uomini di cultura del suo
tempo, fra cui Cartesio che, disgraziatamente, morì in quel paese di polmonite
probabilmente per il clima troppo crudo a confronto di quello della sua terra nativa.
Per la sua fibra eccezionale, grazie ad un’educazione pressoché spartana, trascorreva
giorni interi a caccia nelle foreste anche sotto sembianze maschili, per rendersi libera e
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sconosciuta al suo popolo per capirne meglio le aspirazioni e le esigenze; ma anche per
assecondare gli stimoli dei suoi sentimenti, le curiosità e gli imprevisti dell’avventura.
Riuscì a por termine alla guerra a vantaggio del suo paese.
Forse a causa della fitta corrispondenza coi più grandi uomini delle scienze, delle
arti e delle lettere del suo tempo, venne coinvolta a 28 anni in una profonda crisi religiosa e
travolta nel cattolicesimo, quasi, si potrebbe arguire, in resipiscenza del crollo
dell’influenza politica del papato, con la firma del trattato di Vestfalia, in favore del suo
paese e della Francia. Tanto che, temendo di rimanere vittima di qualche congiura, abdicò
a favore del cugino, abbandonando il suo paese per trasferirsi definitivamente in Italia,
nella sua nuova residenza di Roma dove seguitò a coltivare, come mecenate, le arti e le
lettere, e ponendo le basi di quell’edificio culturale che fu l’Arcadia. Nel clima della capitale
romana non poté evidentemente sottrarsi al fascino della grandezza della cristianità, se
volle esser sepolta in San Pietro, a redenzione forse del retaggio barbarico e sanguinoso dei
suoi padri Vichinghi.
La Svezia, dunque, come dicevamo, riscattò la donna nel 1919. Poi si ebbe una
grande pausa fino al 1946, anno in cui il voto alle donne venne concesso in Francia e in
Italia. In Belgio nel 1947. Solo in Svizzera l’equiparazione non è ancora totalmente
avvenuta, dove probabilmente le donne non si preoccupano ancora di tali problemi sociali
e politici. Ed è una nazione assai civile, non c’è dubbio.
Il fenomeno, come si può dunque arguire, è appartenuto a tutti i tempi; ed ebbe le
sue punte massime quand’anche il femminismo procedeva sui binari di una contestazione
civile oltre che logica. Ebbe le sue manifestazioni silenziose, avvertibili solamente in teatro
o nei libri, giacché alle radici delle mutazioni sociali sono sempre stati determinanti i
movimenti culturali. Basterebbe pensare, tanto per restare ai tempi moderni,
all’enciclopedismo e all’illuminismo che prepararono pazientemente la rivoluzione
francese del 1789.
Fu proprio la Francia per prima a lanciare il sasso in piccionaia. Cosa non scatenò in
Europa e nel mondo il Bovarismo, una specie di moda, tanto per stare “à la page” creata da
Gustave Flaubert. Ma fu un movimento che digradò via via in un’esaltazione incontrollata
delle passioni segrete e vitalistiche per cedere infine agli impulsi scomposti di un
temperamento che aveva alla base la ricerca della distinzione sociale, poi dell’eleganza,
dell’amore e della personalità; e a conclusione, la rovina della casa e di ogni valore morale.
Poi il suicidio. Ma a ben guardare, l’esaltazione e la ribellione di Madame Bovary
sfociarono in un femminismo surrettizio, che ebbe poco o nulla a che fare o a che vedere
con quelli che dovevano essere i diritti della donna, anche se in forma di protesta o di
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sollecitazione socio-politica. Ne potrebbe, in un certo qual modo, essere stata campione o
vittima la nostra Contessa di Castiglione.
In quasi tutto l’Ottocento letterario europeo che aveva sviluppato i nuovi concetti
prima di romanticismo come reazione al classicismo, poi di naturalismo in
contrapposizione al romanticismo, le numerose eroine trovarono collocazione in tutta la
produzione letteraria e artistica del tempo, quasi un campo di prova dei più celebrati
scrittori della Francia, dell’Italia e della Scandinavia.
Balzac con la sua “Eugenie Grande”, Merimée con “Carmen” Flaubert con “Madame
Bovary”, Zola con “Thérèse Raquin”, Tolstoj con “Anna Karenina” e Ibsen con il suo teatro,
“La donna del mare”, “Hedda Gabler” e “Casa di Bambola”. Lo strano però è che tutte
queste creature, dopo un tentativo a volte caparbio di ribellione alla società o alla famiglia
o alle consuetudini, cadono tutte vittime delle loro velleità, quasi a dimostrazione di un
eroismo condannato in partenza o predestinato, che aveva bisogno di martiri sui campi
della battaglia femministica. Nessuna sopravvivenza: chi di coltello, chi di rivoltella, chi di
veleno, chi sotto le ruote di un convoglio ferroviario, ciascuna soccombe tragicamente e
inevitabilmente quasi a convalidare la vanità o l’impossibilità di un riscatto e di una lottta
contro un destino che si accaniva contro tutto e contro tutti. Una specie di ecatombe
fatalistica da cui solo Manzoni riesce a liberare l’eroina dei suoi Promessi Sposi.
E’ vero che la figura di questo artista italiano è stata sempre adombrata né messa
mai sur un piano di paragone con tutto l’Ottocento letterario europeo se non in sottordine,
ma risulta quanto mai sintomatico il fatto che con precedenza su tutti gli altri romanzieri
citati, egli con un anticipo di qualche decennio tratteggiò una figura di donna che non solo
riesce a sopravvivere alle insidie in cui la società e le vicende esterne avrebbero voluta
travolgerla, ma addirittura a sconfiggere con l’arma della modestia della sua vita, della
semplicità delle sue parole, del suo comportamento e della sua fede tutti coloro che
avrebbero voluto possederla. A prima vista e a un primo esame, prescindendo per ora dal
valore letterario del maggior letterario del maggior romanzo italiano dell’Ottocento, la vera
femminista potrebbe sembrare la Monaca di Monza per la sua libertà anche al di dentro di
un convento di clausura, dove sa mantenere i suoi privilegi di casta, ma soprattutto di
donna ambiziosa e potente o meglio di femmina: ma a guardar meglio e in maniera più
approfondita, il vero personaggio femminista è Lucia a attorno a cui ruotano e prendono
risalto e ragione tutti gli altri personaggi del romanzo: don Rodrigo che vuole a tutti i costi
avere la ragazza per un suo principio di prepotente mascolismo, sancito dallo “ius primae
noctis”: l’Innominato che si lascia toccare e ferire mortalmente nell’amor proprio e
nell’orgoglio di uomo potente e spietato, da un semplice frase di Lucia: padre Cristoforo
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che la vuole proteggere, e Renzo sposare: e via via tutti gli altri personaggi della vicenda.
Anche se potesse sembrare volterriano il lieto fine dell’opera pur in mezzo alle contrarietà
più difficili del destino e della società, i Promessi Sposi potrebbero senza meno, a nostro
modesto avviso, esser considerati validi proprio per l’esaltazione dei valori femminili e
femministici, evidentemente fondati sulla fede, sul rispetto della propria condizione, sul
ruolo che una ragazza intende assumere come regola di vita di fronte a Dio, allo sposo e
alla società del suo tempo. Che può essere del resto forma rispettabilissima di
femminismo, giacché il femminismo se ha i suoi sacrosanti diritti, ha pure i suoi sacrosanti
doveri che non possono venir conculcati e ignorati, tanto meno circoscritti nell’angusto
cerchio della liberalizzazione del sesso e del tornaconto personale.
Per ritornare al tema, dobbiamo dire che fra tanta carneficina letteraria, il solo
teatro di Ibsen ebbe effettivamente un’influenza positiva sulla società del suo tempo, se si
considera che la Norvegia, come già detto, fu uno dei primi paesi dell’Europa a
liberalizzare il costume di vita della donna e a concederle quegli stessi diritti, ma anche
quegli stessi doveri, di autodeterminazione degli uomini, sempre però nel rispetto
reciproco dei rispettivi ruoli sociali. Un esempio di dignitosa sopravvivenza tra le donne
del suo teatro, lo troviamo nella “Donna del mare”, la quale sol quando è lasciata alla
mercé di una sua personale libertà di scelta, è capace di distruggere le sue lungamente
vagheggiate illusioni per un amore giovanile perduto e poi ritrovato, e di non cedere alle
passioni del sentimento: per rimanere libera a rappresentare il suo ruolo di madre e di
sposa nella famiglia dove si era ritrovata, inizialmente, troppo prigioniera ed estraniata.
A distruggere però tutto i residui di un femminismo romantico, apocrifo, a
scandalizzare con i suoi primi libri la società puritana degli inglesi, fu lo scrittore David
Herbert Lawrence il quale con il suo romanzo “L’amante di Lady Chatterley” più che
esaminare l’anatomia morale della donna per valorizzarne le naturali aspirazioni
d’indipendenza, pone l’accento sui valori fisici del corpo e del sesso, come unico tramite di
un unisono con la vita dell’universo.
Cosa vuol rappresentare il caso di Lady Chatterley?
Una ribellione, prima alla società industriale piccolo-borghese della Gran Bretagna
dopo la prima guerra mondiale; una sfida poi a un ambiente corrotto dove la decenza e il
buon ordine della vita dovevano ad ogni costo esser rispettati e salvi. Lady Chatterley
infatti poteva anche avere una sua relazione, di fronte all’impotenza e alla infermità del
marito, con qualsiasi uomo purché nella sua classe sociale; e aspirare anche ad una
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maternità spuria che il marito avrebbe riconosciuto per la prosecuzione di un casato e per
assicurare un ragguardevole patrimonio finanziario, ma non certo morale.
Però Lady Chatterly di fronte a questa esigenza sociale dell’ambiente in cui è vissuta
e vive, fa la sua scelta e cerca di raggiungere quell’amore dove lo spirito e il corpo vivano in
assoluto equilibrio; dove esista fra loro uno stato di naturale equilibrio; dove insomma
l’uno abbia il dovuto rispetto naturale per l’altra. E sceglie il guardiacaccia, l’uomo
frustrato dagli eventi e dalla società, vincendo così la sua battaglia sentimentale
coraggiosamente e, in un certo senso, dignitosamente. Tanto vero che il frutto di quella
relazione non solo rimane in lei, ma è adorato, difeso, venerato, portato a maturazione
come elemento di unione indivisibile ed esaltazione del puro e casto amore sessuale.
“Un libro come questo - diceva Lawrence - è oggetto di disprezzo per i giovani
progrediti che si fanno beffe dell’importanza del sesso, lo trattano come un cocktail, e se ne
servono per schernire i più vecchi di loro. Per questi giovani che si stimano superiori, è fin
troppo semplice e comune. Le parole ardite non li interessano e l’atteggiamento nei
confronti dell’amore appre loro fuori moda.... perché non hanno rispetto per nulla
“mentre” la loro mente non ha altro da fare se non giocare coi giocattoli della vita, dei quali
il sesso è tra i più importanti e che perde quel po' d’intelligenza che ha nel corso del
gioco.... Conservate i vostri pervertimenti, se vi piacciono.... il vostro puritanesimo, la
vostra elegante licenziosità, la vostra mente impura”.
Sembra una profezia, scritta con parole di circa cinquant’anni fa, per i giovani
d’oggi.
Certo, quale e quanta difformità dalle donne di Dante, di Petrarca e Boccaccio! E che
diverso tratto dalle eroine di Ariosto e del Tasso!
Negli scrittori del Dolce Stil Novo c’era il desiderio di idealizzare, di esaltare
spiritualmente, di divinizzare la donna fisica, ponendola al di sopra di ogni pensiero che
non tendesse a collocarla alla scaturigine addirittura della poesia e della ispirazione, senza
il sospetto che un soffio di volgarità la potesse sfiorare. Mentre nei poemi cavallereschi del
primo Rinascimento erano sempre le eroine a far da filo conduttore, sia nelle imprese
guerresche che in quelle amorose, inscindibili sempre, alle vicende di un Orlando Furioso o
della Gerusalemme Liberata, anche se al termine del racconto favoloso ognuna di esse
finisce sempre con l’accorgersi di essere anche donna per cedere ai sentimenti dell’amore.
E che dire ancora di tutte le donne che ispirarono la pittura dal ‘400 al ‘700 e delle
eroine del melodramma musicale italiano, francese e tedesco?
Ma prima che il discorso ci porti lontano su aspetti tuttavia sempre interessanti, ci
preme arrivare alla conclusione senza tacere il nome di colei che fu la prima femminista del
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nostro secolo e della società italiana; alludiamo a Rina Faccio, più nota a tutti con lo
pseudonimo di Sibilla Aleramo. Essa, dai primi di questo secolo, cominciò a promuovere i
primi movimenti raccogliendo attorno a sè uomini di cultura e donne di azione per
combattere l’ignoranza e l’analfabetismo (ed ecco l’invenzione delle prime biblioteche
circolanti) istituendo scuole gratuite per i figli dei pastori e dei carbonai in tutto l’Agro
Romano dove il latifondo e la malaria mietevano vittime di ogni età e condizione,
addirittura alle porte di Roma. Lottò sui giornali, sulle riviste, sui libri del suo tempo
coadiuvata da letterati e collaboratori, mettendo sempre l’attenzione sui problemi sociali
degli sfruttati e sullo stato della donna del suo tempo. E’ pur vero che fu una donna assai
libera se si considera che non ci fu letterato a non avere una convivenza intima con lei,
tanto che si affermava, in quel periodo poi non troppo lontano, che l’alcova di Sibilla
Aleramo era divenuta un vero e proprio sofà delle muse. Ma c’è da aggiungere che la sua
campagna fu condotta civilmente così com’era avvenuto in tutta la storia di cui ci siamo
interessati, anche se molto fugacemente.
Poiché molto spesso femminismo vuol significare anche alternativa al mascolismo
se non addirittura reazione ad esso, non possiamo tacere una curiosità, propria della fine
del secolo scorso. Quando le bande dei fuorilegge e il brigantaggio infestarono le regioni
dell’Italia Meridionale come reazione e ribellione alle promesse non mantenute degli
eserciti liberatori del Regno d’Italia, non mncarono vere e proprie banditesse. Esse furono
Filumena Pennacchio, Giuseppina Vitale e Maria Giovanni Tito.
Anche se si facevano poi ritrarre in abiti maschili e col fucile in mano - ed ecco il vezzo
delle pose fotografiche - queste banditesse non furono altro che le amiche di qualche capo
banda.
Terminiamo questa nostra dissertazione asserendo che oggi non sono più attuali e
tanto meno necessarie le arti di una Lucrezia Borgia o le avventure spericolate di un’Anita
Garibaldi per riproporre il problema; e tanto meno la leggendaria manifestazione di una
nuova Lady Godiva che marciò nuda sopra un cavallo bianco, coperta della sola chioma,
per costringere il marito a diminuire la pressione fiscale verso i suoi sudditi; anche perché
oggi, col fatto che le donne si mostrano nude ad ogni pie’ sospinto e senza più l’ausilio delle
chiome e di meno docili cavalcature, le tasse crescono, aumentando forse in maniera
direttamente proporzionale al loro nudismo.
Per richiamare l’attenzione della nostra società su un problema così esarcebato,
occorrerebbe, secondo noi, prima di tutto reintegrare i sensi nel loro ufficio e
ridimensionare tutto il problema che rischia veramente di scivolare nell’anarchia sessuale e
nella violenza di piazza, se non addirittura in una specie di crociata contro gli stessi
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uomini. Non dimentichiamoci che da che mondo è mondo, la donna, sia come tale sia
come favorita sia come cortigiana sia come virago, ha sempre condizionato la condotta
degli uomini e date svolte decisive alla storia. Non si ritorni al mito delle Amazzoni, per
domare le quali occorse la personificazione della forza virile e dell’efficienza procreativa di
un semidio, Ercole. Il che conferma sempre più le teorie di Gian Battista Vico secondo cui
al fondo di ogni leggenda sta sempre la matrice o lo spunto inevitabile della verità storica e
la necessità di un ricorso storico per la labilità della memoria umana.
BRUNO BLASI
Conferenza tenuta nell’Auditorium di San Pancrazio il 27-2-1977
Nella primavera del 1927, D.H. Lawrence, quasi un “globe trotter” arrivò da Roma in
Etruria, in visita ai centri più importanti di una civiltà che voleva scoprire via via. Da
Cerveteri a Volterra, in compagnia di un amico, capitò a Tarquinia dove sostò più e più
giorni non solo per osservare ciò che di etrusco era rimasto nelle memorie archeologiche
ma anche nelle persone e nel paesaggio, con delle intuizioni così geniali e vive da dare
inizio ad un bellissimo libro di viaggio dal titolo “Etruscan Places”. Nella ricorrenza
cinquantenaria dell’avvenimento, la Società Tarquiniense d’Arte e Storia, ha promosso una
manifestazione culturale che è culminata in una conferenza all’Auditorium di San
Pancrazio, dove era stata allestita una mostra documentaristica sulla vita e sulle opere di
D.H. Lawrence; e con lo scoprimento di una lapide là dove egli albergò, vale a dire nell’ex
locanda Gentili in via Cesare Battisti.
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Il testo della lapide è il seguente:
DAVID HERBERT LAWRENCE
VENUTO IN QUESTA TERRA
ALLA RICERCA
DELLA GENUINA VITALITA’
DEGLI ETRUSCHI
CHE MIRABILMENTE TRADUSSE
NELL’OPERA “ETRUSCAN PLACES”
SOSTO’ IN QUESTA DIMORA
NELLA PRIMAVERA DEL 1927.
LA SOCIETA’ TARQUINIENSE D’ARTE E STORIA
30 APRILE 1977
Riportiamo in traduzione italiana il testo della conferenza del sig. Roderick
Cavaliero, direttore del British Council di Roma, tradotto dal socio Paolo Mattioli.
Commemorazione D.H. Lawrence
Chi era D.H. Lawrence. Era il quarto figlio, (terzo maschio), di un minatore ed era
nato nel 1895 nelle Midlands Inglesi, definite da un altro poeta inglese “stupide e crudeli”.
Una carriera nelle miniere, che un “terzo figlio maschio” si doveva aspettare, fu
esclusa da un precoce attacco di polmonite, per causa del quale divenne predisposto a
quella tubercolosi che lo uccise 45 anni più tardi.
Ma sua madre era stata insegnante di scuola ed aveva scritto poesie; niente di
importante, ma abbastanza perché ella si rendesse conto che il figliolo aveva dei “numeri”.
Con veri funambolismi di economia domestica, mise da parte i soldi per i libri e a 13
anni Davide vinse una borsa di studio per la Scuola Superiore di Nottingham.
Lavorando duramente proseguì gli studi fino al Collegio della Università di
Nottingham e si laureò insegnante.
I suoi primi scritti colpirono l’attenzione di due personaggi del mondo letterario, che
lo incoraggiarono a scrivere ad uno di essi, Ford Madox Ford (uno scrittore molto
autorevole in quel tempo ed autore di uno dei pochi libri veramente perfetti della lingua
inglese “Il buon soldato”) gli pubblicò dei lavori sulla Rivista Inglese.
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Nel 1911 fu in grado di porre fra le mani di sua madre, composta sul letto di morte,
la prima edizione de “Il pappagallo bianco”.
Abbandonò il suo incarico di insegnante e decise di vivere del suo lavoro di scrittore.
Nei successivi 19 anni pubblicò una mezza dozzina di autentici capolavori e della
“roba” di una mediocrità imbarazzante; ma quei capolavori gli hanno assicurato un posto
nell’Olimpo della letteratura inglese e molti oggi ritengono che egli sia stato il più grande
scrittore di questo secolo.
Non intendo considerare la validità di questo assunto, anche perché somiglia troppo
al tipo di tesi che vengono poste agli esami.
Il concetto de “lo scrittore più grande” non ha significato, né valore concreto.
Ciò di cui voglio trattare è il particolare interesse di Lawrence per l’Italia ed il suo
modo di vedere taluni aspetti di essa che lo indussero a scrivere, negli ultimi anni della sua
vita, “Luoghi Etruschi”.
*****
Lawrence venne in Italia per la prima volta nel Settembre del 1912 e si trattenne sul
Lago di Garda fino all’Aprile del 1913.
Egli era accompagnato da Frieda Von Richtoven, sposata con Ernest Wrekley, che
egli aveva conosciuta in Germania quello stesso anno e che aveva abbandonato suo marito
ed i figli per vivere con l’autore de “Il pappagallo bianco”.
Lawrence venne in Italia nauseato dalle macchine industriali di Nottingham che
avevano inquinato il paesaggio e ridotto l’uomo all’ilotismo.
Poiché ’affetto da T.B.C., gli era stato consigliato di fare lunghe passeggiate
all’aperto e le campagne intorno alle aree industriali del Midlands Inglese sono di una
grande bellezza naturale. Lì egli acquisì il senso del ritmo della vita naturale che doveva
diventare per lui una specie di “credo” religioso.
L’universo, per lui, era una entità vivente, nella quale gli uomini si impegnavano con
fatica e dolore a vivere petto a petto con il cosmo.
La bellezza naturale del Lago di Garda lo riempì di estatico languore; le sue
passeggiate per le colline gli offrirono l’opportunità di entrare in contatto vivo con la vita
dei contadini, che si svolgeva a stretto contatto con la natura, della quale, egli lo sentiva,
essi capivano i segreti con una sorta di intuizione istintiva.
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Non dimenticò mai quelle sensazioni e degli ultimi 10 anni della sua vita, dal 1920 al
1930, gli anni del viaggio a Ceylon, in Australia e Nord America, ne trascorse ben 4 in
Italia.
Nel medesimo periodo si trattenne, in tutto, solo 6 mesi in Inghilterra.
Trascorsi alcuni mesi a Lerici, doveva viveva Shelley, al tempo della sua morte
Lawrence era tornato in Inghilterra, dove sposò Frida e ottenne il successo come
romanziere.
Ma la sua fama venne sfigurata da alcuni fatti di cronaca.
Non poteva arruolarsi, a causa della sua salute; ed i giovanotti apparentemente
robusti, in abiti civili, erano subito considerati imboscati; la sua nuova moglie era cugina di
un (famoso) Asso dell’Aviazione Tedesca; il suo romanzo “L’Arcobaleno”, in cui esprimeva
il suo odio per la guerra (in effetti la Guerra Boera), fu accusato di oscenità.
Non ci si meravigli quindi se, dopo la guerra, lui e Frida lasciarono l’Inghilterra per
dedicarsi a quella che diventò una vera e propria vita da girovaghi.
Avrebbe voluto andare in America, ma la causa lo aveva reso troppo povero per
permettersi l’alto costo del biglietto.
Andò, invece, a Firenze, di dove trasse l’ambientazione del “Aron’s Rod (1922),
quindi a Picinisco negli Abruzzi, che è descritto in “The Lost Girl” (1920), e, sofferente per i
rigori del freddo intenso, si trasferì a Taormina, di dove si spinse in una breve ma
memorabile gita in mare fino alla Sardegna (1921).
Da quel momento in poi viaggiò per il mondo; a stento fuggì alla morte di malaria in
Messico e tornò in Italia nel 1925.
Fu in Italia, vicino Firenze, che scrisse il suo più famoso, o piuttosto il più noto dei
suoi libri “L’amante di Lady Chatterley”, che gli procurò più denaro, ma anche più
amarezze di ogni altro.
Era il 1927, a tre anni dalla sua morte; ma era chiaro a tutti che non gli restava
molto da vivere.
In quell’anno egli trovò il tempo e l’energia per fare un viaggio attraverso la Tuscia e
per redigere un manoscritto che non doveva essere pubblicato fino a dopo la sua morte, il
libro che noi oggi siamo qui riuniti per onorare: “Etruscan Places”.
I suoi ultimi anni furono amari, penosi e tormentati da continui dolorosi attacchi del
suo male.
Era riuscito a litigare con gli amici più intimi e con la maggior parte degli scrittori
che lo avevano aiutato; era un “pariah” della società; i suoi romanzi, le poesie ed i dipinti
erano egualmente bistrattati da critici e moralisti.
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La polizia di Londra aveva sequestrato i suoi dipinti, ed i suoi romanzi davano vita a
personaggi nei quali i suoi amici e protettori si riconoscevano, attoniti e spaventati dalla
ferocia della sua rabbia.
I lettori dei classici latini non avranno difficoltà a ravvisare l’ispirazione Dionisiaca,
la fondamentale fede nella materialità del proprio sangue, del bisogno degli uomini di
sottrarsi al dominio della mente e delle idee, per riportare invece le loro facoltà mentali ad
un sano rapporto con la piena forza dei profondi sentimenti e con movimenti dei loro
corpi.
Egli proclamò questo suo convincimento dal Lago di Garda nel 1913. “La mia grande
religione è la fede nel sangue, essendo la carne più scaltra dell’intelletto. Possiamo
sbagliare con la nostra mente. Ciò che il nostro cuore sente e crede e dice è sempre vero”.
Pensava al corpo dell’uomo come ad una fiamma, come una fiamma di candela
sempre eretta e tuttavia fluida.
Credette di aver conosciuto nei contadini del Lago di Garda uomini che vivevano
secondo questa stessa religione.
Le idee furono da prima sviluppate nel suo primo libro di viaggi “Twilight in Italy”
(Crepuscoli in Italia) - 1916.
In un saggio in questo libro, “The Lemon Garden” (Il giardino dei limoni), Lawrence
svolge la tesi che il Rinascimento in Italia fu una vera e propria esaltazione della carne, una
rivolta contro gli aneliti spirituali del Medioevo.
Dopo il cupo mondo di Nottingham, la vita, in Italia, appariva al giovane scrittore,
ancora come quella della rinascenza, che attribuiva alla carne un senso religioso.
La oscura forza del corpo trionfa sulla luce dell’intelletto e diventa, a sua volta, luce
brillante.
La Venere del Botticelli ne è l’emblema.
E’ lo spirito della “Tigre Tigre” di William Blake, che brucia vivido nel freddo della
notte.
Gli uomini del Nord si sono abbandonati alla Scienza ed alla tecnologia, alla
Ragione, all’Ordine.
Quando vogliono tornare ad essere tigri essi non ci riescono, poiché sono (ormai)
schiavi della macchina.
Mentre, seduto, osserva la campagna del Garda, immutata dai tempi di Goethe, egli
teme, e ben a ragione, che gli uomini finiranno col profanarla con la macchina.
Mentre, seduto, osserva la campagna del Garda, immutata dai tempi di Goethe, egli
teme, e a ben ragione, che gli uomini finiranno col profanarla con la macchina.
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I romanzi di Lawrence costituiscono, più o meno, uno svolgimento di questo tema
costante, che l’uomo, e più ancora la donna, sono intrappolati in un mondo che ha
rinnegato le sue origini naturali e spontanee, ed - a meno che non riscoprano queste origini
- essi sono condannati alla sterilità, ad una permanente adolescenza, al fallimento della
vita.
L’atto sessuale è sacro, sacramentale, e non già qualcosa di cui ci si debba
vergognare; esso aiuta l’uomo e la donna a realizzare la loro stessa personalità, ad avvertire
il moto dell’Universo.
Nessuno condannerebbe la contemporanea pornografia della violenza e del sesso
più vigorosamente di Lawrence, se vivesse.
Il potenziale dell’uomo, tendente all’unione con l’Universo, è avvilito dallo squallore
e dalla bruttezza.
In “Women in Love” (“Donne in Amore”) l’Inghilterra appare condannata alla sua
aridità industriale, ad una mellifluità eterna.
“Arcobaleno” e “Donne in Amore”, due dei suoi capolavori, trattano della possibilità
e della difficoltà di riuscire a stabilire fra uomini e donne soddisfacenti correlazioni.
“La ragazza perduta” e “La Verga di Aronne” descrivono le speranze dello stesso
Lawrence che l’Italia costituiva un esempio per il Nord industriale, ma già dai primi anni
“venti” Lawrence cominciava a nutrire seri dubbi in proposito.
Egli si era reso conto che l’Italia voleva diventare una moderna potenza industriale,
come l’Inghilterra e già nel 1922 Aaron pensava che l’Italia fosse diventata così priva di
idee ed automatizzata come l’Inghilterra un puro e semplice “progetto commerciale”.
Solo in Sardegna Lawrence sentì che si era salvata una parte della bella virilità che
egli aveva ammirato nei contadini del Garda.
Sulla strada per Nuoro, in Sardegna, Lawrence considerava che in Italia, dovunque
si vada, si è consapevoli del presente, o delle influenze medioevali, o delle remote,
misteriose divinità delle prime popolazioni Mediterranee.
Dovunque uno vada, il luogo avrà il suo genio conscio.
Lawrence era grato all’Italia perché essa gli restituiva gran parte di ciò che si era
perduto, come un Osiride rigenerato.
Viaggiò per nuovi territori, ma doveva sempre tornare in Italia per riavere
l’ispirazione.
Eppure anche l’Italia cominciava a deluderlo.
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E’ così a Tarquinia, nel 1927, in cerca dell’Etrusca “dal grande naso, dal piede
sensitivo, dal sorriso enigmatico”, il personaggio di una poesia che egli aveva scritto nel
1920.
In “Sea and Sardinia” (“Mare e Sardegna”) Lawrence rifiutò di essere un Baedeker.
In “Etruscan Places” egli è stato una “guida” al mondo etrusco, poi riconosciuto
come un vero precursore delle moderne teorie sulla Civiltà Etrusca.
Lawrence “sentiva” che gli Etruschi, più di quasi tutte le altre Civiltà Mediterranee,
avevano il senso della “spontaneità” della vita.
La loro religione sembrava presumere che il Cosmo fosse vivente.
Essi costruivano in legno, non in pietra come i Romani, poiché gli Etruschi
credevano nel momento vissuto e non nell’evoluzione del tempo.
Gli Etruschi avevano i loro diritti di priorità.
“Sembra che nell’istinto degli Etruschi ci fosse una vera e propria tendenza a
preservare l’essenza naturale della vita.
E questo è un compito di gran lunga più degno e più difficile che conquistare il
mondo o sacrificare se stessi o salvare l’anima immortale”.
Per gli Etruschi la morte non era né tragica né definitiva.
Non era terrificante. I soli edifici costruiti per durare a lungo erano le tombe con le
loro gaie decorazioni; Lawrence credeva, con i moderni Etruscologhi, che - rinchiusi nelle
loro tombe - i morti risorgevano per vivere di nuovo nell’Aldilà la stessa vita, che, per brevi
momenti, avevano vissuto in terra.
“La vita sulla terra era così bella che la vita sotto terra doveva per forza costituire
una continuazione alla prima”.
“Etruscan Places”, dopo l’esistenza permalosa e litigiosa di Lawrence, è un libro
sereno.
I Romani sono dei furfanti, ed egli li tratta come trattò la Polizia inglese, o gli
Industriali, o i latifondisti Latino-Americani.
La civiltà Romana era arrogante e brutale.
Era una civiltà della mente, non del corpo.
Gli ulteriori tre anni della sua vita stavano consumandosi. “Stiamo morendo, stiamo
morendo, così tutto ciò che possiamo fare ora è desiderare di morire” egli scrisse in “The
Ship of Death”, “e di costruire la barca della Morte per condurre l’anima nel suo viaggio più
lungo. Una piccola nave con sedili e cibo e piccoli piatti e tutto l’equipaggiamento pronto e
sufficiente per l’anima partente”.
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La lezione che egli aveva appreso dall’Italia, fu, forse, la più difficile che ciascuno di
noi deve imparare; non come vivere, ma come morire.
RODERIK CAVALIERO
Direttore del “British
Council” di Roma
(traduzione di Paolo Mattioli)
Conferenza tenuta il 30-4-1977
La Storia di una figura Sepolcrale
Sull’ultimo ripiano del cimitero di Tarquinia, nell’angolo volto a sud verso il mare, si
scorge, fra gli altri, il sepolcro abbandonato di una giovane donna il cui profilo, di
pregevole fattura, mi fa ricorrere, di anno in anno, con la memoria a una poesia di
Giacomo Leopardi intitolata “Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento
sepolcrale della medesima”, i cui versi sono:
“Tal fosti: or qui sotterra
polve e scheletro sei. Su l’ossa e il fango
immobilmente collocato invano
muto, mirando dell’etadi il volo,
sta, di memoria solo
e di dolor custode, il simulacro
della scorsa beltà....”
Il casato di quella sfortunata giovane è Anna Maria Bruschi-Querciola, nata il 12
febbraio 1847 in Corneto-Tarquinia da Luigi Bruschi-Querciola e da Gioconda Moirani; e
morta il 4 ottobre 1876. Sul marmo, in alto, il segno araldico di una quercia; e più in basso,
un serpe che si morde la coda.
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Il mistero di questa tomba mi si è svelato casualmente nel corso dell’anno, in due
occasioni: la prima, grazie a un giovane medico in servizio presso il nostro Ospedale, il
quale ha parlato di una sua antenata, sorellastra della predetta Anna Maria, morta per un
fatale quanto misterioso incidente; la seconda, grazie alla lettura di una pagina di George
Dennis il quale, nel suo libro di viaggio “Itinerari Etruschi”, rivela, fra l’altro, la venuta a
Corneto dell’artista James Byres, inviato dall’accademia Reale Britannica, per ritrarre gli
affreschi di alcune tombe etrusche di recente scavo, con un gruppo di disegnatori fra cui il
famoso incisore Giovan Battista Piranesi.
Ecco le parole del Dennis:
“Per quanto Corneto-Tarquinia sia una città di una certa importanza, non ha alcun
albergo che garantisca al viaggiatore un minimo di conforto. Nella piazza della parte bassa
della città funziona, per la verità, un albergo sistemato nel grande Palazzo Vitelleschi, in
stile gotico-rinascimentale, ma malgrado l’importanza dell’edificio e le eleganti bifore
traforate delle finestre, non vi regna né pulizia né ordine; cosicché mi trasferii presso la
famiglia Moirano che abitualmente ospita artisti e studiosi in visita ai luoghi e di cui
ricordo le fanciullesche grazie della figlioletta Gioconda”.
Chi era dunque la famiglia Moirano o Moirani, e la figlia Gioconda, madre appunto
della giovane Anna Maria Bruschi-Querciola?
Il Dennis scrive Moirano, come pure l’atto di morte nell’archivio della chiesa di S.
Giovanni che a pagina 48, atto n. 203, testualmente riporta “Nel sesto giorno di ottobre
dell’anno del Signore 1876, Anna Maria Bruschi-Querciola, figlia di Luigi e di Gioconda
Moirano, cornetana, rese l’anima a Dio nell’età di trent’anni, nella propria abitazione, in
comunione con la santa madre Chiesa. Dopo essere stata confessata e confortata con
l’estrema unzione, dietro mia richiesta, dal reverendo canonico Francesco Maria Rispoli, e
da me assolta con la benedizione apostolica, la di lei salma è stata sepolta nel nuovo
cimitero di San Lorenzo fuori la città. In fede. Angelo Massi, parroco”.
Nell’archivio comunale, invece, all’atto 101 del Registro dei Morti, si legge: “Il 5
ottobre 1876 alle ore 11 antimeridiane, avanti a me Luigi Dasti, sindaco, e all’ufficio di
Stato Civile del Comune di Corneto-Tarquinia, sono comparsi Antonio Frangioni di anni
50, domestico (lo stesso poi che nel 1878 redasse, come custode delle antichità, la nota
delle torri medioevali, esistenti a Corneto), e Raffaele Pigolotti di anni 35, impiegato, i
quali mi hanno dichiarato che alle ore 3 pomeridiane di ieri, nella casa in via della
Concordia (oggi via XX Settembre) è morta Anna Maria Bruschi Querciola di anni 29 e
mesi 8, nata in questo Comune dal fu Luigi, possidente, già domiciliato in questa città,
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nubile. All’atto sono presenti i testimoni Secondiano Pampersi di anni 35, impiegato, e
Angelo Ajelli di anni 21, impiegato”.
Il cognome Moirani appare pure sulla lapide del cimitero come già detto.
Era dunque cornetana o no la famiglia Moirano?
Per quanto abbia scartabellato sui registri delle varie parrocchie della città, non
sono riuscito che a sincerarmi di un fatto: Luigi Bruschi-Querciola, sposò Gioconda
Moirano la quale morì giovanissima, dopo aver dato alla luce due figlie: Anna Maria, nel
1847, e Isifile nel 1849. Quest’ultima morì a 11 mesi il 20 gennaio 1850.
Nel frattempo però, il 28 maggio 1849, muore Gioconda Moirano. Ecco perciò il
significato di quella breve poesia dedicatoria del sepolcro che allude alle vicende dolorose
della famiglia Bruschi-Querciola. Nell’atto di morte di Gioconda Moirano, di Luigi,
cornetana, tumulata nella chiesa dei Frati minori di S. Francesco.
Per ricostruire un po' la genealogia della famiglia Bruschi-Querciola e per memoria
alle persone più anziane, si deve sapere che alla morte di Gioconda Moirano, il vedovo
Luigi Bruschi Querciola sposa Rosa Mastini di Vincenzo, cornetana. I figli di secondo letto
sono: Agnese, Isabella, Maria, Vincenza; Isifile, Anna, Maria, Elena; Pietro, Sante,
Benedetto, Cesare, Costantino, Vincenzo (che muore dopo 11 giorni di vita); e Francesca,
Maria, Scolastica, Antonia, Giuseppa. Di questa seconda nidiata, la persona che viene
ricordata meglio è Bruschi-Querciola Isifile, che andò sposa a Ludovico Antonj, l’estensore
della poesia funebre incisa sul sepolcro, i cui versi sono:
Ero fanciulla e mi trovai smarrita
orba dei genitori in bruno vel
dalla culla fu mesta la mia vita
finché tornai fra gli angeli nel ciel.
Il mistero della famiglia Moiano rimane insoluto, giacché in nessun archivio sono
riuscito a trovare notizie che mi facessero sapere di più intorno a un casato estinto e di cui
si è persa addirittura ogni memoria. C’è da augurarsi che la pietà degli uomini serva a
conservare il sepolcro di cui si diceva in principio, se non altro come punto di riferimento
alla notizia del Dennis, che sopravviverà almeno fino a quando gli uomini avranno
interesse alle tradizioni della propria terra.
B.B.
80
La verità sulla Statua della Resurrezione
Intorno al simulacro di Cristo Risorto si sono intrecciate le leggende più assurde
che il tempo, la disinformazione, la fantasia popolare hanno vieppiù gonfiate al solo
scopo di creare un alone di misteriosa provenienza, così come in altro tempo era
avvenuto per la tavola bizantina della Madonna di Valverde. Cosicché tutti parlano,
discettano, argomentano senza solide basi storiche al punto di trasferire la statua lignea
del Signore Risorto su di un piano di superiorità artistica, al di là anche della volontà e
delle capacità umane.
81
Quand’ero ragazzo, sentivo raccontare con una certa insistenza e prosopopea
cittadina che perfino al papa in persona era stato negato di trasferire in Vaticano questo
presunto capolavoro: altri, rifacendosi a dicerie ancor più lontane nel tempo, avevano
inventato addirittura una vicenda disumana secondo cui il Signore avrebbe parlato allo
scultore per chiedergli dove così bello lo avesse mai veduto.
- A Lucca - rispose l’artista.
E allora Cristo, per evitare appunto altre riproduzioni, avrebbe nientedimeno
accecato - Lui che invece dava la vista a chi l’aveva perduta - lo scultore perché riponesse
per sempre i ferri del mestiere.
Un concittadino, preso nelle maglie di leggende così fiorite, ha incominciato a
interessarsi o meglio a far ricerche perché si indagasse e si appurasse la verità su questa
statua. Così è stato messo a soqquadro l’archivio del Vicariato dove sono conservate le
testimonianze delle Confraternite dei Falegnami di tutto il mondo cattolico, dato che a far
eseguire il lavoro era stata la Corporazione o Confraternita dei Falegnami di Tarquinia
che aveva appunto in san Giuseppe il proprio patrono. E’ stata pure effettuata ogni
ricognizione in tutte le chiese di Lucca, senza alcun risultato; e infine ogni ricerca fra le
carte raffazzonate nella sacrestia di S. Giuseppe e fra i libri delle visite pastorali del
passato, senza approdare a nulla.
Se non che, nella torretta dell’Episcopio dove sono conservati, anche se con poca
cura, tutti i carteggi e le documentazioni delle varie Confraternite di Tarquinia, il dott.
Antonio Pardi, che sta portando avanti insieme al sig. Mario Corteselli un notevole e
faticoso lavoro di ricerca per una nostra storia fin dalle origini del Comune, si è visto
passare sotto mano un fascicolo di carta commerciale con su scritto “Relazione della
Chiesa e Confraternita di S. Giuseppe in Corneto-Tarquinia, esibita in S. Visita a richiesta
di Sua Ecc.za R.a Mons. Giovanni Beda, Cardinale, novello Vescovo Diocesano. 1908.
Riservata per Mons. Vescovo”.
Tale relazione, redatta a mano dal camerlengo Lorenzo arcidiacono Cherubini,
riporta la tanto attesa ricerca che si trascrive integralmente per un definitivo
accertamento storico: “Una macchina grande con due candelabri perfezionati, ornata
con una grandissima raggiera, il tutto dorato, su cui si eleva la SS.ma Resurrezione in
statua di legno colorata al naturale, tenente con la sinistra la bandiera bianca sorretta
d’asta dorata. E’ un opera d’arte costruita in Roma nel 1831 dallo scultore Bartolomeo
Canini, per la quale dai Fratelli fu impiegata la somma di romani scudi 122, pari oggi a
L. 655,75, come dal rendiconto degli anni 1830 e 1831.
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Nel 1894 la Statua fu ripulita da Antonio Scappini di Serafino e la Macchina
dall’artista Giuseppe Fondati”.
Evidentemente quelle leggende saranno sorte in riferimento ad altra statua della
Resurrezione, se si considera che in un fascicolo manoscritto dell’Archivio Comunale,
senza data e firma, si parla della processione pasquale con chiaro riferimento alla
“nuova statua della Resurrezione”. Il che sta ad avvalorare l’ipotesi che ne esistesse
precedentemente un’altra che avrebbe forse avuto a che vedere con qualche storia
lucchese, con tutto quel che aveva potuto inventare la fantasia popolare.
Ora che questo problema di ricerca si è risolto, mi sembra che ne resti insoluto un
altro, quello cioè della conservazione della statua della Resurrezione. La Chiesa di S.
Giuseppe è eccessivamente umida e in precarie condizioni per cui si suggerisce la
necessità di trasferirla in altra sede più asciutta, più sicura, più centrale: forse se ne
potrà riparlare non appena sarà stata restaurata la chiesa dell’Addolorata, ovvero la
Chiesuola.
E’una proposta. Se ce ne fossero altre, non si ha che da formularle e presentarle a
chi di dovere.
B.B.
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Considerazione intorno ad alcuni Soci Scomparsi
Bisognerebbe finirla col piangere chi ci lascia per un mondo migliore o per
sprofondare nel nulla. Nell’un caso o nell’altro, non ci dovrebbe restare che rispetto e
memoria, giacché la sua presenza durerà fin quando vivranno coloro che l’hanno
conosciuto e che avranno modo di ricordarlo nelle più varie circostanze della vita.
Quante volte nel parlare di un nostro amico, di un nostro congiunto, si dice di
risentirne la voce, di rivederne l’ombra in mezzo a noi; ed inserirlo in un avvenimento,
avanzando magari giudizi su ciò che egli avrebbe potuto dire e pensare, senza il minimo
sospetto che le cose di questo mondo interessano solo chi ci si trova e non quelli che lo
hanno lasciato. Ma è un modo come un altro per seguitare a vederli intorno a noi.
Di come lasciare un amico, un consanguineo, un uomo qualsiasi, dovremmo
ricevere esempio dai nostri antenati, gli Etruschi, che della morte avevano un concetto
umanissimo, famigliare, terreno al punto di rappresentare il partente in una condizione
di piacere, quale il banchettare, il danzare, il suonare, il conversare, con quella
disposizione in cui si trovano sur un coperchio sepolcrale o sulla parete del loro ipogeo.
Ma per essere più vicini a noi, basterebbe tornare con la mente a quei fatti letterari
e artistici, che poi sono fatti strettamente legati alla vita, con cui Leopardi, ad esempio,
traduce in un dialogo l’incontro fra la Morte e la Moda - entrambe figlie della caducità -;
con cui Foscolo esalta i grandi nelle urne dei forti; con cui Baudelaire affronta
l’argomento nei suoi diversi aspetti, inventando una morte per gli artisti, una per i
poveri, una per gli amanti, una per se stesso che vorrebbe riposare tranquillamente e
senza memoria come riposa uno squalo sul letto dell’onde. Brueghel in pittura ne
rappresenta addirittura il trionfo.
Tutti questi pensieri ci son venuti alla mente nel trascrivere i nomi dei nostri soci
per il presente bollettino, accorgendoci che alcuni di essi, nell’anno del Signore 1977, se ne
sono andati per sempre. Come non avremmo potuto vederci attorno Lello Giacchetti, nel
momento di affidare alle stampe questo nostro bollettino?
E’ difficile non immaginarlo fra le macchine che ruotano come il destino, nel suo
grembiule nero, nell’odore acre dell’inchiostro e nella voce che rimaneva spesso
incastrata fra il rumore della stamperia.
Con lui, non ancora vecchio, se nìè andato Cèncio Boni di cui abbiamo specie noi
che gli siamo stati vicini nell’età giovanile - conosciuto gl’impulsi canori, in concerti, in
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corali, in ogni manifestazione musicale, se non vogliamo ricordarlo a certificare, nello
Stato Civile del Comune, tutto l’umano ciclo delle nascite, dei matrimoni e delle morti.
E quanto sarebbe piaciuto a Monsignor di Lazzari (che ci aveva seguito con tutta
la sua perizia e tutto il suo incoraggiamento) veder compiuta la stampa del libro di Muzio
Polidori, di cui aveva assaporato quel latino aulico che era, in fondo, il suo gran merito!
Eppure anche lui ce lo ricordiamo col sorriso sempre radioso, col suo motto “Deo
gratias”, col suo passo veloce e leggero, quando non era cadenzato da un voluminoso
mazzo di chiavi o da quel lungo sacco di tela nera dove nascondeva, per i più piccini, il
saporoso ed eufemistico “tabacco bianco” dei confetti.
E con loro, Monsignor Agostino Peracchi, tarquiniese di adozione, sempre
impeccabile, preciso, quasi stereotipo d’un sacerdote d’altri tempi. Sono questi i nostri
sodali che ci hanno preceduto. Per dove? Per chi crede, nei Campi Elisi dello Spirito dove
si radunano i viventi; per gli altri, nell’Erebo del mito.
Certo è che essi sono in noi, almeno fino a quando la nostra memoria avrà modo di
discorrere di loro, come oggi facciamo, e così come gli altri faranno un giorno di noi.
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