Sebastian il giocattolaio

Transcript

Sebastian il giocattolaio
Sebastian il giocattolaio
Entrai nel locale senza nome all’incrocio di uno dei tanti vicoli della città vecchia e mi
andai a sedere come facevo da un pò di tempo al solito tavolo. Iniziai a guardare
distrattamente il giornale del mattino. – In fondo non capita mai niente di nuovo –
riflettevo mentre giravo il caffè che Gabbino si era premurato di portarmi – potremmo
leggere il giornale dell’altro ieri con lo stesso interesse col quale leggeremmo quello di
domani mattina. Che cosa aggiunge un nuovo giorno a quello appena trascorso? Ma non si
può mai dire, oggi mi sembra una giornata diversa dal solito.
All’improvviso si aprì la porta a vetri sgangherata ed entrò Sebastian il giocattolaio,
detto ‘La gnocca’, per fare sempre riferimento all’attributo femminile più appariscente ma
non sempre più bello.
Era felino nei movimenti, alto un metro e quaranta, ma ben proporzionato, i capelli
castani e lisci che cadevano con un ciuffo sulla fronte, i polsi sottili e le mani piccole che
sembravano le grinfie di un gatto. Indossava una camicia bianca a strisce verticali azzurre,
un panciotto giallo a quadretti neri e giacca e pantalone blu. Sopportava bene il caldo di
quell’afosa mattina d’agosto. Era solito vantarsi dei suoi attributi sessuali. Diceva di
essere un quadrato quasi perfetto: bastava spostare dieci centimetri in altezza e metterli in
profondità per avere una figura geometrica degna dell’iperuranio. Parlava sempre di
prostitute e di gnocche, ridendo come uno stupido.
Suo era il negozio vicino al bar dove ogni tanto faceva il suo ingresso poco trionfale.
Vendeva di tutto: pastori per presepi, presepi interi, giocattoli africani e cinesi, palloni,
palloncini, giochi meccanici, giocattoli moventi e semoventi, giocattoli animati,
controfigure di personaggi famosi, immagini consumate dei grandi della storia, rifacimenti
incompiuti di personaggi.
Aveva l’abitudine, diffusa nei paesi e nei vicoli di Napoli (che sono tanti paesi), di
esporre una parte della merce appesa al muro. Il negozio pareva un museo delle cere: “Ci
siete tutti, basta guardare con attenzione. Non manca nessuno”. Era questo uno dei suoi
motti ricorrenti.
– Un caffè… lungo –. Gabbino guardò distratto l’avventore, lo conosceva bene, sapeva
che non poteva contendere col nuovo venuto.
Sebastian si arrampicò sullo sgabello, sorseggiò il bicchiere d’acqua e mise un enorme
cucchiaino di zucchero nel caffè.
– Ci siete tutti, non manca nessuno. Aggiorno l’archivio ogni sera insieme all’esame di
coscienza – disse guardandosi intorno furtivo mentre girava il caffè.
– Sebastià ci hai rotto le scatole, ci sei pure tu! Non c’è giocattolaio che non sia
giocattolo di qualcun altro – gli feci guardandolo da mezzo metro di distanza.
Indifferente alle altezze, il giocattolaio guardava dritto davanti a sé, riportando tutto il
mondo alla sua dimensione. Quello che gli interessava era la profondità.
– Il mio è lungo un metro e venti, dà allegria a tutte, porta tua sorella e ti dirà se non è
vero!
Mi guardava con gli occhietti di scoiattolo furbo. Occhi di un colore marrone che
emettevano una luce di ambiguità. Ebbe un attimo di dolcezza, colsi un leggero sorriso
negli suoi occhi ipnotici.
– Ti vedo un poco triste Errì.
– Non sempre va come deve andare, che ci vuoi fare Sebastian.
– Ehi Errico, sei un vascello che sotto l’urto della tempesta vaga verso piccole mete.
Vieni a fare un giro nel mio negozio, capirai di più che leggendo tutti i giornali
dell’edicola. Bevi le gioie della vita e canta!
1
Come sapeva che mentre un tempo la vita bruciava ora in me il sangue scorreva
tiepido? Mi guardava attento, i suoi occhi erano quelli della volpe che guarda il posto su
cui salire per rubare l’uva.
– Vieni a fare un giro al mio negozio Errì, capirai di più che rileggendo tutti i libri della
tua scalcagnata biblioteca. Spargi nelle vene l’odore della primavera.
La sua bocca parlava veloce, era strano come potessero uscire parole lunghe da una
bocca così piccola!
– Certo, Sebastian, che vengo a fare un giro, lo sai che mi piace il tuo negozio, e tu mi
sembri l’omino che porta nel paese dei balocchi.
Mi misi le mani in tasca cercando le chiavi di casa e iniziai ad accarezzarne la
zigrinatura metallica con le dita.
– Vieni! – fece con un ghigno quasi feroce e cacciando rumorosamente l’aria dal naso
come un gatto ingrifato – Vieni e di’ al tuo cuore di battere il ritmo della battaglia!
Scese con un piccolo balzo dallo sgabello. Toccò terra senza fare rumore, dotato,
com’era, di un’agilità scimmiesca.
– Spostati pidocchio! – fece spingendo un bambino poco più alto di lui che era entrato
a comprare una brioche. E rivolto a me: – Bisognerebbe bloccarli a un metro e trenta, più
crescono e più diventano fastidiosi.
Aprì la porta con un rumore metallico, la serratura era rotta e per lo strattone il vetro
tremò.
– Questa porta va cambiata. Prima o poi finisce in testa a qualcuno – gridò rivolto a
Gabbino.
– La farò aggiustare, maestà! – rispose Gabbino, con un tono fintamente sottomesso
allungando la mano a prendere la tazzina dal bancone.
Seguii Sebastian Ma camminavo con i sensi intorpiditi, con la spossatezza di chi la sera
ha bevuto e il giorno dopo sente un languore nel corpo.
Intanto, mentre il sole batteva sui muri scalcinati, creando strani effetti, mi venne da
pensare alla stranezza di quelposto dove abitavo da un anno, ma che sentivo di aver
abitato in altri tempi. Per la strada nell’opaca afa di un’estate senza fine, rari passanti
senza nome si movevano lenti, uomini che camminavano con i loro segreti, senza voltarsi.
Dal pescivendolo erano esposte delle vongole: spruzzavano acqua. Sebastian, intanto, mi
precedeva con passo guardingo, odorando l’aria e girando continuamente la testa piccola a
destra e a sinistra. Camminava veloce, a piccoli passetti come uno scoiattolo.
Entrammo nel suo negozio appena girato l’angolo.
Scatole di un cartone giallastro, untuose, giacevano ammonticchiate alla rinfusa nel
deposito tenebroso come una grotta senza luce: – Guarda, Errico, le forze maligne del
Vuoto e dell’Oblio ricoprono tutto di polvere soporifera. Dentro vi sono pezzi di vita
incatenati dall’Ordine Oscuro, giacciono nel caos, avvolti in un torpore di morte,
sacrificando al nulla la memoria e lo spirito creativo. Ma all’improvviso, quando la luce
degli occhi del vecchio Demiurgo inonda la stanza, l’energia comincia a circolare e
prendono vita, nuova vita, come essi desiderano, per come è il loro destino…
La sua voce strisciante come quella di un serpente saliva rapida a toni acuti e stridenti.
Sebastian era nel suo regno e faceva gli onori di casa, ma quante sciocchezze inventava
per un misero negozio di giocattoli. Io annuii abbassando la testa, senza rispondere.
Il locale era buio, nonostante la giornata assolata. Dentro era umido, sembrava una
spelonca. Pipistrelli meccanici si muovevano sbattendo le ali ai muri e in fondo al negozio
un popolo muto di ragni infami sembrava tendere le sue reti.
Negli scaffali erano accantonati giocattoli di tutte le specie: alcune giostrine si misero a
girare al ritmo di un carillon scordato. Bambole e pupazzi di peluche inverosimili
aprivano gli occhietti vispi al nostro passaggio, alcuni abbozzavano un sorriso.
2
In una nicchia scavata nel muro vidi il Principe Felice in un doppiopetto elegante.
Aveva una ferita profonda al cuore e sanguinava, vicino c’erano i becchini e un carro
funebre che aveva la forma di un grasso maiale, senza tamburi né musica, sfilava lento.
Una ballerina faceva piroette sorridendo contenta; le mancava una gamba e cadeva ad
ogni giro, ma infaticabile si rialzava.
Quel negozio era interessante, mi pareva di conoscerlo a fondo, eppure, ogni volta che
vi entravo, trovavo cose nuove che non avevo notato prima.
L’immagine di una donna strangolata era appesa all’ingresso del retrobottega. Nella
stanza in ombra, ai piedi dell’imponente tela dipinta ad olio, un lumino fumigante ardeva
triste, illuminando una scritta nera: “Eri la mia Speranza”.
Un lumino arde lento, poi arriva il buio della notte senza fine. Questo voleva dire
quello scalcinato artefice che rispondeva al nome di Sebastian.
Il quadro, in cui dominavano i colori cupi, lasciava intravedere una mano che usciva da
una vasca da bagno simile ad un sarcofago bianco e una donna che giaceva riversa con un
ghigno blasfemo. Aveva la lingua che le pendeva sul labbro e gli occhi fuori dalle orbite,
vicino al collo si vedevano delle cicatrici tra il rosa e il viola, una striscia continua come
una collana.
– Guarda Errico se non sono un artista, – iniziò con aria complice. – L’ho dipinta io!
Avevo un avvenire come pittore. Poi mi sono dedicato alla scultura mobile. Questi
giocattoli rivelano la mia arte, sono la mia materia viva. Mia moglie la ammazzai
strangolandola con le mie stesse mani. Nessuno lo sa, solo a te lo rivelo.
Mi guardava contento come un furetto.
Poi si girò rivolgendo lo sguardo soddisfatto a quello schifo di quadro, così come
dovette fare Michelangelo quando ebbe completato gli affreschi della Cappella Sistina.
Con un’aria tronfia aveva messo i pugni sui fianchi come un piccolo Mussolini affacciato
al balcone di Palazzo Venezia.
– In fondo che cos’è l’uomo se non una pittura di colori fugaci? Di notte, nella mia
stanza, dormo coi dipinti intorno a me, forse è la mia mente che li crea. Ma più di ogni
altro ricordo la sua immagine, è l’unica cosa che mi rimane di un grande amore che si è
consumato. Mi sono ispirato a Marat, lo sai che mi è sempre piaciuto quel periodo di
grande allegria che fu il ’93, solo ho un poco modificato il soggetto e le modalità di
esecuzione. Sono lieto di essermi riempito gli occhi di questa bellezza oramai solo dipinta.
Finché le stelle illumineranno il cielo il suo ritratto resterà con me. Tutto ciò che non dura
non s’addice all’amore.
– Ma tu vivrai meno del cielo e delle stelle – gli obiettai, indifferente alla lunga tiritera
che mi aveva propinato.
– Io sono senza fine, la mia anima è eterna come il dolore che mi accompagna – rispose
superbo quel briccone.
Credo che mentisse spudoratamente; non doveva mai avere avuto una moglie. Mica si
usa il matrimonio tra giocattoli e giocattolai! Si vantava sempre di questo al bar: “Io mia
moglie alla fine l’ho uccisa! Ora sono un uomo libero. Un piccolo uomo, ma libero”.
– Sebastian sei uno storpio pittore di figure, tu stesso sei un’immagine del secolo
deforme. E non c’è giocattolaio che non sia soggetto al tempo! – gli feci irridendolo.
– E tu non sei forse un pupazzo della vita? La tua mente non è forse un monitor dove ci
sono tanti programmi avviati in conflitto tra loro? – mi fece di sbieco.
Non gli risposi, è inutile contendere con i giocattolai, pretendono di averla sempre
vinta! E poi aveva ragione: c’era una finestra aperta di un programma che non riuscivo a
chiudere, che mi faceva soffrire atrocemente. Forse dovevo resettare tutto e aspettare che
la macchina si riavviasse. Ma temevo di perdere me stesso. Siamo, purtroppo, tutti vittime
di una malattia che si chiama integrazione: vogliamo conservare tutto. Sebastian doveva
leggere il mio timore.
3
In fondo al retrobottega c’era una specie di arco di trionfo di un colore giallastro, con
pampini di vite, lucertole e bisce dalla testa sporgente intrecciate a formare il disegno
delle colonne; alle spalle si nascondeva un Cupido con un arco dorato, che spiava con la
faccia ottusa.
– Attento a quel pessimo tenditore di arco, Errico. Quel vecchione dal volto di fanciullo
tira a casaccio le sue frecce incantate che divorano lo spirito. La sua mira non è mai stata
un granché e ultimamente credo sia peggiorata alquanto. A volte ho avuto perfino il
dubbio che quel dispettoso lo faccia apposta a colpire i poveracci che gli passano a tiro.
Contro di me oramai non può più nulla, sono morto da martire! Di sicuro avrai visto in
qualche chiesa la mia immagine trafitta dai dardi – disse alternando sfacciatamente nel
tono della voce il serio e il faceto, con un’ironia irridente che degenerava nel sarcasmo.
– Sono vaccinato al veleno d’amore, ma starò attento lo stesso – risposi distrattamente
mentre osservavo l’architettura del posto dove mi trovavo. Lo stile era barocco, ma un
barocco da bottega!
Dietro si apriva un lungo corridoio che correva lungo tutto il retro del negozio, con
stanze ai lati. Dai finestroni posti in alto entrava una luce pallida, sottile, come fili di
pioggia, che pareva distendere le sbarre d'una vasta prigione. Il soffitto era umido e ogni
tanto qualche goccia consistente come cera, si staccava e cadeva umida per terra. Alzai lo
sguardo e vidi che dalle volte nere pendevano pupazzi appesi per i piedi come traditori.
Sospettai che i giocattoli fossero i prigionieri di Sebastian e che quando i legami si
spezzavano le marionette precipitavano giù e mostri famelici erano pronti ad afferrarle.
Quelle gocce che scendevano dall’alto non potevano essere che lacrime.
– Guarda la mia arte, Errico. Ammira. – e con l’ampio gesto del piccolo braccio,
sorridendo con la bocca da scoiattolo, mi mostrava le stanze che si aprivano ai lati del
corridoio.
– Viviamo il mondo della specializzazione, ogni stanza è dedicata ad un tema.
Sugli archi di pietra senza porte erano appese delle stupide scritte che forse
intendevano mostrare il suo genio per la calligrafia. Le stanze erano una parodia di quelle
celle che si aprono nelle navate delle cattedrali.
Su una aveva scritto: “La stanza della guerra”.
– Dove sono più le battaglie di un tempo? Dove sono più quegli orgogliosi soldati di
una volta, pronti a marciare e a cantare contenti, andando all’assalto al suono della tromba
e dei tamburi? dove gli eroi che dimenticavano ogni prudenza e ogni preghiera? Gli
scontri di quando si combatteva affondando la gamba nel fango? Nessun occhio ne sa più
trovare il luogo. Ah, bei tempi quando con riso misto a pianto, i piedi di legioni invincibili
calpestavano il sangue dei nemici e degli amici uccisi. Oggi tutti vogliono pensare,
qualcuno ha addirittura la superbia di chiedersi: “Perché?”. No. Questo non va!commentò con tono fintamente nostalgico.
– È stato sempre così, Errico, da quando il fratello tramò il delitto e disse all’altro:
“Andiamo ai campi”. – continuò Sebastian.
– La vita è ciò che ne facciamo. Mi pare che al mondo ci siano cose più interessanti che
temprare lame e affilare fendenti. Tra le tante imbecillità che l’uomo può trovare per
passare il tempo e dimenticare la propria follia, l’arte della guerra le vince tutte in
malvagità – obiettai cercando di scegliere accuratamente le parole per rispondere colpo su
colpo alle panzane di quel mascalzone.
– Però devi riconoscere che erano belli gli scontri d’armi in cui si mostrava il coraggio
dei valorosi. Pronto lo scudo e la spada tagliente, la lancia sull’asta e la punta sulla lancia,
solo un elmo difendeva il cranio dei forti – incalzò Sebastian ancora una volta con quel
fastidioso tono melenso di chi ha visto tempi migliori.
Sopra una collina si vedeva l’accampamento di una legione romana. La sentinella,
pavoneggiandosi come un idiota con uno scudo tra le mani, parlava della grande battaglia
4
che aveva distrutto il nemico: – Peccato che mio figlio fosse dall’altra parte. Ma sono
contento: una grande battaglia, le spade si sono saziate di sangue. Le nostre gesta eroiche
saranno narrate per più generazioni e la storia ricorderà che presi lo scudo di
quell’imbelle.
– Oggi basta premere un pulsante e... pluf, ne muoiono una quantità. Quante belle
produzioni sprecate! – commentò Sebastian.
Nella pianura SS marciavano compatte al passo dell’oca. I loro volti erano accigliati e
fieri, affilati come il gelo dell’inverno. Dall’altra parte col naso rosso per la vodka,
pienotti, con le mani dietro la schiena, marciavano sicuri i russi dell’armata rossa.
Marines scalpitanti, eccitati dal whisky e rochi per l’ira, urlavano giocando a rugby su
un campo d’erba sintetica.
– Siamo il miglior esercito al mondo – fece un ufficiale che li guardava contento come
un allevatore di puledri, fumando un sigaro nauseabondo.
– Secondo il programma dovrebbero funzionare a petrolio – intervenne Sebastian. – Ma
non so perché, preferiscono quella bevanda maleodorante estratta dal grano!
– Andiamo Sebastian, lo sapevo già: gli imbecilli si fanno forza l’uno con l’altro – non
rispose, solo sulla sua bocca si affacciò un sorriso ironico. Avevo sempre odiato gli
schiavi avvezzi ad obbedire come cani fedeli.
Guardai con interesse la stanza dell’amore, era quello che avevo a lungo cercato e
invano. Volevo vedere che aveva architettato quella mente diabolica. Nella stanza che
pareva la meglio illuminata e la più ampia, all’ingresso c’era un grande orologio a
pendolo, con una donna che cercava di metterlo a tempo movendo i contrappesi.
Stava su una scaletta, gli occhiali azzurri, i pantaloni a quadri e la maglia rossa e
guardando il pendolo ripeteva: – I pendoli dell’orologio a pendolo non si toccano, solo si
guardano!
Era piccolina con le mani alla cintola a formare un’anfora greca e guardava soddisfatta
il pendolo che andava avanti e indietro. Ogni tanto inarcava la schiena come se soffrisse di
sciatalgia.
Eh sì! – pensai triste – Così è la vita e così è l’amore, vanno avanti e indietro. Non
bisogna interferire. Sempre che non ci sbattano sulla testa e ci lascino trasecolati. Eppure
almeno l’amore dovrebbe avere il suo compenso in una maniera o nell’altra.
Ai piedi dell’orologio quel pagliaccio di Sebastian aveva costruito una piccola stazione
con treni che si affaticavano a portare passeggeri di tutt’e due i sessi. In un brusio
infernale ognuno all’altro chiedeva ansioso: – Sei tu? – E l’altro rispondeva: – No, no!
Forse più tardi, ma ora no!
Alcuni innalzavano cartelli “Offro 100 euro per un’anima che voglia essere la mia
gemella”. Tutti andavano avanti e indietro alla spasmodica ricerca di chissà cosa e di
chissà chi.
– È un caos senza fine maledetto giocattolaio. Solo una mente malvagia come la tua
poteva architettare un incubo del genere.
– No Errico! Non la pensare così. Io faccio gli attori ma la trama la scelgono loro e
nessuno è contento di quello che ha. Ma questo non è colpa mia! Avessero il numero delle
mogli e delle concubine di Salomone pure si sentirebbero insoddisfatti. In questo non
hanno voluto prendere da me che mi contento da solo. Perché è bello stare bene in propria
compagnia, con tutti i pericoli della bellezza. Avevo una moglie e in un impeto di
generosità la strangolai! Ma… te l’ho già detto mi pare – e guardandomi con l’orrendo
sorriso dell’idiota mi strizzò l’occhio.
– E le donne sempre a recitare la parte dell’ape regina aspettando un fuco da divorare,
illudendosi di essere sempre dal lato del vincitore. Che vuoi da me Errì se ragionano così?
Non te la prendere; hanno teste particolari – mi disse quasi scusandosi, guardandomi
avanzare minaccioso.
5
E poi con voce più bassa: – Le ultime produzioni dell’estremo oriente hanno istruzioni
incomprensibili. A volte poi, forse sbaglio pure io – continuò con una punta di rammarico.
Ma subito si riscosse e con tono più fermo: – E infine che vuoi? L’amorosa selva dovrai
lasciare quando il buio si poserà sul tuo viso e spegnerà i tuoi occhi e…
– … il corpo diventerà terra – conclusi io. Ma anche ‘cenere’ al posto di ‘terra’ poteva
andare. Infame, come se non lo sapessi già! Perché mi snocciolava quelle banalità sotto la
veste di grandi verità? Lo odiai.
La bambola sulla scaletta parlò dicendo: – Che curioso il meccanismo del pendolo:
ruote e ruote che girano intersecandosi tra loro. Bello, proprio bello, però a volte non so
perché, quest’orologio pazzo si inceppa.
La guardai incantato e il pendolo iniziò a suonare le dodici, forse il mezzogiorno. Ma in
quella penombra solo le antiche ore morte erano suonate.
L’orologio non è ancora arrivato a rintoccare l’ora del puro dolore! Voglio essere rapito
come un bambino per giocare nel paradiso perduto – pensai rattristato.
La bambola sulla scala guardava estasiata i martelletti picchiare sulle corde. Aveva il
viso piccolo come una medaglia! La contemplai con affetto.
Me ne andai, ma quella bambola sulla scaletta mi era rimasta nella mente, mi pareva di
ricordarla avendola vista da qualche altra parte. Forse a Lugano, in un’escursione di
sciatori che veniva sempre a mangiare al ristorante sul lago dove avevo fatto il cameriere.
Nella ‘Stanza della cultura’ c’erano decine di vecchine dai volti incartapecoriti percorsi
da solchi profondi come torrenti in magra. Erano vestite di nero con gli scialli sulla testa e
lavoravano ad arcolai tessendo tele invisibili all’occhio umano. Spole vuote che tessevano
solo vento. Sembravano tessere la mia pena. Più veloci d'una spola sono i giorni
dell’uomo e vanno senza speranza, sottili sono i legami che ci avvincono alla vita ma
infallibilmente ci conducono alla morte. Era la stanza più buia. Si sentiva il loro canto
come una triste nenia funebre: “Tessiam, tessiam, veloci tessiam. Vola la spola la notte e
il giorno, beate tessiam, un manto funebre svelte tessiam …”.
Alacri lavoravano le maledette vecchine, sorridendo rugose con visi sdentati, davanti
agli arcolai si muovevano allegre come se stessero provando una danza.
– E che?! – gli feci – hai raccolto tutte le parche dell’antico in questa stanza san
Sebastian della malora. Una regge la conocchia, un’altra fila e la più carogna taglia! E
l’allegria dove la lasci? sempre a spasso?
– No Errico, che capisci! Queste tessono ragionamenti. I fili sono le parole e ogni nodo
è una regola di grammatica. Guarda come tessono svelte. I discorsi sono le tele che
lanciamo sul mondo per averne un’immagine. Guarda bene, ho messo anche il reziario;
l’ho spostato dalla stanza della guerra. Lo so, lo so, – continuò con un tono falsamente
dispiaciuto – che un poco soffre! Un uomo atto alla guerra costretto ad un lavoro manuale.
Ma che ci vuoi fare: c’est la vie.
Il reziario con una faccia stupida faceva le mostre di lanciare una tela invisibile su un
mare dipinto. Dall’altra parte della stanza uno stuolo di pittori con cappelli ridicoli da
artista, infagottati in ampi camici grigi, dipingevano su tele quadri inverosimili.
Mentre ci allontanavamo, si sentì un litigio e una vocina in falsetto che diceva: – Mi
annoio di essere sempre e solo un complemento. Voglio essere un soggetto anch’io. Non
voglio essere più un comprimario.
Era il pronome ‘Lui’ che si spingeva con ‘Egli’ per accaparrarsi il primo posto di una
frase che le vecchine stavano componendo in quel momento.
– Sta’ al tuo posto tu! – Fece una di loro spingendolo col fuso, come un diavolo armato
di forcone. Ma quel superbo pronome tanto fece e tanto spinse che si mise al primo banco.
– Così nascono gli errori! Ma chissà quanti errori si tessono sul telaio sonoro del tempo
– commentò sarcastico Sebastian.
6
Nella stanza della giustizia c’erano uomini di legge con imponenti toghe nere, in mano
bilance a due piatti e pesavano verdure. Alcuni gridavano esausti: – Giustizia! Giustizia!
...
E altri rispondevano – Due anni per un chilo di broccoli.
Per quello sfizio tipico di chi era passato per le aule dei tribunali, mi venne voglia di
guardare la scritta dietro lo scanno dei giudici. Che strano! La parete era di vetro e dietro
si vedeva una tigre enorme con gli occhi infuocati. E sopra una scritta per me
incomprensibile: “Voilà la grundnorm”.
– Sebastian spiegami questo arcano, esso supera le mie facoltà di comprensione – gli
feci stupito di quella messinscena. Però guardavo con timore la tigre che orgogliosa
andava avanti e indietro dall’altro lato dello specchio. Pareva un essere immortale caduto
dal cielo in un abisso e che non accettava la raccapricciante condanna a percorrere senza
soste le foreste della notte.
– Non hai fatto solidi studi giuridici Errì, per questo ti è difficile capire. Sei stato solo
un misero fruitore delle aule dei tribunali, uno di quei fortunati che hanno saggiato il
rigore della correzione. Non sei un legislatore come me che amo la giustizia e il diritto
sopra ogni cosa, altrimenti ti sarebbe stato tutto chiaro come la luce dello splendente astro
– parve ergersi come un paglietta di paese che facesse la sua arringa finale a favore di un
ladro di galline.
– Lascia stare la poesia malvagio Demiurgo, e dimmi che è questa messinscena. La
legge non serve che a costruire catene.
– Errì non è cosa tua capire, sei limitato e questo lo sai. Ti basti sapere che se i tuoi
peccati rompono il vetro, la tigre esce fuori e ti sbrana.
Si fermò davanti alla stanza della politica cianciando: – È la maggiore delle arti
architettoniche, questo tutti lo sanno. E io sono il grande architetto.
Aveva assunto il tono di quelle guide turistiche che hanno ripetuto tante volte la stessa
lezione fino a convincersi che oramai quello che dicono sia la pura verità. Dentro, un
vecchio col viso affilato e la gobba, vestito di nero, teneva la sua conferenza ad un tavolo
ovale: – Signori non siate imbecilli! So che vi chiedo molto. A guardare bene le vostre
facce, forse uno sforzo forse superiore alle vostre forze… – non volli ascoltare oltre,
quella voce nell'aria aveva il sapore di una pietra abbandonata ed altra cosa non mi venne
in mente. All’improvviso il vecchio politico si sollevò e si mise a saltellare, il frac era
diventato un vestito da ballerina nero, saltava come un galletto lasciando andare flatulenze
ventose. Era sconcio con le calze a rete nere e un vestito a tutù mezzo strappato.
Allontanai lo sguardo posandolo su Sebastian con noia: – Sebastian basta con queste
scempiaggini. Ogni avventuriero politico si sente un eroe predestinato. Mi hanno stancato
i tuoi giochi.
Annuì un poco contrariato ma con aria paziente. Aveva l’espressione dell’artista
completamente soddisfatto della sua opera ma misconosciuto da un pubblico ignorante.
Non guardai le altre stanze che aveva dedicato via via al dolore, ai viaggi, e alle altre
amenità che la sua malata fantasia aveva individuato. Lo sospettavo da tempo: una parola
o un quadro si mettono al momento giusto quando mancano i concetti. Immaginai che
avrebbe potuto mettere nella stanza dedicata alla musica. Quali voci stonate avrebbe fatto
ascoltare. Lugubri come i fantasmi che si aggirano attorno alle tombe dovevano essere i
suonatori e la musica triste come quelle voci che si sentono nel vento della tempesta.
L’ospedale di sicuro era organizzato come un’officina meccanica: macchine che tentano
di aggiustare altre macchine. Evitai di guardare ed evitai di chiedere. Meglio affrettare
dove non c’è possibilità di cambiare niente. Solo a guardare. E che è? La vita di un
guardone. No Sebastian. No! Non mi piace questo mondo che hai voluto architettare.
– E la scintilla divina, quella che ho sempre cercato, dove l’hai lasciata Sebastian? – gli
feci un poco rattristato. Non mi rispose nulla facendo finta di non avere sentito e continuò
7
a camminare con quei vispi passetti da gatto guardando compiaciuto ora a destra ora a
manca.
Ma non mi accontentai del suo silenzio e gli gridai, mentre sbuffava come un furetto: –
Sebastian e come fai a convincerli che sono vivi e veri?
– Così come ho convinto te! – mi fece di rimando quel personaggio dell’oltretomba che
aveva una risposta pronta ad ogni domanda.
– Io ho convinto te, malvagio Sebastian! – gli obiettai senza scompormi.
– Errì finiamola con queste sciocchezze e diciamo che ci siamo convinti a vicenda.
Era una proposta onesta e la accettai in silenzio.
Mi portò alla fine del corridoio e alzò una botola. – Vieni, un mondo sconosciuto si
apre sotto di noi.
Mi guardò ghignando e continuò: – Ognuno di noi è un personaggio incompleto. Vieni
e godrai del tuo completamento. Vieni dove può spingersi solo il cuore di chi lascia le
opinioni del mondo e non ha paura della verità.
Si era messo sulla testa una lampada come quella che usano gli speleologi, con luci
tutt’intorno. Una parodia blasfema di qualcosa. Scendeva sicuro per una scala tagliata
nella pietra. Fischiettava contento una canzone sconcia. Sotto si apriva una galleria che
andava verso il basso: al fondo, in lontananza, pareva di sentire acqua scorrere.
– Non temere, lo sai per chi è d’animo vile nessun tesoro rivela la terra. Vieni, gli occhi
del tuo spirito si apriranno e sarai come Dio – fece senza girarsi.
Camminammo in un budello nel quale ero costretto ad abbassare la testa, un sentiero
cupo col soffitto basso che pesava come un coperchio brumoso sull’anima.
Per terra vermi dai ventri viscidi, larve che assillano i defunti, lunghi come rimorsi,
strisciavano lenti nel buio opprimendo i miei ricordi più cari. Come insetti dalle lunghe
zampe che popolano le acque di un fiume aspro, file di scarafaggi innumerevoli
spingevano luride palle di sterco. A pestarli mi dava il voltastomaco. Guardavo le pareti di
pietra e vi appoggiavo le mani per convincermi della realtà di quello che vedevo, erano
fredde e umide come la testa di un morto.
Portati da ondate brune di nebbia lezzi sinistri mi si levavano contro. Sebastian andava
veloce, era nel suo territorio. No, non uno scoiattolo, ma un grosso topo. Ecco cos’era. Un
topo enorme che a volte prendeva le sembianze dell’uomo. Mi pareva che si movesse
veloce a quattro zampe in un terreno tutto suo. Mancava la coda, ma poteva averla
nascosta nei pantaloni, una coda lunga quasi quanto il suo corpo. Ecco che voleva dire che
l’aveva lungo quasi quanto il corpo! Un topo, un enorme topo, il re dei topi. In fondo alla
galleria si sentiva acqua gorgogliare, doveva essere solo una fognatura. Al fianco mi
pareva di scorgere figure di altre epoche, immagini senza più nessuna vita e nessuna forza,
che solo conservavano l'apparenza visibile di qualcosa che furono. Guardai meglio, le
rocce che componevano le pareti erano scolpite a formare guerrieri di un esercito di pietra.
Ogni tanto la torcia appesa sulla sua testa illuminava alti androni. Orgogliosi re di altri
tempi guidavano eserciti di uomini muti che si appoggiavano l’uno all’altro. Viaggiatori
che emergevano dall'impero delle tenebre passate. Un pensiero mi brillava nella mente e a
intermittenza ripeteva: “Non vi è re che gli resista e alla fine della corsa ogni popolo viene
seppellito nell'ombra”.
Coboldi con gli occhi di brace si nascondevano nei crepacci delle rocce e con sguardi
di scherno illuminavano la strada grigia senza pane che percorrevo.
Camminavo abbassato, sentii un dolore alla schiena: – Ahi un male rode le mie
vertebre. Maledetto il posto dove mi hai portato e maledetto anche tu Sebastian! Non si
può stare in piedi qui e non ci si può né sdraiare né sedere.
Ancora una volta mi parve che da qualche parte scorresse acqua, un fiume di dolore
doveva scorrere lontano attraverso la valle del veleno. Desiderai bere, mi pareva di avere
la bocca riarsa con la lingua bruciata da una pioggia di sale. Una coppa presa nel fiume
8
che si apre dietro l’oscura porta dei misteri, nessun sentimento è così forte da attraversare
quel fiume. Per farmi forza gridai: – Sebastian ma scorre un fiume in questa caverna?
Sento un rumore d’acqua!
– Qui non c’è acqua ma soltanto pietra. È solo la tua mente che confonde i suoni, non
sei più abituato al buio. Ma io mi cibo sempre d’aria e di roccia – mi fece senza girarsi
quel lestofante, riprendendo subito a fischiettare la sua sconcia canzone: “Nasce e muore
come una rosa nel cielo chiaro la giovane sposa e restano solo spine, ma il piacere arcano
dell’amore io cerco senza fine”.
Già, se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere, magari scorgeremmo la limpidità di
un raggio di luce. Ma fra la roccia inerte che non intende l'ombra della vita non ci si può
fermare, non è questo il posto giusto per pensare.
Pipistrelli abitavano appollaiati in grotte che mai l’uomo ha misurato. Ciechi vampiri
assetati di sangue e dissoluzione, facevano il nido nelle caverne di ghiaccio nascoste alla
cupola del sole e vietate agli umani, pronti a lanciarsi come lupi famelici sulle farfalle
dell’anima.
Ad un lato si apriva una grotta tiepida come una serra. Sembrava un mondo triste e
dubbioso, fatto di illusioni ingannevoli. L'aria in quel tratto era dolciastra, sembrava
impregnata dell’olezzo di fiori appassiti e di rettili che strisciano sulla terra rendendo
l'uomo immondo. Ed ecco scorsi un lento corteo di spettri, funesti presagi di disastri
futuri, che nella notte dell'anno senza fine avanzava accompagnato da un basilisco con una
macchia bianca sulla testa, come una piccola corona a forma di diadema. Fantasmi morti
da così tanto tempo che è facile persuadersi che non siano mai esistiti se non come
costruzioni abbandonate dalla mente. Il rettile con uno splendore di luce nelle spire, si
muoveva rapido stando alto e dritto sulla metà del corpo.
Ebbi la tentazione di incidere con uno scalpello un messaggio silenzioso su quelle
pietre grezze come blocchi rimasti tagliati a mezzo nelle cave. Ma tutto si consuma,
neanche le lapidi sono eterne, solo il vento è imperituro mentre le torri cadono in rovina
dato che le pietre si spaccano e le rocce sono vinte dal tempo. Ma anche noi, di ora in ora,
ci sgretoliamo divenendo una grigia pergamena incartapecorita di ciò che fummo e ora
non più. Così pure le cose che non giunsero a compimento e le parole lasciate non dette,
passano per la porta del niente e vanno nella memoria del silenzio. Infatti, che cosa mai
accumuliamo? Scendiamo dalle torri d’avorio che ci siamo costruite e non troviamo alcun
mondo. Meglio allora non guardare mai indietro. E del resto che cos'è un ricordo
inesauribile? La rapidità dell'oblio investe ogni cosa perché tutta la terra è solo un punto
nell'abisso del nulla che si estende infinito in tutte le direzioni.
Il mio cervello dentro il suo solco gemeva per la sete in mezzo a quei sassi, avanzi dei
vecchi diluvi, desiderai che qualcuno facesse sgorgare una goccia d’acqua pura da quella
roccia.
All’improvviso nella penombra apparve la mole maestosa di un tempio greco. Intravidi
le colonne corinzie illuminate da una luce che filtrava dall’alto. Riti pagani si erano
consumati tra quei colonnati sepolti dalla legge invisibile del tempo. Ma qualcosa di bello
ancora si conservava nel frontone colorato con un cielo di un azzurro incredibile. Mi
fermai ad osservare quel quadro sbiadito illuminato da una luce lontana, un disegno in cui
gli armenti pascevano sui gioghi scoscesi e sulle colline erbose. Le valli profonde
apparivano piene di gioia, nell’aria dolce l’uva era matura e frutti pendevano dagli alberi.
C’erano ruscelli antichi come le colline, giardini, e alberi d’incenso in fioritura. I colori
della vita parevano scorrere nell’incanto di quel mondo. In un bosco giovinette
attingevano acqua ad una fontana e giocavano felici. Più in basso, in una sala, guerrieri
colmi di forza, alti come i giganti di un tempo, bevevano vino in una coppa d’oro
versandolo da tripodi colorati di nero. Lo spirito si muoveva con leggerezza in quel
quadro, come un uccello alato nell'estasi del cielo. Persone di un’altra epoca discutevano
9
di meravigliose verità all’ombra del porticato, un luogo che pareva formato per la
conversazione di uomini e dei.
Mi fermerò qui per assumere un volto nuovo! – Mi dissi. – Qui troverò la salvezza di
un mondo migliore, ripartirò più tardi, quando si sarà rinforzato il debole filo che mi
mantiene attaccato a quella tortura incessante che è la vita. Eppure lo sapevo che l’animo
si nutre di vane figure.
– Ehi Sebastian ma che costruzione è questa? Il tempio d’un’altr’epoca! Che ci fa qui?
– È una stazione del metrò. Questo tratto lo facciamo in treno. È un passaggio
pericoloso anche per me! Non c’è biglietto e poi sei mio ospite – mi fece quel farabutto
indicandomi la costruzione.
Stemmo del tempo ad aspettare. Temevo che il treno non sarebbe mai arrivato o che
sarebbe passato da qualche altra parte, perché il sibilo echeggiava troppo lontano. Poi
sferragliando giunse emergendo dalla fetida galleria. Era un vecchio treno che pareva
uscire da una miniera di carbone, dentro non c’era nessuno.
Entrai nello scompartimento mentre lui salì sulla locomotiva. Indossò un ridicolo
cappellino blu da capostazione e con un fischietto diede l’ordine della partenza.
– Tenetevi forte signori, si parte! Errico tieni chiusi i finestrini.
– Malvagio imbecille, canaglia della peggiore specie – pensai tra me. – Dove le trova
tutte queste sciocchezze, adesso si è addirittura improvvisato appaltatore delle ferrovie
sotterranee!
Mi sedetti sulle panche di legno. I finestrini erano chiusi, me ne assicurai facendo forza
verso l’alto sul vetro. Con uno scossone sferragliando il carrozzone partì. Sentivo squarci
nell’anima come se il cervello si fosse spaccato e dalle ferite uscisse veleno.
Lunghi come tormenti mi vennero incontro i miei rimpianti. La porta del vagone si aprì
ed entrarono con un riso feroce e sguaiato, incubi come vampiri dai volti scomposti. La
morte regnava in quelle anime gelide.
Nello scompartimento stavo solo, mi rannicchiai per non essere scorto. Nelle narici
sentivo il tanfo della ferrovia.
– Voglio questo posto! Voglio questo posto! – si affollavano litigando quelle ombre
malinconiche di fantasmi agitati da un vento funebre.
Volavano nel vagone vuoto cercando di afferrare e sbranare la preda, quei divoratori di
uomini.
– Non c’è speranza di sfuggire alla vecchiaia e alla dura morte che ci fa pentire di
essere nati.
– Noi siamo i vampiri, coloro che non ce l’hanno fatta.
– Quelli che non hanno accettato la dissoluzione del sepolcro.
– Quelli che non hanno avuto la forza di accettare il distacco dal mondo. Che non
hanno retto al dolore che quel figlio unico fosse morto. Che non accettano la solitudine.
– Quelli che non credono in un’altra possibilità, come per un’amante è impossibile
pensare che proprio lui sia andato via e a questo tormento non regge.
– Ogni giorno prolunga le nostre pene e ogni notte accresce il nostro odio.
– Un’eterna discordia muove le nostre anime, mai siamo sazi dei mali dell’uomo,
sempre ne pensiamo di nuovi, mai troviamo pace, neanche per caso.
– Puoi continuare a vedere la luce solo perché noi te lo concediamo.
– Vivi, anche contro la tua volontà.
Così, dandosi il cambio, con il veleno dei rettili che strisciano nella polvere mi
alitavano nell’orecchio, mentre stavo a testa china per paura di guardare i loro occhi vuoti.
Ma per quanto ti ingegni mai le parole potranno assumere la forma del puro pensiero. Mi
rannicchiai ancora di più in me stesso facendo finta di non esistere, di non essere mai
stato. Ma anch’io avevo il terrore di non riuscire a superare il dolore e di rimanerne per
10
sempre schiavo. Ignoriamo la sofferenza annidata nella parte nascosta dell’anima ed è un
disegno folle e presuntuoso curiosare nel labirinto più profondo di noi stessi.
Dentro di me una voce diceva: – Balza fuori e fuggi! Fuggi finché hai tempo e forza
nelle gambe!
Ma temevo di non farcela a correre. E poi come puoi saltare da un treno in corsa in una
galleria buia? Una sorte funesta mi aveva condotto a percorrere una via senza luce che era
fuori dal cammino degli uomini. Ripensai ad un altro periodo nel quale avevo avuto voglia
di fuggire ma le gambe non mi avevano sostenuto. Se racconto di una ferita è solo per
calmarla, non voglio la pietà di nessuno.
Mi tornò alla mente il buon senso della gioventù: l’uomo non può essere e non può fare
ciò che vuole, perché è determinato. È limitato dalla bruta natura esteriore e dall'azione di
tutti gli altri uomini. E allora bisogna tendere a ciò che si vuole facendo quel che si può.
Tutto è graduale nella storia e nella vita.
Ma poi mi sono convinto del contrario: niente è graduale nella vita, ma ci sono onde
che vanno e vengono, se non sai nuotare finisci sott’acqua. E della storia è meglio
fregarsene dato che lei non si preoccupa poi troppo di noi! Ma quella ricerca
dell'impossibile mi aveva tolto anche il possibile. La libertà purtroppo ha sempre un
prezzo elevato, eppure, ancora oggi, non voglio essere tiranno o schiavo di nessuno.
Insomma puoi finire sott’acqua, ed è difficile nuotare sott’acqua, ci vuole fiato e
abilità. Come quando mi beccarono e fui costretto a capire che una cella si chiude sempre
dall’esterno e non ci sono chiavi dentro.
Era un periodo nero. Invano ogni sera correvo a ritroso nella provincia tormentosa della
mia mente a cercare riposo, il giorno arrivava sempre troppo lentamente. Sognavo sempre
che due guardie mi prendevano sotto braccio una da ogni lato, e poi mi portavano alle
scale che si aprivano alla fine del vicolo dove abitavo. Volevo correre come sapevo fare,
magari rischiando una pallottola, ma le gambe erano di piombo. Era un sogno che
ricorreva sempre nelle mie notti, maledizione. Scendevo abbracciato dagli sbirri mentre
persone alla finestra dicevano: “L’hanno arrestato Errico Malatesta!”. Le loro facce non
erano né stupite né allegre, ma avevano quell’espressione di sconfinata tristezza dei morti,
e senza fine ripetevano: “Finalmente l’hanno arrestato Errico Malatesta!”.
Uffa che incubi. E poi non mi chiamavo Malatesta. Mio padre mi volle chiamare Errico
ma mio nonno si chiamava Enrico come mio cugino.
“Malatesta morì guardato a vista, chissà io come morirò” questo andava ripetendo il
mio vecchio.
Quando mi vennero a prendere alle cinque del mattino mi risvegliarono da un’angoscia
opprimente. Ma per anni mi sono svegliato di soprassalto alle cinque di mattina nell’attesa
di qualcuno.
Arrivammo alla stazione successiva e il treno si fermò con uno scossone. Quelle
lugubri apparizioni ghignando orribilmente si affrettarono a scendere. Rimasi seduto
cercando di scorgere il nome della fermata osservando dal vetro del finestrino.
Si aprì la portiera e comparve quell’idiota di Sebastian ridendo sconciamente: – Hai
avuto fifa Errico? Te la sei fatta addosso, dimmi la verità!
Capii che era stato tutta una messinscena da parte sua, come in quei tunnel dell’orrore
che si percorrono nelle giostre. Rideva tutto contento dello spettacolo che era stato in
grado di organizzare. Un serial clown, un imbecille seriale, ecco in chi mi ero imbattuto!
Un impostore che si burlava di me. Mi pentii di tutta la confidenza che gli avevo
concesso.
– Tutte le cose degli uomini sono come queste vecchie locomotive a vapore,
camminano soltanto se vengono alimentate con palate di carbone.
– Buono a niente, balordo, gaglioffo e mille volte demente, deve trovare per forza una
morale in ogni cosa. Non riesce proprio a tacere! – pensai indispettito.
11
– Adesso continuiamo a piedi amico mio. Non siamo lontani dalla meta. Seguimi.
– Dove mi stai portando?
– Non fare domande sciocche. Seguimi e ti divertirai, la notte è gradita agli uomini ed
alle giovinette.
Notai un gesto amichevole del braccio, forse voleva prendermi per la spalla, in ogni
caso mi scostai mettendo le mani in tasca. Eppure – pensai – quante volte sentiamo
l’imbecillità prenderci per mano e sussurrarci all’orecchio pensieri idioti per portarci dove
mai avremmo voluto.
Sebastian camminava veloce, ero costretto a seguirlo, senza posa e senza tregua, per
sapere dove mi stava conducendo.
Diramazioni profonde e inesplorate si aprivano nello stretto corridoio che
percorrevamo sul selciato uniforme della notte. C’erano nebbie tenebrose nello squallore
di quel labirinto di roccia elettrica, lontano si sentiva il sussurrare sordo di un vento
sotterraneo che attraversava i cunicoli bui. Sebastian ad ogni incrocio procedeva sicuro,
senza deviare, la luce della lanterna che portava sulla testa mandava sulle pareti l’ombra di
un maestoso viandante. Quando il sole scompare anche uno gnomo appare come un
gigante! Ma non potei fare a meno di pensare che la mia luce di verità era spenta e che per
camminare in mezzo alle tenebre dovevo servirmi di Sebastian. E così passo passo lo
seguii in quel monotono sentiero di roccia segnato dal destino.
Dopo un tempo che pareva interminabile arrivammo alla fine della galleria.
Bussò alla porta con un paio di calci. Doveva essere di casa per bussare a quel modo. Io
ero dietro di lui, ora lo vedevo piccolo nella penombra. Non lo guardai. È inutile guardarsi
negli occhi nel sottosuolo, si sa già tutto senza guardarsi.
– Errì! – mi fece con un ghigno, girandosi nell’aria cupa. – Avevo la chiave ma l’ho
imprestata ad un amico che ancora non me l’ha restituita.
Nel buio i suoi denti piccoli e aguzzi brillavano come ghiaccio, ebbi il timore che
potesse mordermi. Un morso piccolo e doloroso che come qualcun altro, non avrei più
dimenticato.
La porta improvvisamente si aprì in un bagliore di luce. Entrammo in un ampio salone.
Le pareti erano affrescate con amorini e putti di ogni genere. Stile barocco. Stucchi
colorati decoravano il soffitto. Azzurro e rosa dominavano mischiati. Pieno settecento. Era
un vecchio bordello di lusso.
Poltrone e arazzi con candelabri appesi ai muri e uno enorme di vetro al soffitto pieno
di luci vivaci. A guardarlo con attenzione ti accorgevi però che quel salone era pieno di
cose invecchiate e di un'accozzaglia di mode sorpassate.
Sebastian si avviò come un guitto attraversando l’ampia sala: – Ecco dove soffia
propizio il vento dolce dell’amore e con la sua bellezza Venere disperde le tenebre del
mondo! – Immaginavo una sciocchezza delle sue, era evidente che il ciarlatano che era in
lui non riusciva a trattenersi e voleva fare a tutti i costi bella figura con qualche frase
magnifica. Mi vergognai della sua compagnia. Per fortuna doveva essere un’ora inusuale,
la hall era vuota, solo alla reception c’era qualcuno.
Lo seguii con passo indolente mentre mi guardavo attorno stupito. Mobili e arredi
dovevano essere di cinquant’anni prima, quando si usavano le case di piacere. Poltrone,
divani, tavolini bassi, arazzi, i grandi specchi circondati da cornici dorate che pendevano
alle pareti, tutto dimostrava la grandezza di un passato ormai scomparso e coperto di
polvere come un libro dolente pieno di significati arcani abbandonato su uno scaffale. –
La maggiore delle forze e la migliore delle bellezze non possono vincere contro il
decadimento, il volgere impercettibile delle stagioni trasforma senza pietà l’incanto della
primavera nella desolazione dell’inverno. Ahimè non c’è rosa che non appassisca nel
destino del tempo che fu suo sulla terra conoscendo la via del tramonto, solo quella che
giace custodita nel cassetto profuma sempre di rosmarino – pensavo rattristato.
12
Al banco c’era lei bella come un sogno di vetro: alta, bionda, una regina della natura
terrestre. Sorridente in un vestito blu. Sebastian era veramente di casa, la salutò con un
sorriso complice e afferrò immediatamente il menù. Bionde, more, alte, basse, prosperose,
snelle, bianche, creole, di tutti i tipi.
Sebastian guardava soddisfatto annuendo e mostrandomele al dito. Un poco sbavava
dagli occhi per la contentezza.
– Errì serviti e stammi allegro, capirai più qui che se mandassi a memoria tutti i libri
della biblioteca nazionale. È importante nella vita avere un’unità di misura, queste sono
donne da cento euro. Per il resto sarai bravo tu stesso a costruirti una scala di valori –
sorrideva come un buffone. Era lui che portava nel paese dei balocchi. Io ero Pinocchio,
mancava Lucignolo.
– Mi prendo Cinzia dalla mano affilata, la voglio per due ore – fece ad un tratto con la
saliva che gli colava dai lati della bocca. Era una donna giunonica, con due seni che
parevano cuscini di poltrona. – Il tuo petto è un timballo di maccheroni, è la fontana a cui
voglio dissetarmi, sul tuo seno voglio combattere la mia buona battaglia. Andiamo che ho
fame!
– Caspita Sebastian te ne vai così senza nemmeno salutarmi?
– Errico non rimanere impalato come un salame! Ti ho detto di divertirti.
– Ma che dici Sebastian? Io non vivo per divertirmi!
– Allora ti spiego le cose diversamente, vedo che sei un poco duro di comprendonio.
Questo è il punto più alto dove la scienza d’ogni sapere può portare, qui si dimentica
innocenza e colpa e si acquista la certezza di vivere – mi fece con la sua occhiata beffarda
e strana. – Ci vediamo dopo in ogni caso.
– L’apertura delle frontiere, la globalizzazione dei mercati ha portato ad un aumento
dell’offerta e a una diminuzione dei prezzi, noi poi adottiamo le norme Iso sulla qualità, il
nostro albergo è certificato da una primaria società nazionale. L’offerta è notevolmente
diversificata, il nostro menù può reggere tutti i confronti, leggano signori!
Era come una nenia da segreteria telefonica che l’addetta alla reception ripeteva.
– Scegli tu Errì questo è il tuo momento di dimenticare. E lo sai: non ci sarebbe la
possibilità di ricordare se non vi fosse la possibilità dell’oblio! Qui l'inverno si dilegua e
torna la primavera. Guarda puoi averne una a tuo piacimento, anche due se ti piace – mi
fece ancora Sebastian.
Un virus aveva infettato tutti i miei programmi, anche il sistema centrale era stato
colpito. Un virus che subdolamente si era insediato e che si era replicato con velocità
geometrica. Un demone che mi presentava sempre lo stesso volto. Bisognava formattare
tutto e reinstallare i programmi dall’origine. Ma io avevo paura! Avevo paura di perdere i
miei ricordi dolci o amari che fossero. Non so come, ma Sebastian doveva conoscere il
mio segreto.
– Tutti i corpi sono tristi dopo il coito – commentai ad alta voce. E tra me e me riflettei
di preferire i libri della mia biblioteca, ancora non li avevo letti tutti e mi aspettavano
pazienti, forse in uno si celava la risposta ai miei dubbi.
– Non pensare sempre al dopo Errico, cogli l’attimo, pensa al durante, lascia stare i
libri e divertiti infine – mi fece girandosi quell’estremo pagliaccio della vita. E si avviò
saltellante con un’ultima risata sguaiata verso le stanze che si aprivano nel corridoio.
Avvertii dentro di me un moto di tristezza. Mi sentii come un miserabile che volesse
rubare in fretta un piacere furtivo accarezzando il seno di una prostituta. Rimasi alla
reception, al banco la donna mi guardava con gli occhi chiari e grandi. Aveva un cartellino
al petto con sopra scritto “Elena”. Non Venere, la dea che tutto dirige, ma la grande
tessitrice dallo sguardo ceruleo. I suoi occhi erano un caleidoscopio cangiante di tanti
colori con una prevalenza dell’oro. Stetti in silenzio per molto tempo ad osservarla, la
13
vergogna ha il potere di rendere muti. Poi mi feci forza e le dissi: – Sei un sogno pure tu, o
sei un’ipnotista?
Continuò ad osservarmi sorridendo.
Ero affascinato da quello sguardo quieto che apriva panorami sconosciuti. Una
dolcezza divina si rispecchiava nei suoi occhi luminescenti come un cielo trapunto di
stelle. Due lune piene, una luna e un sole mischiati a dare e prendere luce. Ero incantato
da quella donna dai capelli biondi, pareva riunire nel vaso di malinconia della sua
espressione il tramonto e l'aurora. Fui attratto da una forza irresistibile a fissare lo sguardo
nei suoi occhi profondi, essi dicevano il dolce e l'amaro della vita! Due gioielli in cui l'oro
si univa alla lama affilata di una spada splendente. Mi parve di ascoltare la sua risata come
gocce di gioia che cadono sulla terra arida. Forse questo ritratto che ne faccio è più intimo
del sesso, perché bella è la rosa, ma infinitamente più bello è l’altare che le innalziamo
dentro di noi.
– Il mondo è strano, a volte procede veloce senza darti modo di guardare, altre volte
pare rallentare e fermarsi – le dissi incantato.
– È così. Il muro del tempo non è sempre lo stesso, ma l'uomo col suo sguardo lo
restringe o lo allarga. Adesso sta rallentando. Qui ti puoi fermare quanto vuoi.
Le sue parole mi fecero piovere nel petto una dolcezza inquieta e all’improvviso uno
stupore sconosciuto rapì la mia mente: tutto quanto in passato avevo vissuto o non vissuto
fu come sradicato dall’animo; ebbi la sensazione di guardare alla fonte dello spirito, di
conoscere insieme me stesso e il mondo. Forse per molto tempo stetti in silenzio ad
osservare la mia immagine che nuotava in quel silenzioso piano colorato. Tutte le cose che
avevo incontrato nella vita erano racchiuse nello specchio dorato di quegli occhi, come in
un grande mare. Si mostravano però in una forma nuova, acquistando un senso diverso da
quello che avevano avuto fino ad allora, il velo che le copriva era caduto e apparivano
nude e chiare. Persone allegre mi salutavano da sopra una barca che navigava veloce con
una vela bianca distesa. Sorridevano contenti come in una gita aziendale. Fui tentato di
salire pure io su quel battello ed allontanarmi per sempre dal mondo degli oggetti andando
verso il luogo dove più nulla è nascosto; in fondo – pensai – è bello consegnare al soffio
del vento la propria vita. Poi un dubbio s’insinuò nella mente: Tutto ciò che l’uomo fa,
serve alla conservazione di sé stesso e della specie! Ora che sta succedendo?
Di nuovo misi le mani in tasca ad accarezzare la zigrinatura delle chiavi di casa. La mia
bocca si aprì e guardandola affascinato, sentii la mia voce parlare: – Niente esiste. Niente
esiste sul serio, tutto quello che vediamo è solo il frutto della nostra mente. Anche tu sei
solo un frutto della mia testa, il mondo è solo un’allucinazione.
C’era un contrasto tra la dolcezza del dire e l’accusa grave che le movevo.
– Ma io lavoro qui da sempre, tu puoi sognare ma io ci sono, sono qui davanti a te,
guarda le mie mani – mi disse con una voce calda come miele.
Mi mostrò le mani grandi e robuste da operaia delle cotoniere. Il colore della pelle era
però di un bel rosa. Forse le braccia coperte dalla maglia dovevano essere morbide,
accoglienti come un guanciale. Aveva un sorriso dolce e un’espressione di velata tristezza,
così come sono le persone veramente superiori. La osservai con attenzione, sperai di
essermi imbattuto nel fantasma che mi avrebbe salvato.
– Dimostrami che sei viva. Dimmi una cosa che non conosco. Fammi sentire qualcosa
che non ho mai sentito! – Mi ricordava un’alba osservata sull’oceano quando stavo a prua,
e sul mare liscio e nero come il vino, in lontananza iniziò a vedersi un chiarore che mentre
avanzavamo diventava una luce intensa. Avevo ripensato sempre con incanto a quell’alba,
mi era parso che una mano enorme tinta di rosa e azzurro, salisse dal mare ad afferrare e
distruggere le tenebre. Sì bella come un nuovo giorno.
Si abbassò, mise una leggera musica al giradischi e nascosta sotto al bancone, cominciò
a cantare una ninna nanna. Bella, bella anche la voce, sembrava uno di quei grammofoni
14
dell’inizio dell’altro secolo. Mi ricordava sensazioni lontane, il canto nostalgico
dell’estate che muore; sembrava di sentire il rumore ritmato di una culla di legno che
andava avanti e indietro. Evocava una madre di altri tempi che cantava dolce e sorridente
per il sonno del figlio; una lenta nenia che scuoteva la mia mente provocandomi una gioia
così intensa che pareva tramutarsi in pianto.
Poi nell’aria si sentì un altro canto:
Attento alle pupille di lampo e ai capelli fluenti
Come il vento senza ragionamenti
Fa impazzire gli alberi più fieri
C'è un'altra luce che con dolci pensieri
Scuote quel cancello di cristallo saldato
Che si stende sul tempo passato.
– Sorgi dall’abisso o discendi dal cielo? – le feci mentre era ancora nascosta.
Lentamente si risollevò emergendo dalla penombra e mi sentii sospirare: – Solo dalla
terra!
La guardai con un brivido amaro. Bionda era e di bell’aspetto ma l’intera testa di un
colpo aveva diviso. Una linea nera divideva perfettamente a metà il cranio. Le era caduta
la parrucca. A sinistra c’erano valvole e transistor, di sicuro era una vecchia creazione di
Sebastian. A destra la produzione era moderna, ma in mezzo si vedevano segni di
bruciature, dei collegamenti erano andati perduti.
Mi guardò con un sorriso, un sorriso dolce con le labbra d’oro. Gli occhi erano sempre
brillanti ma era andata in stand by. Guardava fisso davanti a sé.
Una porta si aprì dietro al tavolo della reception ed entrò una ragazza piccola con i
capelli lisci. Era bruna, piccolina, si muoveva con passi leggeri e felpati. Mi sorrise aveva
gli occhi marroni come una cerbiatta. Una luce le brillava nelle pupille, doveva portare le
lenti a contatto.
– È una vecchia produzione dell’epoca romantica. Ha ancora cose belle, ma un poco
demodé, come si usavano un tempo. Beh insomma ha qualcosa che non va. È difficile
trovare pezzi di ricambio per queste vecchie produzioni e a volte si imballano.
Ad un tratto Elena, con gli occhi fissi nel vuoto, si avviò e cominciò a ripetere: – La
vita e l’amore sono la stessa cosa, solo in questo la vera sapienza…
Nel frattempo si sentiva il guaiolare continuo di Sebastian.
– Io sono il mondo di recupero. Io servo a correggere gli errori di Sebastian, a chiudere
l'abisso dietro di noi – fece la brunetta eccitante nella sua maglietta rosa. La guardai con
intensità. Mi piacerebbe essere una maglietta rosa per poterti stringere con aderenza e
dolcezza brunetta. Mi ricordi chissà chi! Era vestita di Jeans: pantaloni e giubbino. Stava
bene vestita di Jeans! Aveva le anche elastiche e flessuose. Il pantalone le aderiva alla
perfezione mostrando un corpo piccolo ma ben proporzionato.
All’improvviso compresi di essere finito nel luogo senza forma dove si covano i sogni.
La brunetta apriva la bocca a dire cose piene di buon senso, ma oramai non capivo più
le parole. Una bocca piccola come un bocciolo di rosa. Il sogno stava svanendo in un
cumulo di figure frantumate e un pensiero senza immagini mi disse: “Nei sogni si dà
ragione ad ogni cosa, anche la peggiore e la più assurda. E così l’uomo va in malora”.
Prima di andarmene, non so perché, presi della saliva sul palmo e accarezzai la testa di
Elena. Sentii la mia mano divenire come una pietra scossa da un tremito, tutte le
bruciature si richiusero e ricomparvero i suoi capelli come grano. L'oceano apparve e mi
sorrise mentre si allontanava in una dissolvenza di colori in un lontano orizzonte sul mare.
15
Il sole indorava i suoi capelli del giallo della rosa eterna e angeli vestiti di bianco la
portarono via per sempre tra le ali luminose. Le rivolsi un ultimo sguardo triste mentre ad
un’altezza irraggiungibile correva verso Oriente a perdersi nell'aurora.
Divenne come un puntino nello spazio, una goccia d’acqua nel grande mare. Sentii un
moto di sottile angoscia quando una voce mi sussurrò: – Siamo solo un sogno senza
significato e non la incontrerai più. Non rivedrai il suo volto, mai più!
Vedrai fiumi inaridirsi e il mare mutarsi in una pianura, ma non potrai dimenticare. Il
mondo è grande alla luce del sole ma smisurato nel bruciore della nostalgia.
In alto si accese una scritta rossa: SIGNORI È ORA DI CHIUDERE! Nel frattempo il
grammofono suonava una canzone scordata: “Buonanotte signore, buonanotte dolci
signore, buonanotte belle signore, …”.
Poi dal doppio fondo della notte altre forme andavano gradualmente risvegliandosi
imitando i frammenti delle immagini sbriciolate conservate nel tempo del ricordo. Non
finisce la contesa con il nulla quando ci accorgiamo di sognare, solo passiamo in un altro
sogno.
Mi trovai in via Toledo, la strada dei negozi, guardai incantato le vetrine come la prima
volta che arrivai a Napoli. Tutto purché possa avere quelle vetrine. Ma da grande pensai è
meglio il Matese con quelle montagne alte come cattedrali ed allevare vacche tra faggi
secolari, perché queste vetrine sono piene solo di sciocchezze.
Apparvero i campi di grano dove mi portavano a mietere. Tale è il potere della
memoria quanta la forza di vita dell'uomo destinato a vivere per andare incontro alla
morte! Rividi le corse nel sole dell’estate sui campi pieni delle stoppie del grano appena
falciato, sentii sulle gambe graffiate dagli steli ancora irti il bruciore di quando mi
sciacquavo i piedi. Era troppo tempo che non provavo questa sensazione. Su in paese i
vecchi parlavano piano dicendo di cose lontane e valeva la pena starli ad ascoltare.
E così entrai in un nuovo giorno risvegliandomi stupito di ritrovarmi quasi la stessa
persona che si era addormentata. Mi alzai lasciando i miei fantasmi nel letto che erano
quasi le nove. Mi sentivo più sollevato come se avessi dormito bene e qualcosa di elettrico
che mi teneva legato, fosse andato da qualche altra parte. Ero sudato, il sole doveva già
essere infuocato sopra il tetto che faceva da soffitto alla mia mansarda all’ultimo piano.
Andai a farmi una doccia fredda, mi avrebbe dato un’ora di autonomia nel caldo che si
preparava asfissiante. Prima di entrare sotto l’acqua accesi lo stereo mettendo un poco di
musica.
Anche questa notte è passata e sono sopravvissuto. Non ho niente tranne questo giorno
prima che sia il mio funerale, perché siamo solo il sogno del tempo. E il tempo è come un
bambino che si diverte con noi. Perché mai dovrei crescere? E allora canta, canta ancora,
così dorme e non si accorge che sta passando! Quando si sveglia tutto finisce ed è come se
non fossimo mai stati.
Indossai il jeans, la maglietta gialla a maniche corte e le scarpette da ginnastica. Scesi e
andai al bar di Gabbino a prendere un paio di caffè.
Entrai nel locale senza nome all’incrocio di uno dei tanti vicoli della città vecchia, e mi
andai a sedere come facevo da un pò di tempo al solito tavolo. Iniziai a guardare
distrattamente il giornale del mattino. – In fondo non capita mai niente di nuovo –
riflettevo mentre giravo il caffè che Gabbino si era premurato di portarmi – potremmo
leggere il giornale dell’altro ieri con lo stesso interesse col quale leggeremmo quello di
domani mattina. Che cosa aggiunge un nuovo giorno a quello appena trascorso? Ma non si
può mai dire, oggi mi sembra una giornata diversa dal solito...
16