Giulia, io e lo scoglio

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Giulia, io e lo scoglio
Francesco Sullo
GIULIA, IO E LO SCOGLIO
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A fatica riesco a tenermi sulle ginocchia, mentre bestemmio
santi e madonne, aggrappato al lettino di ferro della cabina.
Prigioniero di una nave che neanche mi ricordo che ci sono
venuto a fare. Ho male alle ossa.
Il mare sta cercando di tirarci a fondo con un tuono cupo e
continuo, e un orribile scuotimento. Sono in balia del pavimento che mi sale agli occhi per ributtarsi giù e lasciarmi per
aria solo una frazione di secondo e poi sbattermi violentemente con le rotule sulle tavole del parquet. Sono una grossa biglia
che collide continuamente. Intorno gli oggetti si inseguono disperati e c’è pure una donna sul letto. Nuda.
Se ne sta distesa, immobile, come se non ci fosse nulla che
possa smuoverla di un millimetro.
Ce l’avevo a un palmo dalla faccia e non l’avevo vista.
Forse dorme o sta male.
Aggianciato con tutta la forza che ho al lettino, le afferro un
braccio per scuoterla.
È freddissima.
La tocco sulla spalla.
Strabuzzo gli occhi per vedere meglio.
Non sarà morta? La scuoto con forza e quella niente.
Fa impressione: livida e verdastra come un pupazzetto per
bambini scemi.
Poi barcollo. Perdo la presa. Cado all’indietro tornando a far
parte della giostra di cose che vorticano intorno al centro della
cabina.
Fa freddo. Sto gelando. Un brivido vibra insistente fra la camicia e la pelle, lungo la schiena contorta negli equilibrismi a
cui sono costretto dentro questa nave da tremila viaggiatori,
nel Mediterraneo in tempesta fra la Sardegna e le Baleari, con
centinaia di metri di acqua scura sotto ed un cielo implacabile
e rabbioso sopra.
Dannazione!
Ho sbattuto forte contro una parete in un istante imprecisato,
fra un pensiero e l'altro. Adesso sto rotolando sul fianco,
ascoltando il mio grido stridulo: voce che esce dalla gola senza nulla di musicale, con una intonazione stonata, appena percepibile nel baccano infernale che la circonda. Intanto la nave
cigola, maledetta, come fosse pronta ad inarcare la chiglia e
inabissarsi puntando la prora al fondo.
Sbatto confusamente contro la base del lettino.
Vedo la donna rianimarsi all'improvviso e sollevarsi e cadermi addosso ansimando, con un muco indescrivibile che le cola
da ogni buco. Ma è un falso allarme. Il cadavere resta lì. È la
mia testa che dà i numeri. Sto solo rincorrendo un cappello di
paglia che salta e svolazza come una gallina starnacchiante, urtando tutto ciò che è possibile urtare in una cabina di sedici
metri quadri.
Il vomito acido che finora ero riuscire a trattenere mi sconfigge ed esce trionfalmente dalla bocca, velandomi gli occhi e
spalmandosi in lungo e in largo per la faccia. Accerchiato dalla cabina incontro la comicità di questi succhi gastrici che hanno voluto prodursi nell'interno spugnoso del fegato, abbozzare
un sorriso nel duodeno, tirarsi come una molla e spingersi oltre lo stomaco, galleggiare per un istante e nuotare, infine, leg-
geri, su su per l'esofago, fino alla faringe, il palato, le labbra,
la faccia.
Stordito fino all'ebetismo riesco tuttavia ad afferrare qualcosa di stabilmente ancorato alle pareti o al pavimento. Non capisco come. Le mani lo stringono, la testa si rannicchia fra le
braccia. Mi riparo. Lascio che il resto mi rimbalzi addosso. Ad
occhi chiusi cerco di stabilirmi, di orientare il peso verso una
base possibile. Sto come attraccato ad un molo durante un
giorno di pioggia invernale e mi sento la nave che ci contiene,
avverto il freddo delle acque che cercano di sfiancarmi, l'umidità senza paragoni che mi ingloba come una ameba affamata,
e il vento che insiste a picchiarmi senza pietà, fino allo sfinimento. Ma resisto, come fossi nave e cavaliere alle prese con
un'orda di mulini a vento fatti d'acqua salmastra indemoniata,
d'una sostanza che non posso trafiggere con la mia lancia.
L'oggetto che ho afferrato è, ancora una volta, uno dei piedi
del lettino.
Ci sono praticamente sotto, a qualche decina di centimetri
da quello che ho capito essere senza alcun dubbio un cadavere.
Nel frattempo il turbinio sta diminuendo. Pure il vento è calato
o quantomeno il soffio è meno forte di prima, o forse è solo
che mi ci sono abituato e mi sembra tutto più ragionevole. Intanto la donna è sopra di me, come piantata nella brandina, impassibile a qualsiasi tentativo di sradicamento. Non posso vederla ma riesco a percepirne i volumi, la massa, il peso, il pallore infinito.
All'improvviso non c’è più rumore.
Solo un silenzio insopportabile.
Abbozzo una rotazione del capo, per abbracciare con lo
sguardo la cabina. Gli oggetti oscillano lentamente, come trottole che, esaurita la spinta rotante, stiano per cedere alla quiete.
Il soffitto è candido, come del resto le pareti. Gli accessori
non particolarmente belli né brutti, nautici, impiallacciato in
radica di noce con finiture in ottone. Da un lato la porta che mi
ha tradito durante l’esplosione attirandomi dentro per poi bloccarsi in maniera che non riuscissi più ad aprirla.
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Stavo attraversando il corridoio per andare a fare colazione.
L’aria era fresca ed avevo una gran voglia di gustare un cappuccino tiepido ed un cornetto con la crema. Il pasticcere della
nave li sa fare proprio bene. Può anche darsi che si tratti di banalissimi cornetti surgelati, pronti da mettere in forno. Ma se
anche fosse, il nostro amico li sa infornare bene, dorandoli al
punto giunto. Neanche nelle migliori cornetterie ne ho assaggiati di migliori. Può anche essere che fossi particolarmente
ben disposto verso i cornetti perché in mezzo al Mediterraneo
le cose hanno prospettive diverse ed anche i sapori ne risentono. Fatto sta che la fragranza della pasta di questi cornetti è
esattamente quella che deve essere, croccante e morbida allo
stesso tempo, da leccarsi i baffi.
Anche il cappuccino del barman di questa grande nave non è
male, con una schiuma ben dosata e soffice, e soprattutto con
un equilibrio esperto fra caffè e latte, con il primo leggermente
sovradosato rispetto alla media ed il secondo, come dire?,
molto “intero”, denso come ci fosse della panna aggiunta, caldo ma non troppo, tale da sembrare un tutt’uno con la schiuma.
Cappuccino e cornetto degni di un premio.
Per il resto non è che si mangi granché bene: i primi sono
sempre un po’ scotti (colpa, credo, della grande quantità di
stranieri presenti che probabilmente la pasta la preferiscono
così), gli antipasti deboli, la frutta non fresca come vorrei.
I secondi sono invece buoni, sebbene ci sia una strana scarsità di pesce ed al contrario un’abbondanza sospetta di carni di
agnello e capretto.
Stavo attraversando il corridoio per andare a fare colazione
quando ho percepito un mugolio, una sorta di rombo basso, sinuoso e sensuale, una frequenza sostenuta, un richiamo proveniente dalla stiva o comunque da un posto che nella mia testa
doveva trovarsi da quelle parti. Ho sorriso, non so perché. Forse intuendo quanto mi sarebbe successo da lì a qualche istante.
Ho sorriso e mi sono fermato ad ascoltare. Alla mia destra la
porta della cabina numero 132, una porticina perfettamente
pulita, lucidata a specchio nelle parti cromate, con una fòrmica
bianchissima a fare da foglio con su stampato ad inchiostro
bruno: 132. Un numero come un altro prima dell’esplosione,
un numero assolutamente unico dopo.
Il boato venne all’improvviso, anticipato da un improvviso
silenzio: uno scoppio fragoroso, selvaggio, arcaico, veloce e
lento allo stesso tempo.
Finii, senza capire come, nella cabina 132, con lo sguardo
attaccato alla porta. Giusto il tempo di vederla rinchiudersi
così forte che non sarei riuscito a riaprirla.
Urtai il capo contro qualcosa e svenni.
Sognai di una sirena e di un navigatore antico, forse Ulisse,
un sogno qualsiasi, niente di memorabile. Quando rinvenni dovevano essere passate delle ore perché non riuscii a sentire
voci o persone e qualcuno invece aveva dovuto girare per la
nave per assicurarsi che tutti stessero bene o per trarre in salvo
i superstiti. Se ci fosse rimasto qualcuno sulla nave lo avrei
sentito bussare alla porte, urlare nei corridoi. Invece, al mio risveglio ho udito solo vento e mare, arrabbiati contro il mondo
intero e lì ho compreso di essere solo.
Dopo qualche istante, fra una imprecazione e un gemito, mi
sarei accorto di lei.
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Lascio il piede del lettino e cerco di volgermi verso la parete
più vicina, per raggiungerla e togliermi di dosso la terribile
sensazione di avere un cadavere ad un palmo dalla faccia già
sufficientemente stravolta dagli urti e dal vomito di poco fa. Il
vento ritorna nel frattempo più sostenuto, il mare lo accompagna impennando la nave che si inclina paurosamente facendomi scivolare e ruotare intorno ai fianchi.
Qualcosa mi schiaffeggia con forza, devo chiudere gli occhi,
grido parole sconnesse al vento che posso solo udire, al mare
che si esalta nella furia distruttiva, sballottandoci come noci in
un torrente in piena. Fin quando resisteremo? E come è possibile che questa tempesta sia partita così, senza preavviso?
Ieri sera (ma non giurerei sul tempo trascorso) in televisione
dicevano che il tempo si sarebbe mantenuto buono e invece il
maltempo è arrivato di colpo e ci ha preso di sorpresa, forse il
boato è stato lo schianto terribile di un’onda abnorme: un diretto alla mascella, di quelli che anche i pugili esperti faticano
a mantenersi in piedi e l’arbitro è costretto a contarli.
Chissà che ora è.
Ho pure un certo languorino allo stomaco.
Sono certo che il mare si stia placando. La nave si sta riequilibrando, infatti. Qualche secondo e si assesterà e tutto tornerà
immobile come ieri a quest’ora che non so che ora è, ma è certamente quella di ieri quando il mare non era così nervoso.
È incredibile come la donna non si sia mossa di un millimetro. Io sono stato sbattuto da tutte le parti, arrivando a conoscere l’intima sostanza di questa dura cabina, e lei invece è restata lì, intoccata dalla tempesta.
Devo provare ad aprire la porta.
Mi avvicino alla maniglia e tento di manovrarla: è dura,
bloccata. Non c’è verso di attivarne i meccanismi. Si rifiuta di
cedere alla mia preghiera, devo forzarla. Non dovrebbe essere
troppo robusta. In fondo una cabina è un po’ come una stanza
d’albergo e le stanze d’albergo si sa che si aprono come niente, o meglio che chi sappia come aprirle riesca a farlo senza
problemi.
Ma niente da fare. La prendo addirittura a calci. Inutile.
Decido allora di sfondarla con una spallata. Concentrazione
e grinta. Arretro verso il lettino, prendo la ricorsa e mi catapulto contro la porta, quindi rimbalzo all’indietro e bestemmio
prendendomela con un santo quasi sconosciuto che mi aveva
incuriosito una volta che si giocava con gli altri bambini, al calendario, un gioco per la verità abbastanza stupido. A parte il
dolore alla spalla, nessun risultato. Bestemmio nuovamente.
Di solito non lo faccio, non bestemmio, voglio dire. Non ha
a che vedere con la buona educazione. È che il ventre di una
nave che non sai come ti ci trovi né dove essa stessa si trovi, è
un posto così anomalo che mi viene facile farlo, senza sentirmi
colpevole di nulla. Oltretutto con me ho solo un cadavere. Sì,
certo, è una donna e quindi le regole vorrebbero che fossi
quantomeno elegante nelle mie esternazioni, evitando le volgarità che riesco a produrre in questi momenti, ma mica mi trovo
ad una crociera qualsiasi, qui sono nel mezzo di una nave che
ha deciso di distruggermi, e… insomma, che sto facendo?
Parlo da solo.
Mi volto di scatto verso il lettino, temendo di ritrovarmi
d’improvviso ancora più solo. Ma niente paura: è ancora lì.
Incredibile. Una donna nuda, cadavere, in una cabina di una
nave abbandonata in mezzo al Mediterraneo: c’è qualcuno che
in alto, ma molto in alto, deve essersi accanito contro di me.
Fanculo.
Il mare si è calmato e direi che, a occhio e croce, siamo ancora in superficie, di acqua non ce n’è.
La donna, finora secondaria nella scala delle mie perentorie
priorità, potrebbe non essere quello che sembra. Cioè: chi mi
dice che effettivamente si tratti di un corpo disanimato e che
non sia stata la mia paura a suggerirmela tale? Addirittura potrebbe essere addormentata ed esibire semplicemente un colorito particolarmente olivastro. Forse dovrei avvicinarmi, reprimendo il ribrezzo, e cercare di appurare finalmente se sia o
meno cadavere.
Mi faccio forza.
Le sfioro con lentezza straordinaria l’avambraccio sinistro e
ne percepisco l’assenza di calore mentre cerco quel punto particolare fra le vene superficiali del polso toccando il quale si
sente il cuore battere.
No, nessuna pulsazione, neanche piccola. La mano che doveva essere rivestita da una bella pelle d’avorio, adesso imbrunita e venata di verde (solo leggermente, a dire la verità), mi
pare muoversi.
Sobbalzo scoprendomi una voce isterica e chioccia, mentre
pronuncio cose del tipo: stai indietro, non ti muovere strega
maledetta, e via dicendo. Il sudore mi copre la fronte come rugiada velenosa. Tremante mi ritrovo appiattito contro la parete
opposta al lettino, a farfugliare cose incomprensibili persino a
me stesso, con il battito cupo del cuore che mi gonfia la gola a
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volermi soffocare, ad ingolfarmi i polmoni come se ci fosse
qualcun’altro dentro di me che stia cercando di strozzarmi, di
farmi fuori una volta per tutte. Magari solo per risparmiarmi
orrori peggiori.
Succedono delle cose nella vita che non sai come spiegarti.
Succedono e basta. E così – mentre a fatica domino il respiro –
sono certo che la storia che sto vivendo è a lieto fine.
Come faccio a saperlo?
Beh. Diciamo che se anche un cattivo narratore mi avesse
imbrigliato in una trappola mortale non mi avrebbe certo lasciato da solo, nell’impossibilità di generare una trama, un filo
conduttore, di trovare degli altri con cui interagire fino a individuare un immancabile assassino. Ecco, se fosse scritto da
qualche parte che io debba finire male sarei stato qui in compagnia di altri. Saremmo potuti essere in tre o quattro. A far
compagnia alla misteriosa donna cadavere in questa cabina
che allora sì che sarebbe stata angusta. Ci sarebbe stata almeno
una donna fra i personaggi. Sicuramente bella e sensuale per
confondere gli spiriti dei maschi. Probabilmente la più intelligente di tutti. Un genio. Spietata e capace di ucciderci pian
piano senza che, malgrado le dimensioni risibili di questo spazio, gli altri sappiano scoprirla. Un narratore, anche il peggiore, avrebbe voluto accompagnarmi ad altri sventurati. Per non
rischiare di ammorbare il lettore mantenendo la tensione troppo bassa.
Qui, parliamoci chiaro, potrebbe non succedere niente fino
all’arrivo dei soccorsi.
Quando arriveranno dovrò cercare di essere molto convincente per evitare che mi accusino di qualcosa, magari omicidio. Non so nulla di lei e del perché sia morta e soprattutto di
come sia morta, se naturalmente o assassinata.
L’assassino potrebbe essere stato così bravo da architettare
uno scoppio nel preciso istante in cui affacciandosi dalla cabina opposta si sarebbe lanciato su di me per scaraventarmi nella
cabina 132, certo che non avrei saputo percepirlo come mani,
braccia, uomo-che-spinge, che avrei scambiato la sua spinta
per un’onda d’urto. Questo, fra l’altro, spiegherebbe come mai
non mi riesca di forzare la porta, bloccata dall’altra parte e
quindi inamovibile.
In seguito l’assassino, per spingere tutti ad abbandonare la
nave, avrebbe sparso la voce che terroristi, ovviamente arabi,
per sopprimere un diplomatico a loro ostile, sarebbero stati
pronti a dare il via alla grande esplosione che avrebbe affondato irrecuperabilmente la nave.
Sospiro. Ne dico di cazzate. Un vero coglione.
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Dalla parete alla quale sto appoggiato guardo allibito il cadavere giallognolo posato come una foglia secca sulle lenzuola, anch’esse giallognole per tutto quello che gli si è depositato
sopra durante la tempesta. Adesso che non si sente un filo di
vento, né la minima traccia di movimento del mare, sorrido.
Forse, ci siamo incagliati.
No.
Se fosse così saremmo bloccati fra gli scogli, ma il rumore
del vento e dei marosi si dovrebbe ancora sentire.
La donna era alta circa un metro e settanta, di costituzione
magra, con qualche chilo di troppo sparso fra la parte alta delle cosce ed al loro interno, sulla vita sottile ed intorno alle
braccia. Giace con gli occhi aperti come chi osservi pacatamente il soffitto, due occhi di un verde intenso e inusuale, un
tono e un colore di una vivezza decisamente fuori luogo. I capelli, nero-bluastri, scuri come non ne ho mai visti in una donna occidentale, sono in ordine. C’è da escludere che sia morta
in seguito a colluttazioni o violenze o altro.
Capelli in ordine come chi si mette a letto per riposarsi dopo
essersi pettinato con cura. Incorniciano un viso che da giovane
doveva essere luminoso, ora appena incrinato da qualche piccola ruga ben trattata con creme idratanti e saponi delicati e un
trucco sapiente.
Sono incredibilmente vicino al suo viso.
È fredda, orribilmente fredda. Ma calma. Mi ispira pace, con
quegli occhi volti al soffitto come ad ammirarlo, quieti, per
nulla morti. Ci sarebbe da aspettarsi che da un momento all’altro ne sbatta le ciglia. Occhi morti che sembrano vivi, che
dopo un po’ ti ci abitui e ti sembra che la donna dagli occhi di
giada sia come un mobile antico che tu abbia in casa da una
vita e ti appartenga e ti faccia sentire protetto malgrado un po’
di paura per quella pesantezza sinistra che esprime.
I suoi occhi, gli occhi del cadavere, sono occhi che devono
aver pianto molto. Ci devono essere stati nella sua vita più di
un uomo importante a farglieli inumidire di lacrime caldissime, di fitte dolorose, di stringimenti di palpebre. Quel movimento che fa vedere il mondo come attraverso una persiana
calata, nell’indistinto sfocato. Occhi rossi per l’emozione. Belli, anzi bellissimi.
Credo che a vederla piangere mi sarei messo a piangere con
lei, incapace di sopportarne lo straziamento. Come è successo
magari ad altri. Chissà quanti uomini ha visto piangere nella
sua vita: l’amante di turno, il marito tradito, il genitore amareggiato per la figlia poco costumata.
No, credo che lei abbia visto pochi uomini piangere. Che sia
stata vista piangere molto, invece, e da molti uomini, come in
un terribile incubo della mattina, di quelli che ricordi come
una sciabolata, che ti accompagnano durante le prime ore della
giornata, a ricordarti che non esiste solo la veglia e nel sonno
c’è un’altra vita. Una esistenza altra che va in pausa al mattino
per riprendere la notte seguente.
Mi sono seduto sul bordo del letto, ben attento a non smuovere il corpo nudo, leggermente incurvato verso il capo disteso
sul cuscino, a scrutarne i particolari. Gli occhi contengono nell’iride qualche puntolino scuro, in particolare il destro presenta
una specie di neo in basso, un neo con qualche scaglia azzurra
nel mezzo, che a dire degli iridologi svelerebbe una malattia,
non saprei dire quale, forse un tumore mortale, quello che l’avrebbe uccisa o spinta al suicidio per veleno. Proprio oggi. Su
una nave in procinto di scontrarsi con qualcosa di esplosivo.
Già, l’esplosione di prima, quasi me ne scordavo. Quanto
sarà passato? Dovrei usare un orologio, ecco cosa succede ad
ostinarsi a chiedere l’ora sempre e soltanto agli altri, che poi
quando gli altri si riducono ad un corpo inanimato e incapace
di rispondere a qualsivoglia domanda, non si sa più che pesci
prendere, ed il tempo se ne va, per sempre, o quantomeno fino
a che qualcuno non ci venga a dire qualcosa del tipo: le tredici
e quaranta, dieci minuti alle nove, l’una di notte.
Mi alzo che ancora non ho realizzato del tutto che su questa
stramaledettissima nave sono solo e pare proprio che nessuno,
sì, nessuno verrà a tirarci fuori. Dico tirarci, al plurale, perché
mi sembra giusto che anche questa sfortunata sia portata in un
luogo più adatto alla consunzione della morte.
Pensa se cominciasse a decomporsi prima che io riesca a lasciare la cabina.
Un pensiero terrificante, atroce.
Me ne pento e vorrei non averlo pensato, che mi sarei evitato il voltastomaco che adesso mi pervade. La porticina del ba-
gno è chiusa. Le vado incontro, ruoto la maniglia con infinita
delicatezza, come se ad essere anche solo un po’ meno rispettoso mi si rifiutasse.
Si apre.
Dentro tutto sembra normale. Un bagno come tutti gli altri,
con qualche oggetto sparso per il pavimento reso scivoloso da
detergenti e saponi versatisi durante la tempesta. Entro silenziosamente e stando ben attento a non pattinare. Mi affaccio
sul lavandino. Mi guardo nello specchio. Mi osservo, senza
troppa sorpresa per le macchie verdastre che mi attraversano la
faccia: è la bile che mi sono buttato addosso durante le giravolte intorno alla cabina.
Ruoto la manopola ed un fiotto di acqua perfettamente trasparente invade il lavandino di metallo cromato.
Aspetto solo un istante, poi la raccolgo con le mani a coppa
a mi detergo la faccia, e continuo a prendere acqua e spruzzarmela addosso, sempre più forte, fin quasi a urlare mentre le
gocce spruzzano dappertutto, e mi bagno la camicia sudata, ed
anche i pantaloni e le scarpe di tela. Mi metto a bere, prima
dalle mani, poi direttamente attaccato al rubinetto. Bevo fino a
gonfiarmi lo stomaco. Trattengo a stento un accenno di vomito. Solo allora mi raddrizzo sulla schiena e mi guardo ancora
allo specchio, temendo per un attimo di vedere la mia figura
con dietro la donna, improvvisamente tornata alla vita dopo la
catalessi. Un nuovo brivido mi percorre la spina dorsale come
un ratto che ti corra sulla pelle, immobilizzato dallo schifo.
Dietro di me c’è solo la parete bianca.
Bianca come ogni altra cosa del piccolo bagno.
È allora che il pavimento mi sfugge da sotto i piedi e mi ritrovo a sbattere rovinosamente contro qualcosa di non meglio
identificato.
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Mi sveglio con un taglio sulla fronte ed un gomito dolorante,
devo essere scivolato nella foga che mi era presa a lavarmi
come se avessi dovuto purificarmi fino al fondo dell’anima.
Che detto da me, ateo da sempre, mi turba un po’, sebbene sia
chiaro, credo, quello che voglio significare.
Sono veramente sporco. Di sangue che mi è sgorgato dalla
fronte, di saponi vari e di qualcosa che non riesco a individuare. Dovrei fare una doccia. L’acqua del resto c’è.
E se poi arriva qualcuno proprio mentre sto sotto gli spruzzi
e non lo sento e questi, ignorandomi, vada oltre, a cercare in
altre cabine, in altri corridoi, in altre parti della nave?
Se deve andare così, che vada. Mi faccio la doccia. Prima,
però, dò un’occhiata alla cabina, per accertarmi che tutto sia
restato come prima.
L’acqua è tiepida. È piacevole sentirsela scorrere addosso.
Tuttavia l’ansia che qualcuno possa arrivare e non trovarmi è
troppo forte. Rimango sotto il getto liquido solo un minuto o
due. Poi subito ad asciugarmi e rivestirmi: mutande, pantaloni
e scarpe. La camicia è ridotta così male che proprio non saprei come indossarla. Calzini e camicia li metto nel bidè, facendolo riempire d’acqua, per tenerli a mollo.
Esco dal bagno, di cui avevo chiuso la porta per pudore, con
la paura di rimanere relegato in uno spazio ancora più ristretto.
Non è così, fortunatamente.
La cabina è rimasta quella che avevo lasciato, con un sacco
di cose sparse.
La donna – che prima o poi dovrò darle un nome se non mi
riesce di scoprirne quello legittimo – è sempre lì, a fissare il
soffitto con quegli occhi belli e languidi. Occhi che non diresti
che non vedono nulla, che non c’è un nervo ottico a decodificare i raggi trasmessi dalla cornea, indirizzati dal cristallino,
raccolti dalla retina.
Raggi di poco conto, visto il posto.
Sulla destra c’è una consolle fissata alla parete con una sedia
incagliata fra i piedi di alluminio, in una posizione sbalorditiva
che non sto a descrivere che tanto non ci crederebbe nessuno.
Sul pavimento di tutto. Ci sono anche delle chiavi.
Le raccolgo sperando che una sia quella che può condurmi
fuori da qui. Vado alla porta della cabina e provo a cercare
una serratura che non c’è, sostituita da un ingegnoso marchingegno a leva. Ributto le chiavi sul parquet.
Un rumore mi accompagna mentre cammino: è un foglio di
carta straccia che mi si è attaccato alla suola della scarpa destra. Provo a staccarlo con l’altra scarpa inutilmente, poi mi
abbasso e lo afferro bruscamente fra le mani. C’è, scritta a
mano, una lista di “libri da recuperare”. Sono una ventina, senza alcun collegamento fra loro – mi pare – come se chi scrive
avesse a che fare con una biblioteca…
Mi volto a guardare la mia solitaria compagna. Ha gli occhi
belli, proprio belli, malgrado per com’è fredda deve essere andata via da molte ore.
Mi sembra di vederla alle prese con foglio e penna, agli esami di maturità, che medita a lungo la traccia, intrecciando gli
occhi con i fogli sul banco, con qualche segno tracciato senza
intenzione, e poi, quando gli altri stiano già copiando ed il suo
professore, un austero cinquantenne, tema oramai il peggio per
la giovane, questa prenda a scrivere spedita, direttamente in
bella, senza commettere errori, come se uno spirito protettore
le dettasse ogni singola parola. Doveva avere i capelli ancora
più neri allora, come le ali del corvo più nero che esista, o il
nero della notte, e gli occhi dovevano risaltare come smeraldi
sulla pelle chiara, fresca e...
Devo essere impazzito.
Sto imprigionato nella pancia di una nave che chissà di quali
correnti è rimasta prigioniera e chissà dove va senza nessuno
che la conduca, e me ne sto a sognare ad occhi aperti l’ipotetica vita passata di una morta che conosco di vista appena da
qualche ora anziché cercare la maniera per andarmene via. Oltretutto con questa luce artificiale non c’è modo di sapere che
ora sia, se sia giorno o notte e di rumori non ce ne sono più.
Solo un lontano sciabordio, ed un rollare lento di tanto in tanto
quando qualche onda più alta delle altre prova a contrastarci.
Qui l’aria comincia a farsi viziata, stantia, densa per qualcosa di indefinito. Per fortuna sono solo io a respirare. Lei si limita a qualche umore che trasuda dalla pelle per poi vaporizzarsi lentamente.
È stupefacente come possa imperlarsi di glaciale sudore la
fronte di un cadavere dopo qualche ora dalla morte. Prima,
quando gliel’ho sfiorata, mi è restato sulle dita il bagnato di un
liquido trasparente che mi sono apprestato ad asciugare sulle
lenzuola. Avrei dovuto osservarlo per capire di cosa si trattasse. Dicono che i cadaveri dopo la morte, ad un certo punto che
non so quale sia, producano una proteina che si chiama “cadaverina” o qualcosa del genere. Pare che questa sostanza possa
causare danni seri, forse addirittura la morte. Dicono che per
questo non si dovrebbero mai toccare i morti. Figuriamoci
quelli che se li abbracciano e li baciano come fossero ancora
vivi. Dalle mie parti, al Sud, è una cosa normale e non mi ricordo di nessuno che sia morto per intossicazione da cadaverina. Però se lo dicono un qualche fondamento ci sarà. Meglio
stare alla larga.
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Ma gli occhi della donna come fanno ad essere così lucidi?
Non dovrebbero appassire e diventare opachi alla maniera dei
pesci o, comunque, manifestare con onestà la loro cessione
d’attività?
Sono indecenti: puntati verso l’alto come se questa fosse la
loro funzione primaria, da sempre, imperturbabili in ogni tempo, dalla nascita ad oggi. Mi fanno rabbia. Se c’è una cosa che
non mi è mai riuscita è tenere gli occhi aperti evitando lo sbattere delle ciglia. E pensare che ho visto gente che ci riusciva
senza sforzo per minuti e minuti.
Quando presi il treno per la prima volta da solo, a sedici
anni, nello scompartimento c’era una ragazza che giocava a
chi li teneva aperti più a lungo con un suo amico stupido (così
mi sembrò). Quella ragazza riusciva a farlo senza il minimo
tremore. Da allora sono passati esattamente venticinque anni.
Se non ricordo male, quel primo viaggio lo feci che mancavano pochi giorni all’inizio della scuola, per cui doveva essere
più o meno in questi stessi giorni.
In quelli, invece, la donna dagli occhi verdi doveva avere all’incirca la mia età. Forse era lei la ragazza bruna che mi aveva
fatto schiattare d’invidia nel treno oltre che turbato intimamente per uno strano modo che aveva di accarezzarsi la coscia destra mentre leggeva, arrivando con le dita fino all’inguine, con
naturalezza, per poi stirarsi la gonna e rimettersi a leggere. Ricordo che ad un certo punto, imbarazzatissimo, ebbi un’erezione che mi gonfiò i pantaloni strettissimi e, senza sapere come
altrimenti mascherarla, ci tenni l’avambraccio sopra fino a che
tutto non tornò tranquillo. Mi ci volle però l’intero tratto Salerno-Formia per riavere la pace, col braccio che sembravo un
paraplegico.
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Un brivido di freddo mi coglie all’improvviso, probabilmente la temperatura deve essere scesa nel mondo intorno alla
nave e così cominciamo a risentirne. Soprattutto io che me ne
sto a torso nudo. Lei invece, il cadavere, per quanto nuda credo proprio che non se freghi più di tanto. Anzi. Direi che stia
cercando di spingere il clima ad irrigidirsi per consentirle di
mantenersi più a lungo senza decomporsi.
Devo cercare qualcosa da mettere sulle spalle.
L’armadio a muro.
Lo apro. Dentro una quantità incredibile di vestiti. Tutti
femminili. Qualcosa da riempire tre o quattro valigie almeno:
un bel carico di vestiario per una che poi muore durante il
viaggio, in questa maniera strana che non si capisce come.
Vediamo.
Prima ipotesi: suicidio.
Ci sarebbero degli elementi che lo lascerebbero pensare: la
nudità, la posizione distesa, l’espressione pacata, l’assenza di
lividi o graffi, la pace che si respira intorno. Ma perché una
dovrebbe uccidersi in crociera?
Intanto che rifletto, il mare sta prendendo corpo e mi pare di
avvertire un leggero ronzio, mi chiedo se il motore sia ancora
acceso, se cioè stiamo navigando in una qualche direzione o se
invece la nave si stia lasciando andare alla corrente per dirigersi dove l’azzurro vorrà. Quasi che per me ci sia alfine differenza. Se finiamo con lo schiantarci da qualche parte, come
che ci siamo arrivati, certamente affonderemo, ed allora qui
saremo come schiavi nell’antico Egitto, messi a riposare per
sempre nella piramide del faraone.
Mi viene da vomitare.
Corro in bagno e scarico nel cesso, in un secondo, il poco di
bile che ho nello stomaco. Tiro subito lo sciacquone affrettandomi a lavarmi la bocca e tornare in cabina. Tutto velocemente, che quasi mi sembra di non averlo mai fatto, che se non
fosse per la bocca amara direi proprio che in bagno non ci
vado dalla doccia di prima. Proviamo...
Sono stato in bagno a vomitare?
Un attimo per pensarci e la risposta: no, non ci sono stato.
Ed allora perché mi pare di ricordare di esserci stato?
Perché sono stanco.
E la bocca amara?
Sarà la fame.
Sto esaurendo...
Non c’è dubbio.
Intanto gli occhi della donna stanno sempre lì. Credo che se
li estraessi dalle orbite nessuno avrebbe da ridire. Del resto qui
ci sono solo io e comincio a pensare che non verranno altri.
Comunque, se anche venissero, potrei sempre dire che la donna l’ho trovata così, che già le mancavano gli occhi. Potrei
scaricarli nel cesso e finirebbero chissà dove.
Comincio ad avere fame mentre il freddo aumenta e decido
di indossare una felpa rosa antico con sul petto la scritta
“Wake up!”.
Per il cibo dovrò fare qualcosa. Escluso che possa mangiarmi qualcosa della donna perché oramai la decomposizione è
bell’e avviata, devo vedere se ci sono riserve da qualche parte:
un panino rimasto a metà, una mela, un biscotto. Fra poco avrò
veramente fame.
La parte di sotto dell’armadio ancora non l’ho aperta.
Che culo!, ci sono dei crackers.
Un bel pacco grande, ancora da iniziare. Non c’è altro, ma è
già qualcosa. Poteva andare peggio.
Apro la confezione. È da 400 gr. Con dentro 6 pacchetti,
ognuno contenente 25 quadratini salati. Scarto il cellophane e
comincio a frantumare un cracker. Buono, non c’è che dire,
buono. Forse troppo salato, ma tanto almeno l’acqua ce l’abbiamo, e direi che ce l’avremo per tanto tempo visto che siamo
gli unici a consumarla, anzi, che sono l’unico, perché lei di acqua non ne beve, così come non fa niente di niente, se ne sta
solo lì, sul letto, immobile. Tanto immobile che devo vedere
se è legata per capire come è stato possibile che durante la
tempesta non si sia mossa di un millimetro. Facendo scrocchiare il cracker mi avvicino al letto ma mi ritraggo subito. Se
dovessi sentire qualche cattivo odore potrei vomitare nuovamente e vista la situazione sarebbe bene evitarlo.
Me ne vado in bagno a bere col pacchetto già quasi finito.
Per ora mi accontento, bisogna razionare le cibaglie per evitare di restare a secco troppo presto. Mi attacco quindi al rubinetto e bevo in quantità misurata. Si deve farlo, dicono, lontano dai pasti. Serve sia a “lavare” le reni che a evitare la ritenzione idrica, causa principale di antiestetici accumuli adiposi.
Devo cercare qualcos’altro da mangiare.
Ma di colpo non sono più tranquillo. Un calore osceno mi ha
preso allo stomaco stringendomi forte il costato come se delle
mani caldissime stessero forgiandomi. Di colpo ho paura. Tanta, tantissima paura. Per la prima volta ho veramente terrore di
finire la mia vita da niente in questa schifosa cabina. Io neanche lo so come diavolo m’è passato per la testa di venirmene
in crociera a fine settembre, che fa pure freddo. Mi fa schifo
tutto e mi duole la schiena e mi manca il respiro ed ho un
groppo alla gola e le gambe mi formicolano ed un piede, in
particolare, mi sembra gonfio di sangue. Così gonfio che se
scoppiasse sarei quasi più contento. Morirei dissanguato.
Dicono che durante la perdita di sangue non ci si renda conto di andare verso la morte ma si comincino a perdere le forze
pian piano, e man mano prenda uno stordimento simile a quello dovuto a una leggera ubriacatura, gradevole addirittura,
come se si stesse sprofondando in un sonno pacificato e leggero. Pare sia ancora più evidente quando ci si trovi nell’acqua.
Forse è per questo che molte donne si tolgono la vita tagliandosi le vene nella vasca da bagno, che con l’acqua calda deve
essere ancora più piacevole, se non fosse che poi si muore.
...
Mi sono calmato.
Proprio mentre analizzavo una improbabile morte per dissanguamento da “esplosione di piede iper-irrorato”.
Mi tolgo la scarpa.
Il mio piede “sanguigno” è... pallido, cadaverico. Ehi! Non è
che sono già morto e non me ne sono accorto?
Non è possibile. Se così fosse starei a chiacchierare con la
mia involontaria compagna del più e del meno, sparlando della
nave e del capitano che invece di affondare con essa chissà
dove se ne è scappato, del tempo che pare rimettersi al peggio
con questo rollare cupo che fa vibrare gli oggetti ed ogni tanto
fa girare la testa, eccetera eccetera.
Non sono morto.
Gli occhi della donna sono sempre lì, verdi e inviolati. Bellissimi nonostante tutto. Con le ciglia nere come i capelli, le
sopracciglia curate, folte al punto giusto, le palpebre di un colore a metà fra il violaceo ed il bruno-olivastro delle occhiaie,
la pelle irregolarmente macchiettata di piccolissime palline linfatiche, appena visibili, e un neo color daino un po’ sopra lo
zigomo sinistro e qualche goccia inodore di qualcosa di ignoto.
Sono occhi ben circondati, con sopracciglia che ne evidenziano la volontà, l’alterigia, la dignità, la rapidità, occhi che
hanno pianto molto, forse troppo, che non volevano piangere
più.
Intorno a noi il mondo che ci ha imprigionati con le sue televisioni e le sue reti, con le voci alla radio e i manifesti, con le
opinioni di tutti tranne che le nostre, con la presa per il culo di
lavorare per noi, che continuano a dire tutti così perché possono permetterselo fintanto che la giustizia vale solo per i poveracci, quel mondo che, a pensarci bene, quasi non mi dispiace
di essere qui, finalmente irraggiungibile da pubblicità e propagande, da cercatori d’informazione e informati, da quelli che
sanno tutto pur senza aver letto nella loro vita più di una decina di libri, gli imbecilli cronici, quelli che sanno dirti al volo
se hai fatto un pessimo affare, che avevano la soluzione per te
a dirglielo prima, tutta quella gente che vorresti che cascasse
una bella bomba e tutto andasse a fare in culo, una buona volta.
8
Gli occhi della donna sono i miei occhi.
Solo ora me ne rendo conto. Abbiamo gli stessi occhi. Verdi
con un leggerissimo cerchio bruno tutt’intorno alla pupilla,
con il primo dominante ed il secondo che in condizioni di luce
viva quasi scompare.
Abbiamo gli stessi occhi.
Potremmo cederli a terzi. Fare una svendita.
Quand’ero piccolo c’era una cosa che mi sconcertava: i saldi. Perché tutti questi negozi che normalmente vendevano le
cose più diverse, d’un tratto, quasi contemporaneamente, ma
comunque sempre nello stesso periodo, vendevano questo strano articolo di nome “saldo”? Ero proprio convinto che un saldo fosse una qualche cosa che si vendesse giusto allora e poi
non più per mesi, fino a ritrovarsela di nuovo, ben pubblicizzata con manifesti enormi, perlopiù di un solo colore, in quasi
tutte le botteghe che altrimenti avrebbero venduto vestiti, scarpe, borse. Cosa fosse un saldo non lo chiesi mai a nessuno,
leggevo in quel nome qualcosa di anomalo, con tutte quei numeri e quelle percentuali. Doveva trattarsi – pensavo – di un
prodotto per adulti, qualcosa che tutti conoscessero, che se mi
fossi provato a chiedere in giro avrei fatto una brutta figura. Ci
vollero anni prima di indurre mia madre ad accennare ai saldi,
per finalmente capire che non avevo capito nulla e sentirmi veramente stupido.
Un gesto che facevo quando mi sentivo stupido era abbassare la testa e guardarmi i piedi, tutti e due ma soprattutto il destro, quello che a dire di mia madre doveva essere più piccolo.
Non che me ne avesse mai dato una spiegazione ragionevole. Una volta d’estate, mentre ero scalzo, si era tolte le ciabatte
e, senza preavviso, mi aveva detto: lo vedi?, tu ed io abbiamo
il piede destro più piccolo del sinistro. Anche tuo padre, te ne
accorgi se glielo guardi, ce l’ha un po’ più piccolo.
Lo feci. In realtà papà aveva il piede destro solo leggermente più stretto del sinistro, che era un po’ più calloso e per questo più largo. Ad ogni modo, sebbene non si capisse perché,
doveva essere proprio così.
Il punto è che il piede destro del cadavere è decisamente più
lungo di quello sinistro. Così la teoria di mia madre va a farsi
benedire. Diciamo che se fosse qui avrebbe certamente una ragione supplementare per convincermi che non c’è stranezza
nel piede del cadavere, che forse si è rimpicciolito solo dopo
la morte o che invece ce lo aveva così per via di un incidente o
una qualche malattia dell’infanzia. Mia madre aveva sempre
un motivo per spiegare le cose. Era il ’93 quando morì.
Durante la veglia funebre, prima che chiudessero la bara,
volli misurare i suoi piedi, che non ero mai stato sicuro del fatto che lei avesse il piede sinistro veramente più grande del destro. Per farlo dovetti toglierle le scarpe. Se ne vennero via
senza alcuna difficoltà. Scoprii che, contrariamente ai miei sospetti, era come diceva lei, che mentre il suo destro era un 36
puro, il sinistro misurava qualcosa più del 37. Ne fui contento.
Piansi a lungo.
Ma qui è il contrario.
Questo cadavere ha i piedi invertiti rispetto alla “norma”.
Sul sinistro però ha una cicatrice da taglio, lunga tre o quattro
centimetri, coi segni dei punti appena visibili, il che farebbe
pensare che se la sia procurata molti anni fa, forse da bambina,
con la conseguenza che sia stato per questo che la crescita di
quel piede si sia rallentata per giungere all’età adulta col piede
sinistro irrecuperabilmente più piccolo dell’altro, contro ogni
legge conosciuta.
Mi scopro all’improvviso a guardarmi i piedi e sbadigliare.
Proprio come facevo da bambino...
9
Le ginocchia della donna sono ossute come le mie ed abbastanza sporgenti da farmi tornare in mente quelle di una mia fidanzata che le aveva puntute, indubbiamente belle.
7
Il ginocchio destro qui è stato operato di menisco, direi, per
via di un taglietto che mi pare in tutto e per tutto uguale a
quello di un mio carissimo amico che non vedo da molti anni,
ma di cui mi ricordo perfettamente. Per tutte le volte che mi ha
chiesto di esaminarglielo e dirgli se mi sembrasse che stesse rimettendosi. Era certo che sarebbe rimasto zoppo per la vita, o
quantomeno che da allora in avanti avrebbe avuto una camminata sbilenca, non potendo poggiare il peso sul ginocchio malato.
Sì, mi sembra lo stesso tipo di ferita.
E allora, perché una bibliotecaria dovrebbe rompersi un menisco?
A guardare bene, la muscolatura della coscia è ben formata
ed anche il polpaccio non è male, alto, come quello dei neri
che dicono che per questo siano più portati per la velocità. Potrebbe essere stata una sportiva o una insegnante di ginnastica
o di ballo liscio. A socchiudere gli occhi me la vedo dinanzi
che descrive i passi da fare alle coppie, che balla un po’ da
donna un po’ da uomo per mostrare la sequenza di un tango
infuocato, con contropassi e sciabolate di testa e sguardi accesi
e casché – che spero si scriva così ma se anche si scrivesse diversamente sarebbe uguale.
La vedo. Danza con un uomo alto e diritto, dagli zigomi forti e le mani sicure e gentili, vestito di scuro, con un modo deciso di tenerla attaccata al petto, alla pancia, al bacino, sensualmente. E lei che si lascia prendere, in un’altalena di respinte e
avvicinamenti, contatti e distacchi.
Il suo uomo doveva essere un ballerino, l’unico uomo della
sua vita, quello che le ha fatto piangere le lacrime più dolci,
quelle più amare, con quegli occhi scurissimi, fra il castano e il
nero, e le labbra rosate, di un tono vivo, una tentazione. Quell’uomo che sapeva darle piacere, che di donne ne aveva mille
e fra le mille ne voleva una sola: Giulia.
10
M’è venuto così.
Un bel nome per una donna.
Giulia.
Chi era?
E perché è morta?
Forse si è uccisa, forse è stata uccisa.
Non posso fare altro che stare qui a guardare il suo corpo
nudo, che a momenti trovo orribile, in altri magnifico, un corpo nudo sotto i miei occhi, che non ha pudore di sé, che non si
nasconde ai miei sensi, che tuttavia è rimasto solo.
Un bel corpo nudo, di una donna intorno ai quaranta, che in
vita doveva essere molto chiacchierata.
Ma... sotto il letto... c’è la mia giacca.
La vedo solo adesso.
Incredibile.
Intanto la nave ha ripreso ad ondeggiare e la vedo male, fra
un po’ si ricomincia a ballare.
Raccolgo la giacca di lino bianco, la indosso rapidamente e
cerco nelle tasche, nella speranza di trovarci qualcosa che mi
tiri fuori da qui. Ma non c’è niente tranne un biglietto degli autobus usato da mesi, una penna ed il librettino di presentazione
di una mostra che ho visto a Cosenza tempo fa.
Era giugno.
Esponeva un certo Bas de Luto, sicuramente uno pseudonimo. Dipingeva personaggi strani dai nomi simpatici e sinistri,
che mi fecero pensare che aveva un mondo complesso da mo-
strare al pubblico e lo esorcizzava mostrando “radiomarellici”,
“lepri cavalcabili” e cose di questo tipo. Ad un certo punto ho
pensato che fosse un grande artista ma che nessuno di noi presenti fosse in grado di intuirne la portata.
Me ne sentii gratificato.
Un quadro si chiamava qualcosa come “prénom
Marramani”. Si trattava di un gatto signorile e antropomorfizzato, con baffetti felini e il papillon. Bei colori, ma tanta tristezza. Un altro, con un titolo assurdo che recitava più o meno
“Radiomarellico guarda la mosca”, rappresentava un tipaccio
dal muso grande che fissava un mosca malfatta che gli volava
praticamente sul naso. Straordinario.
Ho chiesto il librettino, poi me ne sono andato senza neppure degnarne il contenuto di uno sguardo, come credo abbiano
fatto un mucchio di altre persone. È che non siamo più abituati
a leggere altro che cronaca e sport.
In fondo alla galleria un ragazzo dai capelli rossicci e gli occhi intensi, che parevano truccati, seduto sui gradini della scala che portava al soppalco, leggeva con una espressione stupita. Con lo sguardo sospeso sulla parete che ha veramente ripreso ad oscillare, mi rimetto in tasca il librettino.
Abbasso la testa e scorgo sotto al ginocchio destro di Giulia,
sul retro della gamba, un liquido, o, meglio, la macchia prodotta da un qualche liquido che ha bagnato il lenzuolo.
Mi avvicino.
Non si capisce cosa possa essere. Sangue non è di certo, vista l’assenza di colorazione. Potrebbe trattarsi di liquido linfatico ma non mi sembra di aver mai sentito nulla del genere.
Forse è urina... ma in questo caso la macchia dovrebbe estendersi fino alla vagina e così non è. Sudore, sembra sudore, non
fosse che i cadaveri non sudano. O sudano? Certo trasudano
qualcosa... ma da qui a definirlo sudore. Sudano i cadaveri?
Me lo chiedo mentre di colpo le lacrime mi hanno invaso gli
occhi. Mi si annebbia tutto. Sono io quello che singhiozza, il
cui pianto risuona contro le pareti della cabina. Mi ha preso un
irresistibile voglia di piangere, di lamentarmi ad alta voce, di
disperarmi come una prèfica davanti a un morto importante, di
invocare il perdono della Madonna e di cristo-nostro-signore,
di cercare un appiglio per non crollare, da solo, in una nave
deserta, galleggiante su un mare deserto, spalmato su un pianeta deserto, gettato in un universo deserto.
Piango per un paio di minuti. Quando mi passa ho gli occhi
caldissimi e le guance che pizzicano, il respiro debole e le ginocchia che tremano. Non ho un fazzoletto. Mi abbasso a soffiarmi il naso con un lembo del lenzuolo, come da bambino facevo con la tovaglia mentre non guardava nessuno. Non credo
che lei si offenderà per il gesto. Mi è venuto spontaneo. Ora le
volto le spalle. Ho i pugni vicini sulle mie ginocchia. La felpa
mi si è appiccicata sulla pelle per il sudore seguito al pianto.
Mi tolgo la giacca con infinita lentezza, la poggio vicino alla
donna, e finalmente mi sento più vicino a lei. Cerco quindi
nella tasca destra e prendo il librettino di prima. S’intitola
“Ammesso che esista il Venezuela”, proprio come la mostra.
Leggo.
Sembra una lettera.
Certo non è il testo critico che mi aspettavo.
Ma… che succede?
La donna è viva!
Il cuore mi è impazzito di colpo, con un battito fortissimo a
picchiarmi alle tempie.
Si è tirata su. Ne posso sentire il respiro fioco ma pressante,
l’alitare fetido, l’espressione spietata degli occhi, la bocca tumefatta agghindata con un sorriso malvagio. Un dolore al petto mi schiaccia contro il pavimento. Non posso più respirare.
Crollo come un sacco floscio. Con lo sguardo della donna che
mi attraversa la schiena. Incapace di reagire, riesco solo a torcermi per cercare di vedere dietro di me, poi svengo.
11
Quando rinvengo, mi sembra che il cuore batta normalmente. Non ho più l’impressione di avvertire l’orribile zombie alle
spalle. Forse mi ha visto stramazzare sul parquet e senza curarsi di me è andato via. Voglio controllare ma non riesco a muovermi. Sono paralizzato come quando si ha un incubo e non si
riesce a venirne fuori.
Di scatto mi alzo in piedi e mi giro allo stesso tempo, in una
frazione di secondo, e urlo frasi smozzicate e incomprensibili
agitando le braccia e saltellando come un invasato, a braccia
larghe, con gli occhi che mi stanno per uscire dalle orbite ed il
sangue alla testa, finché la vedo, finalmente, sul lettino, immobile come prima, che c’è da giurarci che non si sia mai mossa
da lì, e allora scoppio a ridere come uno scemo, ed a piangere
come uno scemo, e a ridere e piangere contemporaneamente, e
continuo a farlo per una decina di minuti, che non so fermarmi, né lo voglio, ho le mani violacee, come mi si fosse bloccata la circolazione, le guardo e continuo a piangere ed a ridere a
intervalli.
Quando smetto so per certo che se non mi tirano fuori di qui
al più presto darò di testa. Già mi vedo regredire ad uno stadio
infantile, quando ero terrorizzato dal buio e mi chiudevo sotto
le coperte lasciando che solo le narici restassero a contatto con
l’aria, giusto quanto bastava per non soffocare.
Mi alzo e vado alla porta e comincio a martellarla coi pugni.
Devo scardinarla. Devo uscire da qui, a costo di smontarla
pezzo per pezzo.
Ho un’idea.
Corro in bagno e prendo a calci un pezzo di lamierino utilizzato per fissare fra loro due pezzi di fòrmica. Non si stacca
però ed allora lo afferro e comincio a muoverlo ritmicamente:
su, giù, su, giù, su, giù, su, giù, su, giù, su, giù, su, giù, su...
Finalmente il metallo si spezza ed ho in mano qualcosa di
molto vicino a un cacciavite.
Torno alla porta della cabina e comincio a svitare le viti che
tengono fermi i cardini contro la parete. Se riesco a toglierle
tutte aprirò la porta al contrario. L’ho visto fare in un film,
posso farcela anch’io. La prima non si svita, la maledico. La
seconda invece accenna un movimento. Allora spingo con tutto me stesso e giro e... vai!, la vite gira. Con frenesia la svito e
la getto via, quindi passo alla prossima, ed all’altra ancora, e
poi ad un’altra e poi alle ultime due in basso. Poi torno alla
prima e ci metto tutta la forza che mi rimane ma la vite si spana. Vaffanculo. Corro di nuovo in bagno, lancio lo sguardo intorno e afferro lo spazzolone per la pulizia del water. Ha il manico metallico. Lo appoggio per terra dalla parte setolosa e gli
tiro una pedata caricando tutto me stesso sulla scarpa. Il manico di ferro mi resta in mano, come speravo. Chissà se come
piede di porco varrà qualcosa. Ritorno alla porta e provo ad
infilarlo in basso. Siccome ho tolto tutte le viti eccetto l’ultima
in alto, facendo leva dovrei riuscire a smuovere la porta. Pare
funzionare ma non abbastanza. Mi agito come un ossesso,
quindi impreco ad alta voce, di gola, con un tono roco e stonato, e scarico infine la mia rabbia con un “aaaaarrrghhhhh” terribile ma inutile: la porta resta ferma lì.
Mi giro verso il cadavere del quale comincio a sentire leggermente l’odore. Dolciastro. Come di melassa lasciata a fer-
mentare. Mi lascio scivolare sulla porta fino a sedermi sul pavimento, lentamente. Mi è ripresa fame. Per fortuna ho i crackers nell’armadio. Ma li mangerò più tardi, ora sono troppo
stanco.
Le mani della donna sono bianchissime e rilucono mentre le
palpebre mi si chiudono pesanti e mi addormento.
12
Non so quante ore siano passate quando mi sveglio, appoggiato alla porta della cabina, con la faccia azzeccosa e un bruciore leggero alle narici, come se avessi starnutito spesso durante il sonno.
Si ritorna a ballare.
Ieri il vento soffiava fortissimo, oggi così così.
La nave ha però delle oscillazioni sufficienti a procurarmi la
nausea. Devo assolutamente uscire da questo posto maledetto.
Anche perché il tanfo del cadavere sta impregnando l’aria.
Ma è inutile sperarci. Oramai sono quasi rassegnato. Sarà
bene che cerchi di abituarmi all’odore. Voglio annusare la
donna da vicino.
Tiro il fiato dal naso.
Che schifo!
Devo farmi forza, dico ad alta voce e aspiro nuovamente, ma
stavolta con una forma di rispetto. E le cose vanno diversamente. Riesco ad entrare un po’ di più nel suo odore percependone parti non proprio spiacevoli, forse solo inconsuete.
A concentrare l’olfatto su di esse, quasi quasi non si sente
altro che un profumo di fiori troppo forte, quello di un ambiente piccolo che ne contenga troppi e il concentrato di olezzi è
così forte che stordisce. Difficile dire quale sia la distinzione
fra cattivi odori e profumi, difficile.
Basti pensare al fragore sessuale di una donna eccitata. Se
sei eccitato anche tu lo senti in un certo modo preciso, forte ed
acre ma buono, decisamente buono. Se invece stai con la testa
da un’altra parte allora lo trovi cattivo, addirittura disgustoso.
Passi cioè da un profumo inebriante ad un puzzo insopportabile, e ci sono innumerevoli stati intermedi. Difficile pensare che
non dipenda soltanto dalla testa di chi annusa, da quanto questa sia in linea con l’oggetto annusato.
Mi torna alla mente un episodio, durante un viaggio in autostop.
Stavo chiedendo un passaggio sull’autostrada senza che nessuno mi degnasse neanche di un rallentamento. Erano le due
del pomeriggio di una giornata di fine settembre, più o meno
in questo stesso periodo. Ad un certo punto vidi la moto che
rombando rallenta accostandosi al guardrail.
Il pilota, una donna dai lunghi capelli biondi che le fuoriuscivano dal casco, mi parlò con una bella voce senza inflessioni dialettali. Dove vai?, mi chiese.
A Cosenza.
Io mi fermo prima, ma posso lasciarti alla stazione di servizio di Tarsia, lì un passaggio lo trovi facilmente.
Col sole negli occhi, sorrisi e dissi: sì, è una buona idea.
Mi indicò allora un casco che aveva attaccato dietro. Sgancialo, mettitelo in testa e sali, disse.
Indossava una minigonna a quadroni, un camicia attillata e
sopra un giubbettino di pelle chiara. Le gambe le si scoprivano
e ricoprivano di continuo per via del vento. Andavamo a 90
chilometri l’ora, avremmo raggiunto Tarsia in una ventina di
minuti. Ad un certo punto lei tirò la zip del giubbetto verso il
basso e lo aprì sul davanti, credo per il caldo. Così mi ritrovai
9
con le mani a contatto con la camicia che lasciava sentire il
suo ventre liscio.
Ma non fu questo a scatenare gli eventi successivi, bensì l’odore che proveniva da un punto impreciso fra le sue gambe.
Un odore intenso e indefinibile, acre e dolce allo stesso tempo,
amplificato dal caldo e dal sudore.
Inavvertitamente il medio mi si infilò nell’abbottonatura della camicia e finì a contatto diretto con la pelle. Aiutato dalle
vibrazioni, mi scoprii a muovere il dito circolarmente, come
guidato da quella fragranza sconosciuta.
A quei tempi ignoravo il corpo femminile.
Quando lei poggiò la mano sulla mia, credetti di aver fatto
qualcosa di sbagliato, di averle mancato di rispetto, che insomma si fosse arrabbiata e volesse farmi scendere e fui terribilmente imbarazzato, ma lei fece semplicemente una leggera
pressione sulla mia mano, spingendola verso il basso. Pensai
di capire e senza sapere bene cosa stessi facendo a causa della
mia inesperienza, presi a vagare con le dita sul suo ventre infilandole nell’ombelico, sfiorandole le mutandine, mentre andavamo a 110 chilometri l’ora. Dunque, senza poterla vedere, mi
avvicinai a tastoni al punto da cui intuivo che provenisse quell’odore capace di resistere persino all’aria sferzata dalla moto
in velocità. Non riuscivo ad arrivarci.
Mi venne un’idea improvvisa.
Le sollevai la gonna, tirai fuori un coltellino che allora portavo sempre con me e tagliai l’elastico ai due lati delle mutandine in maniera che s’afflosciassero. Quando le tirai via ebbe
un brivido, si sollevò appena per farle sfilare, poi un vento da
130 all’ora le porto con sé.
Senza barriere, adesso, l’odore m’invadeva le narici. Istintivamente, cominciai a carezzarle il pube con le dita ed a scendere fra i peli verso morbidezze che non conoscevo ancora, e
feci tutto quanto mi fosse possibile fare su una moto lanciata a
quasi 150 chilometri l’ora, col motore che rombava fortissimo.
Avevo il pene gonfio, strozzato dolorosamente dai pantaloni
stretti, ma non m’importava.
Era lei tutto il mio interesse, lei e ciò che sentivo con le dita,
ed avrei voluto vederla da vicino ma non era possibile. Col casco appannato dal respiro sostenuto neanche riuscivo più a vedere la strada.
Ero eccitato come mai prima.
A un certo punto sentii il suo sesso stringersi intorno alle
mie dita e la vidi irrigidirsi, come paralizzata, tesa verso l’alto
come una statua.
In quello stato continuò a guidare alla massima velocità permessa dalla moto, con gli occhi chiusi.
Ma non finimmo fuori strada.
Avrei voluto baciarla.
Continuavo ad accarezzarla lentissimamente, mentre la velocità diminuiva.
Finimmo coll’andare a 40 all’ora, con le macchine che ci vedevano e qualcuno che si girava a fare segno. A 40 all’ora,
senza fretta, come sospesi, raggiungemmo Tarsia.
Non ho mai assistito in vita mia ad una tale dispersione di
umori femminili, il sedile ne era praticamente cosparso quando
mi fece scendere, appena prima della stazione di servizio. Mi
tolsi il casco e glielo porsi. Lei alzo la visiera, irradiandomi
con due occhi di un celeste difficile da sostenere. Mi prese le
mani e le baciò. Poi, all’improvviso, si voltò verso la strada,
diede gas e sparì lontano.
13
Le cose vanno male, devo assolutamente cercare di aprire la
porta.
Nei film di solito la gente riesce ad uscire dai posti più assurdi infilandosi nei condotti dell’areazione, che fra l’altro
pare funzionare bene.
Mi guardo intorno.
Niente da fare, la grata è piccolissima, non ci passerebbe un
neonato.
E allora?
Se togliessi il letto al cadavere e lo usassi come un ariete,
forse riuscirei a buttare giù la porta. Mi sembra una buona idea
ma non so se potrò spostare la donna da lì visto che non c’è
riuscita la tempesta.
Il lettino è avvitato sul pavimento con dei bulloni grossi che
dovrebbero svitarsi facilmente. Ma, una volta che l’ho smontato, che ci faccio? In realtà ho bisogno di qualcosa per tirare,
non per spingere, sarebbe meglio una corda robusta: le classiche lenzuola. Ma di nuovo si pone il problema di sloggiare il
cadavere.
Sto imbambolato a pensare. Non posso farlo. Non è giusto.
Un morto ha il diritto di essere lasciato in pace, di riposare sul
giaciglio che si è scelto. Perché qui mi frulla in testa l’idea che
la donna si sia suicidata, ma nulla lo conferma e potrebbe trattarsi invece di un omicidio ben pensato.
Non sarà la fine del mondo se ritardo l’operazione per cercare di raccogliere qualche elemento in maniera che se scoprissi
che è stata uccisa, e solo in questo caso, la sposterei, perché allora un posto o l’altro sarebbe uguale, ammesso che sia possibile farlo, che cioè la donna non sia “saldata” al letto.
Dunque...
Che farebbe l’ispettore Maigret a posto mio?
Per prima cosa esaminerebbe il corpo per vedere se ci sono
segni che lascino supporre una aggressione o uno scontro:
tracce di ferite, abrasioni, lividi...
Maigret farebbe così? Boh, io certamente farò così.
Il corpo della donna è più o meno com’era ieri, solo più
“profumato”.
Lo osservo da vicino.
In particolare mi attira il collo lungo ed esile, come si vede
di solito alle indossatrici filiformi delle sfilate di moda. Il collo
è a posto. Non mostra segni di alcun genere, è addirittura privo
di qualsiasi ruga o di segnali dell’invecchiamento, è... da ragazza, direi la parte più giovanile che ha.
Ok, non è stata strangolata. Scartato un classico della narrativa giallistica di ogni tempo.
Pistole e coltelli li escluderei perché non vedo ferite né tracce di sangue. Oddio, potrebbe essere stata pugnalata alle spalle
ma per verificare dovrei girarla e… non me la sento.
Un altro classico è il veleno, ma questo come faccio a scoprirlo? Forse dovrebbe avere le viscere gonfie o le occhiaie o
che ne so? Mi pare chiaro che studiare cadaveri non fa per me,
forse è meglio che cerchi nelle sue cose.
Mi raddrizzo sulla schiena e mi volto lentamente verso l’armadio. Poi guardo gli oggetti sul pavimento, sarà meglio che li
raccolga per catalogarli prima di aumentare l’entropia del sistema con il contenuto dell’armadio.
Comincio da un angolo: un pettine, uno spazzolino da denti
piuttosto piccolo, un’asciugamano da bidè, vestiti, fogli, qualche libro, delle carte da gioco, una piccola palla azzurra di
gomma elastica, di quelle che rimbalzano a lungo, un cappellino di paglia tutto deformato, un costume da bagno monopez-
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zo, un paio di occhiali da sole con una sola lente e dei pezzi di
vetro (l’altra lente?), frammenti di porcellana (forse un portacenere), un cioccolatino ancora incartato – lo mangerò più tardi –, le chiavi che avevo raccolto nella speranza che aprissero
la cabina, un quadernetto da appunti con delle ricette da cucina
e un anello d’oro.
C’è inciso “Ti amo, tua G.” nell’interno.
È un indizio importante, no?
Poggio gli altri oggetti sulla consolle e mi concentro sull’anello: un cerchio, una fede nuziale. La provo al mio anulare e
da come entra bene ne deduco che chi la possedeva doveva
avere le mani più grandi delle mie, che era dunque un uomo,
ed allora G. doveva essere la nostra amica. G come Giulia. E
come altre decine e decine di nomi, certo. Ma anche come
Giulia. Considerando che di lettere ce ne sono 26 mi pare una
bella coincidenza.
Dunque. Un anello nuziale.
Mi avvicino nuovamente al cadavere, stavolta le prendo la
mano sinistra con la massima delicatezza possibile e la esamino con attenzione. Non c’è quel classico incavo intorno al dito
prodotto da un anello dopo anni che lo si indossa. Non che ne
sia sicuro, ma mi sembrerebbe che questa donna non abbia mai
portato anelli per tempi lunghi.
Tuttavia un anello in una cabina con un cadavere è una cosa
che Sherlock Holmes troverebbe certamente significativa. Forse c’è un’altra ragione che per i miei limiti investigativi non
riesco a cogliere. Forse portava lei stessa quell’anello, troppo
grande per cui non poteva lasciarle alcun segno.
Glielo provo a tutte le dita ma sta troppo largo intorno ad
ognuno. Solo al pollice starebbe bene ma mi sembra poco probabile che lei lo portasse lì. Le lascio la mano che non mi sembra più freddissima come ieri, quasi che anch’io mi fossi raffreddato. Metto l’anello in tasca e procedo con la raccolta degli oggetti.
Sotto al letto c’è una fotografia con una cornicetta d’argento.
Ritrae una ragazzina bionda con gli occhi semichiusi per la
luce troppo forte. Alle spalle ha delle montagne. È vestita di
tanti colori, come andava alla fine degli anni sessanta e come
va di nuovo di moda da un po’ di tempo. Potrebbe dunque trattarsi di una sua coetanea di allora o di una nipote o una figlia
di adesso.
A guardarla bene potrebbe addirittura trattarsi di lei stessa
con i capelli ossigenati. Era molto carina. Sul retro c’è una
scritta sbiadita: 28 settembre 1969.
Come oggi! Esattamente 28 anni fa. Strano.
C’è anche scritta la località ma l’inchiostro è sbavato e non
si capisce nulla.
Però, a guardare bene le montagne, direi che si tratta del
Pollino. Sì, si vede chiaramente la doppia punta della Manfriana, poi lo spuntone imperioso di Serra Dolcedorme e quindi il
lato destro del Pollino. Potremmo essere dalle parti di Castrovillari o Frascineto. Forse la foto è stata scattata durante un
viaggio. Mi chiedo se l’Autostrada del Sole nel 1969 era già
stata costruita.
Non ricordo, allora avevo solo tredici anni e non mi ero mai
mosso per più di un raggio di trenta chilometri da Cosenza.
C’erano amici che avevano girato l’Italia e persino l’Europa e
l’America per cercare lavoro, io no, avevo deciso che da lì non
mi sarei mosso. L’avrei fatto soltanto molto più tardi, alla morte dei miei nonni materni, per incidente stradale. Furono investiti da un camion, all’imbocco di Redipiano, il paesino in cui
vivevano, mentre attraversavano la strada. Sebbene li cono-
scessi veramente poco, mi parevano una coppia di quelle che
rimangono innamorati fino alla fine.
Mi ricordo bene l’atmosfera. Io e i miei fratelli fummo chiamati da mio padre. Sarebbe stato peggio se fosse stato investito solo uno dei due, si limitò a dire guardandoci con quel suo
sguardo appuntito.
Mia madre, con gli occhi stravolti dal pianto, annuiva.
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Bene.
Una foto è già qualcosa. Considerato che ci siamo imbarcati
a La Spezia, il fatto che la ragazza bionda sia legata in qualche
maniera alla Calabria mi sembra un indizio da non sottovalutare.
Una donna corvina e una ragazzina biondissima: bel casino.
E se portasse una parrucca? Mi chino a cercare una improbabile soluzione di continuità fra i capelli ed il cuoio capelluto,
una cesura che non c’è. Anzi i capelli alla radice sembrano ancora più neri.
Provo a toccarli.
Quali sensazioni procurano i capelli di un cadavere?
Allungo le dita, le infilo fra i lunghi fili sottili e neri: sono
morbidissimi, chissà se più o meno di quand’era in vita, chissà.
A pensarci bene, non c’è nulla di strano. È come per le pellicce che conservano la morbidezza anche dopo che si è scuoiato l’animale, anche a distanza di decenni, che sì, è vero che
sono trattate con sostanze chimiche, ma non credo per renderle
più morbide, quanto per consentirne la conservazione.
Meglio riprendere la raccolta.
C’è un rasoio sotto la consolle, uno di quelli con la lama intera, quelli che si usavano una volta. Ne possiedo anch’io un
esemplare bellissimo, col manico di madreperla. Era del mio
trisavolo. Un brigante che pare abbia sgozzato parecchie persone con quell’arnese. Mia nonna mi raccontava che suo nonno, quando andava in paranoia (ma lei usava altre parole), si
vestiva in maniera buffa, per esempio con le scarpe di due diversi colori, e prendeva a girare per il paese, allo scopo di provocare le risate ignare di qualcuno da scannare. Un passatempo che pare non gli abbia mai portato niente perché in paese
tutti lo prendevano terribilmente sul serio. Meno male.
Che direbbe Ercule Poiròt di un rasoio trovato in una cabina
dove c’è una donna nuda e morta, e nella quale si sono precedentemente ritrovate una fotografia misteriosa e un anello nuziale di dimensioni maschili?
A me non viene proprio nulla.
Non capisco e basta.
Devo essere proprio a corto di intelligenza, o forse non ne
ho avuta mai a sufficienza e solo ora che me ne servirebbe tanta ne sento finalmente la mancanza.
Forse sto semplicemente sbagliando l’approccio. Non c’è da
emulare Maigret o Poiròt, quanto piuttosto Callaghan o Rambo, uno che spacca tutto e le ragioni se le trova con la forza.
Ma se l’intelligenza non è il mio forte figuriamoci la potenza
muscolare, quella manca quasi per definizione. Insomma, sono
perduto, sarà il caso che cominci a farmene una ragione.
Poso il rasoio sulla consolle senza degnarlo d’attenzione,
come se rischiassi di banalizzare tutto. Vado invece all’armadio e ne apro la parte bassa per prendere i crackers. Rompo il
cellophane di un pacchetto e comincio a mangiare sedendomi
sul pavimento con le spalle appoggiate all’anta aperta. Dall’al-
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tra parte della stanza c’è una farfalla bianca che svolazza. Una
cavolaia... Vorrei che qualcuno mi spiegasse da dove è arrivata, ma lo vorrei senza troppa forza, che sono stanco di chiedermi le cose che invece vanno come vanno malgrado me, che lo
so che finirò per andarmene anch’io senza averci capito un tubo.
Ad un certo punto poso i crackers rimasti sul pavimento e
vado in bagno. Mi siedo sul water e aspetto.
C’è un momento in cui le feci fuoriescono dall’ano che si
prova un piacere che è difficile definire, soprattutto se si arriva
al cesso che ci sta per scappare o che finalmente ci viene di
farla dopo giorni di attese o prove vane. Io adesso me ne sto
un po’ qui col culo sulla tazza e mi rilasso.
Passando davanti alla consolle, ho portato con me alcuni dei
fogli che ho raccolto sul pavimento, per leggere qualcosa, che
concilia la cacca. Su alcuni ci sono scarabocchi e numeri di telefono senza prefisso e nomi di persone e messaggi, uno mi
colpisce particolarmente: per Sara, ti cercava Spino, ha detto
che stasera resta in obitorio fino a tardi.
Un obitorio, il nostro cadavere ha a che fare con un obitorio,
bella storia, commento a voce alta e ridacchio stupidamente.
Finalmente lo stronzo esce con un leggero soffio flautato e
per un breve istante mi si allieta lo spirito. In un altro foglietto
c’è qualcosa che sembrerebbe un raccontino, battuto a macchina, con un titolo e una scritta “fine” alla fine.
È brevissimo.
Cerco fra le carte per vedere se ce n’è un altro.
Nel frattempo, un secondo, grande stronzo attraversa le pareti del mio sfintere, procurandomi una notevole piacevolezza
autoerotica.
Tonfh.
Un rumore...
Qui o nella cabina?
Lascio cadere i fogli sul pavimento del bagno, mi tiro su i
calzoni senza neanche pulirmi il culo e mi catapulto nella stanza.
Niente.
Sto in silenzio.
Niente.
Aspetto ancora qualche secondo.
Niente.
Speravo che quel rumore volesse dire che qualcuno aveva
bussato alla porta. E invece no.
Deluso, mi viene voglia di sciacquarmi con forza la faccia,
dal mio risveglio non l’ho ancora fatto, e sì che di ore devono
esserne passate parecchie.
Torno in bagno, apro il rubinetto e faccio scorrere l’acqua.
Mi lavo soffiando rumorosamente quando il liquido trasparente mi avvolge il viso. Poi bevo: tanta acqua, più di quanta me
ne serva, perché non si sa mai, piglia che da un momento all’altro venisse a mancare, non devo dimenticare che sto su una
nave abbandonata in mezzo all’oceano.
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Oceano...
L’ho detto come se ne fossi assolutamente certo.
Ho detto proprio oceano.
Mi asciugo e torno a mettermi di fianco al lettino.
È veramente strano che fra tutte le cose che ho pensato finora non mi sia mai passato per la mente che questa donna è nuda. Che i cadaveri siano poco sexy passi, ma che io addirittura
ne ignori completamente la sessualità mi sembra strano. In
fondo la donna se ne sta con gli occhi aperti, pacati, che ad
ignorare il colorito inconsueto potrebbe sembrare viva, intenta
ad ammirare i suoi ricordi proiettati sul soffitto, proprio viva
ed a questo punto anche stimolante.
Come sarà fare l’amore con un cadavere?
Così freddo.
Chissà se il suo sesso è in grado di aprirsi anche adesso, se
mantiene qualche umore di riserva, se è ancora “vivibile”.
Potrei provare.
E se mi ferisco e mi becco una qualche malattia di quelle
che dio-solo-lo-sa?
D’altronde se anche mi ammalo, non cambia poi molto, no?
Tanto qui finisce che crepo uguale. Negli ultimi due giorni ho
mangiato solo due pacchettini di crackers. È anche vero che
non ho per niente fame. Che il metabolismo mi si sia adattato
in previsione di tempi peggiori?
Mi giro verso i crackers, ma non ho fame. L’idea di avere
una qualche forma di rapporto più intimo con la donna mi si è
intrufolata nella testa.
Cerco di allontanarla ma l’immagine si amplifica negli occhi, come se non potesse fare altro, e l’uccello mi si gonfia. È
una immagine vivida da impazzire. Tuttavia è ancora nel regno
delle immagini non razionalizzate, devo impedirle di arrivare
alla coscienza, perché non sia troppo tardi. Ma l’immagine si
schiarisce velocemente e non credo di poter fare altro che obbedirle.
Giulia è bellissima.
Lentamente le prendo la mano che ora ha una colorazione
avorio venata di bluastro. La carezzo delicatamente. Non è
troppo rigida. La liscio e la rilasso, se così si può dire, e la carezzo ancora, e pian piano mi pare che torni in vita. Quindi la
avvicino al mio sesso e glielo faccio accarezzare, allisciandolo
per tutta la lunghezza, giocandoci come si fa tra adolescenti,
mentre la mano va su e giù, e il mio cazzo pulsa e la mano si
ravviva decisamente e mi sembra che Giulia stia attenuando il
proprio pallore e le sue tempie pulsino di un battito appena avvertibile. Forse sto impazzendo, ma qui tutto diventa una pulsazione ben sincronizzata, un ritmo vitale, un battito profondo,
e la sua mano è viva e mi accarezza con perizia portandomi in
alto. È proprio lei che sorride e mi chiede di avvicinarmi di
più, di andarle ancora più vicino. Ti desidero, mi dice con una
voce che è appena un soffio ma chiara e percepibile dalle mie
orecchie.
Sono eccitatissimo. Ho le tempie che mi scottano e lei davanti agli occhi, incantevole corpo offerto al mio desiderio,
nella massima passività possibile, eppure vivo e caldo, malgrado la morte.
Ma quale morte?
Giulia è viva, è qui di fianco a me, che le bacio i seni, le aureole violacee, i capezzoli turgidi, e poi salgo fino alle ascelle,
al collo, alle orecchie.
Ho un attimo di esitazione ma lei mi prega di continuare. Ed
io le sfioro le labbra e sento un brivido di calore lungo la
schiena e la sua mano che non smette di masturbarmi.
Com’è possibile tutto ciò?
Giulia sorride e si alza su di me, mi accarezza il petto e mi
bacia sul collo, poi sul ventre e all’inguine. Quindi prende a
giocare col mio pene eretto all’inverosimile, e lo massaggia
con le labbra e le mani, e non smette mai di accarezzarmi e la
sua lingua umida è un serpente che mi avvolge tutto.
Quindi comincia ad andare su e giù con la bocca piena di
me, con sapienza infinita. E mi sembra di essere nato solo
adesso mentre il ritmo si accende e la fronte mi si corruga e gli
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occhi mi si stringono, come se stessi soffocando, e ancora di
più, mentre le spruzzo lo sperma in bocca e lei inizialmente lo
ingoia, poi lo lascia scorrere lungo il fallo, e quindi riprende a
leccarlo ed a farlo riscorrere, e mentre continua a giocare così
col mio sesso sconvolto mi guarda negli occhi, con due occhi
pieni di vita e mi sorride ancora.
Poi, trattenendo una mano sul mio cazzo, si alza su di me ed
allarga le gambe, lunghe e lisce, e comincia a carezzarsi la
fica, massaggiandola lentamente con l’uccello che è adesso
ammorbidito. E continua a giocare coi due sessi, come farebbe
una quattordicenne ancora innocente e già puttana, con un piacere sottile, intenso che le colora le guance finalmente arrossate.
Vederla così su di me è sconvolgente. Il cazzo s’inturgidisce
nuovamente e lei sorride contenta, pronta ad infilarselo dentro.
Ma non vuole stare su di me, vuole che io la prenda e così mi
ritrovo su di lei, con una voglia insuperabile di sentire ogni
minima parte della sua vagina illiquidita. Entro senza sforzo, e
lentamente cerco di farglielo sentire tutto, e di farlo crescere
ancora se è possibile, per soddisfarla di più, e ondeggio, avanti, indietro, avanti, indietro. E le mani mi vanno dappertutto e
lei mi stringe graffiandomi la schiena, mentre spingo con vigore, ma attento a non farle male, e spingo e spingo. E lei comincia a contorcersi, con la testa buttata all’indietro, mugola, ed
un filo di saliva le bagna la faccia. Allora la bacio intensamente, mentre continuo a chiavarla senza tregua, con affondi lunghi, sincronizzati con i movimenti delle sue anche. Finché lei
mi stringe con le braccia tanto forte da farmi male e dice fammi venire, ti prego, fammi venire, e lo dice con una voce che è
una preghiera.
Non desidero altro, lo giuro, mentre mi concentro sulla sua
fica e premo le mie dita sulla clitoride e con l’altra mano vado
a cercarle il culo per entrarle dappertutto, e lei rabbrividisce e
inarca le reni e finalmente stira il collo e diventa tutta rossa in
viso e viene, trattenendo il fiato, così mi lascio andare alle senzazioni e vengo anch’io, con un’intensità mai provata, singhiozzando, col cuore che scoppia e gli occhi che si strizzano
e le orecchie che non sentono più nulla. Lei ride, con gli occhi
chiusi, come una bambina e si avvolge nel piacere come in un
piumone di seta calda.
Mi commuove vederle sgorgare una lacrima e raccoglierla
con un bacio.
È bellissima, la mia Giulia, bellissima.
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Sono sul bordo del letto, nudo e sto piangendo. Difficile dire
cosa sia successo. Mi guardo intorno, addolorato.
Sono ancora nella cabina, ma lei è tornata fredda e immobile. E forse dovrei essere impaurito o scioccato o non so, ma mi
sento ancora immerso in quella dimensione fantastica che lentamente va dissolvendosi.
Ho sognato, forse? Ma lei, lei sorride, la vedo. E il mio pene
è floscio ma arrossato e umido e scivoloso come dopo aver
fatto l’amore.
Mi alzo in piedi per vedere meglio.
Giulia è nella stessa posizione di prima, tranne che per il
braccio sinistro che adesso sporge dal letto. Cos’è successo?
È stato tutto così vero, e bello, ma non è possibile che abbiamo scopato per davvero, le sue gambe sono accostate e la sua
bocca è chiusa e solo la sua mano ha cambiato posizione e,
come potrebbe muoversi? è morta! è un cadavere! cazzo, un
cadavere…
Certamente mi sono masturbato e la mia immaginazione ha
fatto il resto.
Sono confuso.
Mi porto le mani alla testa e, come sempre mi succede ogni
volta che mi masturbo, il senso di colpa mi invade e mi disgusta ciò che ho fatto e questa volta le cose stanno peggio di
quanto non siano mai state, se è vero che ho usato la mano di
un cadavere come strumento erotico, la mano di qualcuno che
ha potuto soltanto subire il mio raptus, ammesso che un cadavere possa subire qualcosa, e comincia a salirmi alle tempie
quella rabbia verso me stesso che le seghe mi hanno sempre
causato, quella rabbia che il fatto di provarla con la consapevolezza delle cause che la generano mi fa arrabbiare ancora di
più, finché divento una bestia e mi trasformo in un animale, e
vanifico tutto e quel che è accaduto si deforma, assume contorni macabri, insani, stregoneschi, diabolici, che il moralismo
dell’educazione che ho ricevuto mi sta schiacciando per l’ennesima volta e non c’è nulla che regga.
Senza aprire gli occhi per lo schifo che provo in questo momento vado a tentoni per la cabina cercando di imboccare il
bagno e nel fare questo sbatto contro la consolle al muro e
cado rovinando sulla sedia incastrata fra i piedi del mobile facendomi veramente male. Ma non apro gli occhi neanche adesso. Mi pare di avere addosso quelli di tutto il mondo attraverso
la donna che con tutta l’agitazione di prima potrebbe aver girato la testa verso di me e potrebbe adesso rivolgermi uno sguardo accusatorio che davvero non potrei sopportare. Così, strisciando sulle ginocchia, imbocco la porticina del bagno e pian
piano mi sollevo, stando attento a non scivolare, che il pavimento è ancora cosparso di saponi e a non vederli rischio di
rompermi la testa contro qualche spigolo.
Raggiungo il water e vomito il poco che avevo nello stomaco, restando appoggiato con la faccia sulla plastica, senza
neanche guardare.
Dopo qualche minuto il naso mi spinge a riaprire gli occhi.
Il bagno è quello di prima, anche io sono quello di prima, persino gli stronzi che avevo cacato sono quelli di prima.
Mi tiro in piedi lentamente e lentamente mi volto. Apro il
rubinetto. Mi bagno le mani. Poggio il pene sgonfio ma ancora
allungato sul bordo del lavandino e lo lavo con brutalità. Ho
gli occhi talmente opacizzati e mi sento così indifferente che
se la nave s’inabissasse in questo preciso istante non muoverei
un passo.
Anche stavolta esco senza scaricare.
Tirerò lo sciacquone la prossima volta.
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Al rientro in cabina devono essere passate tre o quattro ore.
Le ho passate in bagno, seduto sul bordo della doccia, abbracciato a me stesso, smarrito e senza energie.
Lei è ancora lì e per fortuna a parte il braccio penzolante, mi
sembra che non si sia mossa di un centimetro. Mi avvicino
come farebbe un ladro. Non è ancora passato l’effetto dell’onda d’urto psicologica che mi ha investito. Non so ancora dov’è
finito il mio liquido seminale. E se le fosse finito addosso? Lo
troverebbero quando verranno a tirarci fuori ed allora come
potrò spiegarmi? Se faccio fatica a capirmi da me come potrei
far capire loro che ci sono momenti in cui tutto l’apparato di
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regole che ci siamo costruiti salta ed allora succedono eventi
straordinari che da soli possono segnare la vita di un uomo.
Mentre vado a cercare i resti del mio sperma mi bombarda
gli occhi la luce che si riflette sulla mano della donna, con
quella forma innaturale che ha assunto, il colore incredibile
che la rende così visibile nell’intera topologia del corpo inanimato, come fosse tesa ad accusarmi.
Non posso fare a meno di bloccarmi ed indietreggiare.
Non ne reggo la vista.
Mi giro con le spalle verso di lei e mi metto con la testa verso il basso, cercando di inquadrare il solo pavimento, per schivare la vista dell’arto imbiancato fino all’inverosimile.
E d’improvviso, quando pensi di essere finito in un tunnel
senza uscita, ti viene incontro lo stomaco a ricordarti con la
sua concretezza che il corpo, perlomeno finché è vivo, ha una
serie di bisogni fra cui quello di nutrirsi. Dimentichi così le tue
paturnie e pensi al luogo magico in cui puoi trovare qualcosa
da mettere sotto i denti. Quel luogo è il pavimento vicino all’armadio, dove ho lasciato un pacchetto di crackers a metà.
Mi avvicino ignorando il cadavere, afferro il cibo e mangio.
E dopo aver finito quei crackers ne prendo altri nell’armadio e
poi altri ancora e poi di nuovo senza smettere fino a che la scatola è svuotata.
Resto seduto sul pavimento con una debole voglia di bere
che non ce la fa a farmi rialzare. Allora decido che non mi alzerò per andare a bere ma rotolerò fino a portarmi oltre la porticina del bagno e solo allora, se mi andrà, forse, lo farò.
Ed è esattamente quello che faccio.
Passa qualche minuto.
Ho bevuto troppo.
Mi gira la testa e mi viene da vomitare. Ma devo resistere,
che altrimenti rischio di perdere quello che ho appena mangiato e non ci sarebbe altro da mangiare per un bel po’.
Fortunatamente il mare non da segni di rabbia e così in giro
non si muove foglia. L’idea di aver mangiato tutto il cibo disponibile mi fa ancora una volta rientrare nei corridoi della
realtà. Decido che devo mettere a soqquadro la cabina, se è il
caso, e vedere se trovo qualcosa.
Comincio a cercare nell’armadio e nelle valigie. Prima con
discrezione, poi sempre più frettolosamente, fino a spargere il
contenuto dell’ultima valigia sul pavimento e non trovare nulla
di nulla. Solo vestiti accuratamente ripiegati e minuterie varie.
C’è anche qualche libro, non commestibile purtroppo, e diversi altri fogli e foglietti.
Niente racconti però: numeri telefonici, appunti per libri da
comprare, indirizzi, una poesia che parla di una vecchio contadino. La leggo.
Che posso dire?
È bella.
Parla di mio padre come io non saprei fare neanche nei momenti più ispirati, parla proprio di lui, senza averlo conosciuto
ma con tale esattezza che è come se ce lo avessi qui, adesso,
davanti agli occhi increduli, impegnato a picconare le zolle
dure per frantumarle e preparare la terra alla semina.
Ma chi ha scritto queste cose?
Chi è la donna che giace sul letto?
Fra le pagine di una Odissea in versione economica, c’è
un’altra pagina scritta a macchina con un racconto che parla di
un uomo che sta in una camera che si riduce fino a diventare
una bara.
È inquietante.
Deve averlo strappato e messo da parte come il presentimento della propria morte. A parte questa considerazione non aggiunge nulla alle mie conoscenze. Che altro c’è da scoprire in
queste righe? Perché ho come la sensazione che mi attraversino lasciandomi dentro delle gocce di conoscenza ad un livello
troppo distante da quello conscio perché ne sappia trarre elementi utili a scoprire qualcosa?
Vediamo se trovo qualcos’altro, gli scritti sono le uniche
tracce che riesco a sentire come tali, altro che lividi e abrasioni. Guardo fra le carte ma non ce ne sono più, solo appunti casuali.
Ce n’erano altri sul pavimento, però. Vado alla consolle e ne
trovo un altro.
Parla di un cane abbandonato che ritrova il suo padrone e lo
sgozza.
Come sopra.
Chissà se veramente questi stralci mi saranno utili a capire
qualcosa. Magari Giulia si è ritrovata nel cane abbandonato ed
ha rivisto nel padrone del cane l’uomo dell’anello, che magari
è anch’egli cadavere in qualche altra parte della nave.
Oppure, al contrario, il cane è l’uomo che lei ha abbandonato, così addolorato da ucciderla alla prima occasione. Chissà.
In questi racconti deve esserci la soluzione, la devo cercare, la
devo trovare. Forse devo rileggerli. Forse c’è un ordine da seguire. Ma primo devo essere certo di averli trovati tutti.
Fra le carte – apparentemente ritagliato da una rivista – ce
n’è un altro che parla di un morto che uccide se stesso per uccidere un altro.
Qualcosa in comune i racconti ce l’hanno.
È la morte il filo conduttore di questi raccontini.
Mi volto, vado verso la porta della cabina e giro la maniglia.
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La porta si apre, ma non c’è sorpresa nei miei occhi quando
esco dalla cabina ed attraverso il corridoio per giungere ad un
raccordo con altri due corridoi piuttosto stretti. Ne imbocco
uno. Non ricordo quale sia quello che porta fuori di qui. Tanto
è lo stesso. Le cabine ai lati sono qualcuna aperta, qualche altra chiusa. Non mi interessano. Vado oltre per giungere ad una
scaletta che porta su. Mi affaccio all’aria aperta e trovo lì fuori
centinaia di persone che stanno affacciate dal parapetto ad osservare un punto lontano, ognuno il suo, ognuno più lontano di
quello degli altri, decine e decine di persone, vestite come capita, qualcuno persino nudo.
Il cielo è di un azzurro così azzurro che sembra finto. Il
mare talmente piatto da sembrare olio. Il sole ridotto ad un
puntolino che a guardarlo diventa nero. Mi sento così inadeguato che vorrei rientrare: non è l’aria che stavo cercando.
È giusto mentre muovo i primi passi per raggiungere gli altri
che mi sveglio, non un attimo prima, né uno dopo.
Il cadavere è sempre qui.
Fra le cose che ho fatto cadere dalla valigia quando cercavo
qualcosa da mangiare ci sono alcuni libri di fiabe, dalle copertine riconosco “Biancaneve e i sette nani” e “La bella addormentata nel bosco”. Mi alzo e mi dirigo verso la porta della
cabina. Mi pizzico la guancia, con forza. Dico ahi! per il dolore, e solo allora provo ad aprire la porta. Provo con tutto il rispetto di cui sono capace. E la porta crolla sul pavimento tirandosi dietro le cerniere che avevo svitato.
Mi pizzico di nuovo e mentre una lacrima scende lungo la
guancia stretta fra le dita so che stavolta è tutto vero.
Mi affaccio.
Il corridoio è uguale a quello del sogno. Lo percorro controllando le porte di tutte le cabine, sono perlopiù aperte. Den-
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tro non c’è nessuno, solo cose sparse per il pavimento, dappertutto più o meno le stesse (valigie, vestiti, scarpe, bigiotteria,
bottigliette, riviste). Provo a dire: c’è qualcuno?, ma non incontro voci di altri. Provo a bussare alle porte chiuse ma anche
qui niente.
In fondo al corridoio imbocco lo stesso corridoio che ho imboccato nel sogno, così, senza un motivo particolare. In fondo
salgo la scaletta e giungo di fuori. Non mi aspetto di trovare
nessuno.
Ho ragione.
C’è un po’ di vento e qualche gabbiano che vola intorno alla
nave, grandissima, smisurata, soprattutto in confronto alla dimensioni anguste della cabina. Il mare sembra solo leggermente mosso e da come stiamo fermi direi che i motori sono spenti. Provo a gridare qualcosa ma so che è inutile: ho una nave
tutta per me e non so che farci. Il cielo è parzialmente coperto
di nubi grigie e parzialmente azzurro. Il sole è nascosto. Sembrerebbe pomeriggio inoltrato, le cinque.
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È circa un’ora che girovago per la nave, gustandomi l’ampiezza degli spazi, il mare illimitato, l’aria frizzante di salsedine. Ho anche fatto un giro più approfondito per le cabine, il ristorante, il night, la cabina di guida. Insomma, ho perlustrato
la nave in lungo e il largo, persino la zona motori. Ora so, definitivamente, di essere solo.
Né ci sono altri cadaveri.
Dove ho trovato luci accese le ho spente per conservare l’elettricità rimasta negli accumulatori per quando servirà.
Vagando ho individuato una cabina bellissima sulla destra
della nave, con più stanze e addirittura due bagni, una vera
“presidenziale”. Ho pensato di spostarci il corpo di Giulia, se
ci riesco, ma non adesso. Forse domani, adesso no.
Il tramonto sul mare è una cosa che a starci davanti ti chiedi
dov’eri tutte le altre volte che succedeva, perché non eri lì ad
illuminarti la fronte con quei colori. Osservo le nuvolette periferiche e quelle raggruppate intorno al sole, quelle che stanno
distanti e si colorano di rosa e quelle che s’infuocano vicinissime. Le loro forme... sono incredibili. In una intravedo un orsetto con cui giocavo da bimbo, in un’altra c’è una nave, proprio una nave del tutto e per tutto simile a questa, in quell’altra
c’è una donna che pensa al suo uomo lontano, in una ci sono
io che guardo un tramonto che ti toglie il fiato.
Il mare, a osservarlo da sopra, è inquietante. Tremi al pensiero che potresti caderci dentro e non sapresti più come uscirne. Sebbene sia quasi calmo, le onde che si infrangono contro
la chiglia fanno paura. Adesso poi il colore dell’acqua è scurissimo, richiama l’idea dell’abisso e tutto ciò che comporta.
Prima, nel mio girovagare, sono andato in sala comando per
cercare una radio e qualcosa che permettesse di orientarsi, e
per capire come funzioni questo gigante, metterlo in moto ed
andare in una direzione qualsiasi. Ma la radio non c’è o se c’è
sembra un’altra cosa e lo stesso dicasi per il resto. Ho provato
allora a schiacciare qualche bottone ma ho avuto l’impressione
che il quadro elettrico fosse andato e che per il motore non ci
sia più niente da fare.
Fra poco me ne vado a dormire che sono stanco.
Magari prima passo da Giulia. Perché potrà sembrare assurdo ma malgrado mi trovi padrone di una nave a cui non posso
dare ordini, in mezzo ad un mare che non si vede altro che ac-
qua e vento, sebbene, insomma, abbia tante cose a cui pensare,
non riesco a non pensare a lei.
Perché stava proprio lì?, e perché proprio io sono stato spinto dall’esplosione in quella stanza?, e perché è nuda?
Così non posso fare a meno di leggere e rileggere i racconti
che ha raccolto, nella speranza che mi indichino una strada.
Ho sonno.
Lascio il ponte, vado in cabina. Nella mia.
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Ho dormito proprio bene. Finalmente. Il letto era soffice e
comodo. Ho avuto un sonno tranquillo, senza sogni di alcuna
specie.
Sto a guardare il soffitto bianco con un senso di pace che
non immaginavo.
È bianco. Di un bianco diffuso. E dentro al bianco ci sono
altri colori, e le storie di ognuno di loro, e le nostre pure. Resto a fissarlo per qualche minuto, poi mi alzo. Vado a urinare.
Quindi mi lavo per bene e mi metto il deodorante. Poi mi vesto. Scarpe di tela (un paio nuove, molto belle, che ho preso in
prestito da una cabina abbandonata) ed un completo di lino
bianco sulla camicia a fiori. Quindi un cappello di paglia.
Sono pronto.
Sul ponte mi aspetta una pioggia leggera. Mi stringo nelle
spalle per il freddo che sale dalle acque scroscianti del mare.
Si è ingrossato molto rispetto a ieri, ma la nave non ne risente,
ha solo leggere oscillazioni. Quando c’è stata tempesta dovevano esserci onde altissime e un vento da fine del mondo.
Da fine del mondo, ho detto.
E come si capisce quando il mondo finisce?
Lo si vede.
Come?
Non c’è più nessuno.
Come qui, ora?
Più o meno.
Mi chiedo e mi rispondo con disinvoltura. Mi diverte il gioco delle parti. Mi solletica l’idea di essere il sopravvissuto al
grande finale. Esaltante: Dio ha terminato l’avventura del
mondo ma ha sbagliato qualcosa ed ha lasciato Giulia e me a
bordo di questa nave trasportata dalle correnti verso chissà dove.
Ora il mondo potrebbe rimpicciolirsi e potrei ritrovarmi confinato in un mini-universo.
Intanto, dal mare viene un odore buono di pesce e molluschi
e fiori, che forse la terra non è così lontana.
Sorrido. Il mare è dappertutto ormai.
Fa sempre più freddo.
Rientro e vado verso il ristorante, se non sbaglio c’è un
grande televisore. Se c’è ancora corrente dovrebbe funzionare.
Man mano che mi avvicino aumento la velocità. Fino ad arrivarci quasi correndo.
L’apparecchio sta là, statuario come un totem, in attesa che
qualcuno lo invochi attivandone i chip, chiamando gli elettroni
perché partano dal catodo e vadano a schiantarsi contro i fosfori del monitor, per poi riprendere la folle corsa all’interno
del tubo.
È sul pavimento, però, caduto probabilmente durante la tempesta. Cerco da qualche parte il telecomando. Fra i divani e i
tavoli ammucchiati su un lato, fra bicchieri rotti e cocci e tovaglie ed innumerevoli altri oggetti che testimoniano dell’accaduto. Non c’è. Continuo la ricerca andando al bancone bar, ed
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infilandomi nel retro ma qui gli armadi sono crollati e veramente non si riesce a passare. Torno in sala. Da un lato c’è una
pelliccia rossiccia. È veramente straordinaria, morbida e dal
pelo lunghissimo. Se la memoria non m’inganna dovrebbe trattarsi di una lince. Colei che l’ha lasciata qui, adesso starà mangiandosi le mani. Che poi che diavolo se ne fa una di una pelliccia di lince a fine settembre?
L’indosserò io quando farà veramente freddo.
Il telecomando, quello, non c’è.
Torno al televisore e cerco un bottone, lo trovo e lo schiaccio. L’aggeggio infernale fa “pzzziii” e lo schermo s’illumina,
ma senza mostrare altro che un pizzicore da assenza di segnale. Cerco per vedere dove si possano cambiare i canali ma non
ci sono altri pulsanti, deve essere tutto sul telecomando. Lascio il televisore acceso, come se il fatto stesso che funzioni
mi rassicuri, e vado a cercarne un altro, ne ho visti in alcune
cabine.
Innanzitutto imbocco la porticina della cucina, dove ne ricordo uno da pochi pollici... c’è, rovesciato a testa in giù, con
il cavo dell’alimentazione strappato all’attaccatura con l’apparecchio, inservibile a meno di non ripararlo. Mentre mi volto
per andar via inquadro una radio, piccola, certamente a batterie. Le corro incontro e l’afferro avidamente, quindi l’accendo:
“zzzz xxrzz rxzzz...”.
Provo a sintonizzarla da qualche parte ma cambia soltanto
l’intonazione di brusii e crepitii, nessuna voce, nessuna musica. Provo a cambiare banda ma la modulazione di frequenza è
addirittura muta. La lascio tuttavia accesa e vado verso la sala
comando.
Ci sono vari apparecchi fra cui un televisorino incastrato
nell’apparecchiatura. Per come è fatto sembrerebbe che non
abbia bisogno di telecomando. Tanto meglio. Schiaccio l’interruttore e questo si accende d’immagini e colori e suoni: funziona.
Trasmettono un film in spagnolo, ambientato apparentemente nel seicento. Cambio canale. C’è un documentario sulle centrali elettriche di qualche posto, in una qualche lingua africana.
Cambio ancora e becco un talk show, stavolta in inglese. Quindi una soap opera che la riconosci subito dalle facce e dal ritmo lentissimo. Non dobbiamo essere molto distanti dal mondo
civile se i canali si prendono così bene, penso. Poi intuisco che
potremmo avere un paraboloide per la ricezione via satellite
per cui non ne sono più tanto sicuro.
Finalmente al canale 34 trovo un telegiornale.
È in spagnolo, ma stare attenti si capisce.
La bella speaker parla della situazione drammatica dell’Algeria. Dice che sono morti a decine in un attentato. Poi di lady
Diana che fra poco è passato un mese dalla morte. Quindi di
noi. Siamo importanti.
Dice che le ricerche proseguono con tutti i mezzi messi a disposizione dallo stato italiano, nonché dalla Francia e la Spagna, e che il Mediterraneo è pattugliato in lungo e in largo ma
che della “Novecento” non ci sono tracce. Un oceanografo napoletano ha azzardato che durante la tempesta che ha investito
l’intero Mediterraneo occidentale la corrente potrebbe aver
trascinato la nave attraverso lo stretto di Gibilterra, e che quindi si dovrebbe cercarla anche nell’Atlantico. Ma la cosa è talmente improbabile che l’ipotesi è stata esclusa mentre si fa
forte quella di un affondamento vicino alle coste tunisine.
Poi inquadrano le facce degli unici due viaggiatori solitari
restati sulla nave.
Ehi!, lei si chiamarebbe Geltrude Hoffmann. C’è scritto sotto la foto. Sarebbe tedesca, di Amburgo.
L’altro sono io, in una foto in cui ero venuto particolarmente
bene.
Non hanno detto altro, o non sanno che lei è morta oppure
cercano di coprire la cosa che sarebbe inutile divulgarla adesso. Del resto potrebbero non saperlo, anzi certamente non lo
sanno, oltre a me chi potrebbe saperlo?
Lascio il televisore acceso e scappo giù in cabina.
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Giulia è immobile, con la mano bianchissima che pensola
dal letto e con un accenno di sorriso che prima non c’era sul
volto. Sarà la pelle che si stira o gli zigomi leggermente gonfi,
fatto sta che ora sorride. Ed è bella, nonostante si senta un
odore di marcio aleggiare senza pudore. Avevo deciso di portarla in un’altra cabina ma non posso, temo che se la muovessi
potrebbe rompersi come una bambola di pezza cucita male che
al primo movimento perda la testa. Né è ragionevole pensare
di staccare il lettino dal pavimento per trascinarlo via perché
non passerebbe per la porta.
Vado verso le cucine.
Torno dopo un po’ con una scopa e una paletta e uno straccio e comincio a spazzare per terra ed a raccogliere gli oggetti
di Giulia, i vestiti, i libri, le carte, tutto. Poi, in bagno, immergo lo straccio nell’acqua, lo strizzo per bene e detergo con
cura il parquet.
Quando finisco, la cabina è in perfetto ordine.
Tolgo del tutto la porta, che tanto è inutile, e la getto via,
nella cabina di fronte.
Dove ho visto delle piante?
Forse nel night.
Vado a prenderle.
Trovo una begonia in ottime condizioni, incastrata fra un divano e la pedana del palchetto, un geranio rosso invece sta
dalla parte opposta, sotto un tavolino. Altre piante stanno in
giro per l’ambiente sconquassato dai marosi di tre giorni fa.
Vado e vengo per ore finché non ho portato tutto giù, nella
cabina di Giulia, che sta diventando bellissima, piena di colori.
Sono stanchissimo ma contento.
Per ultima ho una pianta dai fiori bianchi e dal profumo intensissimo, così forte da coprire tutto. La poggio dietro la sua
testa, attentissimo a non sfiorarla.
Mi sono lasciato uno spazio fra il letto e le piante per poterci
stare anch’io e mentre mi congratulo con me per quanto sia
stato in grado di fare le vedo.
Non ero ancora riuscito a vederle perché avevo cercato sul
pavimento e sulle lenzuola, e invece il mio seme era finito lì,
sulle sue gambe, perché quelle macchie rosa chiaro che ha sulle cosce devono essere quelle causate dal mio sperma. Sì, deve
essere così.
Mi avvicino fino a sfiorarle la pelle e la cosa sconcertante è
che, lì dove è stata colpita, la pelle è tornata rosea e setosa e
sembra viva, e mi commuovo. Con gli occhi lucidi la tocco e
mi pare che anche lei sia commossa, che sia un po’ meno fredda del solito.
Prima di tornare all’aria aperta le bacio la fronte.
In sala comando il televisore dice che, nonostante tutto lo
sbandieramento di forze che c’è stato, della nave non si ha
traccia ed invita chiunque sappia qualcosa a mettersi in contatto con polizie e capitanerie di porto.
Hanno indagato sui due viaggiatori dispersi e ne tracciano
un breve profilo – stiamo diventando famosi.
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Giulia – dicono – è una geologa, vedova e madre di tre figli.
Si era sposata appena diciassettenne con un magnate della finanza che le aveva permesso di studiare nelle scuole migliori,
un uomo basso e curvo ma molto ricco, morto d’infarto qualche anno fa. Era in vacanza da sola.
Valerio, agente di commercio calabrese, senza legami sentimentali, si sospetta che avesse debiti di gioco e sia quindi andato in crociera per sfuggire gli usurai, probabilmente con l’intento di restare all’estero da qualche parte.
La nave non la trovano, e sì che una nave è una cosa immensa, però, in compenso, ti scoprono la ragione per cui sei andato
in crociera.
Che vuoi fare?
Dicono che Giulia ha avuto tre figli e l’uomo della sua vita
era piccolo e smunto. Ci sarebbe da giurare che vorrebbero
farci credere che abbia avuto una vita comoda, che non abbia
mai pianto una lacrima, ma… la loro versione non mi convince affatto.
Io dico che l’uomo della sua vita era un altro. Che con lui
aveva intessuto una relazione segreta e pericolosa. L’uomo che
ho visto nelle sue carte. Quell’uomo alto, dalle spalle larghe,
forte e gentile, che quando sorrideva gli brillavano gli occhi
come lucciole nel buio.
Giulia, io lo so, ha avuto solo una figlia femmina, un gioiello di ragazza bionda, ed ha lavorato pure in una biblioteca per
qualche tempo. Non era una geologa, no, lei raccoglieva racconti leggeri e ne scriveva anche di belli. Raccontini che nessuno le ha mai pubblicato, ma che sono certo che lo faranno
quando li troveranno ben raccolti accanto al suo corpo.
Il mondo qui fuori è un cumulo di menzogne, sanno solo dirti chi sei e come vivi e quanti figli hai lasciato per il mondo
senza guardarti dentro, senza intuire chi veramente sei, e tu
non puoi fare altro che essere chi hanno deciso che tu sia.
Dalla sala di comando si apprezza un cielo azzurrissimo,
senza una nuvola, e si vede un mare appena mosso dalle correnti, ed in mezzo c’è uno scoglio tutto solo che... mi pare ci
stia venendo addosso... cioè che noi gli stiamo finendo contro.
Ci manca solo che andiamo a collidere con l’unico pezzo di
pietra presente in questo mare sconfinato. Eppure direi che ci
stiamo dirigendo verso di lui, con una precisione beffarda.
Ma no, non può essere. Le correnti faranno qualcosa e lo
schiveremo. Non è possibile che lo becchiamo. Sarà largo poche decine di metri, troppo poco per urtarlo.
Ma la corrente invece ci spinge proprio verso di lui che s’ingrandisce lentamente, con continuità. Mi sembra più grande di
quanto pensassi, quasi un isolotto. È un concentrato di pietra
lavica, scurissima. Anche il mare si sta schiarendo, segno che
la profondità sta diminuendo. Diavolo, finiremo con lo schiantarci contro le rocce, e magari affonderemo ed allora sarà finito tutto.
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L’isolotto è circondato a sua volta da scogli, anch’essi scuri.
E senza ombra di dubbio stiamo andando lì.
Né saprei come deviare il nostro cammino.
Provo a ruotare il timone ma non si sposta di un millimetro
dalla sua posizione. Schiaccio qualche bottone a caso, preferendo quelli di colore rosso, ma non succede niente.
Oramai è a poche centinaia di metri.
Corro fuori, voglio seguire gli eventi da lì, in prima fila. Se
proprio dobbiamo finire cos’, almeno mi godrò le emozioni
dello schianto.
Il fondale è sempre meno profondo ed il mare sotto di noi è
diventato smeraldino e bellissimo, da mozzare il fiato. Voglio
raggiungere la punta della nave, per vedere da vicino. Discendo un paio di scale, poi risalgo e ridiscendo, e corro finché mi
trovo davanti la parte più avanzata del ponte. Col fiato corto
raggiungo il parapetto e mi metto lì in attesa.
Fra qualche minuto toccheremo terra.
Il tempo trascorre lentissimamente e solo i gabbiani, che ci
portiamo dietro probabilmente dalla partenza, ravvivano con
le loro grida il sottofondo fatto di sciabordio di acque e di vento che soffia.
Man mano che ci avviciniamo penso che in fondo non sarà
male fermarsi lì, con un po’ di fortuna la nave non affonderà e
potrei addirittura divertirmi di più in attesa che giungano questi benedetti soccorritori, potrei calare la scala di corda e fare
anche il bagno in quelle acque trasparenti. Sulla nave c’è di
tutto: ho visto costumi, maschere da sub, pinne, addirittura
delle bombole che però non so usare, e pure un fucile ad aria
compressa: potrei pescare qualcosa per variare la dieta oramai
fatta solo di scatolame.
Ma... il vento... che fa?
Cambia direzione?
Resto un attimo perplesso prima di capire che non urteremo
l’isolotto, ancora lontano, ma lo sfioreremo soltanto. A meno
di non incappare in uno degli scogli satelliti. Ne solo deluso.
Inumidisco un dito con la saliva e lo alzo per sentire la direzione del vento. Se la corrente marina è allineata al vento non
ci sono dubbi, stiamo per deviare verso il sole. Procediamo
così lentamente che forse, se faccio in fretta, potrei riuscire a
trovare il comando che fa calare le ancore. Potrei forzare la
nostra sosta in questo posto. Per un uomo di terra qualsiasi
roccia, per quanto dura e inospitale, è meglio di un mare che
non finisce mai.
Corro alla sala comando.
Dentro, la televisione sta parlando di noi: dice che probabilmente siamo affondati al largo delle coste tunisine e che è lì
che si concentreranno le ricerche.
Mi guardo intorno a cercare la leva delle ancore mentre la
nave è vicinissima all’isolotto, lo stiamo sfiorando come avevo
previsto. È splendido, emerge dall’abisso come un gigante solitario, alto in cima un centinaio di metri per un mezzo chilometro di larghezza, senza che un solo uccello abbia il coraggio
di volarci intorno.
Ma dove sta questa leva?
Mi agito come un invasato finché non la vedo. C’è scritto
“àncore”, la raggiungo e prima di azionarla dò un altro sguardo all’isolotto. Ce lo abbiamo di fianco, a duecento metri. È irreale e bellissimo. Ora so che devo proprio fermarmi qui. Abbasso la leva e si sente un rumore di catene e poi di tonfi nell’acqua, sono le ancore che stanno andando a fondo, a fermare
la nostra deriva.
Il momento preciso in cui raggiungono il fondale è segnato
da un primo rallentamento della nave e quindi da una vera e
propria frenata in corsa che mi fa volare sopra la strumentazione di bordo, a lambire il vetro protettivo con la faccia. La nave
oscilla paurosamente, ributtandomi indietro e facendomi scivolare verso l’altra parte della sala, a rivivere le ore della tempesta.
Ma non dura molto. Solo alcuni minuti. Quindi torna una
quiete leggera. Alla nostra sinistra l’isolotto di pietra bluastra
come i capelli di Giulia, selvaggio e magnifico.
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Siamo in prossimità dell’isola di Sant’Elena. Lo so.
Chissà quando ci troveranno visto che ci cercano da tutt’altra parte.
Rientro nei corridoi. La confusione è aumentata e tremo al
pensiero di cosa troverò nella cabina.
Ma i vasi non si sono rotti ed il pavimento non è pieno di
cocci e terra e steli e fiori. È tutto esattamente com’era. E lei è
ancora lì con gli occhi dolci puntati al soffitto, che mi chiedo
perché ai cadaveri glieli chiudano. Alle volte sono così belli.
Giulia adesso sorride più di prima, sarà l’effetto delle trasformazioni che investono il suo corpo, fatto sta che senza
dubbio sorride e qualche volta mi pare che persino mi guardi.
Anche i foglietti coi raccontini sono rimasti dove li avevo lasciati, sul fianco del lettino, appena bloccati dal gomito.
Quei racconti che parlano di lei.
La televisione dice altre cose, alle quali tuttavia non credo.
So che cercano per l’ennesima volta di stravolgere i fatti per la
propria quiete meschina.
Ma qui sono io l’unico depositario della storia e affermo che
Giulia è quella che ho conosciuto nelle mie investigazioni,
quella che mi è stata svelata dai segni e dalle storie, quella che
lei mi ha raccontato. Soprattutto, dichiaro ufficialmente che
Geltrude Hoffmann non è mai esistita.
Giulia nacque in una valle assolata della Calabria settentrionale, in una casetta dominata dalla vista imponente di Serra
Dolcedorme. Crebbe esile e delicata e, quando fu pronta alla
vita, incontrò un uomo alto e forte che la amò perdutamente.
Quell’uomo così dolce che alla sua morte lei volle imbarcarsi
per raggiungerlo.
Io affermo che Giulia si è tolta di dosso ogni orpello, ogni
segno che la riportasse alla società civile e ha invocato la morte che le è venuta incontro senza farla attendere molto.
E finalmente sorride.
Io dico ciò e nessuno può contraddirmi e d’ora in avanti getterò in mare ogni cosa che possa negare la verità. E quando
sarò abbastanza stanco di regnare sul mio mondo mi spoglierò,
mi stenderò sulle lenzuola più bianche e ne decreterò la fine.
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