9 agosto 2014 - Lega italiana dei diritti dell`uomo

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9 agosto 2014 - Lega italiana dei diritti dell`uomo
Piazza dell'Aracoeli, 12 - 00186 Roma - tel *30 06 6784168
Bollettino del9
del9 AGOSTO 2014
A cura di Manlio Lo Presti
ESERGO
Ma chi brucia un libro per un’ossessione religiosa o ideologica pretende
di applicare un diritto di messa al bando delle idee, più che delle persone
fisiche.
PIERLUIGI
LUIGI BATTISTA, I libri sono pericolosi perciò li bruciano,
Rizzoli, 2014, pag. 30
dialoghiconpietroautier.myblog.it
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LO SCRITTOIO DEL PRESIDENTE
L’ Universalità dei Diritti dell’Uomo come punto d’incontro per un dialogo tra
i popoli.
In questi ultimi giorni si susseguono sui giornali articoli di illustri personalità e giornalisti
che, preoccupati della grave escalation del conflitto in Medio Oriente e, in molti altri Stati
come Iraq, Siria, Libia, Ucraina, Mali, Nigeria, rivolgono un appello agli uomini di buona
volontà, affinché, aldilà di accorati appelli e interessanti analisi, si passi a proposte
concrete che possano determinare l’imbocco di una strada comune su cui far convergere le
parti in conflitto.
In quasi tutti gli interventi si evidenzia un’ insufficienza dell’azione politica internazionale
che si traduce in una sostanziale impotenza della democrazia.
La rottura di equilibri precari, mantenuti in vita solo attraverso regimi dittatoriali, con
interventi militari molto discutibili, determinati da interessi particolari, mascherati da
etichette di “guerre giuste”, in grado di esportare la democrazia in un mondo che chiede il
rispetto delle sue tradizioni culturali, religiose, sociali, umane e politiche, è stato un errore.
La componente laica – liberale, storicamente presente, se pure in minoranza, nei paesi
islamici, ha subito, da questi interventi, un duro colpo nella sua azione culturale e politica
per una democrazia islamica.
Le componenti religiose integraliste – nazionaliste hanno conquistato notevoli strati sociali
e hanno cercato anche attraverso la strumentazione politica del messaggio coranico , di
conquistare con la violenza il potere.
Le minoranze cristiane da sempre rispettate vengono perseguitate e indicate come
strumento nelle mani degli infedeli occidentali.
L’Europa e tutto l’Occidente sembra impotente verso questi conflitti che non hanno più le
caratteristiche tipiche di rivendicazioni territoriali o economiche, ma acquistano sempre
più quelle di conflitti religiosi e identitari .
La costruzione di un compromesso capace di dare soluzione accettabile alle parti in
conflitto, diventa sempre più difficile.
E’ necessario isolare, anzi favorire l’isolamento delle forze reazionarie e integraliste da
parte delle componenti interne del mondo islamico più vicine alla visione politica, liberale
e democratica compatibile con le loro tradizioni, che è certamente la più numerosa.
I Diritti Umani, universalmente riconosciuti, anche attraverso dichiarazioni e convenzioni
internazionali sottoscritte dagli Stati di tutte le aree del mondo, possono essere lo
strumento utile per fare incontrare le componenti che si riconoscono in essi e siano
disposte a tracciare un percorso comune che porti alla pace e alla convivenza umana civile.
La LIDU si adopererà anche attraverso il coinvolgimento della FIDH, di cui è membro,
perché si realizzi un incontro internazionale tra i rappresentanti delle Nazioni Unite, della
Lega Araba e dell’Unione Africana, affinché ogni sforzo sia compiuto per una soluzione
giusta e pacifica dei conflitti in corso e si isolino tutte le forze che con la reazione e la
violenza contrastino con tale obiettivo.
Alfredo Arpaia
Presidente LIDU
9 agosto 2014
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RASSEGNA STAMPA
http://www.wallstreetitalia.com/
Mondiali calcio Qatar 2022:
già al lavoro schiavi a 50
centesimi l'ora
Organizzati e medievali, con ben 8 anni di anticipo, i katarini hanno
messo alla costruzione degli stadi personale sfruttato senza ritegno.
Spese previste, oltre 120 miliardi.
di WSI
Pubblicato il 30 luglio 2014| Ora 11:14
NEW YORK (WSI) - Mancano poco meno di otto anni ma gli scandali dietro la Coppa del Mondo
più discussa della storia sono all'ordine del giorno. Qatar 2022 è semplicemente uno dei più grossi
errori, commessi da un organizzazione sportiva, di tutti i tempi e ora nuovi dettagli sono venuti alla
luce. Il Guardian riporta come i lavoratori migranti, sfruttati come schiavi, per costruire il primo
stadio vengono pagati intorno ai 45 pence all'ora, nonostante il Paese ospitante stia spendendo 136
miliardi di sterline nelle infrastrutture. Sono più di 100 i lavoratori, provenienti da alcuni dei paesi
più poveri al mondo, che stanno lavorando nel calore del deserto per la costruzione di uno stadio da
40.000 posti, l'al-Wakrah, che è stato progettato dall'architetto britannico Zaha Hadid, e dovrebbe
ospitare un quarto di finale. È già scattata una protesta internazionale per la morte di centinaia di
costruttori in incidenti di vario tipo e per suicidi e insufficienza cardiaca. Inoltre la bassa
retribuzione, ritardi nei pagamenti e, spesso, il non venire proprio pagati, sono ormai una
preoccupazione crescente. Le buste paga indicano che in molti stanno lavorando fino a 30 giorni al
mese per un minimo di 4,90 sterline al giorno. Jim Sheridan, deputato laburista, nonché membro
della Commissione Commons che sta indagando sulla Coppa del Mondo ha dichiarato: "Ci sono
salari da fame. Questo non è quello che il calcio, il gioco del popolo, dovrebbe mostrare. Come si
farà a guardare la Coppa del Mondo del 2022 sapendo che le persone che stanno costruendo gli
stadi sono andate incontro a queste condizioni? Il Qatar dovrebbe fermare le costruzioni fino a
quando questi problemi non vengono risolti". Molti dei passaporti dei lavoratori o, forse è il caso
di chiamarli "detenuti", vengono sequestrati dai manager in moto tale che questi non possano
abbandonare il Paese, rendendoli quindi a tutti gli effetti schiavi e violando i propri diritti. Le
aziende per cui lavorano hanno comunque assicurato che gli alloggi dove risiedono sono di alta
qualità. Vivono in tre piani di appartamenti solidi e puliti, con stanza e bagno privato in alcuni casi.
Tre pasti al giorno e salotti dotati di TV a schermo piatto e connessione internet wireless.
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http://temi.repubblica.it/micromegaonline/
Tortura: storia di un
delitto che non c'è
Sia per l’Onu che per l’Europa, la tortura è una violazione
dei diritti dell’uomo. In Italia invece ancora non è
considerata un reato. Per questo in autunno è necessaria
una mobilitazione delle forze politiche democratiche che,
nel nome della dignità, devono far sentire tutta la propria
insofferenza verso questo vulnus giuridico.
di Patrizio Gonnella
Nel 1948 è stata firmata solennemente da tutti gli Stati la Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo L’articolo 5 afferma che: «Nessun individuo potrà essere sottoposto a
tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti». Il termine ricompare
all’articolo 3 delle quattro convenzioni di Ginevra del 1949 sul trattamento dei prigionieri
di guerra, cuore del diritto umanitario post-bellico. Il divieto è assoluto essendo assoluta la
intangibilità della dignità umana.
Assolutezza ribadita dal Patto sui diritti civili e politici del 1966 delle Nazioni Unite il cui
articolo 7 afferma che: «nessuno può essere sottoposto alla tortura, né a punizioni o
trattamenti crudeli o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo
libero consenso, a un esperimento medico e scientifico». Il successivo articolo 10 a sua
volta afferma che: «Tutte le persone private della libertà devono essere trattate
umanamente e con il rispetto dovuto alla dignità inerente all’essere umano».
Nel 1975 sempre in sede Onu viene promulgata la Dichiarazione sulla protezione di tutte le
persone contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti. All’articolo 2 si
afferma perentoriamente che tutti gli atti di tortura costituiscono una offesa alla dignità
umana. All’articolo 7 gli Stati membri dell’Onu sono invitati a prevedere al loro interno il
delitto specifico di tortura. Una Dichiarazione nel diritto internazionale, però, è un atto
privo di effetti vincolanti. Implica per gli Stati solo una doverosità morale.
Nel 1984 viene adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Convenzione
contro la tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti. In questo caso la
Convenzione, essendo un Trattato, vincola chi vi aderisce. E questo Trattato vincola ben
151 Paesi, quasi tutto il globo. L’articolo 1 della Convenzione del 1984 così definisce la
tortura: «Ai fini della presente Convenzione, il termine ‘tortura’ designa qualsiasi atto con
il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche,
segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o
confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata
di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od
esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una
qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un
funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua
istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al
dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da
esse provocate».
La tortura così come definita in sede Onu si compone dei seguenti quattro elementi:
l’inflizione di una acuta sofferenza fisica e/o psichica, la responsabilità diretta di un
funzionario dell’apparato pubblico, la non liceità della sanzione, la intenzionalità. E’ questa
l’unica definizione di tortura universalmente riconosciuta.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dà vita negli anni 1993 e 1994 al Tribunale
penale internazionale per la ex Jugoslavia (TPIJ) e al Tribunale penale internazionale per il
Ruanda (TPIR). Il contributo delle Corti ad hoc è stato comunque significativo per segnare
la universalità della proibizione della tortura e la sua cogenza. La norma che vieta la
tortura è ritenuta disposizione di natura consuetudinaria con radici lontane nel tempo e
diffuse nello spazio. Nel caso Furundzija il TPIJ, proprio partendo dalla considerazione che
la proibizione della tortura fosse norma di iuscogens, è giunto a sostenere una
responsabilità diretta dello Stato nel caso di mancato adeguamento interno agli obblighi
punitivi internazionalmente imposti. Lo Stato risponde della tortura dei suoi ufficiali se
non ha il divieto nella sua legislazione.
Nel 1998 a Roma viene firmato lo Statuto della Corte Penale Internazionale. Vincola gli
Stati che ratificano il relativo Trattato internazionale. Non più quindi una Corte ad hoc
nata per giudicare crimini avvenuti in un dato contesto geografico prima della nascita della
Corte stessa, bensì un tribunale permanente posto a protezione giudiziaria universale dei
diritti umani. Tra i crimini contro l’umanità che la Corte deve perseguire vi è la tortura. Nel
dicembre del 2002 viene elaborato e posto alla firma degli Stati il Protocollo Opzionale alla
Convenzione Onu contro la tortura che prevede un meccanismo universale di controllo dei
luoghi di detenzione.
Anche l’Europa vieta la tortura. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà del 1950 all’articolo 3 afferma perentoriamente che: «nessuno può
essere sottoposto a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti». Il successivo
articolo 15 sancisce che tale norma non trova eccezione neanche in caso di guerra. (Brani
tratti da un mio libro del 2012, La tortura in Italia, ed. Derive Approdi).
In Italia la tortura non è ancora un reato. È inaccettabile, grave, vergognoso. La Camera sta
discutendo un testo pieno di contraddizioni approvato dal Senato. In autunno andremo
sotto il giudizio del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Chissà se per allora ci
sarà uno scatto di reni delle forze politiche democratiche nel nome della dignità.
(28 luglio 2014)
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http://www.lavoce.info/
Se la Garanzia giovani diventa
un servizio civile
29.07.14
Francesco Giubileo, Marco Leonardi e Francesco Pastore
Forse perché la Garanzia giovani si profila come un insuccesso
annunciato, il Governo sembra volerla trasformare in una forma di
servizio civile per giovani disoccupati. Le esperienze internazionali non
sono però incoraggianti. Centri per l’impiego e necessità di servizi
diversi per target diversi.
I RISCHI DELLA GARANZIA GIOVANI
La Garanzia giovani sperimenta notevoli difficoltà, per una ragione molto semplice: se il lavoro non
c’è, non sono certo i soldi dell’iniziativa a crearlo. Al massimo i finanziamenti europei possono
lenire la disoccupazione da mismatch: ovvero quella dovuta al fatto che i giovani non sanno
dove si trovano le occasioni di lavoro oppure non hanno le “giuste” competenze per essere occupati
dalle imprese. In questi casi, i centri per l’impiego indirizzano il giovane oppure gli forniscono un
breve corso di formazione mirata, cosicché troverà prima e meglio un posto di lavoro.
Tuttavia, la disoccupazione da mismatch, benché sia parte importante del totale, non è tutto: oggi si
tende a pensare che la maggior parte della disoccupazione sia dovuta alla bassa domanda delle
imprese e al loro timore dell’incertezza. È per questo che alcuni sostengono che forse sarebbe stato
meglio avere gli stessi soldi della Garanzia giovani sotto forma di riduzione del cuneo fiscale e
contributivo: almeno si aveva una certezza di aumentare la domanda di lavoro. Ma ormai il dado è
tratto, la Garanzia giovani è una politica europea e bisogna sfruttarne al meglio le opportunità.
Tuttavia, poiché non è stata avviata una seria riforma dei centri per l’impiego e delle politiche attive
(in attesa dei decreti attuativi del disegno legge n. 1428/2014), corriamo ora il rischio che la
Garanzia giovani non sia neppure in grado di ridurre la disoccupazione da mismatch. Il programma
è in mano alle Regioni che procederanno con sistemi distinti e privi di un vero coordinamento e
controllo. L’unica nota sicuramente positiva è che è prevista la mobilità regionale, cioè la
possibilità per i giovani residenti in una Regione di riferirsi ai servizi di un’altra.
L’OPZIONE SERVIZIO CIVILE
Forse consapevole del rischio di andare verso un “fallimento”, il Governo sembra voler ricorrere al
servizio civilee ai posti di lavoro sussidiati: lo Stato può finanziare borse di lavoro, favorire
esperienze lavorative nel settore pubblico e, forse, anche nel privato. Se la Garanzia giovani servirà
a questo invece che a potenziare i servizi all’impiego e le politiche attive, è utile sapere alcune cose
tratte dall’esperienza internazionale.
La Garanzia giovani non è il primo programma di questo tipo messo in atto e sulle politiche attive
esiste una letteratura assai vasta. Forse il programma più famoso simile alla Garanzia giovani è il
New Deal for youngpeople realizzato nel Regno Unito durante il Governo Blair. I giovani avevano
quattro possibilità: un lavoro nel settore privato sussidiato; un corso di formazione a tempo pieno;
un lavoro nel servizio civile volontario (spesso nel settore dei servizi alla persona) o nelle
enviroment task forces (per di più lavori manuali). Le ultime due opzioni riguardavano lavori nel
settore pubblico o para-pubblico e hanno ottenuto risultati occupazionali negativi: i giovani hanno
migliorato le loro opportunità di occupazione solo nel primo caso, i posti di lavoro nel settore
privato. (1) Per di più, in indagini apposite sul grado di soddisfazione personale, i giovani hanno
dichiarato di non essere affatto soddisfatti del servizio civile pubblico e di non farlo volentieri.
Anche nei paesi scandinavi, i programmi di creazione diretta di lavoro nel settore pubblico
risultano tutt’altro che efficaci ed efficienti nel collocare le persone nel mercato del lavoro. (2)
Un altro paese di riferimento in questo campo è la Germania, dove gli schemi di creazione diretta
del lavoro, i Job CreationSchemes, sono stati i veri protagonisti negli anni post-riunificazione (il
confronto con Garanzia giovani è quindi da prendersi con le pinze sia per il tempo trascorso sia per
l’eccezionalità dell’evento storico). (3)
Marco Caliendo, SteffenKünn e Ricarda Schmidl nel 2011, attraverso l’analisi di un ricco database,
concludono che gli esiti occupazionali nel medio periodo sono “pessimi”. Non mancano, poi,
fenomeni di spiazzamento per i giovani più istruiti, cosicché in media hanno più chance
occupazionali coloro che non hanno partecipato ai programmi, si presume perché impegnati da più
tempo nella ricerca di un lavoro coerente con le loro competenze. (4)
LA CREAZIONE DI LAVORO ATTRAVERSO IL TARGETING
Se proprio dobbiamo prevedere l’opzione di un servizio civile, sarebbe meglio indirizzarlo verso i
giovani con una disoccupazione di lungo periodo, con bassa istruzione o che abbiano intrapreso
un percorso scolastico in linea o più o meno coerente con le opportunità offerte dal lavoro
sussidiato. In questo caso, i giovani impareranno almeno a comportarsi bene all’interno di
un’organizzazione. Impareranno che ogni struttura complessa ha una propria dimensione gerarchica
e funzionale di divisione del lavoro, tempi prestabiliti ai quali bisogna adeguarsi e così via
discorrendo. Accanto alla positiva formazione ricavata da un’esperienza di lavoro generica, i
giovani avranno la possibilità di allargare il proprio network lavorativo al di là di quello che la loro
famiglia e i loro amici consentono.
Ai giovani più istruiti è necessario assicurare, su tutto il territorio nazionale, la possibilità di
realizzare programmi di mobilità occupazionale (anche attraverso Euros), formazione non
vocazionale (ma orientata esclusivamente all’aggiornamento professionale), servizi per l’impiego e
programmi di auto-impiego e auto-imprenditorialità.
Analogamente a quanto sperimentato in Germania e Svizzera, si dovrebbe pertanto allocare i
giovani in target diversi a cui associare “pacchetti” ben definiti. Molto dipenderà dal processo di
profiling del giovane che sostiene il colloquio per la Garanzia giovani. Ma qui torniamo al punto di
partenza: per dare servizi mirati ai giovani, serve un sistema di centri dell’impiego minimamente
efficiente e un coordinamento sul territorio nazionale. Se non si investe su questo, l’attuazione della
Garanzia giovani in venti modelli regionali diversi sarà tutt’altro che facile da realizzare.
(1) Dorsett, R. (2006): “The new deal for young people: effect on the labor market status of young
men”, Labor Economics, 13, 405–422.
(2) Si veda Kluve J., (2009), “Le politiche attive del lavoro in Europa: una rassegna”, in Cantalupi
M. e Demurtas M. (a cura di), Politiche attive del lavoro, servizi per l’impiego e valutazione, Il
Mulino, Bologna. Da pagina 46 a 49.
(3) Descrizione del programma: opportunità di lavoro in settori di pubblico interesse, ad esempio
infrastrutture e lavoro sociale all’interno del settore pubblico, para-pubblico o privato
sovvenzionato. È prevista una bassa remunerazione paragonabile a una cifra leggermente superiore
al sussidio di disoccupazione e il programma non può durare più di dodici mesi. L’eventuale
formazione è vincolata al tipo di lavoro (in caso contrario non viene rimborsata) e sono previsti
incentivi ai privati per una eventuale successiva stabilizzazione.
(4)Caliendo M., Künn S., Schmidl R. (2011), “Fighting Youth Unemployment: The Effects of
Active Labor Market Policies”, IZA DP No. 6222, December (www.iza.org).
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http://www.opinione.it/
L’ambizioso progetto genetico
di Google
di Elena D’Alessandri
Solo pochi anni fa avremmo pensato si trattasse di fantascienza. Ma nell’Era tecnologica
tutto sembra diventare possibile o quasi. Analizzare il corpo umano sulla base
dell’utilizzo di tecnologie di big data con un processo di accuratezza mai raggiunto
prima è un piano estremamente ambizioso, ma sembra proprio la sfida messa in campo
dal Baseline Study, il progetto promosso dalla divisione X di Google, laboratorio di
ricerca californiano.
L’obiettivo dello studio, ha spiegato al Wall Street Journal il biologo molecolare Andrew
Conrad, a capo del team, vorrebbe esser quello di capire i meccanismi che innescano
nel corpo umano patologie gravi come ictus o tumori, ed individuare quindi dei marker
utili a consentire una prevenzione efficace delle succitate malattie.
La sfida non pecca certamente di modestia. Già in passato erano stati messi in campo
tentativi che andavano in questa direzione, rimasti poi lettera morta per via dei costi
insostenibili. Certo è che l’avanzare della tecnologia negli ultimi anni ha favorito un
significativo ridimensionamento delle spese, anche per quanto riguarda la mappatura
del genoma umano, che forse consentiranno questa volta al team di ricerca di
raggiungere dei risultati soddisfacenti. Partner del progetto promosso da Google sono le
Università di Stanford e di Duke. Attualmente sono stati selezionati un campione di 175
volontari tra uomini e donne pronti a far da “cavia” al temerario esperimento. Ma
naturalmente il numero di “cavie umane” è destinato a crescere in futuro. Il team di
Conrad preleverà ai volontari qualsivoglia fluido corporeo – dal sangue all’urina, dalle
lacrime alla saliva – e procederà all’analisi accurata attraverso analisi e test di ogni
genere. Di ogni soggetto verrà quindi archiviato il genoma, le abitudini di vita, la storia
clinica… ed il primo risultato dovrebbe essere quello di individuare dei “biomarker” che
possano consentire di prevedere una maggiore resistenza o esposizione ad un certo tipo
di patologie.
Un progetto – ovviamente a lungo termine – ma che potrebbe portare ad una vera e
propria rivoluzione planetaria nel campo medico. Non è la prima volta che l’azienda
californiana mostri particolare attenzione a questo tipo di ricerche, anche perché il
cofondatore del colosso di Mountain View, SergeyBrinn, è egli stesso vittima di una
mutazione genetica che potrebbe portarlo al morbo di Parkinson, già manifestatosi in
altri membri della sua famiglia, e pertanto particolarmente sensibile a queste
tematiche.
Le critiche sono giunte numerose, soprattutto da coloro che ritengono sia impossibile
carpire sulla base di dati oggettivi le condizioni che rendono un soggetto in perfetta
salute, senza contemplare la soggettività dei singoli. Altra grande preoccupazione che
l’iniziativa ha suscitato è relativa alla potenziale diffusione dei dati raccolti. È ben noto
che la raccolta e la diffusione di dati in rete sembra esser diventato il business del
presente ed ancor più del futuro. A tal proposito, e per evitare ulteriori polemiche,
Google ha assicurato il più stretto anonimato a coloro che si sottoporranno a questo
accurato scandagliamento. E, a maggiore tutela, ha istituito un meccanismo di controllo
esterno.
È evidente che le preoccupazioni in termini di privacy e dati personali sono e restano
lecite, ma ci si augura che questo non rallenti o addirittura prenda il sopravvento su
uno studio il cui portato potrebbe davvero cambiare le sorti del pianeta, ovvero di
coloro che lo abitano.
La Grande Guerra non è ancora finita
di Stefano Magni
La Prima Guerra mondiale compie 100 anni. Le celebrazioni sono in corso in tutto il
mondo, per ricordare questo anniversario a dir poco epocale. Tuttavia, fra le nuove
generazioni, nessuno ha mai conosciuto un superstite di questa guerra. “Sono tutti
morti!” aveva scritto uno studente su un tema in classe dal titolo “Il candidato riassuma
le vicende della Prima Guerra Mondiale”. La foto era diventata virale su Facebook e
come tante altre notizie virali potrebbe essere benissimo falsa. Ma lo spirito è
autentico. La Prima Guerra Mondiale viene vista, anche dalla generazione precedente,
quella degli attuali genitori, come un fatto del passato remoto, al pari della Rivoluzione
Francese o di Napoleone. Sì, ok, eventi grandiosi, ma ormai sono finiti da un pezzo, così
come sono finiti i loro effetti di breve, medio e lungo periodo. Cambiamo pagina e
andiamo avanti.
E invece la Prima Guerra Mondiale non è assolutamente un evento del “passato”. È un
evento le cui conseguenze sono ben presenti nel giorno d’oggi e nelle crisi peggiori che
dobbiamo affrontare. È difficile, prima di tutto, trascurare le macro-conseguenze
politiche della guerra. Il conflitto scoppiato in Europa cento anni fa pose fine alla prima
globalizzazione e alla prima grande era liberale della storia, nota come Belle Epoque.
Agli ideali liberali, cristiani e di progresso armonico dell’umanità, subentrarono, dopo la
guerra, altri ideali di segno opposto: il socialismo, i nazionalismi, il totalitarismo
comunista e i germi del totalitarismo fascista (che nacque nel 1915, come movimento
interventista e poi divenne rivoluzionario dopo la guerra). I nazionalismi e i totalitarismi
sono ormai ampiamente sconfitti dalla storia, anche se sfigurarono orribilmente (con
oltre 100 milioni di morti nei lager e nei gulag in più di un terzo del mondo) il volto del
Novecento. Il socialismo, invece, resta l’orizzonte culturale dominante in quasi tutto
l’Occidente, a tal punto che viene assorbita inconsapevolmente. Politici che non si sono
mai considerati socialisti propongono un tale interventismo statale nell’economia che,
prima del 1914, sarebbe stato addirittura inconcepibile per le opposizioni
extraparlamentari.
Ma queste sono, appunto, conseguenze politiche di lungo termine che è persino difficile
misurare. Ci sono, invece, conseguenze pratiche, militari, che discendono direttamente
dalla Prima Guerra Mondiale, crisi aperte nel 1914 e mai richiuse. La ex Jugoslavia è la
prima che viene in mente. Soprattutto considerando che il pretesto per scatenare la
guerra fu proprio l’attentato a Sarajevo, attuale capitale della Bosnia Erzegovina, allora
protettorato austro-ungarico. Il nazionalista serbo GavrilloPrincip sparò al principe
ereditario austro-ungarico Francesco Ferdinando, sostanzialmente per un solo motivo:
annettere la Bosnia alla Serbia, scacciando Vienna dai Balcani. La guerra portò allo
scioglimento dell’Impero Austro-Ungarico e all’unificazione di tutti gli slavi del Sud
sotto Belgrado. GavrilloPrincip fu così vendicato, raggiunse post-mortem il suo scopo.
Tuttavia fu un successo solo effimero, perché già nel primo decennio di vita, il nuovo
regno di Jugoslavia si rivelò per quello che era: un’unificazione affrettata di popoli che
non sapevano e non volevano vivere sotto lo stesso tetto. Dopo una prima esplosione di
nazionalismi durante la Seconda Guerra Mondiale, si arrivò alla fatidica (e pressoché
inevitabile) disintegrazione della Jugoslavia nel 1991 e a sette anni di guerre
balcaniche. Tuttora manteniamo truppe in Bosnia e in Kosovo per evitare che la guerra
scoppi di nuovo.
La Jihad islamica venne proclamata il 14 novembre 1914 dallo sceicco ul Islam, allora la
massima autorità religiosa dell’Impero Ottomano, cioè la prima potenza musulmana del
mondo. L’Impero Ottomano non esiste più dal 1918, il califfato (autorità politica su
tutto il mondo islamico) è stato ufficialmente abolito dalla Repubblica Turca nel 1923.
Tuttavia la Jihad proclamata allora contro le potenze occidentali (l’Impero Ottomano
era alleato di Germania e Impero Austro-Ungarico) non venne mai formalmente
revocata. Tuttora costituisce la base religiosa per tutti i gruppi fondamentalisti islamici
che scelgono la via della guerra santa contro l’Occidente. Non solo: il collasso e lo
smembramento dell’Impero Ottomano nel 1918, sono tuttora alla base del revanscismo
islamico. Osama bin Laden prima, il califfo Al Baghdadi ai giorni nostri, cercano di
ricreare quell’unità pan-islamica che era il fondamento del defunto Impero.
Israele nasce, in realtà, già nella Prima Guerra Mondiale, nonostante la proclamazione
della sua indipendenza risalga a 30 anni dopo. Gli ebrei, quando scoppiò il conflitto, si
ritrovarono sparsi fra tutti i Paesi belligeranti, combatterono su tutti i fronti e sotto
tutte le bandiere in guerra. Ma il movimento sionista, già dal 1915, scelse prima di tutto
il sostegno alla Gran Bretagna, la potenza occidentale più permeabile all’idea di una
patria ebraica in Palestina. Il 2 novembre 1917, con la Dichiarazione Balfour, non si
arrivò direttamente a una promessa di Stato ebraico in Palestina, ma almeno alla
nascita di un “focolare nazionale” ebraico, un embrione di Stato. Quando la Palestina fu
strappata ai turchi dall’esercito britannico, divenne il centro del progetto sionista, con
un embrione di esercito locale, la Legione Ebraica, che aveva combattuto nei ranghi
degli inglesi l’ultimo anno di guerra. Israele, come è noto, ottenne l’indipendenza solo
nel 1948, con 30 anni di ritardo rispetto alle aspirazioni sioniste. C’è chi dice, non a
torto (Ben Gurion è fra costoro) che quei 30 anni di ritardo costarono l’Olocausto. Non
solo: costarono la nascita dell’attuale conflitto arabo-israeliano. Durante la Prima
Guerra Mondiale gli inglesi promisero agli ebrei il possesso di tutte le terre comprese fra
il Mediterraneo e l’attuale Giordania. Poi promisero agli arabi un grande regno
autonomo all’interno dell’Impero Britannico, che comprendeva gli attuali Siria e
Giordania. E, per Siria, gli arabi intendevano “grande Siria”: Palestina e Libano inclusi.
Poi non mantennero né l’una né l’altra promessa, perché dovettero cedere Siria e
Libano alla Francia e spartire con l’alleato il Medio Oriente. Cambiarono idea sul
focolare ebraico e frenarono l’immigrazione sionista. Cercarono di placare le
preoccupazioni arabe senza deludere gli ebrei. Alla fine delusero gli uni e gli altri e
posero tutte le premesse per un conflitto che dura tuttora, generazione dopo
generazione, quasi ininterrottamente, dalla prima rivolta araba del 1920 all’attuale
guerra di Gaza.
La guerra in Ucraina, parrà strano, ma è un’altra diretta conseguenza del 1914-18.
Prima di tutto, anche l’attuale governo russo è un diretto discendente del regime
bolscevico. Anzi: della sua ala più dura, quella costituita dalla polizia politica, la Ceka,
poi chiamata Kgb (dopo aver cambiato altri tre nomi nel frattempo) in cui è cresciuto
politicamente Vladimir Putin. Il regime bolscevico e il suo apparato repressivo, sono una
diretta conseguenza della Prima Guerra Mondiale. Senza la destabilizzazione politica
provocata dal conflitto e senza l’invasione tedesca di gran parte delle terre più ricche
dell’Impero Russo, non sarebbe stato possibile alcun colpo di Stato da parte di quello
che era il più piccolo e impopolare partito d’opposizione. La “rivoluzione d’ottobre”
che portò Lenin al potere, grazie alla disintegrazione dell’apparato politico russo e
all’appoggio logistico e finanziario fornito dalla Germania, condiziona tuttora
l’ideologia dominante, l’economia e la memoria collettiva della Russia attuale, persino
la sua estetica. Sarebbe un errore paragonare Putin a uno “zar” con ambizioni
imperiali: lo zar morì per mano dei bolscevichi e fu sepolto, politicamente, dalla Prima
Guerra Mondiale. A quel passato, quello di una Russia pre-bellica culturalmente vivace,
politicamente sempre più pluralista, economicamente in crescita, aperta all’Occidente,
alleata alle democrazie occidentali, non si è mai più tornati. La Russia attuale è semmai
una caricatura, su scala ridotta, della vecchia Unione Sovietica. In piccolo e con metodi
meno sanguinosi, replica le tecniche di espansione di Stalin ai danni dei vicini, non
certo le politiche dello zar che mirava a raggiungere i “mari caldi” (Mediterraneo e
Golfo Persico) per aprirsi ai commerci con l’Occidente.
L’Ucraina è essa stessa un prodotto della Prima Guerra Mondiale. Fino al 1917 non
esisteva neppure una vera identità nazionale ucraina, se non in alcuni circoli politici
rivoluzionari, letterari e intellettuali. La guerra fece nascere violentemente la nuova
nazione. Quando i bolscevichi presero il potere, agli ucraini (e a chiunque godesse di un
po’ di autonomia e autogoverno) non restò che proclamare la secessione. Se non altro
per salvarsi la vita dal nuovo regime. Nel 1918 vennero occupati dai tedeschi. E si
trattava di un’occupazione relativamente salvifica rispetto a quel che erano i
bolscevichi. Dalla fine della guerra, però, si formarono quelle quattro forze
contrapposte che tuttora caratterizzano la lotta politica ucraina. Da un lato, nei
territori che facevano parte dell’ex Impero Austro Ungarico, si formò un forte
movimento indipendentista e nazionalista, capitanato da Simon Petlyura, che mirava
alla piena separazione dalla Russia, anche con l’appoggio della Polonia. Dall’altro, le
regioni dell’Ucraina orientale e la Crimea vennero occupate dai nazionalisti russi delle
Armate Bianche, che negavano l’indipendenza agli ucraini e volevano ripristinare uno
Stato nazionale russo centralista e imperiale. Nelle regioni centrali regnava l’anarchico
Machno, che provò a costruire (nel sangue) la sua utopia collettivista agricola. Infine,
dal Nord, premevano i bolscevichi, che promettevano la rivoluzione proletaria e
l’indipendenza ucraina. Alla fine vinsero questi ultimi: non concessero l’indipendenza
all’Ucraina e si misero da subito a sterminare tutte le opposizioni. L’Ucraina di oggi,
anche a 100 anni di distanza, ricorda quell’esperienza. I partiti di destra, come
PravySektor e Svoboda, si rifanno direttamente all’esperienza di Petlyura e del suo
esercito indipendentista. I volontari russi che combattono nell’Est si considerano, per la
maggior parte, discendenti dell’Armata Rossa dei bolscevichi. Ma l’ideologia eurasista e
neo-imperiale a cui si rifanno nacque in seno alle Armate Bianche, nell’ultima fase della
guerra civile.
Questi sono solo alcune delle ferite aperte dalla Prima Guerra Mondiale e mai richiuse.
Senza conoscere la storia del ’14-18, non è neppure possibile capire cosa stia
succedendo adesso. La Prima Guerra Mondiale, in molte regioni del mondo, non è mai
finita.
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http://www.misna.org/
RILASCIATO DIFENSORE DEI DIRITTI
UMANI
Giustizia e Diritti umani
Gao Zhisheng, l’avvocato cinese dei diritti umani, è stato rilasciato oggi ed ora è con il fratello Gao
Zhiyi, secondo voci non confermate.
Nel mese di luglio, le autorità del carcere di Shaya, dove era detenuto Gao, hanno informato il
fratello che Gao sarebbe stato rilasciato il 7 agosto ma senza fornire ulteriori informazioni. I social
media cinesi informano che Gao è stato rilasciato in tempo ed è stato ricevuto da suo fratello.
Tuttavia, non è chiaro se vi siano delle condizioni per il suo rilascio e se sarà oggetto di ulteriori
restrizioni alla sua libertà. Gao Zhisheng è un noto avvocato cristiano dei diritti umani, meglio
conosciuto per il suo lavoro in difesa aderenti al movimento Falun Gong, ai cristiani e ad altri
gruppi sociali perseguitati. Di conseguenza, il governo ha chiuso il suo studio legale e ha revocato
la sua licenza di avvocato.
Nell’agosto 2006, Gao è stato illegalmente arrestato dalla polizia, e il 22 dicembre 2006, è stato
condannato a tre anni di carcere e un periodo di riformazione di cinque anni, con l’accusa di
“incitamento a sovvertire il potere dello Stato.” Durante il suo periodo di riformazione è stato
vittima di sparizione forzata sei volte e di torture. Nell’aprile 2010, Gao è scomparso di nuovo
mentre visitava i suoi suoceri nello Xinjiang. Il 16 dicembre 2011, l’agenzia di stampa cinese
Xinhua ha riferito che Gao aveva violato i termini della sua libertà vigilata ed era stato rimesso in
carcere per altri tre anni. Nonostante le ripetute richieste di visite da parte di suo fratello, ai parenti
di Gao è stato permesso di vederlo solo due volte in tre anni.
“Accogliamo con favore la notizia che l’avvocato dei diritti Gao Zhisheng è stato rilasciato e riuniti
con il fratello. Gao Zhisheng, a volte chiamato ‘la coscienza della Cina’, ha attraversato anni di
prigionia, tortura e sparizione forzata. Chiediamo al governo cinese di concedere Gao una libertà
piena, senza ulteriori condizioni o restrizioni su di lui o sulla sua famiglia in Cina”, ha detto Mervyn
Thomas, direttore di Christian Solidarity Worldwide ( Csw).
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http://lepersoneeladignita.corriere.it/
“Per Israele, come per Gaza, l’unica
protezione è il rispetto dei diritti umani”
8 AGOSTO 2014 | di Riccardo Noury
YonathanGher è il direttore di Amnesty International Israele. Lascio alle sue parole il post di oggi.
“Io e mio fratello stiamo vivendo il conflitto Israele-Gaza in due modi decisamente diversi. Lui ha
20 anni, sta svolgendo il servizio militare e ha combattuto a Gaza. Io sono il direttore di Amnesty
International Israele, un’organizzazione impegnata a fondo nella ricerca e nelle campagne sui
crimini perpetrati da ambo le parti. Inoltre, sono obiettore di coscienza.
La mia posizione non deve far passare in secondo piano il fatto che sono molto preoccupato per mio
fratello e per le famiglie che si trovano nella stessa situazione. Quando in una famiglia si creano
situazioni così complesse, spesso la risorsa migliore è l’ironia e ogni tanto io e mio fratello
scherziamo. Se – gli dico – il mondo darà retta ad Amnesty International e approverà un embargo
sulle armi, il primo fucile che toglierà dalle mani sarà il suo.
In questa parte di mondo, l’ironia è uno dei modi con cui affrontare situazioni terribilmente
dolorose. Dall’inizio del conflitto sono stati uccisi oltre 1800 palestinesi, 64 soldati israeliani e tre
civili israeliani. Ciascuna di queste vite perse – bambini, neonati, anziani, donne, uomini – a Gaza e
in Israele, è una tragedia.
In Israele, il discorso pubblico cerca di relativizzare: se proprio devi esprimere tristezza per le
persone che muoiono a Gaza, almeno non essere così triste come quando viene ucciso un soldato
israeliano. E non dimenticare di sottolineare le colpe di Hamas. Se esprimi tristezza e basta, allora
c’è qualcosa che non va in te: ti preoccupi più di loro che dei tuoi. Sei un traditore.
Io rifuggo da tutto questo e penso che ogni vita umana sia sacra, senza confronti, senza contesti e
senza giustificazioni. Il discorso sui diritti umani è un buon riparo. Il sistema dei diritti umani è
stato edificato sulla base di codici morali superiori. Noi in Israele dovremmo avere un’affinità
particolare verso i diritti umani, dato che sono stati creati dopo la Seconda guerra mondiale,
traducendo il grido del mondo “Mai più”.
Le nazioni si unirono e decisero che doveva esserci un limite al potere assoluto di uno stato nei
confronti dei suoi cittadini e di quelli degli stati con cui fosse in guerra. È un codice che esiste da
secoli nell’ebraismo: ArvutHadadit, mutua responsabilità verso tutte le persone o, nella traduzione
di Amnesty International, solidarietà. L’idea è che i paesi si occupino reciprocamente di ciò che
accade al loro interno per assicurare che i diritti umani collettivamente accettati siano garantiti a
ogni persona al mondo.
Israele ha sostenuto con coerenza la creazione degli strumenti internazionali sui diritti umani. Ha
avuto, tra l’altro, un ruolo importante nell’istituzione della Convenzione sullo status di rifugiati
degli anni Cinquanta e ha fatto cose buone anche per il Trattato sul commercio delle armi,
approvato dalle Nazioni Unite appena un anno fa.
Eppure, come abbiamo constatato innumerevoli volte, Israele applica uno standard al resto del
mondo e un altro a sé stesso. Azioni che costituiscono evidenti violazioni dei diritti umani quando a
commetterle è un altro paese, sono definite “politiche” quando accadono qui. Se critichi quelle
azioni sei accusato di “ignorare il contesto” o, la frase preferita in Israele, “sei antisemita”.
Alle 2.30 del mattino ha suonato la sirena. Ho smesso di scrivere, ho tirato fuori mio figlio di
cinque anni dal letto e sono sceso, con lui in braccio, lungo le scale, verso la nostra “zona sicura”.
Dopo un po’, un forte boato, la speranza che l’Iron Drome avesse intercettato il missile: un missile
lanciato per ucciderci.
Di mattina, mio figlio gioca alla scuola dell’infanzia, sente parlare dei nostri soldati che ci
proteggono. È orgoglioso di suo zio, il soldato coraggioso. I bambini fanno disegni che poi vengono
spediti alle unità da combattimento e attaccati ai carri armati e all’artiglieria.
Una sera, durante un altro allarme, mi ha chiesto se anche a Gaza ci sono le sirene. Ho risposto che i
bambini di Gaza non hanno le sirene e neanche l’Iron Drome. “E allora chi protegge i bambini lì?”
– ha domandato.
A me pare che l’unica protezione per i bambini di Gaza, per mio figlio e per tutti i civili dall’una e
dall’altra parte del conflitto, sia il rispetto dei diritti umani. Io spero davvero che tante persone nel
mondo parteciperanno alla nostra azione per chiedere a tutte le parti di cessare di colpire i civili e
sollecitare i loro governi a coinvolgere la Corte penale internazionale e a imporre un embargo verso
le armi, per farci stare tutti al sicuro”.
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http://italian.cri.cn/
Cina: pubblicato il Rapporto sullo sviluppo della
causa dei diritti umani
2014-08-06 14:32:18 cri
Il 6 agosto è stato ufficialmente pubblicato il Rapporto sullo sviluppo della causa cinese dei
diritti umani 2014 (il libro blu sui diritti umani), compilato dall'Associazione cinese di
ricerche sui diritti umani. Il testo fa perno sull'analisi dei recenti progressi della causa
cinese dei diritti umani nel 2013.
Il libro blu comprende un rapporto generale, dei rapporti speciali e di indagine, delle
ricerche su esempi concreti e un'appendice. Il testo analizza in modo sistematico il
contenuto dei diritti umani legato al "sogno cinese", illustra l'importante significato della
terza sessione plenaria del 18mo Comitato centrale per la promozione dello sviluppo della
causa nazionale dei diritti umani, e riassume le caratteristiche generali dei progressi della
causa dei diritti umani della Cina nel 2013.
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http://www.lanazione.it/
A Pisa un master per Film maker sui diritti
umani
Si svolgerà tra Pisa e Buenos Aires
Pisa, 5 agosto 2014 - In un’epoca caratterizzata dal potere delle immagini,
come può un cineasta o un autore audiovisivo contribuire alla conoscenza, alla
promozione, alla difesa dei diritti umani? All’Università di Pisa è nato il master
per “Film maker sui diritti umani”, un corso di 300 ore che si svolgerà tra
Pisa e Buenos Aires che mira a formare persone consapevoli dell’uso dei
linguaggi e delle tecnologie audiovisive in grado di raccontare storie di questo
ambito. Affiancando alle lezioni storiche, filosofiche e cinematografiche specifici
seminari e incontri con registi, il master offrirà agli studenti l'opportunità di
confrontarsi non solo con studiosi ma anche con autori e protagonisti in campo
cinematografico e audiovisivo rispetto alla trattazione dei diritti umani.
Ma perché proprio l’Argentina? L’idea del corso è nata in occasione della
visita a Pisa di EstelaCarlotto, presidente dell’associazione Abuelas de
Plaza de Mayo, che a fine novembre ha tenuto una lezione agli studenti
dell’Università di Pisa. Le “Abuelas” sono una delle organizzazioni fondatrici
dell’IMD, l’Instituto Multimedia DerHumALC (DerechosHumanos en America
Latina y el Caribe), che ha promosso l’istituzione del master e che contribuirà
alla didattica nella seconda parte di lezioni che si svolgeranno in Argentina.
“L’IMD nasce dalla quasi ventennale esperienza del Festival Internacional de
Cine de DerechosHumanos di Buenos Aires, festival fondatore della rete
internazionale dei festival cinematografici dei diritti umani – spiega Hugo
Estrella, docente del corso di laurea in Scienze per la pace dell’Università di
Pisa e coordinatore del master - L'Instituto farà anche da porta d'accesso ad
altre realtà quali l’ArchivoNacional de la Memoria, il cui fondo archivistico
multimediale è gestito proprio dall'IMD”.
Il master, diretto dalla professoressa Sandra Lischi, si rivolge innanzitutto a
laureati in triennali e magistrali che siano interessati a un particolare percorso
storico-teorico e tecnico-realizzativo nel campo dell’audiovisivo a tematica
sociale, in particolare a coloro che, con una preparazione storica, giuridica o
filosofica, vogliano sperimentare una declinazione “audiovisiva” e realizzativa
della propria formazione, e a chi, avendo già una preparazione cinematografica
e audiovisiva, voglia acquisire strumenti critici e metodologici di approccio alle
tematiche dei diritti civili e sociali. “Un’attività audiovisiva – aggiunge Estrella che può andare, a seconda delle aspirazioni e dei contesti, dallo spot alla
pubblicità-progresso al lungometraggio al documentario alla videoinstallazione
fino a specifici prodotti per la rete, alla proposta di prodotti televisivi, a lavori
indipendenti, ad allestimenti museali “multimediali”. Le iscrizioni sono aperte
fino a metà settembre e maggiori informazioni sono disponibili sul portale dei
master http://filmmakerdu.hosting.unipi.it/.
Tra i docenti del corso, molti professori dell’Università di Pisa, professionisti del
settore e testimonial d’eccezione, come Vera Vigevani Jarach, protagonista nei
mesi scorsi della web serie del Corriere TV “Il rumore della memoria” di Marco
Bechis, in cui ha raccontato la sua “doppia tragedia” di ebrea italiana sfuggita
alla Shoah e di madre di una ragazza “desaparecida” durante la dittatura
argentina.
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http://www.affaritaliani.it/
Esecuzioni e diritti umani violati. Scandalo
dell'esercito nigeriano
Immagini filmate, fotografie e testimonianze terribili
raccolte da Amnesty International durante una recente
missione nello stato di Borno costituiscono nuove
prove dei crimini di guerra – tra cui esecuzioni
extragiudiziali e altre gravi violazioni dei diritti umani –
commesse dall’esercito durante i combattimenti sempre
più violenti in corso nel nord-est della Nigeria contro
BokoHaram e altri gruppi armati
Martedì, 5 agosto 2014 - 13:28:00
Immagini filmate, fotografie e testimonianze terribili raccolte da Amnesty International
durante una recente missione nello stato di Borno costituiscono nuove prove dei crimini di
guerra – tra cui esecuzioni extragiudiziali e altre gravi violazioni dei diritti umani –
commesse dall’esercito durante i combattimenti sempre più violenti in corso nel nord-est
della Nigeria contro BokoHaram e altri gruppi armati.
Le prove raccolte da Amnesty International comprendono immagini di detenuti sgozzati
uno a uno e poi gettati in fosse comuni da uomini che paiono appartenere all’esercito
nigeriano e alla Task force civile congiunta (Cjtf), una milizia armata dallo stato. Le prove
raccontano inoltre le conseguenze di un attacco di BokoHaram in un villaggio, durante il
quale furono uccise circa 100 persone e furono distrutte o gravemente danneggiate case e
altre strutture.
“Le prove che abbiamo raccolto costituiscono un’ulteriore conferma degli agghiaccianti
crimini cui si lasciano andare tutte le parti in conflitto. I nigeriani meritano di meglio. Cosa
si può dire quando dei soldati commettono azioni che lasciano senza parole e le registrano
in un filmato?” – ha dichiarato SalilShetty, segretario generale di Amnesty International.
“Queste non sono le immagini che ci aspettiamo da un governo che pretende di avere un
ruolo guida in Africa. Queste prove terribili sono rafforzate dalle numerose testimonianze
che abbiamo raccolto, che lasciano intendere che l’esercito e la Cjtf compiano
regolarmente esecuzioni extragiudiziali.
Dall’inizio dell’anno, oltre 4000 persone sono state uccise nel corso del conflitto tra
l’esercito nigeriano e BokoHaram, tra cui oltre 600 vittime di esecuzioni extragiudiziali
seguite all’attacco alla base militare di Giwa, a Maiduguri, il 14 marzo.
Negli ultimi mesi, il conflitto si è intensificato, estendendosi a città e villaggi della Nigeria
nordorientale che ora si trovano sulla linea del fronte. A giugno, Damboa (stato di Borno) è
diventata la prima città a finire sotto il controllo di BokoHaram da quando il presidente
Jonathan Goodluck, nel maggio 2013, ha dichiarato lo stato d’emergenza.
La mano dura dell’esercito ha prodotto drammatiche conseguenze anche nello stato di
Kaduna. A luglio, 12 appartenenti a una setta a maggioranza sciita diretta dallo sceicco
ElZakzaky sono stati uccisi dopo essere stati arrestati per aver preso a una protesta
pacifica, nella quale erano stati già uccisi 21 manifestanti, tra cui due bambini, quando
l’esercito ha aperto il fuoco sulla folla.
Amnesty International chiede alle autorità nigeriane di assicurare che l’esercito cessi di
violare il diritto internazionale dei diritti umani e il diritto internazionale umanitario. Tutte le
denunce di esecuzioni extragiudiziali e di altri crimini di guerra e gravi violazioni dei diritti
umani devono essere indagate immediatamente, in modo approfondito, indipendente e
imparziale e i responsabili, lungo tutta la catena di comando, devono essere portati di
fronte alla giustizia.
“BokoHaram e altri gruppi armati sono responsabili di un notevole numero di crimini atroci,
come il rapimento delle studentesse di Chibok oltre tre mesi fa. Ma si presume che il ruolo
dell’esercito sia quello di proteggere la popolazione, non di commettere ulteriori abusi. Lo
stato d’emergenza non deve generare uno stato di assenza della legge. Purtroppo le
stesse comunità sono terrorizzate sia da BokoHaram che dall’esercito nigeriano” – ha
concluso Shetty.
Orrende esecuzioni extragiudiziali
Le immagini ottenute da Amnesty International comprendono un terribile episodio
accaduto nei pressi di Maiduguri, la capitale dello stato di Borno, il 14 marzo 2014. Mostra
uomini che paiono appartenere all’esercito e alla Cjtf tagliare la gola con un coltello a una
serie di detenuti, prima di gettarli in una fossa.
Il video mostra 16 giovani seduti allineati l’uno affianco all’altro. Vengono chiamati, uno per
uno, fatti inginocchiare e di fronte alla fossa. Cinque vengono sgozzati. Le immagini non
mostrano cosa sia accaduto agli altri, ma secondo testimonianze oculari, altri nove hanno
subito la stessa sorte e gli ultimi rimasti sono stati fucilati.
Ulteriori immagini girate prima delle esecuzioni mostrano alcuni dei responsabili e due
detenuti che scavano una fossa sotto la minaccia delle armi. A uno di loro viene ordinato
di sdraiarsi, mani e piedi bloccati da uomini che sembrano membri della Cjtf. Colui che
appare il comandante mette il suo piede destro sull’uomo a terra, prende il coltello, lo
bacia e urla “Die hard Commando” per poi tagliare la gola all’uomo. Gli altri intorno urlano
“Si, capo, uccidilo!”
Amnesty International ha parlato con numerose fonti militari che, in modo indipendente
l’una dall’altra, hanno confermato che gli uomini armati ripresi nel video facevano parte
dell’esercito; secondo due fonti credibili, avrebbero potuto appartenere al Battaglione 81,
di stanza nello stato di Borno.
Nel video non compaiono edifici, strade o altre infrastrutture ma il rumore di sottofondo
indica che la scena si svolge nei pressi di una strada. Diversi uomini armati indossano
uniformi militari. Su una compare la scritta “Borno State Operation Flush” mentre su un
fucile è chiaramente leggibile la matricola 81BN/SP/407. Secondo fonti militari, quel fucile
appartiene all’unità d’appoggio del Battaglione 81.
Ulteriori testimoni hanno confermato ad Amnesty International che il video è stato girato il
14 marzo 2014, il giorno in cui BokoHaram ha attaccato la base militare di Giwa, al cui
interno opera un centro di detenzione. BokoHaram ha liberato i suoi uomini e ha detto agli
altri detenuti di aggiungersi alle sue fila o tornarsene a casa. Dopo che BokoHaram ha
lasciato la città, oltre 600 persone – per lo più evase e nuovamente catturate – sono state
vittime di esecuzioni extragiudiziali in vari luoghi intorno a Maiduguri.
I detenuti ripresi nel video erano stati riarrestati dalla Cjtf a Giddari Polo, nei pressi della
base militare di Giwa. Altre fonti hanno confermato che altri evasi sono stati consegnati ai
militari e fucilati. I militari hanno preso i detenuti morti e altri ancora vivi e li hanno portati in
una località all’esterno di Maiduguri, nei pressi di Giddari, dove sono avvenute le
esecuzioni riprese dalla videocamera.
Sempre nel marzo 2014, sulla sola base delle testimonianze ricevute e ancora in assenza
d’immagini, Amnesty International aveva già denunciato l’episodio alle autorità nigeriane,
chiedendo un’indagine indipendente. Il procuratore generale federale e il ministro della
Giustizia avevano risposto dichiarando che il governo aveva istituito una commissione
d’inchiesta, sui cui lavori o sulle cui conclusioni non vi è più stata alcuna informazione. Il
capo di stato maggiore della Difesa e il ministro degli Affari esteri hanno negato qualsiasi
coinvolgimento dell’esercito.
Rastrellamenti militari a Bama
Altre immagini ottenute da Amnesty International hanno rivelato gravi violazioni commesse
a Bama, 70 chilometri a sud-est di Maiduguri.
Quella di Bama è una delle comunità che è stata al centro della violenza degli ultimi due
anni: colpita dai raid armati di BokoHaram e, almeno due volte, presa di mira dall’esercito
nigeriano che ha eseguito arresti in massa di persone sospettare di simpatizzare per il
gruppo armato.
Gli abitanti hanno riferito ad Amnesty International di un’operazione di “filtro” avvenuta il 23
luglio 2013, quando decine di uomini dell’esercito e della Cjtf si sono presentati alle 11 di
mattina al mercato centrale obbligando tutti gli uomini adulti a radunarsi in un unico punto
e a denudarsi.
Secondo i testimoni oculari, gli uomini sono stati messi in fila ed è stato ordinato loro di
chiudere gli occhi. Un uomo seduto in un veicolo ha iniziato a fare cenni a destra e a
sinistra: 200 uomini a destra innocenti, 35 uomini a sinistra sospettati di essere membri di
BokoHaram.
Le immagini filmate ottenute e le testimonianze raccolte da Amnesty International
raccontano cos’è avvenuto dopo. I militari e i miliziani della Cjtf hanno ordinato ai 35
uomini a sinistra di sdraiarsi e poi li hanno picchiati con bastoni e machete. Uno dei militari
urlava: “Li dovete picchiate fino a farli morire questi, sono di BokoHaram”. Tra colpi di
fucile in aria per celebrare l’evento, i 35 uomini sono stati fatti salire su un furgone e portati
alla base militare di Bama.
Alcuni giorni dopo, il pomeriggio del 29 luglio, i soldati hanno prelevato i 35 prigionieri e li
hanno riportati alla loro comunità. Una volta giunti sul posto, li hanno fucilati e gettati in
una fossa. Un abitante ha riferito di aver udito colpi di fucile dalle 14 fino a sera, quando
l’ultimo prigioniero è stato ucciso e i corpi sono stati abbandonati in varie parti della città.
Un parente di una delle vittime ha raccontato ad Amnesty International: “Sapevamo che
erano stati uccisi, ci siamo messi a cercarli ovunque. Abbiamo trovato il nostro parente
vicino al ponte di Bama, insieme ad altri quatto corpi. Lui aveva un foro di proiettile al
petto, indossava solo i pantaloni. Lo abbiamo sepolto senza certificato di morte, l’ospedale
di Bama non funziona e non c’è un posto dove presentare una denuncia. I movimenti in
città sono limitati”.
Un attacco mortale di BokoHaram
Come molte altre comunità della Nigeria nordorientale, quella di Bama vive sotto la
costante minaccia degli attacchi di BokoHaram. In alcuni casi, si ritiene che questi attacchi
siano condotti in rappresaglia per il presunto appoggio della popolazione all’esercito. La
maggior parte di queste azioni incontra ben poca resistenza da parte delle forze armate.
L’attacco più mortale nei confronti della comunità di Bama è avvenuto la mattina del 19
febbraio 2014, con almeno 100 morti e oltre 200 feriti, quando gli uomini di BokoHaram
con granate e ordigni improvvisati hanno distrutto ampie parti della città.
“Hanno potuto agire per un giorno intero, uccidendo, incendiando e distruggendo” – ha
dichiarato un sopravvissuto ad Amnesty International.
Le immagini riprese dopo l’attacco mostrano ciò che resta di numerose automobili ed
edifici, compreso l’ultimo piano del palazzo dell’emiro locale. Testimoni oculari hanno
riferito ad Amnesty International che scuole e uffici amministrativi sono stati incendiati e
oltre 100 automobili sono state distrutte.
Nel corso del 2014, Amnesty International lancerà un rapporto sugli abusi e le violazioni
del diritto internazionale umanitario ad opera di BokoHaram e dell’esercito nigeriano nel
nord-est del paese, sempre più affetto da una ingente crisi umanitaria.
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http://www.online-news.it/
lunedì, agosto 4th, 2014
Cinquanta leaders africani da
Obama, al via maxi summit
Senza democrazia e rispetto dei diritti umani non ci può essere vero sviluppo. Parte con questo
appello dell’amministrazione americana il maxi vertice Usa-Africa ospitato alla Casa Bianca da
Barack Obama. Un summit dedicato soprattutto ai temi della cooperazione economica e degli
investimenti, ma la cui agenda rischia di essere stravolta dall’emergenza Ebola e da quella legata
all’offensiva del terrorismo islamico. Sono ben 50 i leader africani giunti in una Washington super
blindata e in stato di massima allerta anche sul fronte sanitario, con controlli a tappeto sui membri
di tutte le delegazioni partecipanti, capi di Stato e di governo compresi. Con gli agenti del Secret
Service istruiti da esperti medici e pronti ad affrontare qualunque emergenza. E se molte
associazioni per la difesa dei diritti civili avevano criticato la Casa Bianca per aver invitato al
summit anche alcuni leader africani molto discussi sul fonte del rispetto dei diritti umani (non sono
comunque stati invitati Sudan, Eritrea, Repubblica Centrafricana e Zimbabwe) l’amministrazione
Obama ha voluto subito mettere le cose in chiaro con i due interventi inaugurali del
vicepresidneteJoeBiden e del segretario di stato John Kerry. Interventi che si sono trasformati in un
preciso richiamo ai leader presenti. «Non c’è democrazia senza una cittadinanza informata e una
società civile attiva», ha affermato Biden. Mentre il capo della diplomazia Usa ha citato più volte lo
scomparso leader sudafricano Nelson Mandela per sottolineare come «una società civile forte e il
rispetto per la democrazia, per lo stato di diritto e per diritti dell’uomo devono essere dei valori
universali». Di qui l’invito a centrare ovunque in Africa un’obiettivo di cui si è tanto palato:
limitare a massimo due i mandati dei capi di Stato e di governo. Un obiettivo che trova favorevole
la maggioranza della popolazione africana e che aiuterebbe a limitare la corruzione e le derive
autocratiche. «Le Costituzioni non possono essere modificate dai leader a vantaggio dei loro
interessi personali o politici», ha ammonito Kerry. In platea, ad ascoltare, i dirigenti di regimi
discussi come quelli di Congo, Guinea Equatoriale, Ruanda, Uganda, Angola e Camerun. L’appello
di Kerry è stato anche quello di rispettare la libertà di stampa e di porre fine all’imprigionamento di
giornalisti perseguiti come terroristi o per ragioni arbitrarie solo per aver svolto il loro dovere di
informazione. Le discussioni ora entreranno nel vivo e affronteranno tutto lo spettro di opportunità
per rafforzare i legami economici e commerciali tra Stati Uniti e Paesi africani. Non è un mistero
che l’obiettivo dell’amministrazione americana è quello di contrastare l’avanzata in Africa degli
interessi della Cina. Anche se per molti osservatori la mossa di Obama nell’organizzare questo
summit senza precedenti è di fatto tardiva e arriva fuori tempo massimo.
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