La maglia numero 14

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La maglia numero 14
Rudi Ghedini | http://rudi.splinder.com
La maglia numero 14
Troppo vicine le umiliazioni dell’Inter, perché avessi voglia di
guardare proprio l’Alavés che ci aveva sbattuto fuori, finalista di
Coppa Uefa. Il 16 maggio 2001, quattro giorni dopo il derby più
catastrofico, ho preferito uscire di casa e non pensare al calcio.
Che, poi, non è neanche vero: ho puntato il videoregistratore,
con la curiosità di rivedere la partita, anche sapendo il risultato,
se ci fossero stati un po’ di gol.
Al Westfalenstadion di Dortmund, fra Liverpool e Deportivo
Alavés il pronostico era scontato. Nella bacheca degli inglesi si
affollavano diciotto scudetti e quattro Coppe dei Campioni, i
Reds tornavano a giocarsi una vittoria europea sedici anni dopo
l’Heysel, e avevano appena conquistato la FA Cup (doppietta di
Owen contro l’Arsenal). I baschi non avevano mai vinto niente,
nel 1995 stavano ancora in Serie C, e sei mesi prima gli
allibratori inglesi avevano quotato 40/1 la loro vittoria della
Coppa. Tutti pensavano che avessero esaurito le scorte di
miracoli, per arrivare fin lì.
Dovendo suscitare l’interesse del pubblico italiano, i servizi prepartita si erano focalizzati su due volti: Michael Owen e Jordi
Cruyff. Contrasto quanto mai stridente. L’attaccante inglese,
Wonderboy appena ventunenne, era nel pieno della stagione
magica che l’avrebbe portato a raccogliere un tris di Coppe e il
Pallone d’Oro. Il centrocampista olandese, invece, non era mai
riuscito a scrollarsi di dosso i trionfi del padre Johann, però
giocava con la stessa maglia numero 14 su cui, timidamente,
stava scritto solo “Jordi”. Dopo varie peregrinazioni (aveva
indossato anche la maglia blaugrana del Barcellona e quella
rossa dello United), “il figlio di Cruyff” era finito nei Paesi
Baschi, dove aveva imparato un concetto fondamentale: “Il
popolo basco usa lo sport per dare un’immagine della forza e
dell’unità della sua terra”. Né le squadre di Bilbao né quelle di
San Sebastian ce l’avevano fatta, l’Alavés e l’intera cittadina di
Vitoria speravano di riportare nei Paesi Baschi la prima Coppa
europea.
Fra le altre cose, all’Inter non avevano capito neanche questo,
negli Ottavi di finale giocati a febbraio: quanto fossero diverse,
superiori, irrimediabilmente più solide le motivazioni dell’Alavés
rispetto a quelle nerazzurre. Lo si era intuito all’andata, in quel
piccolo stadio dal nome superbamente basco - Mendizorroza dove l’Inter aveva dominato fino al 70’, salvo farsi rimontare
dall’1-3 (doppietta di Recoba e gol di Vieri) al 3-3. La
qualificazione sembrava facile, a San Siro poteva bastare lo 0-0.
Ma quell’Inter respirava paura, ancora sotto shock per
l’Helsingborgs, la cacciata di Lippi, gli esperimenti di Tardelli, e
giocò malissimo fino a consegnarsi a due gol in contropiede, al
75’ (Cruyff, con deviazione decisiva di Cirillo) e all’83’ (Tomic).
Sullo 0-2, partita interrotta per cinque-sei minuti, in seguito al
lancio di oggetti in campo, l’arbitro fischiò la fine in anticipo, e
la venuta dell’Alavés provocò la squalifica di San Siro.
Il rumeno Cosmin Contra e Javi Moreno avevano lasciato una
così buona impressione agli osservatori del Milan, che li
rivedemmo in rossonero l’anno dopo, affidati alle cure
dell’Imperatore Terim. Per l’Alavés, un grande affare... Ma
questa è un’altra storia, una delle tante che ho conosciuto solo
dopo la finale di Dortmund. Un’altra è che la Presidenza
dell’Alavés aveva proposto un premio di 120 milioni di Lire a
testa in caso di vittoria e di 60 milioni per la sconfitta:
sfacciatamente, la squadra aveva chiesto 240 milioni per la
vittoria, e nemmeno un soldo in caso di sconfitta. Per Karmona,
Geli, Begona, Tellez, Astudillo, eccetera, la voglia di vincere
appoggiava sul timore che fosse un momento irripetibile.
Rientrato a casa, ho acceso la tivù, cercato il televideo e
scoperto che la partita non era ancora finita. Forse stavano
giocando i tempi supplementari. La curiosità mi ha spinto a non
aspettare la fine della registrazione, per vedere il finale di
partita. Ho capito subito di aver compiuto un errore: la tivù
mostrava volti stremati, una gioia sfrenata, e tutto il pubblico
sbandierava i propri colori. Ho riavvolto il nastro dall’inizio.
Le maglie rosse del Liverpool sono le solite, un magnifico rosso
scuro. Dell’Alavés, invece, il telecronista dice che giocherà con
una maglia blu stampata per l’occasione, su cui sono scritti i
nomi dei dodicimila soci del Club; un gesto di riconoscenza nel
giorno più importante della loro storia. Alla lettura delle
formazioni, si rinnova lo stupore per come hanno fatto ad
arrivare in finale.
Dopo nemmeno tre minuti è già 1-0 per il Liverpool (Babbel); al
quarto d’ora raddoppia Gerrard, lanciato in velocità da Owen, e
sembra non ci sia partita. In effetti, non è una partita
“normale”. Le squadre si affrontano a sciabolate, in difesa è
sempre uno-contro-uno, l’istinto prevale sul ragionamento.
Dopo venti minuti, l’allenatore basco, José Manuel Esnal, detto
“Mané”, sostituisce un difensore, Eggen, con un attaccante,
Ivan Alonso, che trova il gol alla prima azione, su cross di
Contra; poco dopo, Javi Moreno quasi pareggia, ma
Westerveld, portiere olandese, rimedia in corner, ed eccolo, di
nuovo, deviare una staffilata di Tomic. Dieci occasioni da gol in
mezz’ora... Il Liverpool sembra alle corde, ma ecco Owen
velocissimo, imprendibile, abbattuto in area, e McAllister dal
dischetto può ristabilire le distanze: 3-1. Il massimo sforzo dei
baschi non è servito a niente. Se avessi visto la partita in
diretta, avrei pensato che finiva così.
Avanzo velocemente il nastro sull’inizio del secondo tempo.
Bastano due minuti a Javi Moreno per zittire i cori musicali della
curva inglese: prima un colpo di testa sull’ennesimo cross di
Contra, poi una punizione che passa sotto la barriera. Sul 3-3,
l’allenatore del Liverpool, Gérard Houllier, decide di inserire un
altro attaccante, Robby Fowler (quello che indossava le
magliette contro la Thatcher in solidarietà ai minatori), mentre
Mané non esita a togliere proprio Javi Moreno (mi chiedo chi
altri l’avrebbe fatto). Ha ragione Houllier: è Fowler a segnare il
gol di un 4-3 che sembra già epico. Ma per la quarta volta
l’Alavés riesce a recuperare il risultato, ed è proprio Jordi a
farlo, quasi all’ultimo respiro. Non credo abbia mai segnato un
gol così importante; il padre è in tribuna, la telecamera lo
cerca, mentre il telecronista ironizza sui suoi by-pass.
Se ci fosse un Destino minimamente romantico, sarebbe il gol
decisivo: segnato alla quarta rimonta, da un ragazzo non più
giovane, condannato a vivere di luce riflessa, eppure testimone
della stessa maglia numero 14.
Nel breve intervallo che precede i tempi supplementari, non uso
più “l’avanti veloce”: anche l’attesa è intrisa di emotività. Agli
inglesi sembra essere rimasta qualche goccia di energia; i
baschi barcollano, ma non cadono. Viene facile pensare al
pugile suonato che non ne vuole sapere, di lasciarsi scivolare al
tappeto. Sulle folate del Liverpool, prima Magno e poi Karmona
si sacrificano con interventi plateali, che meritano il cartellino
rosso. Dieci contro undici. Nove contro undici. La squadra basca
non ce la fa più ad uscire dall’assedio, respinge palloni, stringe i
denti per arrivare ai rigori.
A cento secondi dalla meta, si produce il dramma: una
punizione di McAllister, spiovuta nel mucchio, viene deviata
nella propria rete da Geli, di testa. Evento raro ai limiti
dell’unicità: un golden gol su autorete, un autogolden gol, il
massimo che si possa immaginare, quanto a crudeltà della
sfortuna. Con il gol, la partita finisce; questa novità del
regolamento verrà ribattezzata sudden death (morte
istantanea). Rivedo le immagini da cui ero partito, i volti
stremati e la gioia sfrenata, sul campo. Solo festa sulle tribune.
Partita assurda. Notte irrazionale e agghiacciante, densa di
emozioni al punto che non si capisce dove comincino le qualità
di una squadra, e dove i difetti; un delirio tattico, sovraccarico
di errori e di coraggio; la finale meno tattica a cui abbia mai
assistito. Come i bambini: chi arriva prima a 5, vince.
Sui giornali del giorno dopo, ho letto che le due tifoserie si
erano mescolate nelle strade di Dortmund, prima e dopo la
partita. Gli spagnoli erano arrivati a Dortmund con cinquemila
razioni di salsiccia e altrettante di paella. Birra e paella, sotto la
pioggia battente. I ventimila tifosi del Liverpool e i quindicimila
al seguito dell’Alavés avevano cantato, insieme, When you walk
through the storm, hold your head up high (Quando cammini
attraverso il temporale, tieni la tua testa bene alta), le prime
parole dell’inno dei Reds, You’ll never walk alone.
Sconfitto e destinato a ripiegare nelle serie minori, il Deportivo
Alavés è uscito dal Westfalenstadion con lo stesso orgoglio con
cui era entrato. Alla consegna della Coppa, più d’uno del
Liverpool indossava una maglia blu. Immagino che anche quella
con il numero 14 sia finita nella città dei Beatles.
Rudi Ghedini
Linea Bianca, 2/2004