bibliotheca phoenix - Carla Rossi Academy
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- 52 BIBLIOTHECA PHOENIX Roberta Rognoni Vista, malavista, veggenza e profezia nella Divina Commedia Inf. I, II, III, VIII, IX, X, XX [CRA-INITS Research Project 2006] BIBLIOTHECA PHOENIX by CARLA ROSSI ACADEMY PRESS www.cra.phoenixfound.it C.R.A. - INITS MMVIII © Copyright by Carla Rossi Academy Press Carla Rossi Academy – International Institute of Italian Studies Monsummano Terme – Pistoia Tuscany - Italy www.cra.phoenixfound.it All Rights Reserved Printed in Italy MMVIII ISBN 978-88-6065-038-0 «Esemplare fuori commercio per il deposito legale agli effetti della legge 15 aprile 2004, n. 106» The utilization of texts, section of texts or pictures is protected by the copyright law. You can use the publications of this web site only for private study. Please read these notes carefully before consulting the present web site. In case you do not agree with the actual use conventions, please leave the web site immediately. Roberta Rognoni Vista, malavista, veggenza e profezia nella Divina Commedia (Inf. I, II, III, VIII, IX, X, XX) Secondo l’etimologia profeta è «chi predice o prevede avvenimenti, ispirato da Dio» o, ancora, «chi antivede e annunzia il futuro per ispirazione celeste»1. La definizione si presta bene alla figura di Dante, che concepisce la Divina Commedia come una vera e propria opera profetica: la visione del pellegrino che attraversa i tre regni oltremondani, fino alla beatitudine celeste, squarcia il velo delle coscienze umane, indicando all’uomo, nel senso più universale, il cammino da compiere anzitutto nella dimensione storica e, di conseguenza, in quella ultraterrena. Il vocabolo [profeta] indica ‘colui che annuncia’ sotto la diretta ispirazione divina, quindi che parla ‘in vece’ di Dio. Da questo valore originario – presente anche nelle Scritture – il termine passò, con falsa etimologia, a quello vulgato di ‘colui che parla in * Questo lavoro nasce per ispirazione del Annual Graduate Seminar on Dante Hermeneutics (2006), organizzato dalla Carla Rossi Academy, a Monsummano Terme (PT). 1 Le citazioni sono rispettivamente tratte da: M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana (= DELI), Bologna 1985, 4/O-R, p. 984 e C. Battisti, G. Alessio, Dizionario etimologico italiano (= DEI), Firenze 1975, p. 3095. ROBERTA ROGNONI 8 anticipo’, che ‘annuncia il futuro’ che “prevede” ma sempre in virtù di un potere eccezionale2. Gli scenari profetici disegnati da Dante nella Commedia, che siano l’amaro preannunzio dell’esilio senza dimora — tragico post eventum di una realtà che il poeta provava ogni giorno sulla sua pelle — come le feroci invettive esplose contro la corruzione che ha intaccato, come un male, la Chiesa, senza risparmiare neppure il suo sommo pastore, sono sempre giustificate da un potere straordinario in quanto divino; ciò ci fa comprendere che è la somma autorità, quella di Dio, che dà sempre la parola al poeta-profeta. Dante tiene a chiarire la questione fin dall’inizio dell’opera, dedicandovi un intero canto, il secondo, che, come è noto, in considerazione dell’impianto architettonico del poema, fittamente tessuto di simmetrie interne, va considerato il primo vero capitolo della cantica Infernale, mentre Inf. I svolge la funzione di proemio dell’intera Commedia3. All’inizio di Inf. II, il Dante personaggio ci appare smarrito, come privato di quello slancio e di quell’ardore che aveva mostrato, nella posa e nelle parole, alla fine del canto precedente, rivolgendosi a Virgilio: E io a lui: “Poeta, io ti richeggio per quello Dio che tu non conoscesti, acciò ch’io fugga questo male e peggio, 2 V. Truijen, “Profeta”, in Enciclopedia Dantesca (= ED), Roma 1973, vol. IV p. 694. Si veda anche la definizione che lo Scartazzini dà del profeta: «Quegli che antivede e annunzia il futuro per ispirazione celeste», G. A. Scartazzini, “Profeta”, in Enciclopedia dantesca. Dizionario critico e ragionato di quanto concerne la vita e le opere di Dante Alighieri, Milano 1899, vol. II p. 1575. 3 La natura proemiale di Inf. II è rivelata anche dalla presenza dell’invocazione alle Muse e all’ingegno (vv. 1-9), in perfetto parallelismo con Purg. I (invocazione alle Muse, vv. 1-12) e Par. I (invocazione ad Apollo vv. 136). Nello sviluppo del poema cresce lo spazio che Dante dedica al proemio, per sottolineare lo sforzo dell’ingegno poetico nel rendere la materia sempre più alta. VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 9 che tu mi meni là dove or dicesti, sì ch’io veggia la porta di san Pietro e color cui tu fai cotanto mesti”. Inf. I, 130-35 E qual è quei che disvuol ciò che volle e per novi pensier cangia proposta, sì che dal cominciar tutto si tolle, tal mi fec’io in quella oscura costa4, Inf. II, 37-40 Lo stato d’animo del pellegrino è mutato: dopo l’abbandono spontaneo a Virgilio, per la paura delle tre fiere incontrate nella selva, Dante sembra ora aver recuperato la parte razionale di sé, che lo porta a dubitare del viaggio proposto dal poeta latino, che gli ha indicato un itinerario in parte terrificante: e trarrotti di qui per luogo etterno, ov’udirai le disperate strida, vedrai li antichi spiriti dolenti, che la seconda morte ciascun grida; e vederai color che son contenti nel foco, perchè speran di venire quando che sia alle beate genti. Inf. I, 114-20 La sua mente razionale si scandalizza di fronte a un viaggio che si preannuncia spaventoso, ma anche e soprattutto perché 4 Per la citazione delle opere dantesche, qui e altrove: D. Alighieri, Le opere. Testo critico della Società Dantesca Italiana, a cura di M. Barbi, E. G. Parodi, F. Pellegrini, E. Pistelli, P. Rajna, E. Rostagno, G. Vandelli, Firenze 1921. ROBERTA ROGNONI 10 assediata dal dubbio, più che legittimo, circa la liceità dell’impresa posta dinnanzi: Ma io perchè venirvi? o chi ’l concede? io non Enea, io non Paolo sono: me degno a ciò nè io nè altri crede. Per che, se del venire io m’abbandono, temo che la venuta non sia folle5. Inf. II, 31-35 Oltrepassare i limiti fissati da Dio è un peccato della cui gravità Dante è ben consapevole, così come sa bene quanto l’uomo, per sua natura, corra il rischio di commetterlo6. Gli exempla di Enea e di san Paolo, che, vivi, compirono prima di lui un viaggio oltremondano, sono schiaccianti per un uomo che non ha il compito di fondare Roma, la città eterna dell’impero e del papato, né è «lo Vas d’elezione» che Dio ha rapito al terzo cielo7. La domanda che stringe la coscienza dell’uomo Dante è, dunque, la stessa che il Dante poeta sa di dover chiarire al lettore della Commedia. Decisivo diventa il lungo discorso di Virgilio, che rivela l’intervento delle tre donne benedette — Beatrice, santa Lucia e la Madonna — nel soccorrere il pellegrino in difficoltà. Il racconto del poeta latino presuppone un precedente incontro tra lui e la gentilissima, scesa nel Limbo per affidargli il compito di guida: quel dialogo prende vita dalla memoria di Virgilio, fino a diventare una specie di 5 Per l’intero discorso di Dante, si vedano i vv. 10-42. Non a caso tornerà a trattare il tema, dedicando ampio spazio al «folle volo» di Ulisse e compagni (Inf. XXVI). 7 L’immagine, riferita a san Paolo, si trova negli Atti degli Apostoli (IX, 15). Nella II Lettera ai Corinzi, 12, 2-4, l’apostolo racconta il suo “ratto celeste”: «Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa — non so se col corpo o se fuori del corpo, lo sa Dio — fu rapito al terzo cielo. E so che quest’uomo — non so se col corpo o senza corpo, lo sa Dio — fu rapito in paradiso e udì parole ineffabili che non è possibile ad un uomo proferire». 6 VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 11 episodio rappresentato in flashback, in cui Beatrice, creatura vivissima, spiega di essere stata sollecitata ad aiutare Dante da S. Lucia, a sua volta invocata dalla Madonna8: [Lucia] Disse: Beatrice, loda di Dio vera, chè non soccorri quei che t’amò tanto, ch’uscì per te de la volgare schiera? non odi tu la pieta del suo pianto? non vedi tu la morte che ’l combatte su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? Inf. II, 103-108 Maria-Lucia-Beatrice sono le tre donne che salvano Dante. Siamo soltanto all’inizio del poema, eppure vediamo già ritornare per la seconda volta il numero 3, simbolo della Trinità, caro al poeta anche perché racchiude in sé il segreto del 9, il numero di Beatrice9. Nel canto proemiale sono le tre fiere — lonza, leone e lupa —, ipostasi del peccato e della colpa, a mettere in difficoltà il poeta, finché non verrà soccorso da Virgilio. Il motivo torna ora nel canto II, in cui Virgilio viene investito del compito di accorrere in aiuto di Dante, in seguito all’intervento di un’altra triade, stavolta di segno opposto: non più simbolo del male, bensì di carità e verità. 8 Dante stesso, in Inf. I, 85, così apostrofa Virgilio: «Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore». Su Dante e Virgilio: E. Fumagalli, Dante e Virgilio, in AA.VV., Il pensiero filosofico e teologico di Dante Alighieri, a cura di A. Ghisalberti, Milano 2001, pp. 79-92; D. Consoli, “Virgilio Marone Publio”, in ED, op. cit., 1976, vol. V pp. 1030-44. 9 «Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice […] sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono.»: Vita Nuova, cap. II, 1-2. 12 ROBERTA ROGNONI La descrizione del peccato che avvolge Dante nella selva è resa con l’accumulo di tre figure, presentate in una climax ascendente, per rendere un concetto che al lettore deve essere ben chiaro: la pienezza del male che avvolge l’animo del pellegrino. Il male, però, in base al pensiero cristiano, non è concepibile come un assoluto, giacché l’origine è una sola, il Dio-bene, che lascia la sua impronta indelebile in tutte le creature, dalla litosfera alla teriosfera, fino all’essere umano10. La santa triade del canto II, contrapposta alla terna malvagia delle tre bestie, con al centro sempre la figura di Virgilio, sembra dirci proprio questo: che in fondo il male non è altro che una perversione della stessa visione di bene e che anche dentro il male può apparire il bene. Dante poeta sceglie accuratamente le tre donne. Beatrice è colei che viene celebrata nella Vita Nuova come simbolo di un amore spirituale e fisico, così intenso da far soffrire il poeta nell’animo e nel corpo. La bellezza di Beatrice viva stimola i sensi di Dante, ma la morte dell’amata segna il tradimento di questo mondo fatto di gioia sensibile e terrena, spazzata via dalla distruzione del corpo. Disperato per quella 10 San Bonaventura parla in questo senso di “ragioni seminali”, facendo riferimento a quel seme di luce che ogni creatura ha in sé e che proviene dal suo Creatore. Il concetto è già presente in sant’Agostino, che nelle Confessioni (I, 1) scrive: «Et laudare te vult homo, aliqua portio creaturae tuae, et homo circumferens / mortalitatem suam, circumferens testimonium peccati sui et testimonium, quia superbis resistis. Tu excitas, ut laudare te delectet, quia fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te ». S. Tommaso, nella Summa Theologiae, parla di “materia signata”: è la luce intellettiva che il Creatore imprime nella sua creatura, come un’impronta che resta presente per sempre. Questa traccia di bene che proviene dall’origine non può mai essere cancellata dal peccato ed è il legame che stringe eternamente la creatura al Creatore; anche il dannato sente questo nodo, che vorrebbe sciogliere – ma non può – per raggiungere una solitudine radicale dal Creatore, facendosi artifex di un’altra realtà. Sul concetto di materia signata, citando il De ente et essentia (II, 4), si sofferma anche Roberta De Monticelli nel suo studio Essential individuality: on the soul of a person, pubblicato in rete dalla University of San Diego – USA (in particolare, si veda la p. 5). VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 13 assenza, Dante si affida alla “donna gentile-filosofia”, sfogliando il grande libro del sapere: è lì, nelle geometrie perfette e razionali del pensiero filosofico, che crede di poter trovare il medicamentum in grado di conciliare l’essenza della sua umanità, fatta di infinito dentro un corpo finito. Ma se la voce di Beatrice morta, per Dante, diventa silenzio, anche la donna gentile finisce per rivelarsi un rifugio inutile, solo l’illusione che porta sempre più in alto, fino alla caduta rovinosa nel buio della selva della Commedia, dove avverrà l’incontro, tra le lacrime, con Virgilio. Il poeta latino ha il compito di condurre Dante lungo l’Inferno e il Purgatorio, fino al Paradiso terrestre, dove lo attenderà Beatrice. Virgilio è, cioè, il mediatore tra Dante e la gentilissima, perché guidando il pellegrino nel suo processo catartico attraverso i due regni, lo renderà di nuovo in grado aprirsi, di vedere gli occhi della donna e di ascoltare la sua voce, di tornare a dialogare con lei, passando dalla chiusura del lógos solitario all’apertura, tutta cristiana, verso l’altro, riconoscendo il valore dello scambio, del dialégestai11. Maria e Lucia sono strettamente legate tra loro nella visione dantesca. La Madonna è colei che nel pensiero medioevale rappresenta la misericordia, l’amore caritatevole che intercede a favore dell’umanità; così è rappresentata nella iconografia dell’etimasìa, accanto al Figlio seduto sul trono in qualità di giudice delle anime, supplicante per la salvezza eterna (deesis). La stessa immagine di Maria, come scrigno di 11 Dante, nel momento in cui congeda Virgilio, ha raggiunto la vetta umana delle virtù, intese in senso filosofico, ma si rende conto che non può bastare perché non si tratta della meta assoluta, ma di una tappa del cammino per arrivare alla felicità vera, a Dio. Consapevole dei suoi limiti, Dante infatti abbassa la testa davanti a Beatrice, che dopo averlo appena incontrato sulla cima del Purgatorio, lo rimprovera aspramente per le sue mancanze passate: si vedano i vv. 22-90 di Purg. XXXI. A sottolineare l’humilitas del pellegrino pentito la bella immagine ai vv. 64-66: «quali i fanciulli, vergognando, muti/ con li occhi a terra stannosi, ascoltando/ e sé riconoscendo e ripentuti/ tal mi stav’io […]». ROBERTA ROGNONI 14 infinita misericordia, è pennellata da Dante nell’Empireo, con la celebre invocazione di san Bernardo, perché si faccia mediatrice verso Dio, permettendo a Dante di cogliere l’essenza della beatitudine celeste12: La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fiate liberamente al dimandar precorre. In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontade. Par. XXXIII, 16-21 La misericordia di Maria è perfetta, perché non solo aiuta chi la invoca, ma «al dimandar precorre»: è la sensibilità tutta femminea che intuisce il bisogno e porge la mano, prima che l’altro chieda; è l’essenza più pura della misericordia e della carità, che si donano spontaneamente. Dante stesso ha potuto provare gli effetti benigni della sollecitudine misericordiosa di Maria, che apre e chiude tutto l’intero poema, come una guida silenziosa e nascosta che non abbandona mai il pellegrino durante il suo percorso. È Maria l’origine di tutto, perché è colei in cui si incarna il nuovo uomo, Cristo; ma è anche colei che, con il suo sguardo amoroso e misericordioso, fa nascere il nuovo uomo in Dante, exemplum dell’umanità tutta. Non a caso, dunque, il viaggio del pellegrino parte proprio da Maria: è lei ad accorgersi di quell’uomo smarrito nella selva, che non vede né sente più nulla se non il male. Dante rischia di perdersi per sempre in quella visione maligna, lasciandosi ipnotizzare, cadendo nel trabocchetto dell’inferno che si vuole mostrare come una realtà altra, contrapposta e alternativa; Maria, madre sollecita, sente la disperazione 12 Per l’intera preghiera alla Vergine: Par. XXXIII, 1-39. VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 15 dell’uomo e manda qualcuno in suo soccorso. In Inf. II Virgilio spiega a Dante quanto gli è stato riferito da Beatrice: Donna è gentil nel ciel che si compiange di questo impedimento ov’io ti mando, sì che duro guidicio là su frange. Questa chiese Lucia in suo dimando e disse: “Or ha bisogno il tuo fedele di te, ed io a te lo raccomando”13. Inf. II,94-99 La terza donna del canto, che soccorre Dante, è Lucia, morta martire durante le persecuzioni contro i cristiani ordinate dall’imperatore Diocleziano; dall’antichità in poi si registra una viva devozione nei confronti di lei, protettrice degli occhi e della vista per «il nome stesso della santa, interpretato, grazie a una facile assonanza etimologica, come simbolo della luce, sia materiale che spirituale»14. Lo stesso Jacopo da Varazze, nella Legenda Aurea, pone la biografia di Lucia tra le prime della sua raccolta — è la quarta — e così inizia la descrizione della vita della santa: Lucia dicitur a luce. Lux enim habet puchritudinem in aspectione, quia, ut dicit Ambrosius, lucis natura hec est, ut omnis eius in aspectu gratia sit, diffusionem sine coinquinatione, quia per quecumque immunda diffusa non coinquinatur, rectum incessum sine curuitate, longissimam lineam pertransit sine morosa dilatione. Per hoc ostenditur quod beata Lucia habuit decorem uirginitatis sine aliqua corruptione, diffusionem caritatis sine aliquo immundo amore, rectum incessum intentionis in deum sine 13 Beatrice sta parlando con Virgilio; il poeta latino sta appunto riferendo a Dante il dialogo avvenuto tra lui e la gentilissima, ricordato come una specie di flashback. 14 A. Amore, “Lucia”, in ED, op. cit., vol. III, pp. 717-18. 16 ROBERTA ROGNONI aliqua obliquitate, longissimam lineam diuturne operationis sine negligentie tarditate. Vel dicitur Lucia quasi lucis uia15. Se in Inf. II apprendiamo che Lucia interviene in aiuto di Dante, usando Beatrice come mediatrice, in Purg. IX è la santa stessa a soccorrere il poeta, come una luce che illumina segretamente il suo viaggio: Dianzi, ne l’alba che precede al giorno, quando l’anima tua dentro dormia sovra li fiori ond’è là giù adorno, venne una donna, e disse: “I’ son Lucia: lasciatemi pigliar costui che dorme; sì l’agevolerò per la sua via”16. Purg. IX, 52-57 Nel passaggio cruciale dall’Antipurgatorio al Purgatorio appare Lucia-luce, che porta il poeta addormentato fino alla soglia del regno della purificazione. Ancora una volta è Virgilio a raccontare al pellegrino l’intervento di Lucia, che Dante non ha potuto vedere con i suoi occhi, appesantiti dal sonno, simbolo del peccato. Il fiorentino ha viaggiato, ma non abbastanza, perché dopo avere attraversato il regno della dannazione e l’Antipurgatorio, deve affrontare un’altra tappa fondamentale del suo percorso catartico, scalando le balze scoscese del Purgatorio. Dante non può vedere Lucia ma, se il suo corpo è intorpidito dal sonno, il suo cuore, inteso come sensi e ragione, riesce a percepire nel sogno profetico, quello che si 15 J. da Varazze, Legenda Aurea, edizione critica a cura di G. P. Maggioni, Firenze 1998, vol. I pp. 49-52. 16 Il v. 57 tradisce una lettura attenta da parte del poeta della Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, che, come è riferito a testo, scrive: «Lucia dicitur quasi lucis uia». VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 17 fa prima dell’alba, la traccia di una verità più profonda che, anche se non può penetrare con chiarezza, sa esserci: Ne l’ora che comincia i tristi lai la rondinella presso a la mattina, forse a memoria de’ suo’ primi guai, e che la mente nostra, peregrina più da la carne e men da’ pensieri presa, a le sue vision quasi è divina, in sogno mi parea veder sospesa un’aguglia nel ciel con penne d’oro, con l’ali aperte ed a calare intesa; Purg. IX,13-21 Il sogno di Dante è in effetti profetico: si vede sul monte Ida, dove appare un’aquila che, «terribil come folgor discendesse», lo ghermisce portandolo fino alla sfera del fuoco, dove entrambi ardono, finché il calore farà svegliare il pellegrino. Le parole di Virgilio svelano il significato della profezia: l’aquila è Lucia, che non solo porta Dante più in alto, fino alla soglia del Purgatorio, ma con la sua lucefiamma avvolge il pellegrino, segno di grazia e di caritas. Solo alla fine del viaggio Dante potrà vedere Lucia con i suoi occhi, seduta tra gli scranni della candida rosa, sinfonicamente ricordata da S. Bernardo come una delle tre donne che avevano mosso il poeta: siede Lucia, che mosse la tua donna, quando chinavi, a ruinar, le ciglia Par. XXXII, 137-38 La devozione di Dante per Lucia-luce è dimostrata anche oltre la Commedia; nel III libro del Convivio compare il nome della santa ed è interessante notare che venga citata, anche in questo luogo, proprio assieme alla Madonna; come è ROBERTA ROGNONI 18 noto, non vi è chiarezza circa la cronologia delle opere dantesche, ma è lecito supporre, se pur con cautela, che la stesura del III trattato del Convivio non sia troppo distante dall’elaborazione del secondo canto della Commedia; in questo senso la meditazione insistita sulla coppia MariaLucia è un’ulteriore spia dei rapporti fitti che legano l’opera filosofica al poema. Dopo aver aperto il III libro del trattato con la canzone Amor, che ne la mente mi ragiona, Dante si dedica a spiegarne al lettore la razo; secondo quanto dice il poeta, la seconda parte della canzone comincia dal v. 19: Non vede il sol, che tutto ’l mondo gira, cosa tanto gentil, quanto in quell’ora che luce ne la parte ove dimora la donna, di cui dire Amor mi face17. Chiarendo il movimento del sole, in base alla dottrina aristotelica, dichiara che sulla terra esistono due poli opposti fermi. Per mostrare meglio al lettore il complicato principio astronomico-filosofico, usa come exempla due città ipotetiche che chiama Maria e Lucia: Imaginando adunque, per meglio vedere, in questo luogo ch’io dissi sia una cittade e abbia nome Maria, dico ancora che se da l’altro polo, cioè meridionale, cadesse una pietra, ch’ella caderebe in su quel dosso del mare Oceano ch’è a punto in questa palla opposito a Maria […]. E qui imaginiamo un’altra cittade, che abbia nome Lucia. Èvvi, tra l’una e l’altra, mezzo lo cerchio di tutta questa palla, ed ispazio, da qualunque lato si tira la corda, di diecimila dugento miglia, sì che li cittadini di Maria tengono le piante contra le piante di quelli di Lucia18. 17 “Amor, che ne la mente mi ragiona”, vv. 19-22; la canzone, come si è detto, apre il III libro del Convivio. 18 Conv. III, cap. 5, 10-12. VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 19 Nella rappresentazione dantesca Maria è il simbolo del polo boreale e Lucia di quello australe: nella visione medievale, accolta anche da Dante nella Commedia, l’uno è sede dell’umanità in esilio, l’altro è simbolo dell’origine, dove l’uomo viveva prima della colpa. La caduta di Lucifero — contemporanea al peccato di Adamo — ha provocato l’arretramento della terra che, per l’orrore, si è spostata dall’emisfero australe, dove è situato anche il Paradiso terrestre, verso quello boreale, lasciando al suo posto solo le acque. Per questo l’umanità si sente in esilio, perché vive lontano dalla sua terra d’origine. Maria, in quanto Mater misericordiae, è colei che soccorre l’umanità in difficoltà, piegata dalla colpa: come una madre sollecita, ama senza riserve e aiuta; la luce della sua misericordia brilla anche nell’uomo inconsapevole, ma, in chi la sa accogliere e nutrire — come avviene per il pellegrino Dante — può diventare la via per la salvezza. Lucia è la grazia illuminante, la luce del sapere che l’uomo può raggiungere rimettendosi in un contatto genuino con il suo Creatore, come prima della caduta di Adamo: simbolo dell’umanità che, in singoli e sporadici momenti aurei, riesce a ricomporre l’unione intima con la sua origine, senza raggiungere mai la perfezione e la stabilità di questo ricongiungimento, che può realizzarsi solo in una visione ultraterrena. Così queste due città ideali delineate dalla fantasia dantesca sono distanti perpendicolarmente «diecimila dugento miglia» l’una dall’altra, eppure «li cittadini di Maria tengono le piante contra le piante di quelli di Lucia»: l’immagine, potente, evoca le due donne benedette che si riflettono l’una nell’altra, come in segno di amoroso scambio: è il motivo dello specchio, che torna spesso nella poesia della Commedia. 20 ROBERTA ROGNONI Vista la centralità delle tre sante donne nella vita e nel pensiero dantesco, la loro collocazione in Inf. II diventa per il lettore una garanzia della solidità delle fondamenta che reggono il viaggio del pellegrino, come rappresentante di se stesso e dell’umanità. Il percorso di Dante, dunque, come scoperta e rivelazione delle segrete leggi infernali, come movimento doloroso di liberazione dalla colpa nella speranza purgatoriale della beatitudine e come raggiungimento, infine, di questa nel progressivo transumanar del Paradiso, è in primis profetico, nel senso che svela via via al lettore-uomo delle verità nascoste che appartengono a questa vita e, di riflesso, a quella oltremondana: in sostanza, il ben vivere sulla terra per continuare a vivere dopo la morte. Per rendere l’altezza di questo dono profetico, di cui Dante è fatto scrigno, non potevano bastare né al pellegrino né al lettore delle semplici rassicurazioni offerte da Virgilio, a conferma che quella del pellegrino non fosse una «folle venuta»: ciò perché il poeta latino, pur celebrato costantemente per la sua altezza umana e poetica, resta al di là della salvezza, tra coloro «che sanza speme» vivono «in disio»19. Virgilio è sostanzialmente un demone, se pur benigno: è altra cosa rispetto ai personaggi del mito classico, da Caronte a Minosse, che vengono degradati nell’inferno in funzione di mostri guardiani dell’Ade; ma tutto il limite della condizione di Virgilio-filosofo, che non si è aperto alla verità rivelata, si coglie perfettamente nelle parole di Catone, in Purg. I, quando, di fronte alla captatio benevolentiae virgiliana sull’amata moglie Marzia, il «veglio onesto» risponde: “Marzia piacque tanto a li occhi miei 19 Tutto il dramma degli antichi spiriti sapienti, relegati nel nobile castello del Limbo, è reso bene nel canto IV dell’Inf. Si vedano in particolare i vv. 106-51. VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 21 mentre ch’i’ fu’ di là” diss’elli allora, “che quante grazie volse da me, fei. Or che di là dal mal fiume dimora, più muover non mi può, per quella legge che fatta fu quando me n’usci’ fora” Purg. I, 85-90 La verità di Virgilio non può bastare, né basta che egli riferisca in sintesi il senso dell’incontro con Beatrice. Occorre di più per legittimare il viaggio dantesco. Così il poeta latino mette in scena per Dante — e Dante per il lettore — una sorta di “sacra rappresentazione” di quell’episodio, partendo dalla discesa al Limbo di Beatrice e dal colloquio con lei. Dalla memoria, la narrazione prende vita come un fatto reale e si sviluppa nel discorso diretto dei personaggi; quello che offre Virgilio è un resoconto puntuale, che comprende anche la descrizione dettagliata di Beatrice: Io era tra color che sono sospesi e donna mi chiamò beata e bella, tal che di comandare io la richiesi. Lucevan li occhi suoi più che la stella; e cominciommi a dir soave e piana, con angelica voce, in sua favella Inf. II, 52-57 Virgilio resta affascinato da Beatrice, per la dolce bellezza della donna in cui riconosce la dulcedo dell’Eneide, fatta di forma e di contenuto: è questo il linguaggio che gli permette di capire Beatrice e di dialogare con lei, simbolo della dolcezza della poìesis, della creazione artistica. Così la donna spinge il poeta latino ad andare incontro a Dante: “Or movi, e con la tua parola ornata ROBERTA ROGNONI 22 e con ciò c’ha mestieri al suo campare, l’aiuta, sì ch’i’ ne sia consolata. I’ son Beatrice che ti faccio andare; vegno del loco ove tornar disio; amor mi mosse, che mi fa parlare”. Inf. II, 67-72 La sostanza di questa dulcedo virgiliana sta proprio nella «parola ornata» cui fa riferimento Beatrice: è la musicalità dell’esametro, è la grazia della parola e della sostanza; non solo, perché l’Eneide, all’uomo medievale, appare come una misteriosa prefigurazione del messaggio di Cristo. Così sembra di poter scorgere il profumo della misericordia cristiana nella clementia propagandata in età imperiale, svelata da Anchise al figlio Enea, nei Campi Elisi, nello spazio di un esametro — «parcere subiectis et debellare superbos»20 —, essenza della futura gloria della Roma augustea. Il deciso enoteismo virgiliano, con la celebrazione dello Iuppiter Optimus Maximus come forza ordinatrice e una, contro la frammentazione del politeismo pagano, la celebrazione del valore della iustitia imperiale, l’esaltazione della pax universalis portata da Roma e l’universalitas della filosofia stoica, che esalta il bene come kathèkon, bene di tutti, che si costruisce attraverso il sacrificio del singolo, sembrano al lettore cristiano dei chiari segni che preludono all’avvento del Cristianesimo. Virgilio non si è aperto alla verità: Dante lo sa bene. È il Virgilio filosofo, chiuso nel “nobile castello” dell’autosufficienza della ragione, teso all’ataraxìa stoica, che mira a scalare la vetta della virtù umana concependola come l’unico tèlos: un uomo che lo stesso Dante, quello della donnagentile, è in parte stato. 20 Eneide, VI, 853. VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 23 Il Virgilio poeta, con la sua «parola ornata», è invece quello che può diventare porta alla verità: seguendo quel profumo che l’Eneide diffonde misteriosamente, come in un labirinto, l’uomo può arrivare a cogliere la rosa. La salvezza di Stazio, incontrato da Dante e Virgilio nel Purgatorio, è la prova più evidente della potenza che possiede questa poesia, che fa di Virgilio un inconsapevole profeta: Ed elli a lui: “Tu prima m’inviasti verso Parnaso a ber ne le sue grotte, e prima appresso Dio m’alluminasti. Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sè non giova, ma dopo sè fa le persone dotte, quando dicesti: “Secol si rinova; torna giustizia e primo tempo umano, e progenie scende da ciel nova”. Per te poeta fui, per te cristiano21: Purg. XXII, 64-73 Virgilio si farà “porta” anche per Dante: lo stimolo di Beatrice al poeta latino perché con la «parola ornata» aiuti «l’amico» che «nella diserta piaggia è impedito» è una confermazione dell’eccezionale carisma che caratterizza la poesia virgiliana; un riconoscimento che proviene dall’alto, come è chiarito dalla gentilissima: «amor mi mosse, che mi fa parlare» — dice Beatrice — e con la sua dolcezza spinge Virgilio ad abbandonare la fortezza-prigione del nobile castello, spontaneamente, per muoversi verso l’altro, in un gesto che è tutto di sollecita carità: “O donna di virtù, sola per cui l’umana spezie eccede ogni contento di quel ciel c’ha minor li cerchi sui, 21 Il riferimento esplicito di Stazio è all’Egloga IV, 5-7. ROBERTA ROGNONI 24 tanto m’aggrada il tuo comandamento, che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi; più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento” Inf. II, 76-81 Per rendere più efficace l’intero episodio, a questo punto, Dante poeta inserisce, come un “gioco di scatole”, un racconto nel racconto e poi un altro ancora: è Beatrice che riferisce a Virgilio prima il dialogo tra la Madonna e Lucia e poi tra lei stessa e Lucia. La catena delle intercessioni, che lega le «tre donne benedette»22 in un rapporto ben ordinato e gerarchico, Maria-Lucia-Beatrice, e che ha come destinatario d’eccezione Dante, attraverso Virgilio, risulta ancora più autentica e verace, grazie all’artificio retorico del discorso diretto, scandito da una serie sillogistica di dialoghi rapidi e pregnanti, collegati tra loro dalle coppie di personaggi: Dante-Virgilio, Beatrice-Virgilio, la Madonna-Lucia, LuciaBeatrice, Beatrice-Virgilio, finché, come in una “composizione ad anello”, il ritorno al dialogo tra Virgilio e Dante chiude tutta la rappresentazione, riportando la narrazione della Commedia sul suo piano principale. L’episodio termina con la soddisfazione di Dante, riallacciandosi sinfonicamente all’apertura del canto, quando il pellegrino aveva manifestato il suo dubbio: qui come allora, il poeta ricorre a una similitudine per rendere il tòpos del cambiamento dello stato d’animo, stavolta del tutto mutato: Quali i fioretti, dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca si drizzan tutti aperti in loro stelo tal mi fec’io di mia virtute stanca, Inf. II, 127-30 22 Inf. II, 124. VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 25 Ora Dante è pronto a partire, come dichiara, poco oltre, a Virgilio: Tu m’hai con disiderio il cor disposto sì al venir con le parole tue, ch’i’ son tornato nel primo proposto Inf. II, 136-38 All’inizio di questa terzina, spicca, anche per la collocazione centrale nel verso, la parola “disiderio”, con cui Dante forse vuole esprimere più che la sua voglia ardente di intraprendere il viaggio lungo i tre regni. San Tommaso (Summa Theol., 1-2, q. 33, 2, c.) definisce il desiderium anzitutto come «appetitus rei non habitae». Il termine indica in effetti un «moto dell’animo verso chi o ciò che procura piacere, o che è buono, necessario [… ]»23. Il Bene per eccellenza, per Dante, è uno solo e coincide con la meta del viaggio che sta per cominciare: Dio. In più, il significato letterale, dal latino desiderare, nel senso di “cessare di contemplare le stelle a scopo augurale”, evidentemente sottolinea il moto dell’animo volto a ottenere l’oggetto che appetisce24. La spinta verso il Creatore, del resto, è ormai legittimata dalla solenne investitura celeste che Dante riceve in Inf. II, vero e proprio rito di iniziazione celebrato, per interposte creature beate, dalla stessa Madre di Dio e, dunque, da Dio stesso. Maria è il sentimento divino; rappresenta teologicamente il divino amore, perché il cuore è l’unico 23 Per l’etimologia di “desiderio”: DELI, op. cit., vol. II p. 328. È assai probabilmente una suggestione, ma è curioso osservare che Dante, in effetti, uscito dalla cavità infernale tornerà a «riveder le stelle» (Inf. XXXIV, 139) e, alla fine del Purgatorio, sarà «puro e disposto a salire a le stelle» (Purg. XXXIII, 145), finché nel Paradiso, dopo aver goduto della visione celeste, citerà «l’amor che move il sole e l’altre stelle». 24 ROBERTA ROGNONI 26 spazio in cui ci si può avvicinare all’intelligenza del Padre su questa terra. Dante diventa profeta. Ciò avviene agli occhi del lettore, perché, in realtà, egli assurge implicitamente a questo ruolo fin dal primo verso della Commedia; anzi ancora prima, laddove concepisce la sua grandiosa visione oltremondana e la realizza, ponendovisi al centro, come protagonista. Speculum di se stesso, ma anche dell’umanità tutta, uno dei carismi del Dante poeta e profeta è la veggenza: nel senso più pieno del significato: è “colui che vede, il contrario di chi è cieco”. Vede così profondamente da vedere ben oltre il senso umano; ma anche: la sua vista è così acuta da poter scorgere e rivelare la verità vera. Se la via del Dante pellegrino si annuncia ardua e difficile, lo è pure la strada che il poeta prepara al lettore. In quell’«altro viaggio»25 annunciato da Virgilio si avverte il profumo della dolcezza che aspetta Dante alla meta, come pure la certezza che il percorso non sarà senza asprezze. Allo stesso modo le profezie dantesche richiedono spesso al lettore lo sforzo di penetrare la materia della Commedia, alla ricerca di un significato più profondo di quello letterale26. Un primo esempio il poeta Dante lo fornisce nella parte finale del prologo, quando Virgilio pronuncia la celebre “profezia del veltro” (Inf. I, 100-11), che giungerà per scacciare la lupa, ipostasi del male. 25 Inf. I, v. 91. Il discorso sull’interpretazione del testo interessa al poeta, che illustra i quattro sensi delle scritture nel Convivio (Libro II, cap. I) e, nell’Epistola XIII, fornisce delle tracce al lettore per comprendere la Commedia, della quale scrive; «istius operis non est simpex sensus, ymo dici est polisemos, hoc est plurium sensuum» (Ep. XIII, 7, 21-22), citando a questo proposito il senso letterale e quello allegorico che si possono individuare nel testo. 26 VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 27 A questo punto, alla fine del canto I, Virgilio mostra di avere assunto pienamente il ruolo di guida27, ma si tratta della fase finale di un percorso di maturazione che il poeta latino compie “a marce forzate” lungo il breve arco del prologo infernale. Per ricostruire il percorso di Virgilio, occorre tornare indietro, fino al momento del primo incontro con il pellegrino smarrito e disperato, costretto dalle tre fiere ad arretrare di nuovo verso la selva: Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, dinanzi alli occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco. Quando vidi costui nel gran diserto, “Miserere di me” gridai a lui, “qual che tu sii, od ombra od omo certo!” Inf. I, 61-66 L’urlo di Dante non lascia dubbi: «miserere di me» è il grido disperato di chi sta affogando e vede una mano che lo può salvare. Lo strazio del pellegrino sta tutto in quella richiesta di misericordia, estrema opportunità di salvezza per chi non aveva più speranza e davanti a sé vedeva ormai comparire la morte. Il dramma di Dante, cominciato al primo verso del prologo e via via cresciuto, raggiunge qui l’apice. La reazione di Virgilio, che si presenta a Dante, è quella del perfetto filosofo stoico, che di fronte alle passioni dell’animo si mostra imperturbabile. Ma il suo composto distacco dal dolore del pellegrino fa da cassa di risonanza che amplifica, come un grido nel silenzio, la tensione drammatica di tutto l’episodio. 27 Così Virgilio: «Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno/ che ti mi segui, e io sarò tua guida»; Inf. I, 112-13. 28 ROBERTA ROGNONI La razionalità di Virgilio pietrifica l’uomo, chiudendolo nel suo egoismo, davanti all’invocazione misericordiosa da parte di Dante. E il Dante poeta tratteggia nel suo maestro l’inevitabile esito drammatico che i primi padri della Chiesa, da Lattanzio a sant’Agostino, avvertono legato all’ideale della ataraxia e della apatheia propugnate dalla filosofia antica: non si può restare imperturbabili di fronte al dolore della vita, se non a prezzo di una durezza di cuore. Così la prima domanda che Virgilio pone a Dante è quella dell’uomo storico, del filosofo che, chiuso nella gabbia delle sue sicurezze, crede di poter trovare la felicità attraverso il raggiungimento della virtù: Ma tu perchè ritorni a tanta noia? Perché non sali il dilettoso monte ch’è principio e cagione di tutta gioia? Inf. I, 76-78 Il «dilettoso monte» rappresenta una soluzione materialistica e terrena che a Dante non può bastare: può essere solo la soglia da cui deve partire il cammino verso una vetta più alta, un’aktròtes ultraterrena che Virgilio non riesce a cogliere. Per il poeta latino, invece, la gioia terrena è un bene che il singolo uomo può raggiungere, se si impegna in un cammino virtuoso che, con il controllo sulle proprie passioni, lo conduce alla mesótes la virtù che consiste nel “giusto mezzo”. La conquista della vetta del «dilettoso monte» è dunque una meta a cui l’uomo deve e può aspirare, e rappresenta il senso dell’esistenza del giusto filosofo. Per Dante la cima di questo monte non può essere il termine assoluto, perché per il cristiano la felicità — quella stabile — è una condizione che può appartenere solo all’altra vita, non a quella dei mortali. VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 29 L’invito di Virgilio a salire il «dilettoso monte» sembra dunque la prova chiara che il poeta latino, almeno al principio, non è in grado di cogliere appieno il dramma di Dante. Nel momento fisico dell’incontro tra i due poeti, si misura tutta la distanza che li separa. Pochi attimi, quasi impercettibili, che mostrano un’incomunicabilità totale: è una netta discrasia tra i piani del loro discorso, quasi che Dante e Virgilio parlino lingue differenti (come una sorta di “armonica distonia”). La frattura, si è detto, dura un attimo, perché la subitanea reazione di Dante scuote Virgilio, come a sanare il cortocircuito comunicativo che si era creato. Di fronte al freddo distacco del filosofo classico, le parole di Dante sono un’“allargare le braccia”, avvolgendo e accogliendo l’altro in perfetta armonia con la mansuetudine dell’insegnamento evangelico di Cristo che invita a «porgere l’altra guancia»28. Non c’è neppure un velo di irritazione delle parole pronunciate dal pellegrino che abbatte il muro di pietra dell’ataraxia classica con la dolcezza e la caritas verso l’altro. “Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume?” rispuos’io lui con vergognosa fronte. “O degli altri poeti onore e lume, vagliami il lungo studio e ’l grande amore che m’ha fatto cercar lo tuo volume. Inf. I, 79-85 Dante prova gioia nel riconoscere Virgilio e lo celebra anzitutto con una domanda retorica che sembra riallacciarsi, 28 «Avete inteso che fu detto: ‘Occhio per occhio e dente per dente’. Io invece vi dico di non resistere al malvagio; anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra, volgigli anche la sinistra»: Mt., V, 38-40; «Se qualcuno ti percuote si una guancia, pòrgigli anche l’altra […]», Lc., VI, 27-30. 30 ROBERTA ROGNONI sinfonicamente, alla domanda retorica appena posta dal poeta latino («perché non sali il dilettoso monte?»). L’esaltazione del culto virgiliano si snoda lungo più terzine, in un crescendo sempre più ampio: il pellegrino acclama la grandezza del poeta latino e confessa il profondo magistero che ha rappresentato per lui; le dittologie «lungo studio» e «grande amore», pur così chiare ed esplicite, non bastano però a rappresentare il rapporto che Dante ha tessuto, a distanza di secoli, con il poeta: Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore, tu se’ solo colui da cu’io tolsi lo bello stilo che m’ha fatto onore Inf. I, 85-87 Le parole di Dante sono una celebrazione affettuosa che mostra un rapporto stretto e familiare con il poeta latino, che vince i secoli. Il suo è un entusiasmo sincero, la reazione stupita di trovarsi improvvisamente di fronte a chi si è tanto amato e stimato: non si tratta della sottile captatio benevolentiae di uno che, in difficoltà, cerca aiuto. A dimostrarci la sincerità di questo sentimento è la «vergognosa fronte», con cui Dante pronuncia le parole di lode di fronte a Virgilio: è l’humilitas — stato d’essere virtuoso proprio dell’anima cristiana — che si fonde con la caritas, l’amore nei confronti dell’altro. L’abbandono al «maestro» è totale; e l’amoroso incontro con Virgilio sembra sciogliere quel nodo che stringeva l’animo del pellegrino: Dante piange davanti all’immagine del maestro, non solo e non tanto per il terrore provocato dall’incontro con le bestie, ma per l’avvilimento in cui è caduto. “Vedi la bestia per cu’io mi volsi: aiutami da lei, famoso saggio, VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 31 ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi.” “A te convien tenere altro viaggio” rispuose poi che lagrimar mi vide, “se vuo’ campar d’esto loco selvaggio” Inf. I, 88-93 Ma, sinfonicamente, le nuove parole e il pianto di Dante smuovono anche l’animo del poeta latino: il richiamo alla dolcezza della sua poesia, così celebrata, lo riconnette sullo stesso piano comunicativo di Dante, facendolo uscire dalla fortezza di pietra della ratio. Virgilio, a questo punto, non può che rispondere al dolce grido di aiuto. Non è soltanto lo zelo del maestro-filosofo, che aiuta il discepolo in difficoltà: è il discorso di Dante ad avere risvegliato in lui quella parte che più sinceramente lo può legare al fiorentino: il suo essere artista e poeta. L’uomo Virgilio non riesce a uscire mai idealmente dalle mura del «nobile castello» dei sapienti, ma come poeta Virgilio esce dalla finitezza della sua visione razionalisticaclassica, così da intuire e vedere, anche se in modo opaco, la grandezza del mistero cristiano, a cui comunque non è riuscito né riuscirà mai ad abbandonarsi. È qui che avviene una sorta di “riscatto” del personaggio, che ora finalmente può innalzarsi in tutta la sua grandezza, dialogando con Dante e ponendosi come sua guida, profetizzando «l’altro viaggio», la strada diversa dal dilettoso monte, che Dante dovrà percorrere. Virgilio finalmente vede la «bestia» che ha spaventato tanto il fiorentino; se in un primo tempo sembrava non scorgere la lupa affamata che Dante, terrorizzato, gli indicava, ora, invece, nel suo dettato, rivela al pellegrino di averne una profonda conoscenza: [questa bestia] e ha natura sì malvagia e ria, 32 ROBERTA ROGNONI che mai non empie la bramosa voglia, e dopo ’l pasto ha più fame che pria. Inf. I, 97-99 Questa lupa infernale rappresenta lo stravolgimento della natura, perché non è la bestia affamata che va in cerca di cibo e poi si sazia: ha piuttosto una voracità senza fine, è un paradoxon infernale, poiché mangiando nasce in lei un più acuto desiderio di fame. A questo punto Virgilio pronuncia la profezia contro la lupa, che è in fondo la vera e compiuta risposta alla richiesta di aiuto lanciata da Dante; al v. 89 aveva chiesto al poeta latino: «aiutami da lei, famoso saggio». E, stavolta,Virgilio non solo accoglie la richiesta, ma va anche oltre, offrendo a Dante ben più del rifugio contingente dalla lupa: nelle sue parole c’è la promessa di una pace assoluta, quando la bestia vorace verrà sconfitta. In generale simbolo del peccato — in particolare identificata con la cupidigia — la lupa sembra diventare in questo prologo infernale anche l’orribile trasfigurazione grottesca della lupa simbolo di Roma che, invece di dare nutrimento agli uomini, si ciba di essi. Elemento di spicco della triade bestiale, la lupa sembra ricollegarsi sinfonicamente — ma in segno opposto — alla benedetta tra le tre benedette di Inf. II, Maria: se lei è la madre che si dà generosamente, prendendosi cura dell’altro, la lupa è piuttosto una matrigna crudele che usa l’altro per saziare la sua ingorda fame. La lupa cerca di bloccare il percorso di Dante, di arrestare il suo movimento e di spingerlo irrazionalmente a tornare indietro, per ricacciarlo nel peccato: Maria, al contrario, è colei che promuove il viaggio del pellegrino e che nei guida i passi. La potenza espressiva della poesia dantesca, nella descrizione della lupa e delle fiere, risente molto della lettura VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 33 dell’Apocalisse di San Giovanni, come appare anche altrove nella Commedia29: Vidi poi una bestia che saliva dal mare; aveva dieci corna e sette teste; […] La bestia che vidi somigliava a una pantera, mentre le zampe sembravano di orso e la bocca di leone. […] Alla bestia fu data una bocca che proferiva parole orgogliose e blasfeme […]. Così aprì la sua bocca blasfema contro Dio, lanciando bestemmie contro il nome e la dimora di lui, contro tutti gli abitanti del cielo. […] L’adoreranno tutti gli abitanti della terra, il cui nome non sta scritto nel libro della Vita dell’Agnello che è immolato fin dalla creazione del mondo30. L’estremo paradosso è che gli uomini, invece di fuggire questa lupa antropofaga, la cercano, per legarsi a lei in un orribile incesto: Molti son li animali a cui s’ammoglia, e più saranno ancora, infin che ’l Veltro verrà, che la farà morir con doglia31. Inf. I, 100-102 La precisa scelta lessicale del verbo “ammogliare” indica proprio un vincolo carnale ed evoca la cruda immagine di questi uomini che, senza averne consapevolezza, vivono assieme alla bestia, le dormono accanto e finiranno per esserne divorati. Il senso allegorico di questo rapporto — per applicare una categoria ermeneutica suggerita dallo stesso Dante poeta — 29 Si veda, per esempio, la complessa processione purgatoriale in Purg. XXIX, XXXI, XXXII. 30 San Giovanni, Apocalisse, XIII, 1-8. Di un’altra bestia «che sale dalla terra» parla in XIII, 11-18. 31 “Animale” nel senso di uomo è usato più volte nella Commedia; basti vedere, come esempio su tutti, come Francesca si rivolge a Dante: «O animal grazioso e benigno». Inf. V, 88. 34 ROBERTA ROGNONI sembra indicare il legame tra l’uomo e il peccato. Come falsa lusinga, il male attrae a sé l’uomo facendogli credere, nell’assenza dell’Altro, di poter diventare un essere totalmente indipendente. Una volta morto nella colpa, all’uomo dannato si svela finalmente il vero volto della belva divoratrice: il peccato è solo inganno, perché l’uomo non può liberarsi della presenza dell’Altro, in quanto da lui proviene; come dannato non può congiungersi al Creatore, ma non può neppure staccarsi da lui totalmente costituendosi come un essere autonomo: perché una sola è la realtà, il bene. Se l’allusione alla lupa divoratrice può essere letta come simbologia universale del rapporto uomo-peccatodannazione, le parole pronunciate subito dopo da Virgilio, a proposito del veltro, sembrano adattarsi anzitutto a un’interpretazione storico-politica. La visione profetizzata di questo veltro, che «verrà» a scacciare la lupa facendola «morir con doglia», è volutamente enigmatica: Dante-narratore non chiarisce il significato di questo vaticinio — per altro l’oscurità è una caratteristica tipica delle profezie —, spingendo il lettore a soffermarsi a lungo su queste terzine e avvolgendo questo messaggio di un fitto velo di mistero, che ne accresce la solennità. È quasi un anatema quello che Virgilio lancia contro la lupa, bandita e distrutta dall’avvento del veltro: Questi non ciberà terra nè peltro, ma sapienza, amore e virtute, e sua nazion sarà tra feltro e feltro32. Inf. I, 103-105 32 Qui il Vandelli accoglie a testo la lezione con la maiuscola: “tra Feltro e Feltro”. VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 35 I tentativi di identificazione, a questo proposito, sono stati numerosi ma, senza tentare vie già ampiamente battute, ci si può soffermare sull’analisi delle caratteristiche del veltro, cercando di riflettere su ciò che Dante ci rivela in modo esplicito. La scelta del poeta di rappresentare il salvatore dell’umanità sotto forma di bestia continua sinfonicamente il tema delle fiere, che percorre tutto il canto I: come Dante era stato assalito nella selva dalle tre fiere, così un’altra bestia verrà in suo soccorso: in questo caso però il pellegrino viene trasfigurato nell’uomo universale, giacché il veltro scaccerà la lupa per Dante e per tutta l’umanità33. Anche il veltro è un animale, come lonza, leone e lupa, ma ha una natura tutta particolare rispetto a esse: è un cane da caccia ed è dunque amico dell’uomo, addestrato per braccare gli animali che abitano boschi e selve, in un inseguimento che non lascia scampo. Nella potente fantasia dantesca la preda del veltro è rappresentata dalla lupa, che delle tre fiere è la più feroce: occorre quindi tenere presente che sconfiggere lei, sillogisticamente, significa uccidere anche lonza e leone. L’invincibilità di questo salvatore — come sembra svelarci il Dante poeta — è strettamente legata a un forte senso di umiltà: il cane per natura è evidentemente un animale ben più debole di una lonza, di un leone o di una lupa, che potrebbero sbranarlo senza difficoltà; eppure, nella visione dantesca, il veltro riesce a sbaragliarle, grazie a una forza che evidentemente è altra cosa rispetto alla violenza: è l’humilitas del messaggio evangelico, che esalta i piccoli34. 33 Così pure il Dante della selva, in un senso più ampio, rappresentava non solo l’uomo storico, ma anche l’umanità tutta avvinta dal peccato. 34 Così ammonisce Cristo nel Vangelo: «Rimetti la tua spada al suo posto, poiché tutti quelli che mettono mano alla spada, di spada periranno», Mt., 26, 53. ROBERTA ROGNONI 36 Così il veltro mostra un distacco dai beni terreni: «questi non ciberà terra né peltro», nel senso più letterale di “territori o denari”, ma anche in un significato più ampio di attaccamento di tipo materialistico. Ancora una volta nella rappresentazione del veltro l’immaginario dantesco fonde con armonia la potenza del testo biblico e la dolcezza del messaggio evangelico: il veltro, così descritto, ricorda l’immagine di Cristo, Re dei Re, ma anche povero tra i poveri35. Dante mette in luce anche la spiritualità di questo salvatore, che si nutrirà di un cibo trinitario: «sapienza amore e virtute»; ma, più che cibarsi, ne sarà nutrito: si noti bene la scelta dantesca di usare il verbo transitivo («ciberà»), con l’anticipazione dell’oggetto («questi»), messo in evidenza nella costruzione sintattica che ricalca il latino. Non è il veltro che va a caccia di cibo, ma è, in un certo senso, il cibo che si muove verso il veltro; come una sorta di attrazione naturale “similia similibus”: al veltro tendono naturalmente la sapienza, l’amore e la virtù, mentre vi è repulsione con la terra e il peltro. Così il veltro diventa davvero l’opposto della lupa dalla «bramosa voglia», che, invece, è sempre alla ricerca di cibo, per di più umano. Il v. 105 chiude la terzina con un riferimento che avvicina al contesto storico-politico di Dante: «e sua nazion sarà tra feltro e feltro», nel senso di “nascita, generazione”36. L’allusione al “feltro” è stata considerata come la chiave per l’identificazione del luogo di nascita del veltro, così da riuscire a riconoscerlo in un personaggio storico37. 35 Va notata anche la suggestione francescana, nell’esaltazione della povertà. Deli, cit., vol. 3/I-N p. 796. 37 Per alcuni indicherebbe il panno dei monaci, come simbolo di umiltà, oppure il territorio tra Feltre e Montefeltro, pensando che il veltro sia da identificare con Cangrande della Scala. 36 VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 37 È piuttosto probabile che Dante pensi a un uomo preciso in cui vede “in potenza” questo salvatore: certo non in atto, come il desolato panorama politico e sociale del suo tempo gli rammentava continuamente. Veltro in potenza è l’imperatore Arrigo VII, citato due volte nella Commedia come «l’alto Arrigo»38, «ch’a drizzare l’Italia/ verrà in prima ch’ella sia disposta» (Par. XXX, 137-38), in cui Dante aveva riposto le sue speranze, poi deluse, di una ricostituzione dell’ordine politico in Italia, con la rifondazione del modello imperiale romano, di cui è testimonianza, tra l’altro, l’Epistola V39. Se una sicura identificazione storica non appare possibile, si può riflettere invece sulla descrizione della nascita del veltro: «tra feltro e feltro» può forse ricollegarsi a un’altra natività, quella di Cristo, che umilmente si è fatto carne nascendo in una mangiatoia: Mentre si trovavano là [a Betlemme], giunse per lei [Maria] il tempo di partorire e diede alla luce il suo figlio promogenito. Lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto all’albergo40. Il richiamo cristologico avvolge il veltro di un senso messianico, già evocato nei versi precedenti con immagini di umile potenza o, meglio, di “umiltà che può tutto”. Come il Cristo bambino viene adagiato in una mangiatoia, così il veltro nasce tra feltro e feltro, che è una “falda di lana o di altri peli animali ottenuta senza tessitura, usufruendo della capacità adesiva delle fibre opportunamente trattate”41. Perciò il veltro, alla sua nascita, non verrà avvolto in un panno, 38 Par.XVII, 82 e Par.XXX, 137. Come è noto, la breve e intensa parabola politica di Arrigo VII, impegnato in una guerra contro Firenze, il papato e i francesi, si conclude definitivamente con la morte dell’imperatore a Bonconvento, presso Siena, nel 1313. 40 Lc., II, 6-7. 41 Deli, op. cit., vol. 2/D-H p. 423. 39 38 ROBERTA ROGNONI come normalmente accade per i neonati, ma dal più umile dei tessuti che, letteralmente, non è neppure un tessuto. Va notato anche il gioco fonico creato dall’accostamento lessicale di “veltro/ feltro e feltro”, con la “f” e la “v” che sono lo stesso fonema (fricativa labiodentale) l’uno pronunciato sordo e l’altro sonoro: si viene così a costituire una terna di natura uguale ma diversa, quasi si tratti di una suggestione dantesca per rendere in modo celato la natura trinitaria del veltro, avvicinandolo ancora una volta al Cristo che è Figlio, tra il Padre e lo Spirito Santo. Il veltro salverà la «umile Italia», indicata con lo stilema virgiliano; ma a pronunciare la profezia è Virgilio stesso: si noti la trovata poetica di Dante, che fa parlare il poeta latino con le sue stesse parole: Humilemque videmus Italiam Aen., III, 522-23 Di quella umile Italia fia salute per cui morì la vergine Camilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute. Questi la caccerà per ogni villa, fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno, là onde ’nvidia prima dipartilla Inf. I, 106-11 L’Eneide è evocata in tutta la terzina, con la rapida ma pregante sfilata degli eroi, come in un “trionfo” romano, per celebrare il sacrificio dei valorosi combattenti di entrambe le parti, troiani e avversari, che morirono per permettere la fondazione e quindi la successiva grandezza di Roma. Anche il latinismo «villa» richiama il mondo classico, per ampliarsi poi in una visione più vasta, che include il senso VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 39 cristiano, dato che il veltro, dopo aver scacciato la lupa di città in città, alla fine la ricaccerà nell’inferno. Come accade per le bestie feroci, la lupa verrà catturata e imprigionata in una sorta di recinto, che però qui è infernale: il richiamo agli inferi porta con sé anche l’idea della morte di questa bestia, della definitiva sconfitta che le verrà inflitta dal veltro. Questo recinto infernale è anche il luogo di provenienza della lupa, liberata da una forza malvagia, l’invidia, che può essere definita come «il sentimento di cruccio nascente dal considerare il bene altrui come lesivo del proprio»42. Dante avverte che l’invidia è un sentimento strettamente connaturato all’animo umano, una delle manifestazioni più diffuse della naturale inclinazione al peccato dell’uomo; così nelle Sacre Scritture il diavolo viene indicato come il padre dell’invidia, giacché «per invidia del diavolo» la morte entrò nel mondo43. E, per invidia, dice il Vangelo, Gesù viene arrestato e condannato: Mentre essi erano radunati, Pilato domandò: “Chi volete che vi rilasci, Barabba o Gesù, quello che è chiamato Cristo?”. Sapeva, infatti, che per odio l’avevano consegnato44 . Nel Convivio il tema dell’invidia viene affrontato in modo diffuso, come parte integrante della riflessione filosofica dantesca. L’autore lo considera come un vizio che svilisce l’uomo, comunque connaturato al suo essere: Libro III Onde, con ciò sia cosa che sei passioni siano propie de l’anima umana, de le quali fa menzione lo Filosofo ne la sua Rettorica, cioè grazia, zelo, misericordia, invidia e vergogna, di nulla di queste 42 F. Salsano, “Invidia”, in ED, op. cit., vol. III pp. 492-94. Sapienza, 2, 24. 44 Mt., XXVII, 18. 43 M ROBERTA ROGNONI 40 puote l’anima essere passionata che a la finestra de li occhi non vegna la sembianza […] Libro I Dico adunque che per tre cagioni la presenza fa la persona di meno valore ch’ella non è l’una de le quali è puerizia, non dico d’etate ma d’animo; la seconda è invidia […]45. Nella Commedia la pacatezza della lucida analisi psicologica e morale lascia spazio alla veemenza dello sdegno, per l’invidia che adesca l’animo umano come appare dalle parole del suicida Pier delle Vigne, vittima della corte: La meretrice che mai dall’ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune, delle corti vizio, infiammò contra me li animi tutti46 Inf. XIII, 64-67 Le terribili conseguenze dell’invidia, messe a nudo con particolarità anatomica in tutta la loro brutalità dall’occhio schietto e lucido di Dante, diventano, filtrate dalla potenza della sua poesia e dalla moralità offesa dell’uomo storico, il grido di denuncia e di condanna lanciato da un profeta. Pur scegliendo un destino tutto diverso da quello del protonotaro svevo, Dante ha potuto provare sulle sue stesse spalle il peso e il dolore della rovina, provocata dall’invidia: i lunghi anni di esilio fino alla morte, la perdita di tutti i suoi beni, la 45 Conv., III, 8, 10; I, 4, 2 (ma si vedano anche i paragrafi 6-8). Pier delle Vigne raggiunse il culmine della sua carriera politica come protonotaro e logoteta di Federico II, finché cadde in disgrazia presso l’imperatore, che lo fece incarcerare accusandolo di tradimento. Sull’ingiustizia dell’accusa, dovuta all’invidia della corte sveva, scrive anche Giovanni Villani nella sua Cronica (VI, 22): «ciò fu fatto per invidia di suo grande stato; per la qual cosa il detto savio per dolore si lasciò tosto morire in pregione, e chi disse ch’egli medesimo si tolse la vita». 46 VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 41 condanna su di sé e sulla propria famiglia, a causa di Firenze «piena/ d’invidia sì che già trabocca il sacco»47. Nel prologo della Commedia, l’invidia sembra essere rappresentata come l’origine di tutti i mali. Lungo il canto il poeta costruisce un’immagine terrificante della lupa famelica e assassina, ma all’improvviso il lettore si trova di fronte a un’entità ancora più spaventosa e maligna, che fa passare la bestia quasi in secondo piano: l’invidia è la volontà che spalanca le porte del recinto infernale, consapevole della distruzione che la fiera affamata seminerà ovunque. Anche nel Purgatorio, dove si respira un’atmosfera fatta di dolce trepidazione per la speranza del vero bene, che spinge le anime a purificarsi con sollecitudine e fa sembrare meno cruda la loro pena fisica, l’invidia sembra spezzare quest’aurea atmosfera. La schietta confessione di Guido del Duca, che sulla terra ha conosciuto questo moto dell’animo, prima di essersene pentito, toglie la maschera all’invidia, mostrandone ancora una volta l’orribile volto: Fu il sangue mio d’invidia sì riarso, che se veduto avesse uom farsi lieto, visto m’avresti di livore sparso Purg. XIV, 82-84 La faccia dell’invidia è tanto più terribile, perché sfigurata, nel senso che rappresenta la deformazione di quello che è il sentimento per eccellenza dell’animo cristiano: la caritas. L’amore, l’apertura e la sollecitudine nei confronti dell’altro, la certezza di non poter essere felici se il fratello non lo è, sono moti dell’anima cristiana, riflessi limpidi di un prisma fatto di luce, quello della caritas, di cui Cristo è stato maestro. 47 Inf., VI, 49-50. ROBERTA ROGNONI 42 L’invidia appare così come il contrario dell’amore: l’invito di san Pietro è a rigettare «ogni cattiveria, ogni inganno, le ipocrisie, le invidie e ogni forma di maldicenza […]»48. Così l’apostolo Paolo, nella celebrazione dell’agapé cristiana (“amore”), scrive: La carità è magnanima, è benigna la carità, non è invidiosa, la carità non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità49. L’invidioso, invece di gioire per la felicità dell’altro, si rode: così il “riardere” confessato da Guido del Duca o gli “animi infiammati” di cui parla Pier delle Vigne danno proprio l’idea dell’invidia come perversione della caritas: non è l’amore per l’altro che fa ardere, infiammare il cuore o l’animo; è piuttosto un sentimento di “dis-amore” nei confronti l’altro, che nasce da un eccessivo ed esclusivo amore per se stessi; è amore che arde egoisticamente dentro di sé: bruciando nel proprio cuore e non uscendo ad abbracciare l’altro, finisce per consumare, in un fuoco distruttivo, la persona stessa. Già nella Vita Nuova si può rintracciare una riflessione dantesca sull’opposizione amore/invidia in un punto cruciale dell’opera. Dante, colpito dall’amore per Beatrice, mostra suo malgrado i segni fisici di questa fiamma che lo percuote e c’è chi, avendo malignamente intuito, vorrebbe sapere chi sia la donna amata dal poeta: E molti pieni d’invidia già si procacciavano di sapere di me quello che io volea del tutto celare ad altrui […] 48 49 Pt., I , 2, 1. Paolo, I Lettera ai Corinzi, 13, 4-7. VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 43 È Amore a suggerire al poeta di non rispondere a questo «malvagio domandare»; così Dante tace il nome di Beatrice: […] per la volontade d’Amore, lo quale mi comandava secondo lo consiglio de la ragione50. Con la profezia del veltro Virgilio, all’inizio della Commedia, sembra svelare già parte dell’essenza del viaggio dantesco, poiché sarà il veltro, sulla terra, a ricacciare la lupa negli inferi e a sconfiggere l’invidia. Allora il veltro, in senso allegorico e morale, può essere anche considerato come la cellula di bene presente in ogni uomo, che dovrà scacciare dentro di sé l’egoismo che porta al peccato e alla dannazione eterna, per aprirsi di nuovo all’amore, così da raggiungere l’unico vero bene. Il poeta latino, a questo punto, si proclama «guida» di Dante (v. 113), annunciando in una sintetica ed efficace profezia, il viaggio che i due pellegrini compiranno: l’Inferno e il Purgatorio sono ciascuno rappresentato nello spazio di una terzina; ma nell’annuncio della salita al Paradiso il discorso si amplia, occupando il doppio dello spazio (vv. 121-126); anche perché nella promessa di vedere le «beate genti», Virgilio inserisce una profezia nella profezia: l’incontro con Beatrice, cui Dante sarà affidato. Alle qua’ poi se tu vorrai salire, anima fia a ciò più di me degna: con lei ti lascerò nel mio partire; Inf. I, 121-23 Dante pellegrino, tuttavia, è come sordo a queste parole di Virgilio, di cui non sembra avere colto il senso profetico. Smarrito nella selva, si è spinto in un luogo dove la voce 50 Vita Nuova, IV, 1-2. 44 ROBERTA ROGNONI di Beatrice non può più arrivare: la morte fisica dell’amata ha spezzato il contatto con lei e il rifugio nella filosofia ha finito appunto per trasformarsi in selva, in un labirinto fatto di silenzio. Virgilio, come si è visto, risveglierà l’anima intorpidita di Dante, già nel canto successivo, rievocando esplicitamente il dialogo tra lui e Beatrice; ma, se in questa fase iniziale del percorso il pellegrino è ancora fittamente avvolto dalla coltre del peccato e della colpa e per questo non riesce a cogliere gli stimoli della guida, ben diverso si mostrerà il suo atteggiamento quando, alla fine del Purgatorio, Dante spaventato e fermo davanti al muro di fuoco, si muoverà per attraversarlo senza indugio, una volta sollecitato da Virgilio alla visione di Beatrice: Quando mi vide star pur fermo e duro, turbato un poco, disse “Or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro”. […] così, la mia durezza fatta solla, mi volsi al savio duca, udendo il nome che ne la mente sempre mi rampolla. Purg. XXVII, 34-36/ 40-42 Come Dante diventa propriamente il “pellegrino” solo alla fine del canto II, quando, rinfrancato dalle spiegazioni di Virgilio, si abbandonerà totalmente al poeta latino definendolo «tu duca, tu segnore e tu maestro» (v. 140), così, sinfonicamente, Virgilio prende perfettamente possesso del suo mandato solo alla fine del canto I, dopo l’intima metamorfosi da filosofo atarassico a poeta-vate, sollecitata dall’incontro fisico con Dante. È questo l’evento cruciale che segna una svolta in Virgilio: se il poeta latino aveva risposto con sincera sollecitudine all’invito della gentilissima, il contatto diretto VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 45 con il pellegrino per lui rappresenta un vero e proprio shock: il dolore di Dante pietrifica la razionalità di Virgilio; ma, poi, il suo corpo di ombra riesce a essere scosso dal calore della caritas offerta dall’altro: Virgilio che era apparso come «chi per lungo silenzio parea fioco» può tornare a parlare con l’altro, a dialogare, uscendo dalla solitudine del lògos, così da riuscire a capire fino in fondo il senso del proprio ruolo. La profezia di Virgilio, alla fine del prologo, apre una lunga serie di messaggi profetici che attraversano la Commedia e che accompagnano parallelamente il viaggio, come dei segni parlanti che appaiono a tratti, indicando al pellegrino che si trova sulla giusta strada. A pronunciare le profezie saranno anche dei dannati, o addirittura, dei mostri infernali, come è il caso di Caronte, in Inf. III (vv. 91-93), a dimostrazione del fatto che il male non è un’entità a sé, ma che anche in esso vi è una cellula di bene che dimostra l’origine unica e comune, cioè Dio51. In generale l’inferno, in quanto luogo del peccato e della colpa, appare come il regno dell’inganno, come falsa verità. Lo stesso Virgilio pur essendo “sommo duca e poeta” porta con sé questa finitezza infernale, che rende il suo discorso talvolta ambiguo: come in vita Virgilio-lanterna non ha saputo cogliere la verità nella sua profondità, così ora le sue parole oscillano tra la verità e l’involontario inganno, l’errore. Virgilio filosofo, che ha sempre cercato di abbracciare il significato della realtà con i mezzi della ragione, nell’altra vita non riesce ad avere sempre il pieno 51 Si pensi ai numerosi indemoniati guariti da Gesù, come è descritto nei Vangeli: Cristo non distrugge ma scaccia il male perché torni il “tutto bene”; è il male che si distrugge da sé, come avviene nell’episodio dell’indemoniato di Gerasa: la legione dei demoni si trasferisce dall’uomo ai porci, che si gettano nelle acque annegando. Mt., VIII, 28-34; Mr., V, 1-20; Lc., VIII, 26-39. ROBERTA ROGNONI 46 controllo della situazione o la consapevolezza di ciò che sta dicendo52. Per lo stesso motivo, talvolta, Virgilio appare nella Commedia come un profeta inconsapevole. Un primo esempio si nota in Inf. III, quando Dante e il suo maestro si trovano in prossimità del fiume Acheronte, dove le anime dannate si radunano per essere traghettate da Caronte; il fiorentino, alla vista di quella folla, chiede delle spiegazioni a Virgilio: per ch’io dissi: “Maestro, or mi concedi ch’i’ sappia quali sono, e qual costume le fa di trapassar parer sì pronte, com’io discerno per lo fioco lume”. Ed elli a me: “Le cose ti fier conte quando noi fermerem li nostri passi su la trista riviera d’Archeronte”. Inf. III, 72-78 Nel senso letterale, Virgilio intende rimandare il chiarimento sulla sollecitudine dei dannati, esortando Dante ad attendere il momento più opportuno. Ma le sue parole tradiscono un significato più profondo. L’apostrofe stessa a Virgilio, chiamato «maestro», mette in luce la funzione iniziatica che qui svolge nei confronti di Dante. Il suo è prima di tutto il monito al discepolo perché impari a frenarsi e a raggiungere l’equilibrio della mesótes; ma, allo stesso tempo, Virgilio, inconsapevolmente, prepara 52 L’ambiguità di Virgilio è resa bene nel già citato episodio di Purg. I, nell’incontro con Catone; qui il poeta latino invita giustamente Dante a fare reverenti «le gambe e ’l ciglio» (v. 51) davanti al «veglio onesto», ma poi cerca di convincere Catone a lasciarli passare usando il ricordo terreno di Marzia, che abita nell’inferno; un’argomentazione improponibile per un’anima salva, come quella di Catone, che risponde seccamente a Virgilio: «Ma se donna del ciel ti move e regge, / come tu di’, non c’è mestier lusinghe: / bastisi ben che per lei mi richegge» (vv. 91-93). VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 47 Dante a un’iniziazione ben più profonda e più vera di quella filosofica: invitandolo al raccoglimento interiore e alla concentrazione di sé al momento in cui raggiungeranno la sponda dell’Acheronte, il maestro latino prepara il discepolo ad accogliere al meglio e fino in fondo il primo grande segno infernale che si troverà davanti: il terremoto, accompagnato dal baleno. Il discepolo reagisce come un perfetto cristiano: con gli «occhi vergognosi e bassi» (v. 79), cioè con l’humilitas di chi piega l’intelletto al troppo domandare e si abbandona all’altro53. Il solenne cenno profetico virgiliano («le cose ti fier conte») è latore anche di un’altra risposta che il pellegrino riceverà sulla riva dell’Acheronte: una verità che per intensità andrà ben oltre quanto chiesto dal fiorentino. Come nel canto I Dante chiede a Virgilio di salvarlo dalla lupa in quel momento contingente e Virgilio fa di più profetizzando la definitiva distruzione della fiera da parte del veltro, così qui il poeta latino offre una risposta più piena e pregnante, rispetto a quanto richiesto dal pellegrino. Il riferimento è alla profezia di Caronte, il traghettatore infernale, personaggio che il Dante poeta trae proprio dall’Eneide: Portitor has horrendus aquas et flumina servat terribili squalore Charon, cui plurima mento canities inculta iacet, stant lumina flamma, sordidus ex umeris nodo dependet amictus. Aen. VI, 298-301 53 Ancora una volta si può notare una “armonica distonia” tra il messaggio di Virgilio e quello di Dante: essa appare come un lieve difetto comunicativo, perché il dialogo avviene su due piani diversi, con due linguaggi differenti, ma contribuisce ad arricchire il senso finale del discorso. Il dialègestai tra i due ricorda il processo filosofico della sintesi delle parti diverse (i loro singoli discorsi) in una perfetta armonia (diaìresis e synagoghé di Platone). 48 ROBERTA ROGNONI Ed ecco verso noi venir per nave un vecchio, bianco per antico pelo, gridando: “Guai a voi anime prave!” Inf. III, 82-84 Il Caronte dantesco è una creatura mista e nuova, che unisce al profilo tratteggiato da Virgilio il vivace espressionismo di gusto tipicamente medioevale. Nell’Eneide, Caronte, nella sua altera fissità, ha lo squallore e il silenzio della morte; nella Commedia diventa una creatura “viva” perché Dante lo anima dandogli la parola, facendolo muovere e dialogare sulla scena, caratterizzandolo con la vivacità di un mostro infernale; così la descrizione della canizie richiama da vicino il testo virgiliano (più avanti, al v. 97, parlerà di «lanose gote»), ma il verbo successivo, posto a inizio di verso — «gridando» — segna la metamorfosi del Caronte antico in quello dantesco: Il nocchiero della Commedia, in quanto demone, è animato da una vis sadica che troviamo altrove nell’inferno54: Caronte grida e inveisce contro i dannati, batte con un remo chi indugia a salire sulla sua barca, compiacendosi di infierire e di riuscire ad atterrire quelle anime ree: 54 È una sorta di godere del male contro se stessi o, come nel caso di Caronte, contro gli altri dannati. Un altro esempio significativo è offerto in Inf. XXV, 13638: a conclusione della metamorfosi di due ladri, l’uno inveisce contro l’altro: «L’anima ch’era fiera divenuta, / suffolando si fugge per la valle, / e l’altro dietro a lui parlando sputa». In Inf. XXIII, 142-44, è l’ipocrita Catalano a pungere Virgilio, ricordandogli la beffa appena subita dai diavoli di Malebolge: «E ’l frate: “Io udi’ già dire a Bologna/ del diavol vizi assai, tra’ quali udi’/ ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna”»; assai significativo è pure l’episodio del conte Ugolino che rode il cranio dell’arcivescovo Ruggieri (Inf. XXXII-III), animato da un «odio» che il poeta descrive in modo efficace: «e come ’l pan per fame si manduca,/ così ’l sovran li denti all’altro pose/ là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca» (Inf. XXXII, 127-29). VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 49 Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude, cangiar colore e dibattieno i denti, ratto che ’nteser le parole crude55. Si noti anche l’insistenza con cui è descritto un particolare di Caronte, gli occhi, vero segno della sua anima di demone infernale, ben più forte ed espressivo dei «lumina flamma» virgiliani: che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote. Inf. III, 99 Caron dimonio, con occhi di bragia, Inf. III, 109 Caronte, incontrando Dante e Virgilio, cerca di ostacolare il loro viaggio, rifiutandosi di traghettarli sulla barca infernale. Ma, di fronte all’insistenza dei pellegrini, lancia un monito a Dante, che ha un valore profetico: Ma poi che vide ch’io non mi partiva, disse: “Per altra via, per altri porti verrai a piaggia, non qui, per passare: più lieve legno convien che ti porti” Inf. III, 90-93 Le parole di Caronte, intenzionalmente allusive, sembrano annunciare la salvezza di Dante. La «piaggia» può riferirsi alla spiaggetta del Purgatorio dove approdano le anime salve, sbarcando dal «più lieve legno», quello guidato dall’angelo nocchiero: 55 Inf. III, 100-102. ROBERTA ROGNONI 50 Poi, come più e più verso noi venne ’uccel divino, più chiaro appariva; per che l’occhio da presso nol sostenne, ma chinail giuso; e quei sen venne a riva con un vasello snelletto e leggiero, tanto che l’acqua nulla ne ’nghiottiva Purg. II, 37-42 Ma Dante e Virgilio non raggiungeranno la spiaggia del Purgatorio sulla barca dell’angelo nocchiero, ma attraverso la “natural burella” sotto il corpo di Lucifero (Inf. XXXIV, 70139), fino alle grotte della montagna sacra. Perciò le parole di Caronte non posson riferirsi all’attuale viaggio che Dante sta affrontando, quanto piuttosto a quello che compirà dopo la morte, da anima salva56. Dante, disorientato dal contatto con il mondo infernale e ancora moralmente avvinto dal sonno della selva, non risponde né reagisce a quanto detto da Caronte. Più che cogliere il senso di quelle importanti parole pronunciate dal traghettatore infernale, Dante appare vinto dal terrore, come gli altri dannati che affollano la riva dell’Acheronte, di fronte alla vista del terribile nocchiero. La koinonía con queste anime ree mostra bene come, in questa fase iniziale del percorso, la condizione del pellegrino sia assai prossima a quella dei dannati, perché come loro è nel peccato; l’unica differenza sta nel fatto che essendo ancora vivo ha davanti a sé la possibilità di riscattarsi, di avere una nuova opportunità di salvezza57. Poco dopo il discorso di Caronte, Dante si trova di fronte a un segno infernale, il terremoto, seguito dal baleno rosso, che colpisce il pellegrino a tal punto dal farlo svenire: «mi vinse 56 Nello stesso episodio, Dante viene definito «anima viva» (v. 88) e, implicitamente, «anima buona» (v. 127). 57 È anche pensabile che Dante non parli memore del monito ricevuto poco prima da Virgilio a frenare la sua curiositas. VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 51 ciascun sentimento;/ e caddi come l’uomo che ’l sonno piglia.» (vv. 135-36). Al solo ricordo di quel terribile boato, Dante narratore sente rinovellarsi lo «spavento/ che la mente di sudore ancor mi bagna». Quell’acqua morta, simbolo del peccato, richiama sinfonicamente le lacrime dei dannati che stanno per attraversare il fiume infernale: Poi si raccolser tutte quante insieme, forte piangendo, a la riva malvagia Inf. III, 106-107 Il pianto dei dannati rende la «terra lagrimosa» (v. 133): quest’acqua penetra nel terreno facendo scaturire il vento che provoca, in base alla teoria aristotelica accolta da Dante, il terremoto; nel De Meteora, Aristotele spiega che a provocare questo fenomeno è il sole che, scaldando il terreno, fa nascere dalle sue viscere un vento secco e forte che rompe la terra. Dante poeta inserisce una variatio dal sapore intensamente poetico, sostituendo il sole, come causa primaria del terremoto infernale, con le lacrime delle anime dannate58. Finito questo la buia campagna tremò si forte, che de lo spavento la mente di sudore ancor mi bagna. La terra lagrimosa diede vento, che balenò una luce vermiglia Inf. III, 130-34 Al pellegrino è così svelato il primo segreto dell’inferno: il suo distorcere in modo inquietante la natura, compresa quella 58 A. Niccoli, “Tremoto”, in ED., op. cit., vol. V p. 713. ROBERTA ROGNONI 52 umana, come Dante vedrà bene più avanti nel suo viaggio attraverso gli inferi59. Il terremoto assomiglia in modo inquietante a quello terrestre, ma allo stesso tempo è cosa tutta diversa; così pure è per il lampo rosso che balena nella «buia campagna», che illumina in modo innaturale un cielo che sembra vero ma è finto. Dante scopre così anche un’altra sconvolgente legge infernale, mettendo in guardia contemporaneamente anche il lettore: qui tutto è diverso da ciò che appare, perché è il regno della menzogna e dell’inganno, e occorre dunque prestare attenzione. Lo stesso Virgilio, che è anche l’amorosa guida che si prende cura di Dante con una sollecitudine quasi materna, confortandolo nei momenti più difficili, resta vittima degli inganni infernali. Così avviene in un passaggio cruciale del viaggio, alle porte della città di Dite che i diavoli rifiutano di aprire a Dante e Virgilio: Io vidi più di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente dicean: “Chi è costui che sanza morte va per lo regno della morta gente?” E ’l savio mio maestro fece segno di voler lor parlar secretamente. Allor chiusero un poco il gran disdegno, e disser: “Vien tu solo, e quei sen vada, che sì ardito intrò per questo regno. Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; chè tu qui rimarrai che li hai scorta sì buia contrada”. Inf. VIII, 82-93 59 Basti citare alcuni esempi come l’incessante metamorfosi dei ladri, che diventano serpenti e poi ancora uomini (Inf. XXV), i suicidi tramutati in piante (Inf. XIII) o il terribile stavolgimento della natura umana negli indovini, che hanno la testa rivolta alla schiena (Inf. XX). VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 53 Come Caronte aveva respinto Dante «anima viva», così i più di mille diavoli che affollano la porta della città cercano di scacciare indietro il pellegrino; è il suo essere vivo a scandalizzarli: Dante è colui che «sanza morte va per lo regno della morta gente», il suo viaggio attraverso l’inferno da persona viva rappresenta già di per sé una sconfitta per l’inferno stesso, perché è la prova evidente che questo regno e la morte sono un inganno (sulla scia di un altro viaggio, con valore archetipico per la salvezza dell’umanità, la discesa di Cristo agli inferi, che ha segnato il trionfo definitivo sulla morte60). La tracotanza dei diavoli nel ricacciare Dante, impedendogli di compiere il suo viaggio profetico alla scoperta dei segreti infernali, rappresenta un disperato tentativo di difesa del mondo degli inferi61. L’inferno, con la sua arroganza, cerca di spaventare i dannati, i pellegrini (e il lettore), presentandosi come un regno saldo e potente, mentre in realtà si sta sgretolando; il continuo franare delle rocce (ruine) un po’ ovunque, provocato dal terremoto che ha accompagnato il descensus Christi, dimostra che questa stabilità è solo un inganno62. Dante è «disfatto», sconvolto e annichilito di fronte alle «parole maledette» dei diavoli, tanto che prega Virgilio di tornare indietro: 60 Il Descensus Christi ad inferos, narrata nel Vangelo apocrifo di Nicodemo, è ricordata da Virgilio in Inf. IV, 52-63: «Io era nuovo in questo stato, / quando ci vidi venire un possente, / con segno di vittoria coronato […]». 61 Si veda anche l’inganno ordito da Malacoda e dagli altri diavoli contro Virgilio e Dante (Inf. XXI, 106-17) che tendono un’imboscata ai due pellegrini (Inf. XXIII, 21-36). 62 Le ruine interessano solo l’inferno. Si vedano, in particolare: Inf. V, 34-36; Inf. XII, 1-45; Inf. XXIII, 37-57, 127-48; Inf. XXIV, 1-45; da notare anche in Inf. III, 1-9, la scritta ingannevole sulla porta dell’inferno «io etterna duro»: ma la porta, scardinata da Cristo, è rotta, così come l’inferno continua a franare distruggendosi. 54 ROBERTA ROGNONI “e se ’l passar più oltre ci è negato, ritroviam l’orme nostre insieme ratto”. E quel signor che lì m’avea menato, mi disse: “Non temer; che ’l nostro passo non ci può torre alcun: da tal n’è dato” Inf. VIII, 101-105 Il parole con cui Virgilio conforta il discepolo hanno un sapore profetico; tuttavia il suo atteggiamento assomiglia più a un tentativo di effondere sicurezza in Dante, che a una reale conquista del suo spirito. Non è la limpida certezza, priva di qualsiasi dubbio, che spirava dalle parole di Beatrice, discesa agli inferi per parlare con Virgilio, senza alcun timore: Temer si dee di sole quelle cose c'hanno potenza di fare altrui male; de l’altre no, chè non son paurose Inf. II, 88-90 Tornando a Inf. VIII, l’immagine ossimorica del «dolce padre» che abbandona il figlio rende bene questo stato d’animo di incertezza che attanaglia Virgilio e che coincide perfettamente con quello di Dante: Così sen va, e quivi m’abbandona lo dolce padre, e io rimango in forse che no e sì nel capo mi tenciona Inf. VIII, 109-11 Virgilio si allontana per concertare con i diavoli ma, quelli, in risposta, chiudono in faccia la porta al poeta latino. Chiuser per porte que’ nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase, e rivolsesi a me con passi rari. VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 55 Li occhi a la terra e le ciglia avea rase d’ogni baldanza, e dicea ne’ sospiri: “Chi m’ha negate le dolenti case!” Inf. VIII, 115-20 L’esclamazione di Virgilio rende tutta l’incredulità dell’uomo razionale che di fronte all’apparente vittoria delle forze del male resta sconcertato. La conseguente humilitas di Virgilio, sconfitto e beffato dai diavoli, è solo apparente, giacché poco più avanti ribadisce a Dante con certezza: «non sbigottir, ch’io vincerò la prova, / qual ch’a la difension dentro s’aggiri» (vv. 122-23). Le parole di Virgilio suonano ormai come una profezia stonata, anche agli orecchi del discepolo: lo stesso poeta latino sembra pronunciarle più per convincere se stesso e per darsi forza, che per una reale sicurezza; anche Dante percepisce come deboli le rassicurazioni della sua guida, tanto che non cesserà di essere angosciato: entrambi gli stati d’animo perdurano tra la fine del canto VIII e l’inizio del successivo, con l’effetto poetico di una dilatazione tendente all’infinito. L’incertezza del poeta latino apre dunque il canto IX, facendosi ancora più acuta: è il dubbio che tormenta l’anima razionale di Virgilio, che gli impedisce di vedere bene. La sua vista non è chiara e limpida come quella mostrata da Beatrice nel canto II, che può muoversi sicura per l’inferno. Pur sapendo che il viaggio di Dante è voluto dall’alto, il poeta latino resta ingabbiato tra le mura del “nobile castello” della ragione, che di fronte al mistero non piega la testa, ma brancola nel buio nel dubbio. Il discorso frammentato di Virgilio rende bene questo stato dell’anima scossa dal turbamento dell’incertezza, che non sa più a cosa credere; ROBERTA ROGNONI 56 così anche il tono del suo discorso, rispetto alla chiusura del canto precedente, suona ancor meno saldo63: “Pur a noi converrà vincer la punga” cominciò el, “se non… Tal ne s’offerse: oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!” Inf. IX, 7-9 Virgilio ha totalmente perso la mesótes, ma pur sentendo il profumo di una verità vera, non può coglierla fino in fondo. Totalmente estranea alla sua mentalità di uomo anticorazionale è la possibilità di abbandonarsi all’altro, soprattutto nelle difficoltà. Il concetto cristiano, che prevede l’humilitas radicale, nel senso dell’abbassamento fino all’abbandono totale all’altro, non può essere accolto dal poeta latino. Così le parole di Beatrice o l’attesa del messo celeste, che pur verrà, non sono abbastanza per rassicurare la mente razionale di Virgilio. La sua vista qui è ridotta e Dante sembra avvertire questo limite, tanto che non ricorderà tutte le parole pronunciate dal maestro: «E altro disse, ma non l’ho a mente»64. Virgilio è scosso dalla reazione dei diavoli, perché, come spiega a Dante, è già passato, un’altra volta, per quella porta, per compiere un viaggio fino al fondo dell’inferno: Ver è ch’altra fiata qua giù fui, congiurato da quella Eritòn cruda che richiamava l’ombre a’ corpi sui. Inf. IX, 22-24 63 Si vedano i vv. 120-130 di Inf. VIII. Inf. IX, 34. Il pellegrino giustifica questo vuoto di memoria con la terribile visione che suscitano in lui, subito dopo, le Furie; ma, nei canti VIII e IX, Dante coglie perfettamente, grazie alla sensibilità della sua anima «viva», il limite delle rassicurazioni di Virgilio; si accorge, cioè, che il poeta latino, che tante volte lo ha salvato, in realtà stavolta è come in crisi e non può aiutarlo veramente. Per questo, in fondo, vuole tornare indietro: perché sente come di avere smarrito la sua guida. 64 VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 57 Il poeta latino dunque conosce bene il percorso infernale; ma fornendo le sue credenziali a Dante, in realtà evoca un viaggio che per lui è stato infamante, simbolo del limite della civiltà antica a cui appartiene. Erittone, la terribile maga tessala di cui parla Lucano nella Farsalia, ha spinto Virgilio fino al basso inferno, per liberare un’anima nera dal «cerchio di Giuda», che potesse rendere più potente la sua magia e la veggenza. Si noti che Virgilio non ha potuto opporsi alla volontà di Erittone che lo aveva «congiurato», rappresentazione della forza barbarica e primitiva che caratterizza l’uomo nel suo essere più bestiale, di fronte alla quale la civiltà evoluta, raffinata e razionale, non può che soccombere. Trattandosi di un viaggio promosso da una maga «cruda», Virgilio non aveva potuto che trovare aperte le porte della città di Dite, in quanto i diavoli desideravano agevolare quel viaggio. Ben diverso percorso è quello che invece ora il poeta latino sta compiendo, su indirizzo di Beatrice e spinto dalla volontà celeste: il suo è un movimento controcorrente, che viene ostacolato, ma non può essere mai vinto, dalle forze del male. Virgilio sembra non comprendere questa profonda sfumatura e da qui nasce la sua incertezza: paragonando il viaggio di Erittone a quello di Beatrice (in quanto viaggio in inferno) già commette un errore; in lui c’è il ricordo delle parole della gentilissima («Tal ne s’offerse»), come una promessa, che però non basta a quietare la sua razionalità, mentre sul fronte opposto c’è il dato reale, l’esperienza, che gli ha mostrato come al solo nome di Erittone le porte di Dite si siano spalancate. Tutto ciò è segno del suo restare ancora legato a un dualismo, che non riesce e non può superare a causa della sua condizione di non cristiano (quindi, come tale, chiuso alla verità). 58 ROBERTA ROGNONI L’attacco improvviso delle Erinni e di Medusa, che pietrifica con il suo sguardo, sblocca la razionalità di Virgilio per un moto istintivo di protezione nei confronti di Dante: con il suo corpo, il poeta latino protegge in una specie di abbraccio il pellegrino, per difenderlo dagli occhi della Gorgone: Volgiti in dietro e tien lo viso chiuso; “chè se il Gorgòn si mostra e tu ’l vedessi, nulla sarebbe del tornare mai suso” Così disse ’l maestro; ed elli stessi mi volse, e non si tenne alle mie mani, che con le sue ancor non mi chiudessi Inf. IX, 55-60 L’istintiva corporeità del maestro riesce a oltrepassare le sbarre della mente razionale, facendolo aprire con sollecitudine verso l’altro, Dante in difficoltà. Virgilio smette di porsi interrogativi e agisce per salvare il discepolo. Nel momento patetico più alto arriva finalmente il messo celeste (vv. 61-105): Virgilio, a questo punto può rientrare completamente nel suo ruolo di guida, invitando il pellegrino ad accogliere l’arrivo dell’angelo nel modo più opportuno: Li occhi mi sciolse e disse: “Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica […] Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei fè segno ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso. Inf. IX, 73-74 / 85-87 Virgilio ha ripreso il controllo di sé e la sensibilità di Dante ha percepito questo mutamento; il limite virgiliano sta però nel fatto di non riuscire a trovare una tranquillitas animi VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 59 fidandosi dell’altro: egli non si abbandona al mistero, ma recupera completamente la mesótes solo alla vista del messo divino. L’angelo «pien di disdegno» apre la porta con una umile «verghetta», rimproverando i demoni infernali: così le sue parole, volontà di Dio, riportano l’ordine in breve, proprio quando sembrava che tutto venisse inghiottito dal caos. Il discorso del messo si articola in tre terzine, secondo una simbologia numerica che riconduce al concetto di Trinità. La terzina centrale racchiude in sé il significato profondo di tutto l’episodio e, implicitamente, rappresenta un ammonimento anche a Virgilio, che non ha avuto il coraggio di credere fino in fondo alle parole di Beatrice: Perchè recalcitrate a quella voglia a cui non può il fin mai esser mozzo, e che più volte v’ha cresciuta doglia? Inf. IX, 94-96 Ora i due pellegrini possono rimettersi in strada «sicuri appresso le parole sante» (v. 105). La ripresa del viaggio è segnata dall’innesto di un nuovo tema, l’incontro con gli eretici, che vengono puniti dentro delle arche infuocate prive di coperchio: introdotto nel canto IX, questo motivo verrà poi ampiamente sviluppato nel successivo. Nella poetica dantesca, l’eresia è strettamente collegata al concetto di “vedere”, nel senso che è concepita come una deformazione o una limitazione dell’unica vera vista, quella di Dio65 e dell’uomo in Dio. 65 La voce volgare deriva dal latino haeresiam, “dottrina, dogma, scuola, sistema filosofico”, evoluzione del greco αιρεσις “presa, conquista”, poi “scelta elezione”. La voce greca deriva dal verbo αιρευσθαι “fare la propria scelta”, d’etimologia incerta. “Eresia” in DELI, op. cit., vol. II p. 391. ROBERTA ROGNONI 60 L’eretico è dunque miope. Questo tòpos percorre il tessuto narrativo dei canti IX e X, rinnovato continuamente da una fitta serie di richiami a distanza, ottenuti con l’anafora di termini legati al concetto di “vista-malavista” (verbi, sostantivi o aggettivi). Così, per introdurre gli eretici, il poeta usa una serie di espressioni come «riguardar», «occhio», «veggio»66; ma ancora più martellante sarà il ritmo dell’anafora, quasi ossessiva, nel canto successivo67. Qui Dante incontra due, o meglio tre, personaggi: Farinata, Cavalcante e, implicitamente, anche quello che Dante ha più volte definito «primo de li miei amici», Guido Cavalcanti, evocato nelle parole del padre68. Nella primavera del 1300, quando la narrazione colloca il viaggio attraverso i tre regni, Guido è ancora in vita; morirà pochi mesi dopo, in agosto, a causa della malaria contratta nell’esilio di Sarzana, dal quale era stato appena richiamato assieme agli altri capi di parte bianca e nera. Cavalcante e Farinata, invece, sono due anime dannate che abitano i sepolcri in una zona particolare di questo «cimitero» infernale, occupata, come spiega Virgilio a Dante, da coloro «che l’anima col corpo morta fanno» (Inf. X, v. 15). Il poeta li definisce i «seguaci» di Epicuro, dannati per la loro fede materialista, per aver creduto che la morte fisica fosse la fine di tutto. Questi “epicurei”, perciò, hanno mostrato nella loro vita una vista debole, poco profonda: come quella di chi non 66 Inf. IX, 107-10. Nel canto X si rilevano: «veder» (v. 7), «guardia» (v. 9), «volgiti» (v. 31), «vedi» (v. 32), «vedrai» (v. 33), «viso» (v. 34), «fronte» (v. 35), «guardommi» (v. 40), «celai», «apersi (v. 45), «levò le ciglia», «vista» (v. 52), «ombra» (v. 53), «guardò» (v. 55), «veder» (v. 56), «cieco» (v. 58), «occhi» (v. 69), «parve» (v. 72), «aspetto» (v. 74), «faccia» (v. 80), «viso» (v. 93), «par», «veggiate» (v. 97), «veggiam», «luce» (v. 100), «splende» (v. 102), «s’ascose» (v.121), «raggio» (v. 130); chiude la sequenza il significativo sintagna «di quella il cui bell’occhio vede» (v. 131). 68 Vita Nuova, III; citazioni simili anche nei capp. XXIV, XXV, XXX, XXXII. Guido è anche il dedicatario del poemetto giovanile. 67 VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 61 riesce a vedere molto lontano, ma anzi ha una percezione che non va oltre un certo limite. Il senso dell’esistenza, dal punto di vista dell’epicureo materialista, è legato al concetto di gioia come hedoné (corrisponde al latino voluptas): il piacere che nasce dal momento presente e che si configura come una felicità egoistica, che il singolo riesce a offrire a se stesso. Questa gioia, dal punto di vista cristiano, non può che mostrarsi come falsa, anzitutto perché effimera e transitoria: così l’invito oraziano al carpe diem, paradigma della filosofia epicurea a godere fino in fondo i piaceri che offre la vita, non riesce a cancellare ma anzi sottolinea ancor di più tutta la provvisorietà che caratterizza questa concezione dell’esistenza, rivelando in ultimo la debolezza del proprio messaggio. Alla precarietà della gioia terrena offerta dalla voluptashedoné, ricercata per un puro limite di prospettiva, il pensiero cristiano oppone la vera felicità, stabile ed eterna: è la beatitudo che può essere raggiunta soltanto da colui che affina la sua vista; da chi vede così chiaramente da concepire l’unica gioia piena soltanto nella realizzazione dell’incontro. Al carcere egoistico dell’hedoné si contrappone così il legame che l’io crea aprendosi all’altro: la beatitudo rappresenta infatti un momento di unione tra l’anima singola e il tutto, che avviene in modo stabile soltanto in una dimensione ultraterrena. Questa vera felicità, concepita come meta dell’uomo, si può identificare con la “terza beatitudine” cui Dante fa riferimento più volte nel Convivio. Una visione a cui gli epicurei di Inf. X non hanno voluto credere in vita, abbandonandosi al mistero, e che perciò è loro preclusa anche ora. 62 ROBERTA ROGNONI Veramente è da sapere che noi potemo avere in questa vita due felicitadi, secondo due diversi cammini, buono e ottimo, che a ciò ne menano: l’una è la vita attiva e l’altra la contemplativa […] Libro IV, 17, 9 E così appare che nostra beatitudine (questa felicitade di cui si parla) prima trovare potemo quasi imperfetta ne la vita attiva, cioè ne le operazioni de le intellettuali. Le quali due operazioni sono vie espedite dirittissime a menare a la somma beatitudine, la quale qui non si puote avere, come appare pur per quello che detto è. Libro IV, 22, 18 La condizione degli epicurei è ben espressa nella tipologia della pena infernale che li caratterizza, chiusi nelle arche come tutti gli eretici, perché come non hanno visto bene in vita, così non possono vedere nella morte. Ma è interessante osservare ciò che non sfugge all’occhio attento del Dante pellegrino: questi avelli, infatti, non sono chiusi. “La gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder? già son levati tutt’i coperchi, e nessun guardia face” Inf. X, 7-9 La meraviglia di Dante è dettata dalla ragione, perché non riesce a capire per quale motivo, pur essendo ogni tomba aperta e priva di guardiani, i dannati non vi escano. Ciò che in apparenza si pone come una violazione del principio razionale di non contraddizione, è in realtà frutto della volontà dei dannati, che per loro scelta non escono dai sepolcri. La loro proterva ostinazione a non voler vedere oltre un certo limite continua anche nell’oltretomba, pur di fronte VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 63 all’evidenza dell’inferno che li tortura mostrando esplicitamente la fallacia del loro pensiero mortale: da qui il rifiuto a uscire dagli avelli. In sostanza, come in vita gli eretici avevano la possibilità di vedere in profondità, credendo che oltre la morte fisica e materiale vi fosse un’altra vita, ma non l’hanno fatto, così ora possono vedere oltre il limite angusto delle arche, ma preferiscono restarvi dentro. Chiusi nelle loro convinzioni materialistiche, gli eretici, anche dopo la dannazione, fin dentro l’inferno, non aprono se stessi, abbandonandosi alla verità, come accade allo stesso Farinata: Vedi là Farinata che s’è dritto: da la cintola in su tutto ’l vedrai I’avea già il mio viso nel suo fitto; ed el s’ergea col petto e con la fronte com’avesse l’inferno in gran dispitto. Inf. X, 31-36 Il contegno sdegnoso di Farinata non è solo il segno della “magnanimità” del capo ghibellino, come spesso si è ben messo in luce, ma forse è pure un indizio lasciato da Dante poeta, che aiuta a chiarire il suo giudizio circa la grave colpa dell’eresia. Lo scetticismo di Farinata nella possibilità di un’esistenza oltremondana è così radicale che quasi, parodisticamente, sembra incredulo di trovarsi all’inferno, tra quelle arche infuocate. La descrizione del ghibellino che si erge «dalla cintola in su» sottolinea bene l’estremo razionalismo che ha caratterizzato la sua esistenza terrestre, quella di un uomo che, scandagliando il senso profondo e ultimo dell’essere, non riesce a trovare altre risposte oltre a quelle offerte dalla vista sensibile e dalla luce della ragione. Una luce troppo debole per riuscire a vedere bene. Così, lo stesso Farinata, spiegando a Dante la conoscenza dei dannati, 64 ROBERTA ROGNONI inconsapevolmente, compie un’amara parodia di sé e della sua condizione di eretico: “Noi veggiam, come quei c’ha mala luce, le cose” disse “che ne son lontano”; cotanto ancor ne splende il sommo duce. Quando s’appressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e s’altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano. Inf. X, 100-105 Nel contesto della narrazione, Farinata intende alludere alla non-conoscenza delle cose terrene: nello specifico, non è chiaro se quel «noi» del ghibellino sia riferito agli epicurei, agli eretici o, più in generale, ai dannati. L’indeterminatezza di queste parole dà all’episodio un significato ancora più denso, perché mette ben in luce questo velo di incertezza che copre gli eretici, come una nebbia che avvolge e intorpidisce i loro sensi. Essi possono vedere le cose lontane, ma non quelle vicine, cioè il presente che, per definizione, è visibile a tutti. La loro condizione appare così un perfetto contrappasso per analogia della loro limitatezza terrestre: da vivi avevano di fronte la verità della vita eterna, che però hanno rifiutato di cogliere, concentrandosi solo sul presente, visto come l’unica dimensione da cui poteva provenire la vera gioia. Così ora, nella morte e nella dannazione, il presente terrestre è loro negato, assieme alla prospettiva di una felicità eterna. L’unica certezza è il futuro, che però non rappresenta la speranza, ma la conferma, dal punto di vista del dannato, di un’eterna ripetizione del presente, fatto di dolore e di sofferenza. Ora l’unico presente per loro percepibile è fatto di male e di dolore, in contrapposizione con la loro vanità/credulità da vivi, di considerare il presente solo come piacere. Dal punto VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 65 di vista intellettuale, come non hanno saputo cogliere il senso del presente nel dolce mondo, così qui sfugge loro il senso più profondo ed essenziale del presente: nel dolore, cioè, non riescono a vedere la luce (come avviene invece per le anime del purgatorio). In sostanza il loro limite è non riuscire ad andare oltre la percezione sensoriale, incapaci di cogliere il senso altro delle cose. Perciò il vero strazio degli epicurei, pena più forte di quella fisica, sta proprio nel togliere loro la vista dell’unica cosa di cui hanno sempre avuto certezza: la conoscenza sensuale della realtà materiale e tangibile, coglibile con la speculazione dell’intelletto, lo «stato umano» che è tanto caro, anche nella morte, a questi dannati. Nel colloquio con Dante, infatti, Farinata appare turbato non tanto dal dolore fisico della pena, quanto piuttosto al racconto delle vicende fiorentine, che riguardano la fazione ghibellina. La dolorosa scoperta della cacciata dei “suoi” sicuramente lo spingerebbe a voler sapere di più di quanto Dante gli rivela. Ciò nella consapevolezza che senza un intervento esterno, senza qualcuno che racconti loro i fatti, il presente storico resta per questi dannati un buio perenne; ma la specificazione di Farinata, quell’«altri», è evidentemente un adynaton di cui il ghibellino è consapevole: l’inferno è solitudine e trovarvi un viandante come Dante rappresenta un fatto eccezionale. Le parole di Farinata appaiono perciò come il frutto di una vis sadica del dannato contro se stesso e contro gli altri, perché rimarcare la propria condizione di cecità serve a rinnovare il dolore. L’impeto distruttivo e autolesionista va anche oltre, poiché Farinata svela a Dante come anche il futuro rappresenti in fondo, per lui e per gli altri, una disillusione. ROBERTA ROGNONI 66 Queste anime, infatti, sanno che verrà un giorno in cui la loro conoscenza diventerà del tutto cieca, al momento del Giudizio Universale. Un dettaglio, questo, di grande importanza per il Dante poeta, che vuole sottolineare al lettore: non a caso questo concetto, ora ripreso da Farinata, si ricollega sinfonicamente a quanto già anticipato da Virgilio al pellegrino, all’inizio del canto, circa i coperchi degli avelli: Ed elli a me: “Tutti saran serrati quando di Iosafàt qui torneranno coi corpi che là su hanno lasciati”. Inf. X, 10-12 “Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta”69. Inf. X, 106-108 La disperazione di questa malavista è resa bene dalla figura di Cavalcante che, riconosciuto Dante, d’istinto balza fuori con la testa dall’avello, per vedere se assieme al poeta ci sia il figlio Guido. Allor surse a la vista scoperchiata un’ombra lungo questa infino al mento: credo che s’era in ginocchie levata. Dintorno mi guardò, come talento avesse di veder s’altri era meco; e poi che il sospecciar fu tutto spento, piangendo disse: “ Se per questo cieco carcere vai per altezza d’ingegno, mio figlio ov’è? perché non è ei teco? Inf. X, 52-60 69 Nel primo caso è Virgilio a parlare a Dante; il secondo brano è invece la conclusione del discorso di Farinata. Si noti il richiamo sinfonico tra la «porta chiusa» e i «coperchi serrati». VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 67 Non è solo la disperata invocazione nei confronti del figlio Guido a rivelare al pellegrino il tormento di queste anime dannate. L’atrocità della loro condizione sta soprattutto nella rapida allusione, sottolineata poeticamente con l’enjambement, al «carcere cieco» in cui si sono rinchiusi. Dal punto di vista di questi dannati il buio del presente appare come una pena inflitta nell’inferno, che ha spezzato la loro facoltà cognitiva. In realtà — e ciò rende ancora più tragicamente grottesca la loro condizione — questi epicurei non si rendono neppure conto di avere sempre vissuto nell’oscurità, scambiando la tenebra del piacere fallace con la vera luce. L’inferno, perciò, non li pone di fronte a un’altra condizione, ma è, in sostanza, una dilatazione ad aeternum del buio che li ha sempre avvolti sostanzialmente. La mimica del vecchio Cavalcante è quella di un supplice disperato, di un uomo che mendica notizie di quel mondo terreno che sente vicinissimo dentro di sé, ma troppo lontano perché egli possa vederlo con i suoi occhi. Non appena riconosce la voce di Dante, Cavalcante si mette «in ginocchie», cerca affannosamente di scorgere dei segni della presenza del figlio e, quando si accorge che non è con Dante, piange; al pellegrino pone una serie di domande concitate e sconnesse ma, davanti all’esitazione dell’interlocutore, Cavalcante chiude il suo monologo senza neppure attendere la risposta, precipitando nel suo avello, richiudendosi in sé e nel proprio dolore. E io a lui: “Da me stesso non vegno: colui ch’attende là, per qui mi mena, forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”. […] Di subito drizzato gridò: “Come dicesti? elli ebbe? non viv’elli ancora? non fiere li occhi suoi il dolce lome?” Quando s’accorse d’alcuna dimora Ch’io facea dinanzi alla risposta, 68 ROBERTA ROGNONI supin ricadde e più non parve fora. Inf. X, 61-63 / 67-72 Il contegno di Cavalcante è l’opposto rispetto a quello di Farinata: la sua è una reazione scomposta, sollecitata dall’affetto che prova per il figlio, di cui non sa più nulla. Cavalcante, che razionalmente non aveva concepito una vita ultraterrena, ora diventa l’irrazionale per eccellenza. Non è soltanto la morte di Guido a spaventare il padre, quanto l’ansia che egli possa essere dannato: che, come in un castigo biblico, la colpa del padre ricada anche sul figlio. Guido è il terzo grande personaggio di questo episodio, non fisicamente sulla scena, ma richiamato con forza dalle parole di Cavalcante. Nella Vita Nuova, Dante non lo nomina direttamente, ma lo definisce più volte il suo migliore amico, simbolo di un legame forte che appartiene alla giovinezza biografica e poetica dell’autore70: io vidi venire verso di me una gentile donna, la quale era di famosa bieltade, e fue già molto donna di questo primo mio amico. Cap. XXIV, 3 E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente. Cap. XXV, 10 E simile intenzione so ch’ebbe questo mio primo amico a cui io ciò scrivo, cioè ch’io li scrivessi solamente in volgare. Cap. XXX, 3 70 Vita Nuova, cap. III, 14. Il rapporto con il Cavalcanti è evidente anche nelle rime giovanili. VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 69 Al prosimetrum si riallaccia sinfonicamente questo passo della Commedia: ma nell’inferno Guido è chiamato per nome, in un contesto ben diverso rispetto al libello giovanile; tutta la distanza tra il poeta e l’amico della giovinezza si legge in quel «vostro», che sembra cancellare, come una palinodia, il «mio» con cui, nella Vita Nuova, si allude sempre all’amico Cavalcanti. La radice di questa distanza, che il poeta mette tra sé e l’amico di un tempo, è rivelata inconsapevolmente dallo stesso Cavalcante, che vedendo Dante percorrere l’inferno «per altezza d’ingegno» si aspetta logicamente di trovarvi, come compagno del pellegrino, anche il figlio Guido, di non minor valore. L’errore di Cavalvanti è un vizio di malavista: la sua condizione di epicureo-materialista, per cui è inconcepibile la fede oltre alla ragione, gli fa dedurre senza alcun dubbio che il viaggio di Dante sia dovuto alle sole sue doti intellettive, comuni a quelle del figlio. Dante non risponde chiarendo in modo esplicito le ragioni che stanno alla base del suo cammino — fides e caritas —, non svela a un dannato i misteri del cielo che comunque la sua vista limitata non potrebbe abbracciare: ma nell’allusione a colui che lo attende — e che evidentemente non attende anche Guido — si coglie l’abisso che separa lui e i due Cavalcanti. Il «disdegno» di Guido sembra essere la ragione fondamentale del distacco con l’amico, ma sull’oggetto di questo disprezzo, anche in questo caso, Dante sembra non chiarire di proposito. Pensando a un riferimento immediato, l’oggetto di questo disdegno può essere identificato in Virgilio — simbolo della ragione — che sta aspettando, poco lontano, il discepolo impegnato a dialogare con Farinata. In effetti lo stare in disparte del poeta latino, in tutto l’episodio, sembra ricollegarsi perfettamente alle parole pronunciate da Dante, accrescendone il senso più profondo. 70 ROBERTA ROGNONI L’esilio del 1300, cui è costretto anche Guido Cavalcanti, per ordine dei priori tra cui compare lo stesso Dante, rappresenta dal punto di vista storico-biografico il momento più alto della frattura tra i due amici. Ma la distanza tra lui e Dante è ormai anche tutta poetica e, prima ancora, morale. Rispetto alla Vita Nuova, Dante compie un percorso evolutivo, acuendo la sua percezione visiva: non si abbandona definitivamente alla morte fisica di Beatrice, alla distruzione dei sensi, né alla visione razionale offerta dal carcere della filosofia; ha, piuttosto, il coraggio — nel senso etimologico e originario del termine — di condurre avanti la sua ricerca, fino a raggiungere la vera vista, quella offerta dalla nuova Beatrice. La poetica di Guido è, invece, quella dell’amore come morte e paura, perché fa smarrire e spaventa l’anima del poeta, in quanto concepito soltanto, a differenza dell’approdo della poetica dantesca dopo la Vita Nuova, come totale e doloroso abbandono ai sensi, rinunciando alla ricerca razionale (in senso cristiano) e all’aprirsi alla grazia. La cupa visione poetica cavalcantiana si ricollega al monopsichismo averroista abbracciato dal suo pensiero: la concezione, condannata dall’ortodossia ecclesiastica, per cui l’anima individuale muore definitivamente assieme al corpo, mentre nella visione oltremondana essa, come luce, va a ricongiungersi all’Uno da cui proviene, in un unico insieme dove della personalità e singolarità dell’uomo che fu in terra non resta più nulla. L’averroismo ribadisce la necessaria eternità del mondo e nega la provvidenza: in questo senso «colui ch’attende là, per qui mi mena/ forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» può essere identificato con Dio stesso (l’Altro) — quello dell’ortodossia cristiana — che, implicitamente, attraverso VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 71 Virgilio e Beatrice quali instrumenta voluntatis Dei, guida i passi di Dante e che egli incontrerà alla fine del suo viaggio71. La distruzione dell’individualità umana rappresenta per Dante, poeta e uomo, una visione inaccettabile, materialistica quanto quella degli “epicurei” della Commedia. Il pellegrino, nel canto X, segna così la distanza che lo separa da Farinata e da Cavalcante, ma anche da Guido stesso su cui pesa una implicita e grave condanna72. Così Dante si fa qui, come altrove nella Commedia, anche un inconsapevole instrumentum iustitiae, acuendo il dolore di entrambe le anime dannate. Di fronte al silenzio di Dante circa la sorte del figlio, Cavalcante sprofonda dolorosamente nell’avello, credendo che Guido sia morto. Dante non agisce per ferire volontariamente il vecchio padre: come spiegherà più avanti a Farinata, il suo indugio è derivato dalla reazione di sorpresa di fronte alla non conoscenza del presente da parte del dannato. Se il dolore di Cavalcante è intenso, il lettore ha comunque la certezza che verrà rassicurato, poiché Dante invita Farinata a chiarire l’equivoco per lui: Dissi: “Or direte dunque a quel caduto Che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto” Inf. X, 110-11 Più pesante è invece il fardello che Dante infligge a Farinata; stavolta non con il silenzio ma, sinfonicamente, con le sue parole, che rivelano la disfatta decisiva dei ghibellini: 71 Un’identificazione non esclude l’altra: per cui Dante può riferirsi in senso letterale a Virgilio, ma in un senso più ampio, anagogico e morale, a Dio. 72 Occorre tenere presente che Guido non è morto al momento della narrazione dei fatti, ma lo è quando Dante poeta compone questo canto della Commedia: la sua, qui, appare come una sorta di profezia post eventum che getta un’ombra sulla sorte del Cavalcanti. 72 ROBERTA ROGNONI mi dimandò: “Chi fuor li maggior tui?” non gliel celai, ma tutto gliel’apersi; ond’ei levò le ciglia un poco in soso, poi disse: “Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, sì che per due fiate li dispersi”. “S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogni parte” rispuosi lui “l’una e l’altra fiata; ma i vostri non appreser ben quell’arte” Inf. X, 42-51 Farinata, appreso che la famiglia di Dante parteggia per la fazione guelfa, ricorda le due sconfitte inflitte dai ghibellini nel 1248, coalizzati con l’imperatore Federico II, e poi a Montaperti nel 1260, che segna l’esilio e la dispersione dei guelfi. Dante risponde richiamando le vittorie della propria parte: «l’una e l’altra fiata» si riferiscono alla disfatta ghibellina a Fegghine (1251) e a quella successiva alla morte di Riniero di Montemerlo, podestà degli svevi a Firenze. Con uno scatto d’orgoglio, Dante ricorda poi la battaglia di Benevento, che segna la rotta definitiva delle forze ghibelline in Italia, avvenuta nel 1266; Farinata, a quell’epoca, è morto da appena due anni (1264): quindi troppo vicino cronologicamente per riuscire a “vedere” dal suo avello quell’evento che segna la distruzione dei suoi. Il comprensibile desiderio di Farinata di saperne di più — si noti che le parole di Dante al ghibellino sono un’allusiva sferzata più che una precisa esposizione dei fatti di Benevento — è interrotta dalla scomposta intrusione di Cavalcante. Per tutto il tempo Farinata resta in silenzio, come chiuso in se stesso a riflettere sul senso di ciò che ha appena saputo, in un dolore composto: Ma quell’altro magnanimo a cui posta restato m’era, non mutò aspetto, nè mosse collo, né piegò sua costa; VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 73 e sé continuando al primo detto, “S’egli han quell’arte” disse “male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto.” Inf. X, 73-78 La rivelazione della disfatta ghibellina, che rappresenta per il cieco Farinata una vera e propria profezia, è per lui la più cruda delle pene. E lo strazio di sapere che i suoi siano stati sconfitti è amplificato all’infinito, nell’eternità, fino al giudizio universale e anche dopo, perché a Farinata viene negata, ora al presente e poi per sempre, la capacità di vedere come sia caduta la sua parte e quale sarà il destino dei ghibellini ormai per sempre abbattuti. Farinata riesce a controllare esternamente i segni di quel dolore ma, allo stesso tempo, ne esprime l’amarezza con la profezia che, a sua volta, pronuncia nei confronti di Dante, annunciandogli l’esilio e la cacciata dei Bianchi da parte dei Neri: Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia della donna che qui regge, che tu saprai quanto quell’arte pesa. Inf. X, 79-81 Lo scambio di profezie tra Dante e Farinata — e, più in generale, il loro discorso — segue la struttura della tenzone poetica, con la ripresa da parte dei personaggi, tra una battuta e l’altra, delle parole chiave: al v. 48 Farinata dirà che «per due fiate» i ghibellini dispersero i guelfi; così Dante si ricollegherà a «l’una e l’altra fiata» (v. 50), specificando che i ghibellini «non appreser ben quell’arte» (v. 51) 73. 73 Celebre è la tenzone tra Dante e Forese Donati, fratello di quel Corso capo dei Neri, che segnerà la rovina di Dante e il suo esilio da Firenze. 74 ROBERTA ROGNONI Dopo l’intermezzo cavalcantiano, Farinata “risponderà per le rime” a Dante, aprendo il suo discorso con «S’elli han quell’arte […] male appresa» (v. 77) e concludendo la profezia dell’esilio spiegando che Dante saprà bene «quanto quell’arte pesa» (v. 81). Come nella tenzone poetica le ingiuriose villanie scagliate contro l’avversario e i difetti imputati all’altro sono invenzione poetica, che cela comunque un senso di verità, così il rapporto che Dante uomo mostra nei confronti di Farinata è caratterizzato da pari ambiguità: la sua condanna come epicureo è chiara, ma allo stesso tempo è viva in lui la stima per l’uomo politico, che, nella violenza e nella follia della guerra civile, rifiutò di avallare la distruzione della nemica Firenze, istigata invece dai suoi compagni ghibellini. Non è un caso perciò che il Dante poeta decida di affidare proprio a un personaggio come Farinata, avversario politico ma «magnanimo», una profezia così importante che riguarda il suo destino di esule di parte bianca. Confrontando i personaggi di Farinata e Cavalcante, secondo la descrizione che ne fa Dante, sembra che il poeta intenda volutamente tratteggiare le due diverse tipologie umane che conducono all’errore, se si concepisce l’esistenza come pura materia, indicando al lettore due strade che, se imboccate, portano alla dannazione. La prima è l’adesione a un radicale razionalismo, che non riesce a concepire nulla oltre la morte corporale, di cui la composta fierezza di Farinata è un exemplum efficace. La seconda via è quella di chi si affida solo ai sensi, di chi vede la gioia e il fine ultimo della vita nella sola soddisfazione del piacere, che scompare con la morte; in questo senso l’immagine di Cavalcante che perde ogni dignità, stravolto dal dolore, è ben espressiva. E Dante uomo, in momenti storici diversi, è stato sia l’uno sia l’altro, pur riconoscendo alla fine il proprio errore. VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 75 Se il limite visivo degli eretici è una condanna prima di tutto intellettiva, altrove la malavista diviene una vera e propria deformazione fisica, come nel canto XX, dove Dante incontra gli indovini, puniti con una pena che stravolge in modo terribile la figura umana: Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto di tua lezione, or pensa per te stesso com’io potea tener lo viso asciutto. quando la nostra imagine di presso vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi le natiche bagnava per lo fesso. Inf. XX, 19-24 L’incedere degli indovini, che hanno il capo rivolto alle terga e perciò camminano all’indietro, bagnando con le proprie lacrime le natiche, è una delle realizzazioni drammatiche più potenti di tutta la Commedia. Di fronte a questo spettacolo che stravolge «nostra natura» e che quindi coinvolge l’umanità tutta, il pellegrino non riesce a trattenere le lacrime; anche poco dopo ribadirà «certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi/ del duro scoglio» (vv. 25-26): davanti a quello spettacolo inaspettato, Dante è l’uomo comune e universale che scoppia in un pianto spontaneo, così disperato da lasciare il suo corpo senza volontà, abbandonato a un appoggio che lo regge “suo malgrado”, in una reazione istintiva e naturale alla vista di quanto l’umanità possa cadere in basso. L’aspro rimprovero di Virgilio, che lo invita a non avere compassione per quei dannati, scuote il pellegrino e il lettore: mi disse: “Ancor se’ tu delli altri sciocchi? Qui vive la pietà quand’è ben morta: chi è più scellerato che colui 76 ROBERTA ROGNONI che al giudicio divin passion comporta? Inf. XX, 27-30 Il duro richiamo del maestro di fronte al pianto del discepolo può essere interpretato come un ulteriore esempio di quella “armonica distonia”, già vista altrove, che caratterizza a tratti lo scambio dialogico tra Dante e Virgilio, arricchendolo di significato. Come filosofo, Virgilio non può accettare la liceità della divinazione e delle arti magiche usate da questi indovini, cui contrappone la purezza del logos, del ragionamento filosofico. Perciò di fronte alle lacrime di Dante, il maestro sferza il suo discepolo invitandolo a prendere le distanze da quei dannati. In realtà Virgilio non riesce ad arrivare a capire la profonda sensibilità di Dante, tutta cristiana, che lo spinge a provare compassione e a commuoversi non tanto per quelle anime dannate, quanto più per la natura umana nel suo essere universale, che vede orribilmente stravolta nella rappresentazione di quelle tragiche caricature infernali. La punizione di questi indovini è dovuta al fatto che, in vita, hanno cercato di penetrare e piegare il futuro a loro piacere, traendone un egoistico profitto. La loro veggenza non è stata messa a frutto dell’umanità (per la conquista dei beni essenziali), ma è stata utilizzata per cercare di creare un’altra realtà, parallela a quella del Creatore, modellata a proprio piacere («al giudicio divin passion comporta»). Lo stravolgimento della natura umana nel corpo degli indovini corrisponde bene alla perversione che caratterizza la loro visione del tempo. Il futuro, per questi veggenti, non è l’eskaton cristiano, il momento in cui si realizza la perfetta armonia tra la creatura e il Creatore; in cui la linea vettoriale del tempo, fatta di corsi e ricorsi, di felicità e di sofferenza, si riassorbe nel cerchio perfetto per rappresentare il VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA 77 raggiungimento della “tutta gioia”, ricollegandosi all’essenza del passato originario, prima del peccato primordiale. Ciò che hanno vaticinato in vita, quindi, è un falso futuro, un inganno. Invece di cercare la vera essenza del tempo che verrà, in una prospettiva escatologica, questi indovini infernali si sono concentrati sull’opposto, sul passato, analizzandolo come un ripetersi ciclico di casi provocati da precisi legami di causa-effetto. La loro, perciò, non è altro che un’interpretazione del futuro alla luce delle strutture degli eventi già trascorsi. Come già gli eretici, anche questi dannati, nel girone infernale, non fanno altro che ripetere in eterno quanto compiuto in vita; da qui la condanna a guardare alle proprie spalle, come spiega Virgilio a Dante, indicando l’anima dannata di Anfiarao che, vaticinando la propria morte nella guerra di Tebe, aveva cercato di sottrarvisi invano: Mira c’ha fatto petto delle spalle perché volle veder troppo davante, di retro guarda e fa retroso calle Inf. XX, 37-39 / 52-54 L’orribile deformazione di queste anime è resa, più oltre, nella descrizione del tutto innaturale della maga Manto: E quella che ricuopre le mammelle, che tu non vedi, con le treccie sciolte, e ha di là ogni pilosa pelle Inf. XX, 52-54 Dante e Virgilio passano in rassegna queste figure deformate come un grottesco catalogo infernale, in cui compaiono personaggi sia mitologici sia storici, anche vicini cronologicamente al poeta, a dimostrazione che la magia e la 78 ROBERTA ROGNONI divinazione come asservimento egoistico del mondo rappresentano un vizio universale, che riguarda tutta la storia, dalle origini più remote fino alla realtà contemporanea. La marcia degli indovini, che è un finto movimento — come quello di tutti i dannati — perché si ripete circolarmente intorno alla bolgia, in una fissa e ossessiva ripetizione che non conduce in nessun posto, è ancora più assurda per il fatto che questi rei camminano all’indietro. Paragonando il movimento nella bolgia al circolo del tempo, che viene rappresentato nell’“uroboro”, il serpente vorace della coda, gli indovini sembrano destinati a ripercorrere all’indietro, per l’eternità, la storia dei tempi, muovendosi dalla coda alla testa del serpente in un continuo vortice a spirale. È il contrappasso perfetto per queste anime nere che, avendo cercato di ingannare il futuro, restano imprigionate in un passato sempre uguale. Le pubblicazioni CRA-INITS sono registrate presso le autorità competenti dello Stato Italiano The Carla Rossi Academy Press Index viene inviato annualmente a biblioteche ed istituti universitari specializzati negli Stati Uniti d’America e in Argentina, Australia, Brasile, Canada, Europa, India, Messico, Nuova Zelanda e Sud-Africa Questo volume è liberamente consultabile in formato elettronico <www.cra.phoenixfound.it> Finito di stampare per conto della Carla Rossi Academy International Institute of Italian Studies nel mese di Aprile MMVIII