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- 52 BIBLIOTHECA PHOENIX
Roberta Rognoni
Vista, malavista, veggenza
e profezia nella
Divina Commedia
Inf. I, II, III, VIII, IX, X, XX
[CRA-INITS Research Project 2006]
BIBLIOTHECA PHOENIX
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CARLA ROSSI ACADEMY PRESS
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Roberta Rognoni
Vista, malavista, veggenza
e profezia nella
Divina Commedia
(Inf. I, II, III, VIII, IX, X, XX)
Secondo l’etimologia profeta è «chi predice o prevede
avvenimenti, ispirato da Dio» o, ancora, «chi antivede e
annunzia il futuro per ispirazione celeste»1. La definizione si
presta bene alla figura di Dante, che concepisce la Divina
Commedia come una vera e propria opera profetica: la
visione del pellegrino che attraversa i tre regni oltremondani,
fino alla beatitudine celeste, squarcia il velo delle coscienze
umane, indicando all’uomo, nel senso più universale, il
cammino da compiere anzitutto nella dimensione storica e, di
conseguenza, in quella ultraterrena.
Il vocabolo [profeta] indica ‘colui che annuncia’ sotto la diretta
ispirazione divina, quindi che parla ‘in vece’ di Dio. Da questo
valore originario – presente anche nelle Scritture – il termine
passò, con falsa etimologia, a quello vulgato di ‘colui che parla in
* Questo lavoro nasce per ispirazione del Annual Graduate Seminar on Dante
Hermeneutics (2006), organizzato dalla Carla Rossi Academy, a Monsummano
Terme (PT).
1
Le citazioni sono rispettivamente tratte da: M. Cortelazzo, P. Zolli,
Dizionario etimologico della lingua italiana (= DELI), Bologna 1985, 4/O-R, p.
984 e C. Battisti, G. Alessio, Dizionario etimologico italiano (= DEI), Firenze
1975, p. 3095.
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8
anticipo’, che ‘annuncia il futuro’ che “prevede” ma sempre in
virtù di un potere eccezionale2.
Gli scenari profetici disegnati da Dante nella Commedia, che
siano l’amaro preannunzio dell’esilio senza dimora — tragico
post eventum di una realtà che il poeta provava ogni giorno
sulla sua pelle — come le feroci invettive esplose contro la
corruzione che ha intaccato, come un male, la Chiesa, senza
risparmiare neppure il suo sommo pastore, sono sempre
giustificate da un potere straordinario in quanto divino; ciò ci
fa comprendere che è la somma autorità, quella di Dio, che
dà sempre la parola al poeta-profeta.
Dante tiene a chiarire la questione fin dall’inizio
dell’opera, dedicandovi un intero canto, il secondo, che,
come è noto, in considerazione dell’impianto architettonico
del poema, fittamente tessuto di simmetrie interne, va
considerato il primo vero capitolo della cantica Infernale,
mentre Inf. I svolge la funzione di proemio dell’intera
Commedia3.
All’inizio di Inf. II, il Dante personaggio ci appare
smarrito, come privato di quello slancio e di quell’ardore che
aveva mostrato, nella posa e nelle parole, alla fine del canto
precedente, rivolgendosi a Virgilio:
E io a lui: “Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio,
2
V. Truijen, “Profeta”, in Enciclopedia Dantesca (= ED), Roma 1973, vol. IV
p. 694. Si veda anche la definizione che lo Scartazzini dà del profeta: «Quegli che
antivede e annunzia il futuro per ispirazione celeste», G. A. Scartazzini, “Profeta”,
in Enciclopedia dantesca. Dizionario critico e ragionato di quanto concerne la
vita e le opere di Dante Alighieri, Milano 1899, vol. II p. 1575.
3
La natura proemiale di Inf. II è rivelata anche dalla presenza
dell’invocazione alle Muse e all’ingegno (vv. 1-9), in perfetto parallelismo con
Purg. I (invocazione alle Muse, vv. 1-12) e Par. I (invocazione ad Apollo vv. 136). Nello sviluppo del poema cresce lo spazio che Dante dedica al proemio, per
sottolineare lo sforzo dell’ingegno poetico nel rendere la materia sempre più alta.
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
9
che tu mi meni là dove or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti”.
Inf. I, 130-35
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’io in quella oscura costa4,
Inf. II, 37-40
Lo stato d’animo del pellegrino è mutato: dopo l’abbandono
spontaneo a Virgilio, per la paura delle tre fiere incontrate
nella selva, Dante sembra ora aver recuperato la parte
razionale di sé, che lo porta a dubitare del viaggio proposto
dal poeta latino, che gli ha indicato un itinerario in parte
terrificante:
e trarrotti di qui per luogo etterno,
ov’udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
che la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perchè speran di venire
quando che sia alle beate genti.
Inf. I, 114-20
La sua mente razionale si scandalizza di fronte a un viaggio
che si preannuncia spaventoso, ma anche e soprattutto perché
4
Per la citazione delle opere dantesche, qui e altrove: D. Alighieri, Le opere.
Testo critico della Società Dantesca Italiana, a cura di M. Barbi, E. G. Parodi, F.
Pellegrini, E. Pistelli, P. Rajna, E. Rostagno, G. Vandelli, Firenze 1921.
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assediata dal dubbio, più che legittimo, circa la liceità
dell’impresa posta dinnanzi:
Ma io perchè venirvi? o chi ’l concede?
io non Enea, io non Paolo sono:
me degno a ciò nè io nè altri crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle5.
Inf. II, 31-35
Oltrepassare i limiti fissati da Dio è un peccato della cui
gravità Dante è ben consapevole, così come sa bene quanto
l’uomo, per sua natura, corra il rischio di commetterlo6. Gli
exempla di Enea e di san Paolo, che, vivi, compirono prima
di lui un viaggio oltremondano, sono schiaccianti per un
uomo che non ha il compito di fondare Roma, la città eterna
dell’impero e del papato, né è «lo Vas d’elezione» che Dio ha
rapito al terzo cielo7. La domanda che stringe la coscienza
dell’uomo Dante è, dunque, la stessa che il Dante poeta sa di
dover chiarire al lettore della Commedia.
Decisivo diventa il lungo discorso di Virgilio, che rivela
l’intervento delle tre donne benedette — Beatrice, santa
Lucia e la Madonna — nel soccorrere il pellegrino in
difficoltà. Il racconto del poeta latino presuppone un
precedente incontro tra lui e la gentilissima, scesa nel Limbo
per affidargli il compito di guida: quel dialogo prende vita
dalla memoria di Virgilio, fino a diventare una specie di
5
Per l’intero discorso di Dante, si vedano i vv. 10-42.
Non a caso tornerà a trattare il tema, dedicando ampio spazio al «folle volo»
di Ulisse e compagni (Inf. XXVI).
7
L’immagine, riferita a san Paolo, si trova negli Atti degli Apostoli (IX, 15).
Nella II Lettera ai Corinzi, 12, 2-4, l’apostolo racconta il suo “ratto celeste”:
«Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa — non so se col corpo o se
fuori del corpo, lo sa Dio — fu rapito al terzo cielo. E so che quest’uomo — non
so se col corpo o senza corpo, lo sa Dio — fu rapito in paradiso e udì parole
ineffabili che non è possibile ad un uomo proferire».
6
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
11
episodio rappresentato in flashback, in cui Beatrice, creatura
vivissima, spiega di essere stata sollecitata ad aiutare Dante
da S. Lucia, a sua volta invocata dalla Madonna8:
[Lucia]
Disse: Beatrice, loda di Dio vera,
chè non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?
non odi tu la pieta del suo pianto?
non vedi tu la morte che ’l combatte
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto?
Inf. II, 103-108
Maria-Lucia-Beatrice sono le tre donne che salvano Dante.
Siamo soltanto all’inizio del poema, eppure vediamo già
ritornare per la seconda volta il numero 3, simbolo della
Trinità, caro al poeta anche perché racchiude in sé il segreto
del 9, il numero di Beatrice9. Nel canto proemiale sono le tre
fiere — lonza, leone e lupa —, ipostasi del peccato e della
colpa, a mettere in difficoltà il poeta, finché non verrà
soccorso da Virgilio. Il motivo torna ora nel canto II, in cui
Virgilio viene investito del compito di accorrere in aiuto di
Dante, in seguito all’intervento di un’altra triade, stavolta di
segno opposto: non più simbolo del male, bensì di carità e
verità.
8
Dante stesso, in Inf. I, 85, così apostrofa Virgilio: «Tu se’ lo mio maestro e
’l mio autore». Su Dante e Virgilio: E. Fumagalli, Dante e Virgilio, in AA.VV., Il
pensiero filosofico e teologico di Dante Alighieri, a cura di A. Ghisalberti, Milano
2001, pp. 79-92; D. Consoli, “Virgilio Marone Publio”, in ED, op. cit., 1976, vol.
V pp. 1030-44.
9
«Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce
quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei
occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da
molti Beatrice […] sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed
io la vidi quasi da la fine del mio nono.»: Vita Nuova, cap. II, 1-2.
12
ROBERTA ROGNONI
La descrizione del peccato che avvolge Dante nella selva è
resa con l’accumulo di tre figure, presentate in una climax
ascendente, per rendere un concetto che al lettore deve essere
ben chiaro: la pienezza del male che avvolge l’animo del
pellegrino. Il male, però, in base al pensiero cristiano, non è
concepibile come un assoluto, giacché l’origine è una sola, il
Dio-bene, che lascia la sua impronta indelebile in tutte le
creature, dalla litosfera alla teriosfera, fino all’essere
umano10. La santa triade del canto II, contrapposta alla terna
malvagia delle tre bestie, con al centro sempre la figura di
Virgilio, sembra dirci proprio questo: che in fondo il male
non è altro che una perversione della stessa visione di bene e
che anche dentro il male può apparire il bene.
Dante poeta sceglie accuratamente le tre donne. Beatrice è
colei che viene celebrata nella Vita Nuova come simbolo di
un amore spirituale e fisico, così intenso da far soffrire il
poeta nell’animo e nel corpo. La bellezza di Beatrice viva
stimola i sensi di Dante, ma la morte dell’amata segna il
tradimento di questo mondo fatto di gioia sensibile e terrena,
spazzata via dalla distruzione del corpo. Disperato per quella
10
San Bonaventura parla in questo senso di “ragioni seminali”, facendo
riferimento a quel seme di luce che ogni creatura ha in sé e che proviene dal suo
Creatore. Il concetto è già presente in sant’Agostino, che nelle Confessioni (I, 1)
scrive: «Et laudare te vult homo, aliqua portio creaturae tuae, et homo
circumferens / mortalitatem suam, circumferens testimonium peccati sui et
testimonium, quia superbis resistis. Tu excitas, ut laudare te delectet, quia fecisti
nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te ». S. Tommaso,
nella Summa Theologiae, parla di “materia signata”: è la luce intellettiva che il
Creatore imprime nella sua creatura, come un’impronta che resta presente per
sempre. Questa traccia di bene che proviene dall’origine non può mai essere
cancellata dal peccato ed è il legame che stringe eternamente la creatura al
Creatore; anche il dannato sente questo nodo, che vorrebbe sciogliere – ma non
può – per raggiungere una solitudine radicale dal Creatore, facendosi artifex di
un’altra realtà. Sul concetto di materia signata, citando il De ente et essentia (II,
4), si sofferma anche Roberta De Monticelli nel suo studio Essential individuality:
on the soul of a person, pubblicato in rete dalla University of San Diego – USA
(in particolare, si veda la p. 5).
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
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assenza, Dante si affida alla “donna gentile-filosofia”,
sfogliando il grande libro del sapere: è lì, nelle geometrie
perfette e razionali del pensiero filosofico, che crede di poter
trovare il medicamentum in grado di conciliare l’essenza
della sua umanità, fatta di infinito dentro un corpo finito. Ma
se la voce di Beatrice morta, per Dante, diventa silenzio,
anche la donna gentile finisce per rivelarsi un rifugio inutile,
solo l’illusione che porta sempre più in alto, fino alla caduta
rovinosa nel buio della selva della Commedia, dove avverrà
l’incontro, tra le lacrime, con Virgilio.
Il poeta latino ha il compito di condurre Dante lungo
l’Inferno e il Purgatorio, fino al Paradiso terrestre, dove lo
attenderà Beatrice. Virgilio è, cioè, il mediatore tra Dante e la
gentilissima, perché guidando il pellegrino nel suo processo
catartico attraverso i due regni, lo renderà di nuovo in grado
aprirsi, di vedere gli occhi della donna e di ascoltare la sua
voce, di tornare a dialogare con lei, passando dalla chiusura
del lógos solitario all’apertura, tutta cristiana, verso l’altro,
riconoscendo il valore dello scambio, del dialégestai11.
Maria e Lucia sono strettamente legate tra loro nella
visione dantesca. La Madonna è colei che nel pensiero
medioevale rappresenta la misericordia, l’amore caritatevole
che intercede a favore dell’umanità; così è rappresentata nella
iconografia dell’etimasìa, accanto al Figlio seduto sul trono
in qualità di giudice delle anime, supplicante per la salvezza
eterna (deesis). La stessa immagine di Maria, come scrigno di
11
Dante, nel momento in cui congeda Virgilio, ha raggiunto la vetta umana
delle virtù, intese in senso filosofico, ma si rende conto che non può bastare
perché non si tratta della meta assoluta, ma di una tappa del cammino per arrivare
alla felicità vera, a Dio. Consapevole dei suoi limiti, Dante infatti abbassa la testa
davanti a Beatrice, che dopo averlo appena incontrato sulla cima del Purgatorio,
lo rimprovera aspramente per le sue mancanze passate: si vedano i vv. 22-90 di
Purg. XXXI. A sottolineare l’humilitas del pellegrino pentito la bella immagine ai
vv. 64-66: «quali i fanciulli, vergognando, muti/ con li occhi a terra stannosi,
ascoltando/ e sé riconoscendo e ripentuti/ tal mi stav’io […]».
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infinita misericordia, è pennellata da Dante nell’Empireo, con
la celebre invocazione di san Bernardo, perché si faccia
mediatrice verso Dio, permettendo a Dante di cogliere
l’essenza della beatitudine celeste12:
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontade.
Par. XXXIII, 16-21
La misericordia di Maria è perfetta, perché non solo aiuta chi
la invoca, ma «al dimandar precorre»: è la sensibilità tutta
femminea che intuisce il bisogno e porge la mano, prima che
l’altro chieda; è l’essenza più pura della misericordia e della
carità, che si donano spontaneamente. Dante stesso ha potuto
provare gli effetti benigni della sollecitudine misericordiosa
di Maria, che apre e chiude tutto l’intero poema, come una
guida silenziosa e nascosta che non abbandona mai il
pellegrino durante il suo percorso. È Maria l’origine di tutto,
perché è colei in cui si incarna il nuovo uomo, Cristo; ma è
anche colei che, con il suo sguardo amoroso e
misericordioso, fa nascere il nuovo uomo in Dante,
exemplum dell’umanità tutta.
Non a caso, dunque, il viaggio del pellegrino parte proprio
da Maria: è lei ad accorgersi di quell’uomo smarrito nella
selva, che non vede né sente più nulla se non il male. Dante
rischia di perdersi per sempre in quella visione maligna,
lasciandosi ipnotizzare, cadendo nel trabocchetto dell’inferno
che si vuole mostrare come una realtà altra, contrapposta e
alternativa; Maria, madre sollecita, sente la disperazione
12
Per l’intera preghiera alla Vergine: Par. XXXIII, 1-39.
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
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dell’uomo e manda qualcuno in suo soccorso. In Inf. II
Virgilio spiega a Dante quanto gli è stato riferito da Beatrice:
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo impedimento ov’io ti mando,
sì che duro guidicio là su frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: “Or ha bisogno il tuo fedele
di te, ed io a te lo raccomando”13.
Inf. II,94-99
La terza donna del canto, che soccorre Dante, è Lucia, morta
martire durante le persecuzioni contro i cristiani ordinate
dall’imperatore Diocleziano; dall’antichità in poi si registra
una viva devozione nei confronti di lei, protettrice degli occhi
e della vista per «il nome stesso della santa, interpretato,
grazie a una facile assonanza etimologica, come simbolo
della luce, sia materiale che spirituale»14. Lo stesso Jacopo da
Varazze, nella Legenda Aurea, pone la biografia di Lucia tra
le prime della sua raccolta — è la quarta — e così inizia la
descrizione della vita della santa:
Lucia dicitur a luce. Lux enim habet puchritudinem in aspectione,
quia, ut dicit Ambrosius, lucis natura hec est, ut omnis eius in
aspectu gratia sit, diffusionem sine coinquinatione, quia per
quecumque immunda diffusa non coinquinatur, rectum incessum
sine curuitate, longissimam lineam pertransit sine morosa
dilatione. Per hoc ostenditur quod beata Lucia habuit decorem
uirginitatis sine aliqua corruptione, diffusionem caritatis sine
aliquo immundo amore, rectum incessum intentionis in deum sine
13
Beatrice sta parlando con Virgilio; il poeta latino sta appunto riferendo a
Dante il dialogo avvenuto tra lui e la gentilissima, ricordato come una specie di
flashback.
14
A. Amore, “Lucia”, in ED, op. cit., vol. III, pp. 717-18.
16
ROBERTA ROGNONI
aliqua obliquitate, longissimam lineam diuturne operationis sine
negligentie tarditate. Vel dicitur Lucia quasi lucis uia15.
Se in Inf. II apprendiamo che Lucia interviene in aiuto di
Dante, usando Beatrice come mediatrice, in Purg. IX è la
santa stessa a soccorrere il poeta, come una luce che illumina
segretamente il suo viaggio:
Dianzi, ne l’alba che precede al giorno,
quando l’anima tua dentro dormia
sovra li fiori ond’è là giù adorno,
venne una donna, e disse: “I’ son Lucia:
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via”16.
Purg. IX, 52-57
Nel passaggio cruciale dall’Antipurgatorio al Purgatorio
appare Lucia-luce, che porta il poeta addormentato fino alla
soglia del regno della purificazione. Ancora una volta è
Virgilio a raccontare al pellegrino l’intervento di Lucia, che
Dante non ha potuto vedere con i suoi occhi, appesantiti dal
sonno, simbolo del peccato. Il fiorentino ha viaggiato, ma
non abbastanza, perché dopo avere attraversato il regno della
dannazione e l’Antipurgatorio, deve affrontare un’altra tappa
fondamentale del suo percorso catartico, scalando le balze
scoscese del Purgatorio.
Dante non può vedere Lucia ma, se il suo corpo è
intorpidito dal sonno, il suo cuore, inteso come sensi e
ragione, riesce a percepire nel sogno profetico, quello che si
15
J. da Varazze, Legenda Aurea, edizione critica a cura di G. P. Maggioni,
Firenze 1998, vol. I pp. 49-52.
16
Il v. 57 tradisce una lettura attenta da parte del poeta della Legenda Aurea
di Jacopo da Varazze, che, come è riferito a testo, scrive: «Lucia dicitur quasi
lucis uia».
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
17
fa prima dell’alba, la traccia di una verità più profonda che,
anche se non può penetrare con chiarezza, sa esserci:
Ne l’ora che comincia i tristi lai
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria de’ suo’ primi guai,
e che la mente nostra, peregrina
più da la carne e men da’ pensieri presa,
a le sue vision quasi è divina,
in sogno mi parea veder sospesa
un’aguglia nel ciel con penne d’oro,
con l’ali aperte ed a calare intesa;
Purg. IX,13-21
Il sogno di Dante è in effetti profetico: si vede sul monte Ida,
dove appare un’aquila che, «terribil come folgor
discendesse», lo ghermisce portandolo fino alla sfera del
fuoco, dove entrambi ardono, finché il calore farà svegliare il
pellegrino. Le parole di Virgilio svelano il significato della
profezia: l’aquila è Lucia, che non solo porta Dante più in
alto, fino alla soglia del Purgatorio, ma con la sua lucefiamma avvolge il pellegrino, segno di grazia e di caritas.
Solo alla fine del viaggio Dante potrà vedere Lucia con i
suoi occhi, seduta tra gli scranni della candida rosa,
sinfonicamente ricordata da S. Bernardo come una delle tre
donne che avevano mosso il poeta:
siede Lucia, che mosse la tua donna,
quando chinavi, a ruinar, le ciglia
Par. XXXII, 137-38
La devozione di Dante per Lucia-luce è dimostrata anche
oltre la Commedia; nel III libro del Convivio compare il
nome della santa ed è interessante notare che venga citata,
anche in questo luogo, proprio assieme alla Madonna; come è
ROBERTA ROGNONI
18
noto, non vi è chiarezza circa la cronologia delle opere
dantesche, ma è lecito supporre, se pur con cautela, che la
stesura del III trattato del Convivio non sia troppo distante
dall’elaborazione del secondo canto della Commedia; in
questo senso la meditazione insistita sulla coppia MariaLucia è un’ulteriore spia dei rapporti fitti che legano l’opera
filosofica al poema.
Dopo aver aperto il III libro del trattato con la canzone
Amor, che ne la mente mi ragiona, Dante si dedica a
spiegarne al lettore la razo; secondo quanto dice il poeta, la
seconda parte della canzone comincia dal v. 19:
Non vede il sol, che tutto ’l mondo gira,
cosa tanto gentil, quanto in quell’ora
che luce ne la parte ove dimora
la donna, di cui dire Amor mi face17.
Chiarendo il movimento del sole, in base alla dottrina
aristotelica, dichiara che sulla terra esistono due poli opposti
fermi. Per mostrare meglio al lettore il complicato principio
astronomico-filosofico, usa come exempla due città
ipotetiche che chiama Maria e Lucia:
Imaginando adunque, per meglio vedere, in questo luogo ch’io
dissi sia una cittade e abbia nome Maria, dico ancora che se da
l’altro polo, cioè meridionale, cadesse una pietra, ch’ella caderebe
in su quel dosso del mare Oceano ch’è a punto in questa palla
opposito a Maria […]. E qui imaginiamo un’altra cittade, che abbia
nome Lucia. Èvvi, tra l’una e l’altra, mezzo lo cerchio di tutta
questa palla, ed ispazio, da qualunque lato si tira la corda, di
diecimila dugento miglia, sì che li cittadini di Maria tengono le
piante contra le piante di quelli di Lucia18.
17
“Amor, che ne la mente mi ragiona”, vv. 19-22; la canzone, come si è detto,
apre il III libro del Convivio.
18
Conv. III, cap. 5, 10-12.
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
19
Nella rappresentazione dantesca Maria è il simbolo del polo
boreale e Lucia di quello australe: nella visione medievale,
accolta anche da Dante nella Commedia, l’uno è sede
dell’umanità in esilio, l’altro è simbolo dell’origine, dove
l’uomo viveva prima della colpa.
La caduta di Lucifero — contemporanea al peccato di
Adamo — ha provocato l’arretramento della terra che, per
l’orrore, si è spostata dall’emisfero australe, dove è situato
anche il Paradiso terrestre, verso quello boreale, lasciando al
suo posto solo le acque. Per questo l’umanità si sente in
esilio, perché vive lontano dalla sua terra d’origine.
Maria, in quanto Mater misericordiae, è colei che soccorre
l’umanità in difficoltà, piegata dalla colpa: come una madre
sollecita, ama senza riserve e aiuta; la luce della sua
misericordia brilla anche nell’uomo inconsapevole, ma, in chi
la sa accogliere e nutrire — come avviene per il pellegrino
Dante — può diventare la via per la salvezza.
Lucia è la grazia illuminante, la luce del sapere che
l’uomo può raggiungere rimettendosi in un contatto genuino
con il suo Creatore, come prima della caduta di Adamo:
simbolo dell’umanità che, in singoli e sporadici momenti
aurei, riesce a ricomporre l’unione intima con la sua origine,
senza raggiungere mai la perfezione e la stabilità di questo
ricongiungimento, che può realizzarsi solo in una visione
ultraterrena.
Così queste due città ideali delineate dalla fantasia
dantesca sono distanti perpendicolarmente «diecimila
dugento miglia» l’una dall’altra, eppure «li cittadini di Maria
tengono le piante contra le piante di quelli di Lucia»:
l’immagine, potente, evoca le due donne benedette che si
riflettono l’una nell’altra, come in segno di amoroso scambio:
è il motivo dello specchio, che torna spesso nella poesia della
Commedia.
20
ROBERTA ROGNONI
Vista la centralità delle tre sante donne nella vita e nel
pensiero dantesco, la loro collocazione in Inf. II diventa per il
lettore una garanzia della solidità delle fondamenta che
reggono il viaggio del pellegrino, come rappresentante di se
stesso e dell’umanità.
Il percorso di Dante, dunque, come scoperta e rivelazione
delle segrete leggi infernali, come movimento doloroso di
liberazione dalla colpa nella speranza purgatoriale della
beatitudine e come raggiungimento, infine, di questa nel
progressivo transumanar del Paradiso, è in primis profetico,
nel senso che svela via via al lettore-uomo delle verità
nascoste che appartengono a questa vita e, di riflesso, a
quella oltremondana: in sostanza, il ben vivere sulla terra per
continuare a vivere dopo la morte.
Per rendere l’altezza di questo dono profetico, di cui
Dante è fatto scrigno, non potevano bastare né al pellegrino
né al lettore delle semplici rassicurazioni offerte da Virgilio,
a conferma che quella del pellegrino non fosse una «folle
venuta»: ciò perché il poeta latino, pur celebrato
costantemente per la sua altezza umana e poetica, resta al di
là della salvezza, tra coloro «che sanza speme» vivono «in
disio»19.
Virgilio è sostanzialmente un demone, se pur benigno: è
altra cosa rispetto ai personaggi del mito classico, da Caronte
a Minosse, che vengono degradati nell’inferno in funzione di
mostri guardiani dell’Ade; ma tutto il limite della condizione
di Virgilio-filosofo, che non si è aperto alla verità rivelata, si
coglie perfettamente nelle parole di Catone, in Purg. I,
quando, di fronte alla captatio benevolentiae virgiliana
sull’amata moglie Marzia, il «veglio onesto» risponde:
“Marzia piacque tanto a li occhi miei
19
Tutto il dramma degli antichi spiriti sapienti, relegati nel nobile castello del
Limbo, è reso bene nel canto IV dell’Inf. Si vedano in particolare i vv. 106-51.
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
21
mentre ch’i’ fu’ di là” diss’elli allora,
“che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n’usci’ fora”
Purg. I, 85-90
La verità di Virgilio non può bastare, né basta che egli
riferisca in sintesi il senso dell’incontro con Beatrice.
Occorre di più per legittimare il viaggio dantesco. Così il
poeta latino mette in scena per Dante — e Dante per il lettore
— una sorta di “sacra rappresentazione” di quell’episodio,
partendo dalla discesa al Limbo di Beatrice e dal colloquio
con lei.
Dalla memoria, la narrazione prende vita come un fatto
reale e si sviluppa nel discorso diretto dei personaggi; quello
che offre Virgilio è un resoconto puntuale, che comprende
anche la descrizione dettagliata di Beatrice:
Io era tra color che sono sospesi
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella
Inf. II, 52-57
Virgilio resta affascinato da Beatrice, per la dolce bellezza
della donna in cui riconosce la dulcedo dell’Eneide, fatta di
forma e di contenuto: è questo il linguaggio che gli permette
di capire Beatrice e di dialogare con lei, simbolo della
dolcezza della poìesis, della creazione artistica. Così la donna
spinge il poeta latino ad andare incontro a Dante:
“Or movi, e con la tua parola ornata
ROBERTA ROGNONI
22
e con ciò c’ha mestieri al suo campare,
l’aiuta, sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare”.
Inf. II, 67-72
La sostanza di questa dulcedo virgiliana sta proprio nella
«parola ornata» cui fa riferimento Beatrice: è la musicalità
dell’esametro, è la grazia della parola e della sostanza; non
solo, perché l’Eneide, all’uomo medievale, appare come una
misteriosa prefigurazione del messaggio di Cristo.
Così sembra di poter scorgere il profumo della
misericordia cristiana nella clementia propagandata in età
imperiale, svelata da Anchise al figlio Enea, nei Campi Elisi,
nello spazio di un esametro — «parcere subiectis et debellare
superbos»20 —, essenza della futura gloria della Roma
augustea. Il deciso enoteismo virgiliano, con la celebrazione
dello Iuppiter Optimus Maximus come forza ordinatrice e
una, contro la frammentazione del politeismo pagano, la
celebrazione del valore della iustitia imperiale, l’esaltazione
della pax universalis portata da Roma e l’universalitas della
filosofia stoica, che esalta il bene come kathèkon, bene di
tutti, che si costruisce attraverso il sacrificio del singolo,
sembrano al lettore cristiano dei chiari segni che preludono
all’avvento del Cristianesimo.
Virgilio non si è aperto alla verità: Dante lo sa bene. È il
Virgilio filosofo, chiuso nel “nobile castello” dell’autosufficienza della ragione, teso all’ataraxìa stoica, che mira a
scalare la vetta della virtù umana concependola come l’unico
tèlos: un uomo che lo stesso Dante, quello della donnagentile, è in parte stato.
20
Eneide, VI, 853.
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
23
Il Virgilio poeta, con la sua «parola ornata», è invece
quello che può diventare porta alla verità: seguendo quel
profumo che l’Eneide diffonde misteriosamente, come in un
labirinto, l’uomo può arrivare a cogliere la rosa. La salvezza
di Stazio, incontrato da Dante e Virgilio nel Purgatorio, è la
prova più evidente della potenza che possiede questa poesia,
che fa di Virgilio un inconsapevole profeta:
Ed elli a lui: “Tu prima m’inviasti
verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
e prima appresso Dio m’alluminasti.
Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sè non giova,
ma dopo sè fa le persone dotte,
quando dicesti: “Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenie scende da ciel nova”.
Per te poeta fui, per te cristiano21:
Purg. XXII, 64-73
Virgilio si farà “porta” anche per Dante: lo stimolo di
Beatrice al poeta latino perché con la «parola ornata» aiuti
«l’amico» che «nella diserta piaggia è impedito» è una
confermazione dell’eccezionale carisma che caratterizza la
poesia virgiliana; un riconoscimento che proviene dall’alto,
come è chiarito dalla gentilissima: «amor mi mosse, che mi
fa parlare» — dice Beatrice — e con la sua dolcezza spinge
Virgilio ad abbandonare la fortezza-prigione del nobile
castello, spontaneamente, per muoversi verso l’altro, in un
gesto che è tutto di sollecita carità:
“O donna di virtù, sola per cui
l’umana spezie eccede ogni contento
di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,
21
Il riferimento esplicito di Stazio è all’Egloga IV, 5-7.
ROBERTA ROGNONI
24
tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento”
Inf. II, 76-81
Per rendere più efficace l’intero episodio, a questo punto,
Dante poeta inserisce, come un “gioco di scatole”, un
racconto nel racconto e poi un altro ancora: è Beatrice che
riferisce a Virgilio prima il dialogo tra la Madonna e Lucia e
poi tra lei stessa e Lucia. La catena delle intercessioni, che
lega le «tre donne benedette»22 in un rapporto ben ordinato e
gerarchico, Maria-Lucia-Beatrice, e che ha come destinatario
d’eccezione Dante, attraverso Virgilio, risulta ancora più
autentica e verace, grazie all’artificio retorico del discorso
diretto, scandito da una serie sillogistica di dialoghi rapidi e
pregnanti, collegati tra loro dalle coppie di personaggi:
Dante-Virgilio, Beatrice-Virgilio, la Madonna-Lucia, LuciaBeatrice, Beatrice-Virgilio, finché, come in una
“composizione ad anello”, il ritorno al dialogo tra Virgilio e
Dante chiude tutta la rappresentazione, riportando la
narrazione della Commedia sul suo piano principale.
L’episodio termina con la soddisfazione di Dante,
riallacciandosi sinfonicamente all’apertura del canto, quando
il pellegrino aveva manifestato il suo dubbio: qui come
allora, il poeta ricorre a una similitudine per rendere il tòpos
del cambiamento dello stato d’animo, stavolta del tutto
mutato:
Quali i fioretti, dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca
si drizzan tutti aperti in loro stelo
tal mi fec’io di mia virtute stanca,
Inf. II, 127-30
22
Inf. II, 124.
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
25
Ora Dante è pronto a partire, come dichiara, poco oltre, a
Virgilio:
Tu m’hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
ch’i’ son tornato nel primo proposto
Inf. II, 136-38
All’inizio di questa terzina, spicca, anche per la collocazione
centrale nel verso, la parola “disiderio”, con cui Dante forse
vuole esprimere più che la sua voglia ardente di intraprendere
il viaggio lungo i tre regni.
San Tommaso (Summa Theol., 1-2, q. 33, 2, c.) definisce
il desiderium anzitutto come «appetitus rei non habitae». Il
termine indica in effetti un «moto dell’animo verso chi o ciò
che procura piacere, o che è buono, necessario [… ]»23. Il
Bene per eccellenza, per Dante, è uno solo e coincide con la
meta del viaggio che sta per cominciare: Dio. In più, il
significato letterale, dal latino desiderare, nel senso di
“cessare di contemplare le stelle a scopo augurale”,
evidentemente sottolinea il moto dell’animo volto a ottenere
l’oggetto che appetisce24.
La spinta verso il Creatore, del resto, è ormai legittimata
dalla solenne investitura celeste che Dante riceve in Inf. II,
vero e proprio rito di iniziazione celebrato, per interposte
creature beate, dalla stessa Madre di Dio e, dunque, da Dio
stesso. Maria è il sentimento divino; rappresenta
teologicamente il divino amore, perché il cuore è l’unico
23
Per l’etimologia di “desiderio”: DELI, op. cit., vol. II p. 328.
È assai probabilmente una suggestione, ma è curioso osservare che Dante,
in effetti, uscito dalla cavità infernale tornerà a «riveder le stelle» (Inf. XXXIV,
139) e, alla fine del Purgatorio, sarà «puro e disposto a salire a le stelle» (Purg.
XXXIII, 145), finché nel Paradiso, dopo aver goduto della visione celeste, citerà
«l’amor che move il sole e l’altre stelle».
24
ROBERTA ROGNONI
26
spazio in cui ci si può avvicinare all’intelligenza del Padre su
questa terra.
Dante diventa profeta. Ciò avviene agli occhi del lettore,
perché, in realtà, egli assurge implicitamente a questo ruolo
fin dal primo verso della Commedia; anzi ancora prima,
laddove concepisce la sua grandiosa visione oltremondana e
la realizza, ponendovisi al centro, come protagonista.
Speculum di se stesso, ma anche dell’umanità tutta, uno dei
carismi del Dante poeta e profeta è la veggenza: nel senso più
pieno del significato: è “colui che vede, il contrario di chi è
cieco”. Vede così profondamente da vedere ben oltre il senso
umano; ma anche: la sua vista è così acuta da poter scorgere
e rivelare la verità vera.
Se la via del Dante pellegrino si annuncia ardua e difficile,
lo è pure la strada che il poeta prepara al lettore. In
quell’«altro viaggio»25 annunciato da Virgilio si avverte il
profumo della dolcezza che aspetta Dante alla meta, come
pure la certezza che il percorso non sarà senza asprezze. Allo
stesso modo le profezie dantesche richiedono spesso al
lettore lo sforzo di penetrare la materia della Commedia, alla
ricerca di un significato più profondo di quello letterale26.
Un primo esempio il poeta Dante lo fornisce nella parte
finale del prologo, quando Virgilio pronuncia la celebre
“profezia del veltro” (Inf. I, 100-11), che giungerà per
scacciare la lupa, ipostasi del male.
25
Inf. I, v. 91.
Il discorso sull’interpretazione del testo interessa al poeta, che illustra i
quattro sensi delle scritture nel Convivio (Libro II, cap. I) e, nell’Epistola XIII,
fornisce delle tracce al lettore per comprendere la Commedia, della quale scrive;
«istius operis non est simpex sensus, ymo dici est polisemos, hoc est plurium
sensuum» (Ep. XIII, 7, 21-22), citando a questo proposito il senso letterale e
quello allegorico che si possono individuare nel testo.
26
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
27
A questo punto, alla fine del canto I, Virgilio mostra di
avere assunto pienamente il ruolo di guida27, ma si tratta della
fase finale di un percorso di maturazione che il poeta latino
compie “a marce forzate” lungo il breve arco del prologo
infernale.
Per ricostruire il percorso di Virgilio, occorre tornare
indietro, fino al momento del primo incontro con il pellegrino
smarrito e disperato, costretto dalle tre fiere ad arretrare di
nuovo verso la selva:
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi alli occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
“Miserere di me” gridai a lui,
“qual che tu sii, od ombra od omo certo!”
Inf. I, 61-66
L’urlo di Dante non lascia dubbi: «miserere di me» è il grido
disperato di chi sta affogando e vede una mano che lo può
salvare. Lo strazio del pellegrino sta tutto in quella richiesta
di misericordia, estrema opportunità di salvezza per chi non
aveva più speranza e davanti a sé vedeva ormai comparire la
morte. Il dramma di Dante, cominciato al primo verso del
prologo e via via cresciuto, raggiunge qui l’apice.
La reazione di Virgilio, che si presenta a Dante, è quella
del perfetto filosofo stoico, che di fronte alle passioni
dell’animo si mostra imperturbabile. Ma il suo composto
distacco dal dolore del pellegrino fa da cassa di risonanza che
amplifica, come un grido nel silenzio, la tensione drammatica
di tutto l’episodio.
27
Così Virgilio: «Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno/ che ti mi segui, e io
sarò tua guida»; Inf. I, 112-13.
28
ROBERTA ROGNONI
La razionalità di Virgilio pietrifica l’uomo, chiudendolo
nel suo egoismo, davanti all’invocazione misericordiosa da
parte di Dante. E il Dante poeta tratteggia nel suo maestro
l’inevitabile esito drammatico che i primi padri della Chiesa,
da Lattanzio a sant’Agostino, avvertono legato all’ideale
della ataraxia e della apatheia propugnate dalla filosofia
antica: non si può restare imperturbabili di fronte al dolore
della vita, se non a prezzo di una durezza di cuore.
Così la prima domanda che Virgilio pone a Dante è quella
dell’uomo storico, del filosofo che, chiuso nella gabbia delle
sue sicurezze, crede di poter trovare la felicità attraverso il
raggiungimento della virtù:
Ma tu perchè ritorni a tanta noia?
Perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagione di tutta gioia?
Inf. I, 76-78
Il «dilettoso monte» rappresenta una soluzione materialistica
e terrena che a Dante non può bastare: può essere solo la
soglia da cui deve partire il cammino verso una vetta più alta,
un’aktròtes ultraterrena che Virgilio non riesce a cogliere.
Per il poeta latino, invece, la gioia terrena è un bene che il
singolo uomo può raggiungere, se si impegna in un cammino
virtuoso che, con il controllo sulle proprie passioni, lo
conduce alla mesótes la virtù che consiste nel “giusto
mezzo”. La conquista della vetta del «dilettoso monte» è
dunque una meta a cui l’uomo deve e può aspirare, e
rappresenta il senso dell’esistenza del giusto filosofo.
Per Dante la cima di questo monte non può essere il
termine assoluto, perché per il cristiano la felicità — quella
stabile — è una condizione che può appartenere solo all’altra
vita, non a quella dei mortali.
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
29
L’invito di Virgilio a salire il «dilettoso monte» sembra
dunque la prova chiara che il poeta latino, almeno al
principio, non è in grado di cogliere appieno il dramma di
Dante. Nel momento fisico dell’incontro tra i due poeti, si
misura tutta la distanza che li separa. Pochi attimi, quasi
impercettibili, che mostrano un’incomunicabilità totale: è una
netta discrasia tra i piani del loro discorso, quasi che Dante e
Virgilio parlino lingue differenti (come una sorta di
“armonica distonia”).
La frattura, si è detto, dura un attimo, perché la subitanea
reazione di Dante scuote Virgilio, come a sanare il
cortocircuito comunicativo che si era creato. Di fronte al
freddo distacco del filosofo classico, le parole di Dante sono
un’“allargare le braccia”, avvolgendo e accogliendo l’altro in
perfetta armonia con la mansuetudine dell’insegnamento
evangelico di Cristo che invita a «porgere l’altra guancia»28.
Non c’è neppure un velo di irritazione delle parole
pronunciate dal pellegrino che abbatte il muro di pietra
dell’ataraxia classica con la dolcezza e la caritas verso
l’altro.
“Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?”
rispuos’io lui con vergognosa fronte.
“O degli altri poeti onore e lume,
vagliami il lungo studio e ’l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Inf. I, 79-85
Dante prova gioia nel riconoscere Virgilio e lo celebra
anzitutto con una domanda retorica che sembra riallacciarsi,
28
«Avete inteso che fu detto: ‘Occhio per occhio e dente per dente’. Io invece
vi dico di non resistere al malvagio; anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra,
volgigli anche la sinistra»: Mt., V, 38-40; «Se qualcuno ti percuote si una guancia,
pòrgigli anche l’altra […]», Lc., VI, 27-30.
30
ROBERTA ROGNONI
sinfonicamente, alla domanda retorica appena posta dal poeta
latino («perché non sali il dilettoso monte?»).
L’esaltazione del culto virgiliano si snoda lungo più
terzine, in un crescendo sempre più ampio: il pellegrino
acclama la grandezza del poeta latino e confessa il profondo
magistero che ha rappresentato per lui; le dittologie «lungo
studio» e «grande amore», pur così chiare ed esplicite, non
bastano però a rappresentare il rapporto che Dante ha tessuto,
a distanza di secoli, con il poeta:
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore
Inf. I, 85-87
Le parole di Dante sono una celebrazione affettuosa che
mostra un rapporto stretto e familiare con il poeta latino, che
vince i secoli. Il suo è un entusiasmo sincero, la reazione
stupita di trovarsi improvvisamente di fronte a chi si è tanto
amato e stimato: non si tratta della sottile captatio
benevolentiae di uno che, in difficoltà, cerca aiuto.
A dimostrarci la sincerità di questo sentimento è la
«vergognosa fronte», con cui Dante pronuncia le parole di
lode di fronte a Virgilio: è l’humilitas — stato d’essere
virtuoso proprio dell’anima cristiana — che si fonde con la
caritas, l’amore nei confronti dell’altro.
L’abbandono al «maestro» è totale; e l’amoroso incontro
con Virgilio sembra sciogliere quel nodo che stringeva
l’animo del pellegrino: Dante piange davanti all’immagine
del maestro, non solo e non tanto per il terrore provocato
dall’incontro con le bestie, ma per l’avvilimento in cui è
caduto.
“Vedi la bestia per cu’io mi volsi:
aiutami da lei, famoso saggio,
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
31
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi.”
“A te convien tenere altro viaggio”
rispuose poi che lagrimar mi vide,
“se vuo’ campar d’esto loco selvaggio”
Inf. I, 88-93
Ma, sinfonicamente, le nuove parole e il pianto di Dante
smuovono anche l’animo del poeta latino: il richiamo alla
dolcezza della sua poesia, così celebrata, lo riconnette sullo
stesso piano comunicativo di Dante, facendolo uscire dalla
fortezza di pietra della ratio. Virgilio, a questo punto, non
può che rispondere al dolce grido di aiuto.
Non è soltanto lo zelo del maestro-filosofo, che aiuta il
discepolo in difficoltà: è il discorso di Dante ad avere
risvegliato in lui quella parte che più sinceramente lo può
legare al fiorentino: il suo essere artista e poeta.
L’uomo Virgilio non riesce a uscire mai idealmente dalle
mura del «nobile castello» dei sapienti, ma come poeta
Virgilio esce dalla finitezza della sua visione razionalisticaclassica, così da intuire e vedere, anche se in modo opaco, la
grandezza del mistero cristiano, a cui comunque non è
riuscito né riuscirà mai ad abbandonarsi.
È qui che avviene una sorta di “riscatto” del personaggio,
che ora finalmente può innalzarsi in tutta la sua grandezza,
dialogando con Dante e ponendosi come sua guida,
profetizzando «l’altro viaggio», la strada diversa dal dilettoso
monte, che Dante dovrà percorrere.
Virgilio finalmente vede la «bestia» che ha spaventato
tanto il fiorentino; se in un primo tempo sembrava non
scorgere la lupa affamata che Dante, terrorizzato, gli
indicava, ora, invece, nel suo dettato, rivela al pellegrino di
averne una profonda conoscenza:
[questa bestia]
e ha natura sì malvagia e ria,
32
ROBERTA ROGNONI
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
Inf. I, 97-99
Questa lupa infernale rappresenta lo stravolgimento della
natura, perché non è la bestia affamata che va in cerca di cibo
e poi si sazia: ha piuttosto una voracità senza fine, è un
paradoxon infernale, poiché mangiando nasce in lei un più
acuto desiderio di fame.
A questo punto Virgilio pronuncia la profezia contro la
lupa, che è in fondo la vera e compiuta risposta alla richiesta
di aiuto lanciata da Dante; al v. 89 aveva chiesto al poeta
latino: «aiutami da lei, famoso saggio». E, stavolta,Virgilio
non solo accoglie la richiesta, ma va anche oltre, offrendo a
Dante ben più del rifugio contingente dalla lupa: nelle sue
parole c’è la promessa di una pace assoluta, quando la bestia
vorace verrà sconfitta.
In generale simbolo del peccato — in particolare
identificata con la cupidigia — la lupa sembra diventare in
questo prologo infernale anche l’orribile trasfigurazione
grottesca della lupa simbolo di Roma che, invece di dare
nutrimento agli uomini, si ciba di essi.
Elemento di spicco della triade bestiale, la lupa sembra
ricollegarsi sinfonicamente — ma in segno opposto — alla
benedetta tra le tre benedette di Inf. II, Maria: se lei è la
madre che si dà generosamente, prendendosi cura dell’altro,
la lupa è piuttosto una matrigna crudele che usa l’altro per
saziare la sua ingorda fame. La lupa cerca di bloccare il
percorso di Dante, di arrestare il suo movimento e di
spingerlo irrazionalmente a tornare indietro, per ricacciarlo
nel peccato: Maria, al contrario, è colei che promuove il
viaggio del pellegrino e che nei guida i passi.
La potenza espressiva della poesia dantesca, nella
descrizione della lupa e delle fiere, risente molto della lettura
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
33
dell’Apocalisse di San Giovanni, come appare anche altrove
nella Commedia29:
Vidi poi una bestia che saliva dal mare; aveva dieci corna e sette
teste; […] La bestia che vidi somigliava a una pantera, mentre le
zampe sembravano di orso e la bocca di leone.
[…] Alla bestia fu data una bocca che proferiva parole orgogliose e
blasfeme […]. Così aprì la sua bocca blasfema contro Dio,
lanciando bestemmie contro il nome e la dimora di lui, contro tutti
gli abitanti del cielo. […] L’adoreranno tutti gli abitanti della terra,
il cui nome non sta scritto nel libro della Vita dell’Agnello che è
immolato fin dalla creazione del mondo30.
L’estremo paradosso è che gli uomini, invece di fuggire
questa lupa antropofaga, la cercano, per legarsi a lei in un
orribile incesto:
Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l Veltro
verrà, che la farà morir con doglia31.
Inf. I, 100-102
La precisa scelta lessicale del verbo “ammogliare” indica
proprio un vincolo carnale ed evoca la cruda immagine di
questi uomini che, senza averne consapevolezza, vivono
assieme alla bestia, le dormono accanto e finiranno per
esserne divorati.
Il senso allegorico di questo rapporto — per applicare una
categoria ermeneutica suggerita dallo stesso Dante poeta —
29
Si veda, per esempio, la complessa processione purgatoriale in Purg.
XXIX, XXXI, XXXII.
30
San Giovanni, Apocalisse, XIII, 1-8. Di un’altra bestia «che sale dalla
terra» parla in XIII, 11-18.
31
“Animale” nel senso di uomo è usato più volte nella Commedia; basti
vedere, come esempio su tutti, come Francesca si rivolge a Dante: «O animal
grazioso e benigno». Inf. V, 88.
34
ROBERTA ROGNONI
sembra indicare il legame tra l’uomo e il peccato. Come falsa
lusinga, il male attrae a sé l’uomo facendogli credere,
nell’assenza dell’Altro, di poter diventare un essere
totalmente indipendente. Una volta morto nella colpa,
all’uomo dannato si svela finalmente il vero volto della belva
divoratrice: il peccato è solo inganno, perché l’uomo non può
liberarsi della presenza dell’Altro, in quanto da lui proviene;
come dannato non può congiungersi al Creatore, ma non può
neppure staccarsi da lui totalmente costituendosi come un
essere autonomo: perché una sola è la realtà, il bene.
Se l’allusione alla lupa divoratrice può essere letta come
simbologia universale del rapporto uomo-peccatodannazione, le parole pronunciate subito dopo da Virgilio, a
proposito del veltro, sembrano adattarsi anzitutto a
un’interpretazione storico-politica.
La visione profetizzata di questo veltro, che «verrà» a
scacciare la lupa facendola «morir con doglia», è
volutamente enigmatica: Dante-narratore non chiarisce il
significato di questo vaticinio — per altro l’oscurità è una
caratteristica tipica delle profezie —, spingendo il lettore a
soffermarsi a lungo su queste terzine e avvolgendo questo
messaggio di un fitto velo di mistero, che ne accresce la
solennità.
È quasi un anatema quello che Virgilio lancia contro la
lupa, bandita e distrutta dall’avvento del veltro:
Questi non ciberà terra nè peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro32.
Inf. I, 103-105
32
Qui il Vandelli accoglie a testo la lezione con la maiuscola: “tra Feltro e
Feltro”.
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
35
I tentativi di identificazione, a questo proposito, sono stati
numerosi ma, senza tentare vie già ampiamente battute, ci si
può soffermare sull’analisi delle caratteristiche del veltro,
cercando di riflettere su ciò che Dante ci rivela in modo
esplicito.
La scelta del poeta di rappresentare il salvatore
dell’umanità sotto forma di bestia continua sinfonicamente il
tema delle fiere, che percorre tutto il canto I: come Dante era
stato assalito nella selva dalle tre fiere, così un’altra bestia
verrà in suo soccorso: in questo caso però il pellegrino viene
trasfigurato nell’uomo universale, giacché il veltro scaccerà
la lupa per Dante e per tutta l’umanità33.
Anche il veltro è un animale, come lonza, leone e lupa, ma
ha una natura tutta particolare rispetto a esse: è un cane da
caccia ed è dunque amico dell’uomo, addestrato per braccare
gli animali che abitano boschi e selve, in un inseguimento
che non lascia scampo. Nella potente fantasia dantesca la
preda del veltro è rappresentata dalla lupa, che delle tre fiere
è la più feroce: occorre quindi tenere presente che
sconfiggere lei, sillogisticamente, significa uccidere anche
lonza e leone.
L’invincibilità di questo salvatore — come sembra
svelarci il Dante poeta — è strettamente legata a un forte
senso di umiltà: il cane per natura è evidentemente un
animale ben più debole di una lonza, di un leone o di una
lupa, che potrebbero sbranarlo senza difficoltà; eppure, nella
visione dantesca, il veltro riesce a sbaragliarle, grazie a una
forza che evidentemente è altra cosa rispetto alla violenza: è
l’humilitas del messaggio evangelico, che esalta i piccoli34.
33
Così pure il Dante della selva, in un senso più ampio, rappresentava non
solo l’uomo storico, ma anche l’umanità tutta avvinta dal peccato.
34
Così ammonisce Cristo nel Vangelo: «Rimetti la tua spada al suo posto,
poiché tutti quelli che mettono mano alla spada, di spada periranno», Mt., 26, 53.
ROBERTA ROGNONI
36
Così il veltro mostra un distacco dai beni terreni: «questi
non ciberà terra né peltro», nel senso più letterale di “territori
o denari”, ma anche in un significato più ampio di
attaccamento di tipo materialistico. Ancora una volta nella
rappresentazione del veltro l’immaginario dantesco fonde
con armonia la potenza del testo biblico e la dolcezza del
messaggio evangelico: il veltro, così descritto, ricorda
l’immagine di Cristo, Re dei Re, ma anche povero tra i
poveri35.
Dante mette in luce anche la spiritualità di questo
salvatore, che si nutrirà di un cibo trinitario: «sapienza amore
e virtute»; ma, più che cibarsi, ne sarà nutrito: si noti bene la
scelta dantesca di usare il verbo transitivo («ciberà»), con
l’anticipazione dell’oggetto («questi»), messo in evidenza
nella costruzione sintattica che ricalca il latino.
Non è il veltro che va a caccia di cibo, ma è, in un certo
senso, il cibo che si muove verso il veltro; come una sorta di
attrazione naturale “similia similibus”: al veltro tendono
naturalmente la sapienza, l’amore e la virtù, mentre vi è
repulsione con la terra e il peltro. Così il veltro diventa
davvero l’opposto della lupa dalla «bramosa voglia», che,
invece, è sempre alla ricerca di cibo, per di più umano.
Il v. 105 chiude la terzina con un riferimento che avvicina
al contesto storico-politico di Dante: «e sua nazion sarà tra
feltro e feltro», nel senso di “nascita, generazione”36.
L’allusione al “feltro” è stata considerata come la chiave
per l’identificazione del luogo di nascita del veltro, così da
riuscire a riconoscerlo in un personaggio storico37.
35
Va notata anche la suggestione francescana, nell’esaltazione della povertà.
Deli, cit., vol. 3/I-N p. 796.
37
Per alcuni indicherebbe il panno dei monaci, come simbolo di umiltà,
oppure il territorio tra Feltre e Montefeltro, pensando che il veltro sia da
identificare con Cangrande della Scala.
36
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
37
È piuttosto probabile che Dante pensi a un uomo preciso
in cui vede “in potenza” questo salvatore: certo non in atto,
come il desolato panorama politico e sociale del suo tempo
gli rammentava continuamente. Veltro in potenza è
l’imperatore Arrigo VII, citato due volte nella Commedia
come «l’alto Arrigo»38, «ch’a drizzare l’Italia/ verrà in prima
ch’ella sia disposta» (Par. XXX, 137-38), in cui Dante aveva
riposto le sue speranze, poi deluse, di una ricostituzione
dell’ordine politico in Italia, con la rifondazione del modello
imperiale romano, di cui è testimonianza, tra l’altro,
l’Epistola V39.
Se una sicura identificazione storica non appare possibile,
si può riflettere invece sulla descrizione della nascita del
veltro: «tra feltro e feltro» può forse ricollegarsi a un’altra
natività, quella di Cristo, che umilmente si è fatto carne
nascendo in una mangiatoia:
Mentre si trovavano là [a Betlemme], giunse per lei [Maria] il
tempo di partorire e diede alla luce il suo figlio promogenito. Lo
avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché per loro non
c’era posto all’albergo40.
Il richiamo cristologico avvolge il veltro di un senso
messianico, già evocato nei versi precedenti con immagini di
umile potenza o, meglio, di “umiltà che può tutto”. Come il
Cristo bambino viene adagiato in una mangiatoia, così il
veltro nasce tra feltro e feltro, che è una “falda di lana o di
altri peli animali ottenuta senza tessitura, usufruendo della
capacità adesiva delle fibre opportunamente trattate”41. Perciò
il veltro, alla sua nascita, non verrà avvolto in un panno,
38
Par.XVII, 82 e Par.XXX, 137.
Come è noto, la breve e intensa parabola politica di Arrigo VII, impegnato
in una guerra contro Firenze, il papato e i francesi, si conclude definitivamente
con la morte dell’imperatore a Bonconvento, presso Siena, nel 1313.
40
Lc., II, 6-7.
41
Deli, op. cit., vol. 2/D-H p. 423.
39
38
ROBERTA ROGNONI
come normalmente accade per i neonati, ma dal più umile dei
tessuti che, letteralmente, non è neppure un tessuto.
Va notato anche il gioco fonico creato dall’accostamento
lessicale di “veltro/ feltro e feltro”, con la “f” e la “v” che
sono lo stesso fonema (fricativa labiodentale) l’uno
pronunciato sordo e l’altro sonoro: si viene così a costituire
una terna di natura uguale ma diversa, quasi si tratti di una
suggestione dantesca per rendere in modo celato la natura
trinitaria del veltro, avvicinandolo ancora una volta al Cristo
che è Figlio, tra il Padre e lo Spirito Santo.
Il veltro salverà la «umile Italia», indicata con lo stilema
virgiliano; ma a pronunciare la profezia è Virgilio stesso: si
noti la trovata poetica di Dante, che fa parlare il poeta latino
con le sue stesse parole:
Humilemque videmus Italiam
Aen., III, 522-23
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Camilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogni villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla
Inf. I, 106-11
L’Eneide è evocata in tutta la terzina, con la rapida ma
pregante sfilata degli eroi, come in un “trionfo” romano, per
celebrare il sacrificio dei valorosi combattenti di entrambe le
parti, troiani e avversari, che morirono per permettere la
fondazione e quindi la successiva grandezza di Roma.
Anche il latinismo «villa» richiama il mondo classico, per
ampliarsi poi in una visione più vasta, che include il senso
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
39
cristiano, dato che il veltro, dopo aver scacciato la lupa di
città in città, alla fine la ricaccerà nell’inferno.
Come accade per le bestie feroci, la lupa verrà catturata e
imprigionata in una sorta di recinto, che però qui è infernale:
il richiamo agli inferi porta con sé anche l’idea della morte di
questa bestia, della definitiva sconfitta che le verrà inflitta dal
veltro. Questo recinto infernale è anche il luogo di
provenienza della lupa, liberata da una forza malvagia,
l’invidia, che può essere definita come «il sentimento di
cruccio nascente dal considerare il bene altrui come lesivo
del proprio»42.
Dante avverte che l’invidia è un sentimento strettamente
connaturato all’animo umano, una delle manifestazioni più
diffuse della naturale inclinazione al peccato dell’uomo; così
nelle Sacre Scritture il diavolo viene indicato come il padre
dell’invidia, giacché «per invidia del diavolo» la morte entrò
nel mondo43. E, per invidia, dice il Vangelo, Gesù viene
arrestato e condannato:
Mentre essi erano radunati, Pilato domandò: “Chi volete che vi
rilasci, Barabba o Gesù, quello che è chiamato Cristo?”. Sapeva,
infatti, che per odio l’avevano consegnato44 .
Nel Convivio il tema dell’invidia viene affrontato in modo
diffuso, come parte integrante della riflessione filosofica
dantesca. L’autore lo considera come un vizio che svilisce
l’uomo, comunque connaturato al suo essere:
Libro III
Onde, con ciò sia cosa che sei passioni siano propie de l’anima
umana, de le quali fa menzione lo Filosofo ne la sua Rettorica, cioè
grazia, zelo, misericordia, invidia e vergogna, di nulla di queste
42
F. Salsano, “Invidia”, in ED, op. cit., vol. III pp. 492-94.
Sapienza, 2, 24.
44
Mt., XXVII, 18.
43
M
ROBERTA ROGNONI
40
puote l’anima essere passionata che a la finestra de li occhi non
vegna la sembianza […]
Libro I
Dico adunque che per tre cagioni la presenza fa la persona di meno
valore ch’ella non è l’una de le quali è puerizia, non dico d’etate
ma d’animo; la seconda è invidia […]45.
Nella Commedia la pacatezza della lucida analisi psicologica
e morale lascia spazio alla veemenza dello sdegno, per
l’invidia che adesca l’animo umano come appare dalle parole
del suicida Pier delle Vigne, vittima della corte:
La meretrice che mai dall’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune, delle corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti46
Inf. XIII, 64-67
Le terribili conseguenze dell’invidia, messe a nudo con
particolarità anatomica in tutta la loro brutalità dall’occhio
schietto e lucido di Dante, diventano, filtrate dalla potenza
della sua poesia e dalla moralità offesa dell’uomo storico, il
grido di denuncia e di condanna lanciato da un profeta. Pur
scegliendo un destino tutto diverso da quello del protonotaro
svevo, Dante ha potuto provare sulle sue stesse spalle il peso
e il dolore della rovina, provocata dall’invidia: i lunghi anni
di esilio fino alla morte, la perdita di tutti i suoi beni, la
45
Conv., III, 8, 10; I, 4, 2 (ma si vedano anche i paragrafi 6-8).
Pier delle Vigne raggiunse il culmine della sua carriera politica come
protonotaro e logoteta di Federico II, finché cadde in disgrazia presso
l’imperatore, che lo fece incarcerare accusandolo di tradimento. Sull’ingiustizia
dell’accusa, dovuta all’invidia della corte sveva, scrive anche Giovanni Villani
nella sua Cronica (VI, 22): «ciò fu fatto per invidia di suo grande stato; per la
qual cosa il detto savio per dolore si lasciò tosto morire in pregione, e chi disse
ch’egli medesimo si tolse la vita».
46
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
41
condanna su di sé e sulla propria famiglia, a causa di Firenze
«piena/ d’invidia sì che già trabocca il sacco»47.
Nel prologo della Commedia, l’invidia sembra essere
rappresentata come l’origine di tutti i mali. Lungo il canto il
poeta costruisce un’immagine terrificante della lupa famelica
e assassina, ma all’improvviso il lettore si trova di fronte a
un’entità ancora più spaventosa e maligna, che fa passare la
bestia quasi in secondo piano: l’invidia è la volontà che
spalanca le porte del recinto infernale, consapevole della
distruzione che la fiera affamata seminerà ovunque.
Anche nel Purgatorio, dove si respira un’atmosfera fatta
di dolce trepidazione per la speranza del vero bene, che
spinge le anime a purificarsi con sollecitudine e fa sembrare
meno cruda la loro pena fisica, l’invidia sembra spezzare
quest’aurea atmosfera. La schietta confessione di Guido del
Duca, che sulla terra ha conosciuto questo moto dell’animo,
prima di essersene pentito, toglie la maschera all’invidia,
mostrandone ancora una volta l’orribile volto:
Fu il sangue mio d’invidia sì riarso,
che se veduto avesse uom farsi lieto,
visto m’avresti di livore sparso
Purg. XIV, 82-84
La faccia dell’invidia è tanto più terribile, perché sfigurata,
nel senso che rappresenta la deformazione di quello che è il
sentimento per eccellenza dell’animo cristiano: la caritas.
L’amore, l’apertura e la sollecitudine nei confronti
dell’altro, la certezza di non poter essere felici se il fratello
non lo è, sono moti dell’anima cristiana, riflessi limpidi di un
prisma fatto di luce, quello della caritas, di cui Cristo è stato
maestro.
47
Inf., VI, 49-50.
ROBERTA ROGNONI
42
L’invidia appare così come il contrario dell’amore:
l’invito di san Pietro è a rigettare «ogni cattiveria, ogni
inganno, le ipocrisie, le invidie e ogni forma di maldicenza
[…]»48.
Così l’apostolo Paolo, nella celebrazione dell’agapé
cristiana (“amore”), scrive:
La carità è magnanima, è benigna la carità, non è invidiosa, la
carità non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca
il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non
gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità49.
L’invidioso, invece di gioire per la felicità dell’altro, si rode:
così il “riardere” confessato da Guido del Duca o gli “animi
infiammati” di cui parla Pier delle Vigne danno proprio l’idea
dell’invidia come perversione della caritas: non è l’amore
per l’altro che fa ardere, infiammare il cuore o l’animo; è
piuttosto un sentimento di “dis-amore” nei confronti l’altro,
che nasce da un eccessivo ed esclusivo amore per se stessi; è
amore che arde egoisticamente dentro di sé: bruciando nel
proprio cuore e non uscendo ad abbracciare l’altro, finisce
per consumare, in un fuoco distruttivo, la persona stessa.
Già nella Vita Nuova si può rintracciare una riflessione
dantesca sull’opposizione amore/invidia in un punto cruciale
dell’opera. Dante, colpito dall’amore per Beatrice, mostra
suo malgrado i segni fisici di questa fiamma che lo percuote e
c’è chi, avendo malignamente intuito, vorrebbe sapere chi sia
la donna amata dal poeta:
E molti pieni d’invidia già si procacciavano di sapere di me quello
che io volea del tutto celare ad altrui […]
48
49
Pt., I , 2, 1.
Paolo, I Lettera ai Corinzi, 13, 4-7.
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
43
È Amore a suggerire al poeta di non rispondere a questo
«malvagio domandare»; così Dante tace il nome di Beatrice:
[…] per la volontade d’Amore, lo quale mi
comandava secondo lo consiglio de la ragione50.
Con la profezia del veltro Virgilio, all’inizio della
Commedia, sembra svelare già parte dell’essenza del viaggio
dantesco, poiché sarà il veltro, sulla terra, a ricacciare la lupa
negli inferi e a sconfiggere l’invidia.
Allora il veltro, in senso allegorico e morale, può essere
anche considerato come la cellula di bene presente in ogni
uomo, che dovrà scacciare dentro di sé l’egoismo che porta al
peccato e alla dannazione eterna, per aprirsi di nuovo
all’amore, così da raggiungere l’unico vero bene.
Il poeta latino, a questo punto, si proclama «guida» di
Dante (v. 113), annunciando in una sintetica ed efficace
profezia, il viaggio che i due pellegrini compiranno: l’Inferno
e il Purgatorio sono ciascuno rappresentato nello spazio di
una terzina; ma nell’annuncio della salita al Paradiso il
discorso si amplia, occupando il doppio dello spazio (vv.
121-126); anche perché nella promessa di vedere le «beate
genti», Virgilio inserisce una profezia nella profezia:
l’incontro con Beatrice, cui Dante sarà affidato.
Alle qua’ poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
Inf. I, 121-23
Dante pellegrino, tuttavia, è come sordo a queste parole di
Virgilio, di cui non sembra avere colto il senso profetico.
Smarrito nella selva, si è spinto in un luogo dove la voce
50
Vita Nuova, IV, 1-2.
44
ROBERTA ROGNONI
di Beatrice non può più arrivare: la morte fisica dell’amata ha
spezzato il contatto con lei e il rifugio nella filosofia ha finito
appunto per trasformarsi in selva, in un labirinto fatto di
silenzio.
Virgilio, come si è visto, risveglierà l’anima intorpidita di
Dante, già nel canto successivo, rievocando esplicitamente il
dialogo tra lui e Beatrice; ma, se in questa fase iniziale del
percorso il pellegrino è ancora fittamente avvolto dalla coltre
del peccato e della colpa e per questo non riesce a cogliere gli
stimoli della guida, ben diverso si mostrerà il suo
atteggiamento quando, alla fine del Purgatorio, Dante
spaventato e fermo davanti al muro di fuoco, si muoverà per
attraversarlo senza indugio, una volta sollecitato da Virgilio
alla visione di Beatrice:
Quando mi vide star pur fermo e duro,
turbato un poco, disse “Or vedi, figlio:
tra Beatrice e te è questo muro”.
[…]
così, la mia durezza fatta solla,
mi volsi al savio duca, udendo il nome
che ne la mente sempre mi rampolla.
Purg. XXVII, 34-36/ 40-42
Come Dante diventa propriamente il “pellegrino” solo alla
fine del canto II, quando, rinfrancato dalle spiegazioni di
Virgilio, si abbandonerà totalmente al poeta latino
definendolo «tu duca, tu segnore e tu maestro» (v. 140), così,
sinfonicamente, Virgilio prende perfettamente possesso del
suo mandato solo alla fine del canto I, dopo l’intima
metamorfosi da filosofo atarassico a poeta-vate, sollecitata
dall’incontro fisico con Dante.
È questo l’evento cruciale che segna una svolta in
Virgilio: se il poeta latino aveva risposto con sincera
sollecitudine all’invito della gentilissima, il contatto diretto
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
45
con il pellegrino per lui rappresenta un vero e proprio shock:
il dolore di Dante pietrifica la razionalità di Virgilio; ma, poi,
il suo corpo di ombra riesce a essere scosso dal calore della
caritas offerta dall’altro: Virgilio che era apparso come «chi
per lungo silenzio parea fioco» può tornare a parlare con
l’altro, a dialogare, uscendo dalla solitudine del lògos, così da
riuscire a capire fino in fondo il senso del proprio ruolo.
La profezia di Virgilio, alla fine del prologo, apre una
lunga serie di messaggi profetici che attraversano la
Commedia e che accompagnano parallelamente il viaggio,
come dei segni parlanti che appaiono a tratti, indicando al
pellegrino che si trova sulla giusta strada.
A pronunciare le profezie saranno anche dei dannati, o
addirittura, dei mostri infernali, come è il caso di Caronte, in
Inf. III (vv. 91-93), a dimostrazione del fatto che il male non
è un’entità a sé, ma che anche in esso vi è una cellula di bene
che dimostra l’origine unica e comune, cioè Dio51.
In generale l’inferno, in quanto luogo del peccato e della
colpa, appare come il regno dell’inganno, come falsa verità.
Lo stesso Virgilio pur essendo “sommo duca e poeta”
porta con sé questa finitezza infernale, che rende il suo
discorso talvolta ambiguo: come in vita Virgilio-lanterna non
ha saputo cogliere la verità nella sua profondità, così ora le
sue parole oscillano tra la verità e l’involontario inganno,
l’errore. Virgilio filosofo, che ha sempre cercato di
abbracciare il significato della realtà con i mezzi della
ragione, nell’altra vita non riesce ad avere sempre il pieno
51
Si pensi ai numerosi indemoniati guariti da Gesù, come è descritto nei
Vangeli: Cristo non distrugge ma scaccia il male perché torni il “tutto bene”; è il
male che si distrugge da sé, come avviene nell’episodio dell’indemoniato di
Gerasa: la legione dei demoni si trasferisce dall’uomo ai porci, che si gettano
nelle acque annegando. Mt., VIII, 28-34; Mr., V, 1-20; Lc., VIII, 26-39.
ROBERTA ROGNONI
46
controllo della situazione o la consapevolezza di ciò che sta
dicendo52.
Per lo stesso motivo, talvolta, Virgilio appare nella
Commedia come un profeta inconsapevole. Un primo
esempio si nota in Inf. III, quando Dante e il suo maestro si
trovano in prossimità del fiume Acheronte, dove le anime
dannate si radunano per essere traghettate da Caronte; il
fiorentino, alla vista di quella folla, chiede delle spiegazioni a
Virgilio:
per ch’io dissi: “Maestro, or mi concedi
ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’io discerno per lo fioco lume”.
Ed elli a me: “Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Archeronte”.
Inf. III, 72-78
Nel senso letterale, Virgilio intende rimandare il chiarimento
sulla sollecitudine dei dannati, esortando Dante ad attendere
il momento più opportuno. Ma le sue parole tradiscono un
significato più profondo.
L’apostrofe stessa a Virgilio, chiamato «maestro», mette
in luce la funzione iniziatica che qui svolge nei confronti di
Dante. Il suo è prima di tutto il monito al discepolo perché
impari a frenarsi e a raggiungere l’equilibrio della mesótes;
ma, allo stesso tempo, Virgilio, inconsapevolmente, prepara
52
L’ambiguità di Virgilio è resa bene nel già citato episodio di Purg. I,
nell’incontro con Catone; qui il poeta latino invita giustamente Dante a fare
reverenti «le gambe e ’l ciglio» (v. 51) davanti al «veglio onesto», ma poi cerca di
convincere Catone a lasciarli passare usando il ricordo terreno di Marzia, che
abita nell’inferno; un’argomentazione improponibile per un’anima salva, come
quella di Catone, che risponde seccamente a Virgilio: «Ma se donna del ciel ti
move e regge, / come tu di’, non c’è mestier lusinghe: / bastisi ben che per lei mi
richegge» (vv. 91-93).
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
47
Dante a un’iniziazione ben più profonda e più vera di quella
filosofica: invitandolo al raccoglimento interiore e alla
concentrazione di sé al momento in cui raggiungeranno la
sponda dell’Acheronte, il maestro latino prepara il discepolo
ad accogliere al meglio e fino in fondo il primo grande segno
infernale che si troverà davanti: il terremoto, accompagnato
dal baleno.
Il discepolo reagisce come un perfetto cristiano: con gli
«occhi vergognosi e bassi» (v. 79), cioè con l’humilitas di chi
piega l’intelletto al troppo domandare e si abbandona
all’altro53.
Il solenne cenno profetico virgiliano («le cose ti fier
conte») è latore anche di un’altra risposta che il pellegrino
riceverà sulla riva dell’Acheronte: una verità che per intensità
andrà ben oltre quanto chiesto dal fiorentino. Come nel canto
I Dante chiede a Virgilio di salvarlo dalla lupa in quel
momento contingente e Virgilio fa di più profetizzando la
definitiva distruzione della fiera da parte del veltro, così qui il
poeta latino offre una risposta più piena e pregnante, rispetto
a quanto richiesto dal pellegrino.
Il riferimento è alla profezia di Caronte, il traghettatore
infernale, personaggio che il Dante poeta trae proprio
dall’Eneide:
Portitor has horrendus aquas et flumina servat
terribili squalore Charon, cui plurima mento
canities inculta iacet, stant lumina flamma,
sordidus ex umeris nodo dependet amictus.
Aen. VI, 298-301
53
Ancora una volta si può notare una “armonica distonia” tra il messaggio di
Virgilio e quello di Dante: essa appare come un lieve difetto comunicativo, perché
il dialogo avviene su due piani diversi, con due linguaggi differenti, ma
contribuisce ad arricchire il senso finale del discorso. Il dialègestai tra i due
ricorda il processo filosofico della sintesi delle parti diverse (i loro singoli
discorsi) in una perfetta armonia (diaìresis e synagoghé di Platone).
48
ROBERTA ROGNONI
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: “Guai a voi anime prave!”
Inf. III, 82-84
Il Caronte dantesco è una creatura mista e nuova, che unisce
al profilo tratteggiato da Virgilio il vivace espressionismo di
gusto tipicamente medioevale.
Nell’Eneide, Caronte, nella sua altera fissità, ha lo
squallore e il silenzio della morte; nella Commedia diventa
una creatura “viva” perché Dante lo anima dandogli la
parola, facendolo muovere e dialogare sulla scena,
caratterizzandolo con la vivacità di un mostro infernale; così
la descrizione della canizie richiama da vicino il testo
virgiliano (più avanti, al v. 97, parlerà di «lanose gote»), ma
il verbo successivo, posto a inizio di verso — «gridando» —
segna la metamorfosi del Caronte antico in quello dantesco:
Il nocchiero della Commedia, in quanto demone, è
animato da una vis sadica che troviamo altrove nell’inferno54:
Caronte grida e inveisce contro i dannati, batte con un remo
chi indugia a salire sulla sua barca, compiacendosi di infierire
e di riuscire ad atterrire quelle anime ree:
54
È una sorta di godere del male contro se stessi o, come nel caso di Caronte,
contro gli altri dannati. Un altro esempio significativo è offerto in Inf. XXV, 13638: a conclusione della metamorfosi di due ladri, l’uno inveisce contro l’altro:
«L’anima ch’era fiera divenuta, / suffolando si fugge per la valle, / e l’altro dietro
a lui parlando sputa». In Inf. XXIII, 142-44, è l’ipocrita Catalano a pungere
Virgilio, ricordandogli la beffa appena subita dai diavoli di Malebolge: «E ’l frate:
“Io udi’ già dire a Bologna/ del diavol vizi assai, tra’ quali udi’/ ch’elli è
bugiardo, e padre di menzogna”»; assai significativo è pure l’episodio del conte
Ugolino che rode il cranio dell’arcivescovo Ruggieri (Inf. XXXII-III), animato da
un «odio» che il poeta descrive in modo efficace: «e come ’l pan per fame si
manduca,/ così ’l sovran li denti all’altro pose/ là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la
nuca» (Inf. XXXII, 127-29).
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
49
Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattieno i denti,
ratto che ’nteser le parole crude55.
Si noti anche l’insistenza con cui è descritto un particolare di
Caronte, gli occhi, vero segno della sua anima di demone
infernale, ben più forte ed espressivo dei «lumina flamma»
virgiliani:
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Inf. III, 99
Caron dimonio, con occhi di bragia,
Inf. III, 109
Caronte, incontrando Dante e Virgilio, cerca di ostacolare il
loro viaggio, rifiutandosi di traghettarli sulla barca infernale.
Ma, di fronte all’insistenza dei pellegrini, lancia un monito a
Dante, che ha un valore profetico:
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,
disse: “Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti”
Inf. III, 90-93
Le parole di Caronte, intenzionalmente allusive, sembrano
annunciare la salvezza di Dante. La «piaggia» può riferirsi
alla spiaggetta del Purgatorio dove approdano le anime salve,
sbarcando dal «più lieve legno», quello guidato dall’angelo
nocchiero:
55
Inf. III, 100-102.
ROBERTA ROGNONI
50
Poi, come più e più verso noi venne
’uccel divino, più chiaro appariva;
per che l’occhio da presso nol sostenne,
ma chinail giuso; e quei sen venne a riva
con un vasello snelletto e leggiero,
tanto che l’acqua nulla ne ’nghiottiva
Purg. II, 37-42
Ma Dante e Virgilio non raggiungeranno la spiaggia del
Purgatorio sulla barca dell’angelo nocchiero, ma attraverso la
“natural burella” sotto il corpo di Lucifero (Inf. XXXIV, 70139), fino alle grotte della montagna sacra. Perciò le parole di
Caronte non posson riferirsi all’attuale viaggio che Dante sta
affrontando, quanto piuttosto a quello che compirà dopo la
morte, da anima salva56.
Dante, disorientato dal contatto con il mondo infernale e
ancora moralmente avvinto dal sonno della selva, non
risponde né reagisce a quanto detto da Caronte. Più che
cogliere il senso di quelle importanti parole pronunciate dal
traghettatore infernale, Dante appare vinto dal terrore, come
gli altri dannati che affollano la riva dell’Acheronte, di fronte
alla vista del terribile nocchiero.
La koinonía con queste anime ree mostra bene come, in
questa fase iniziale del percorso, la condizione del pellegrino
sia assai prossima a quella dei dannati, perché come loro è
nel peccato; l’unica differenza sta nel fatto che essendo
ancora vivo ha davanti a sé la possibilità di riscattarsi, di
avere una nuova opportunità di salvezza57.
Poco dopo il discorso di Caronte, Dante si trova di fronte a
un segno infernale, il terremoto, seguito dal baleno rosso, che
colpisce il pellegrino a tal punto dal farlo svenire: «mi vinse
56
Nello stesso episodio, Dante viene definito «anima viva» (v. 88) e,
implicitamente, «anima buona» (v. 127).
57
È anche pensabile che Dante non parli memore del monito ricevuto poco
prima da Virgilio a frenare la sua curiositas.
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
51
ciascun sentimento;/ e caddi come l’uomo che ’l sonno
piglia.» (vv. 135-36).
Al solo ricordo di quel terribile boato, Dante narratore
sente rinovellarsi lo «spavento/ che la mente di sudore ancor
mi bagna». Quell’acqua morta, simbolo del peccato, richiama
sinfonicamente le lacrime dei dannati che stanno per
attraversare il fiume infernale:
Poi si raccolser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
Inf. III, 106-107
Il pianto dei dannati rende la «terra lagrimosa» (v. 133):
quest’acqua penetra nel terreno facendo scaturire il vento che
provoca, in base alla teoria aristotelica accolta da Dante, il
terremoto; nel De Meteora, Aristotele spiega che a provocare
questo fenomeno è il sole che, scaldando il terreno, fa
nascere dalle sue viscere un vento secco e forte che rompe la
terra. Dante poeta inserisce una variatio dal sapore
intensamente poetico, sostituendo il sole, come causa
primaria del terremoto infernale, con le lacrime delle anime
dannate58.
Finito questo la buia campagna
tremò si forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
Inf. III, 130-34
Al pellegrino è così svelato il primo segreto dell’inferno: il
suo distorcere in modo inquietante la natura, compresa quella
58
A. Niccoli, “Tremoto”, in ED., op. cit., vol. V p. 713.
ROBERTA ROGNONI
52
umana, come Dante vedrà bene più avanti nel suo viaggio
attraverso gli inferi59. Il terremoto assomiglia in modo
inquietante a quello terrestre, ma allo stesso tempo è cosa
tutta diversa; così pure è per il lampo rosso che balena nella
«buia campagna», che illumina in modo innaturale un cielo
che sembra vero ma è finto.
Dante scopre così anche un’altra sconvolgente legge
infernale, mettendo in guardia contemporaneamente anche il
lettore: qui tutto è diverso da ciò che appare, perché è il regno
della menzogna e dell’inganno, e occorre dunque prestare
attenzione.
Lo stesso Virgilio, che è anche l’amorosa guida che si
prende cura di Dante con una sollecitudine quasi materna,
confortandolo nei momenti più difficili, resta vittima degli
inganni infernali. Così avviene in un passaggio cruciale del
viaggio, alle porte della città di Dite che i diavoli rifiutano di
aprire a Dante e Virgilio:
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: “Chi è costui che sanza morte
va per lo regno della morta gente?”
E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar secretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno,
e disser: “Vien tu solo, e quei sen vada,
che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; chè tu qui rimarrai
che li hai scorta sì buia contrada”.
Inf. VIII, 82-93
59
Basti citare alcuni esempi come l’incessante metamorfosi dei ladri, che
diventano serpenti e poi ancora uomini (Inf. XXV), i suicidi tramutati in piante
(Inf. XIII) o il terribile stavolgimento della natura umana negli indovini, che
hanno la testa rivolta alla schiena (Inf. XX).
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
53
Come Caronte aveva respinto Dante «anima viva», così i più
di mille diavoli che affollano la porta della città cercano di
scacciare indietro il pellegrino; è il suo essere vivo a
scandalizzarli: Dante è colui che «sanza morte va per lo regno
della morta gente», il suo viaggio attraverso l’inferno da
persona viva rappresenta già di per sé una sconfitta per
l’inferno stesso, perché è la prova evidente che questo regno
e la morte sono un inganno (sulla scia di un altro viaggio, con
valore archetipico per la salvezza dell’umanità, la discesa di
Cristo agli inferi, che ha segnato il trionfo definitivo sulla
morte60).
La tracotanza dei diavoli nel ricacciare Dante, impedendogli di compiere il suo viaggio profetico alla scoperta
dei segreti infernali, rappresenta un disperato tentativo di
difesa del mondo degli inferi61. L’inferno, con la sua
arroganza, cerca di spaventare i dannati, i pellegrini (e il
lettore), presentandosi come un regno saldo e potente, mentre
in realtà si sta sgretolando; il continuo franare delle rocce
(ruine) un po’ ovunque, provocato dal terremoto che ha
accompagnato il descensus Christi, dimostra che questa
stabilità è solo un inganno62.
Dante è «disfatto», sconvolto e annichilito di fronte alle
«parole maledette» dei diavoli, tanto che prega Virgilio di
tornare indietro:
60
Il Descensus Christi ad inferos, narrata nel Vangelo apocrifo di Nicodemo,
è ricordata da Virgilio in Inf. IV, 52-63: «Io era nuovo in questo stato, / quando ci
vidi venire un possente, / con segno di vittoria coronato […]».
61
Si veda anche l’inganno ordito da Malacoda e dagli altri diavoli contro
Virgilio e Dante (Inf. XXI, 106-17) che tendono un’imboscata ai due pellegrini
(Inf. XXIII, 21-36).
62
Le ruine interessano solo l’inferno. Si vedano, in particolare: Inf. V, 34-36;
Inf. XII, 1-45; Inf. XXIII, 37-57, 127-48; Inf. XXIV, 1-45; da notare anche in Inf.
III, 1-9, la scritta ingannevole sulla porta dell’inferno «io etterna duro»: ma la
porta, scardinata da Cristo, è rotta, così come l’inferno continua a franare
distruggendosi.
54
ROBERTA ROGNONI
“e se ’l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto”.
E quel signor che lì m’avea menato,
mi disse: “Non temer; che ’l nostro passo
non ci può torre alcun: da tal n’è dato”
Inf. VIII, 101-105
Il parole con cui Virgilio conforta il discepolo hanno un
sapore profetico; tuttavia il suo atteggiamento assomiglia più
a un tentativo di effondere sicurezza in Dante, che a una reale
conquista del suo spirito. Non è la limpida certezza, priva di
qualsiasi dubbio, che spirava dalle parole di Beatrice, discesa
agli inferi per parlare con Virgilio, senza alcun timore:
Temer si dee di sole quelle cose
c'hanno potenza di fare altrui male;
de l’altre no, chè non son paurose
Inf. II, 88-90
Tornando a Inf. VIII, l’immagine ossimorica del «dolce
padre» che abbandona il figlio rende bene questo stato
d’animo di incertezza che attanaglia Virgilio e che coincide
perfettamente con quello di Dante:
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimango in forse
che no e sì nel capo mi tenciona
Inf. VIII, 109-11
Virgilio si allontana per concertare con i diavoli ma, quelli, in
risposta, chiudono in faccia la porta al poeta latino.
Chiuser per porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase,
e rivolsesi a me con passi rari.
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
55
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogni baldanza, e dicea ne’ sospiri:
“Chi m’ha negate le dolenti case!”
Inf. VIII, 115-20
L’esclamazione di Virgilio rende tutta l’incredulità
dell’uomo razionale che di fronte all’apparente vittoria delle
forze del male resta sconcertato. La conseguente humilitas di
Virgilio, sconfitto e beffato dai diavoli, è solo apparente,
giacché poco più avanti ribadisce a Dante con certezza: «non
sbigottir, ch’io vincerò la prova, / qual ch’a la difension
dentro s’aggiri» (vv. 122-23).
Le parole di Virgilio suonano ormai come una profezia
stonata, anche agli orecchi del discepolo: lo stesso poeta
latino sembra pronunciarle più per convincere se stesso e per
darsi forza, che per una reale sicurezza; anche Dante
percepisce come deboli le rassicurazioni della sua guida,
tanto che non cesserà di essere angosciato: entrambi gli stati
d’animo perdurano tra la fine del canto VIII e l’inizio del
successivo, con l’effetto poetico di una dilatazione tendente
all’infinito.
L’incertezza del poeta latino apre dunque il canto IX,
facendosi ancora più acuta: è il dubbio che tormenta l’anima
razionale di Virgilio, che gli impedisce di vedere bene. La
sua vista non è chiara e limpida come quella mostrata da
Beatrice nel canto II, che può muoversi sicura per l’inferno.
Pur sapendo che il viaggio di Dante è voluto dall’alto, il
poeta latino resta ingabbiato tra le mura del “nobile castello”
della ragione, che di fronte al mistero non piega la testa, ma
brancola nel buio nel dubbio. Il discorso frammentato di
Virgilio rende bene questo stato dell’anima scossa dal
turbamento dell’incertezza, che non sa più a cosa credere;
ROBERTA ROGNONI
56
così anche il tono del suo discorso, rispetto alla chiusura del
canto precedente, suona ancor meno saldo63:
“Pur a noi converrà vincer la punga”
cominciò el, “se non… Tal ne s’offerse:
oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!”
Inf. IX, 7-9
Virgilio ha totalmente perso la mesótes, ma pur sentendo il
profumo di una verità vera, non può coglierla fino in fondo.
Totalmente estranea alla sua mentalità di uomo anticorazionale è la possibilità di abbandonarsi all’altro, soprattutto
nelle difficoltà. Il concetto cristiano, che prevede l’humilitas
radicale, nel senso dell’abbassamento fino all’abbandono
totale all’altro, non può essere accolto dal poeta latino.
Così le parole di Beatrice o l’attesa del messo celeste, che
pur verrà, non sono abbastanza per rassicurare la mente
razionale di Virgilio. La sua vista qui è ridotta e Dante
sembra avvertire questo limite, tanto che non ricorderà tutte
le parole pronunciate dal maestro: «E altro disse, ma non l’ho
a mente»64.
Virgilio è scosso dalla reazione dei diavoli, perché, come
spiega a Dante, è già passato, un’altra volta, per quella porta,
per compiere un viaggio fino al fondo dell’inferno:
Ver è ch’altra fiata qua giù fui,
congiurato da quella Eritòn cruda
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.
Inf. IX, 22-24
63
Si vedano i vv. 120-130 di Inf. VIII.
Inf. IX, 34. Il pellegrino giustifica questo vuoto di memoria con la terribile
visione che suscitano in lui, subito dopo, le Furie; ma, nei canti VIII e IX, Dante
coglie perfettamente, grazie alla sensibilità della sua anima «viva», il limite delle
rassicurazioni di Virgilio; si accorge, cioè, che il poeta latino, che tante volte lo ha
salvato, in realtà stavolta è come in crisi e non può aiutarlo veramente. Per questo,
in fondo, vuole tornare indietro: perché sente come di avere smarrito la sua guida.
64
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
57
Il poeta latino dunque conosce bene il percorso infernale; ma
fornendo le sue credenziali a Dante, in realtà evoca un
viaggio che per lui è stato infamante, simbolo del limite della
civiltà antica a cui appartiene.
Erittone, la terribile maga tessala di cui parla Lucano nella
Farsalia, ha spinto Virgilio fino al basso inferno, per liberare
un’anima nera dal «cerchio di Giuda», che potesse rendere
più potente la sua magia e la veggenza. Si noti che Virgilio
non ha potuto opporsi alla volontà di Erittone che lo aveva
«congiurato», rappresentazione della forza barbarica e
primitiva che caratterizza l’uomo nel suo essere più bestiale,
di fronte alla quale la civiltà evoluta, raffinata e razionale,
non può che soccombere.
Trattandosi di un viaggio promosso da una maga «cruda»,
Virgilio non aveva potuto che trovare aperte le porte della
città di Dite, in quanto i diavoli desideravano agevolare quel
viaggio. Ben diverso percorso è quello che invece ora il poeta
latino sta compiendo, su indirizzo di Beatrice e spinto dalla
volontà celeste: il suo è un movimento controcorrente, che
viene ostacolato, ma non può essere mai vinto, dalle forze del
male.
Virgilio sembra non comprendere questa profonda
sfumatura e da qui nasce la sua incertezza: paragonando il
viaggio di Erittone a quello di Beatrice (in quanto viaggio in
inferno) già commette un errore; in lui c’è il ricordo delle
parole della gentilissima («Tal ne s’offerse»), come una
promessa, che però non basta a quietare la sua razionalità,
mentre sul fronte opposto c’è il dato reale, l’esperienza, che
gli ha mostrato come al solo nome di Erittone le porte di Dite
si siano spalancate. Tutto ciò è segno del suo restare ancora
legato a un dualismo, che non riesce e non può superare a
causa della sua condizione di non cristiano (quindi, come
tale, chiuso alla verità).
58
ROBERTA ROGNONI
L’attacco improvviso delle Erinni e di Medusa, che
pietrifica con il suo sguardo, sblocca la razionalità di Virgilio
per un moto istintivo di protezione nei confronti di Dante:
con il suo corpo, il poeta latino protegge in una specie di
abbraccio il pellegrino, per difenderlo dagli occhi della
Gorgone:
Volgiti in dietro e tien lo viso chiuso;
“chè se il Gorgòn si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe del tornare mai suso”
Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne alle mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi
Inf. IX, 55-60
L’istintiva corporeità del maestro riesce a oltrepassare le
sbarre della mente razionale, facendolo aprire con
sollecitudine verso l’altro, Dante in difficoltà. Virgilio smette
di porsi interrogativi e agisce per salvare il discepolo.
Nel momento patetico più alto arriva finalmente il messo
celeste (vv. 61-105): Virgilio, a questo punto può rientrare
completamente nel suo ruolo di guida, invitando il pellegrino
ad accogliere l’arrivo dell’angelo nel modo più opportuno:
Li occhi mi sciolse e disse: “Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica […]
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fè segno
ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.
Inf. IX, 73-74 / 85-87
Virgilio ha ripreso il controllo di sé e la sensibilità di Dante
ha percepito questo mutamento; il limite virgiliano sta però
nel fatto di non riuscire a trovare una tranquillitas animi
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
59
fidandosi dell’altro: egli non si abbandona al mistero, ma
recupera completamente la mesótes solo alla vista del messo
divino.
L’angelo «pien di disdegno» apre la porta con una umile
«verghetta», rimproverando i demoni infernali: così le sue
parole, volontà di Dio, riportano l’ordine in breve, proprio
quando sembrava che tutto venisse inghiottito dal caos.
Il discorso del messo si articola in tre terzine, secondo una
simbologia numerica che riconduce al concetto di Trinità. La
terzina centrale racchiude in sé il significato profondo di tutto
l’episodio e, implicitamente, rappresenta un ammonimento
anche a Virgilio, che non ha avuto il coraggio di credere fino
in fondo alle parole di Beatrice:
Perchè recalcitrate a quella voglia
a cui non può il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuta doglia?
Inf. IX, 94-96
Ora i due pellegrini possono rimettersi in strada «sicuri
appresso le parole sante» (v. 105).
La ripresa del viaggio è segnata dall’innesto di un nuovo
tema, l’incontro con gli eretici, che vengono puniti dentro
delle arche infuocate prive di coperchio: introdotto nel canto
IX, questo motivo verrà poi ampiamente sviluppato nel
successivo. Nella poetica dantesca, l’eresia è strettamente
collegata al concetto di “vedere”, nel senso che è concepita
come una deformazione o una limitazione dell’unica vera
vista, quella di Dio65 e dell’uomo in Dio.
65
La voce volgare deriva dal latino haeresiam, “dottrina, dogma, scuola,
sistema filosofico”, evoluzione del greco αιρεσις “presa, conquista”, poi “scelta
elezione”. La voce greca deriva dal verbo αιρευσθαι “fare la propria scelta”,
d’etimologia incerta. “Eresia” in DELI, op. cit., vol. II p. 391.
ROBERTA ROGNONI
60
L’eretico è dunque miope. Questo tòpos percorre il tessuto
narrativo dei canti IX e X, rinnovato continuamente da una
fitta serie di richiami a distanza, ottenuti con l’anafora di
termini legati al concetto di “vista-malavista” (verbi,
sostantivi o aggettivi). Così, per introdurre gli eretici, il poeta
usa una serie di espressioni come «riguardar», «occhio»,
«veggio»66; ma ancora più martellante sarà il ritmo
dell’anafora, quasi ossessiva, nel canto successivo67.
Qui Dante incontra due, o meglio tre, personaggi:
Farinata, Cavalcante e, implicitamente, anche quello che
Dante ha più volte definito «primo de li miei amici», Guido
Cavalcanti, evocato nelle parole del padre68.
Nella primavera del 1300, quando la narrazione colloca il
viaggio attraverso i tre regni, Guido è ancora in vita; morirà
pochi mesi dopo, in agosto, a causa della malaria contratta
nell’esilio di Sarzana, dal quale era stato appena richiamato
assieme agli altri capi di parte bianca e nera.
Cavalcante e Farinata, invece, sono due anime dannate che
abitano i sepolcri in una zona particolare di questo «cimitero»
infernale, occupata, come spiega Virgilio a Dante, da coloro
«che l’anima col corpo morta fanno» (Inf. X, v. 15). Il poeta
li definisce i «seguaci» di Epicuro, dannati per la loro fede
materialista, per aver creduto che la morte fisica fosse la fine
di tutto. Questi “epicurei”, perciò, hanno mostrato nella loro
vita una vista debole, poco profonda: come quella di chi non
66
Inf. IX, 107-10.
Nel canto X si rilevano: «veder» (v. 7), «guardia» (v. 9), «volgiti» (v. 31),
«vedi» (v. 32), «vedrai» (v. 33), «viso» (v. 34), «fronte» (v. 35), «guardommi» (v.
40), «celai», «apersi (v. 45), «levò le ciglia», «vista» (v. 52), «ombra» (v. 53),
«guardò» (v. 55), «veder» (v. 56), «cieco» (v. 58), «occhi» (v. 69), «parve» (v.
72), «aspetto» (v. 74), «faccia» (v. 80), «viso» (v. 93), «par», «veggiate» (v. 97),
«veggiam», «luce» (v. 100), «splende» (v. 102), «s’ascose» (v.121), «raggio» (v.
130); chiude la sequenza il significativo sintagna «di quella il cui bell’occhio
vede» (v. 131).
68
Vita Nuova, III; citazioni simili anche nei capp. XXIV, XXV, XXX,
XXXII. Guido è anche il dedicatario del poemetto giovanile.
67
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
61
riesce a vedere molto lontano, ma anzi ha una percezione che
non va oltre un certo limite.
Il senso dell’esistenza, dal punto di vista dell’epicureo
materialista, è legato al concetto di gioia come hedoné
(corrisponde al latino voluptas): il piacere che nasce dal
momento presente e che si configura come una felicità
egoistica, che il singolo riesce a offrire a se stesso.
Questa gioia, dal punto di vista cristiano, non può che
mostrarsi come falsa, anzitutto perché effimera e transitoria:
così l’invito oraziano al carpe diem, paradigma della filosofia
epicurea a godere fino in fondo i piaceri che offre la vita, non
riesce a cancellare ma anzi sottolinea ancor di più tutta la
provvisorietà che caratterizza questa concezione dell’esistenza, rivelando in ultimo la debolezza del proprio
messaggio.
Alla precarietà della gioia terrena offerta dalla voluptashedoné, ricercata per un puro limite di prospettiva, il pensiero
cristiano oppone la vera felicità, stabile ed eterna: è la
beatitudo che può essere raggiunta soltanto da colui che
affina la sua vista; da chi vede così chiaramente da concepire
l’unica gioia piena soltanto nella realizzazione dell’incontro.
Al carcere egoistico dell’hedoné si contrappone così il
legame che l’io crea aprendosi all’altro: la beatitudo
rappresenta infatti un momento di unione tra l’anima singola
e il tutto, che avviene in modo stabile soltanto in una
dimensione ultraterrena.
Questa vera felicità, concepita come meta dell’uomo, si
può identificare con la “terza beatitudine” cui Dante fa
riferimento più volte nel Convivio. Una visione a cui gli
epicurei di Inf. X non hanno voluto credere in vita,
abbandonandosi al mistero, e che perciò è loro preclusa
anche ora.
62
ROBERTA ROGNONI
Veramente è da sapere che noi potemo avere in questa vita due
felicitadi, secondo due diversi cammini, buono e ottimo, che a ciò
ne menano: l’una è la vita attiva e l’altra la contemplativa […]
Libro IV, 17, 9
E così appare che nostra beatitudine (questa felicitade di cui si
parla) prima trovare potemo quasi imperfetta ne la vita attiva, cioè
ne le operazioni de le intellettuali. Le quali due operazioni sono vie
espedite dirittissime a menare a la somma beatitudine, la quale qui
non si puote avere, come appare pur per quello che detto è.
Libro IV, 22, 18
La condizione degli epicurei è ben espressa nella tipologia
della pena infernale che li caratterizza, chiusi nelle arche
come tutti gli eretici, perché come non hanno visto bene in
vita, così non possono vedere nella morte.
Ma è interessante osservare ciò che non sfugge all’occhio
attento del Dante pellegrino: questi avelli, infatti, non sono
chiusi.
“La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt’i coperchi, e nessun guardia face”
Inf. X, 7-9
La meraviglia di Dante è dettata dalla ragione, perché non
riesce a capire per quale motivo, pur essendo ogni tomba
aperta e priva di guardiani, i dannati non vi escano. Ciò che
in apparenza si pone come una violazione del principio
razionale di non contraddizione, è in realtà frutto della
volontà dei dannati, che per loro scelta non escono dai
sepolcri.
La loro proterva ostinazione a non voler vedere oltre un
certo limite continua anche nell’oltretomba, pur di fronte
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
63
all’evidenza dell’inferno che li tortura mostrando
esplicitamente la fallacia del loro pensiero mortale: da qui il
rifiuto a uscire dagli avelli. In sostanza, come in vita gli
eretici avevano la possibilità di vedere in profondità,
credendo che oltre la morte fisica e materiale vi fosse un’altra
vita, ma non l’hanno fatto, così ora possono vedere oltre il
limite angusto delle arche, ma preferiscono restarvi dentro.
Chiusi nelle loro convinzioni materialistiche, gli eretici,
anche dopo la dannazione, fin dentro l’inferno, non aprono se
stessi, abbandonandosi alla verità, come accade allo stesso
Farinata:
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in su tutto ’l vedrai
I’avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno in gran dispitto.
Inf. X, 31-36
Il contegno sdegnoso di Farinata non è solo il segno della
“magnanimità” del capo ghibellino, come spesso si è ben
messo in luce, ma forse è pure un indizio lasciato da Dante
poeta, che aiuta a chiarire il suo giudizio circa la grave colpa
dell’eresia.
Lo scetticismo di Farinata nella possibilità di un’esistenza
oltremondana è così radicale che quasi, parodisticamente,
sembra incredulo di trovarsi all’inferno, tra quelle arche
infuocate. La descrizione del ghibellino che si erge «dalla
cintola in su» sottolinea bene l’estremo razionalismo che ha
caratterizzato la sua esistenza terrestre, quella di un uomo
che, scandagliando il senso profondo e ultimo dell’essere,
non riesce a trovare altre risposte oltre a quelle offerte dalla
vista sensibile e dalla luce della ragione.
Una luce troppo debole per riuscire a vedere bene. Così, lo
stesso Farinata, spiegando a Dante la conoscenza dei dannati,
64
ROBERTA ROGNONI
inconsapevolmente, compie un’amara parodia di sé e della
sua condizione di eretico:
“Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
le cose” disse “che ne son lontano”;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
Inf. X, 100-105
Nel contesto della narrazione, Farinata intende alludere alla
non-conoscenza delle cose terrene: nello specifico, non è
chiaro se quel «noi» del ghibellino sia riferito agli epicurei,
agli eretici o, più in generale, ai dannati.
L’indeterminatezza di queste parole dà all’episodio un
significato ancora più denso, perché mette ben in luce questo
velo di incertezza che copre gli eretici, come una nebbia che
avvolge e intorpidisce i loro sensi.
Essi possono vedere le cose lontane, ma non quelle vicine,
cioè il presente che, per definizione, è visibile a tutti. La loro
condizione appare così un perfetto contrappasso per analogia
della loro limitatezza terrestre: da vivi avevano di fronte la
verità della vita eterna, che però hanno rifiutato di cogliere,
concentrandosi solo sul presente, visto come l’unica
dimensione da cui poteva provenire la vera gioia. Così ora,
nella morte e nella dannazione, il presente terrestre è loro
negato, assieme alla prospettiva di una felicità eterna.
L’unica certezza è il futuro, che però non rappresenta la
speranza, ma la conferma, dal punto di vista del dannato, di
un’eterna ripetizione del presente, fatto di dolore e di
sofferenza.
Ora l’unico presente per loro percepibile è fatto di male e
di dolore, in contrapposizione con la loro vanità/credulità da
vivi, di considerare il presente solo come piacere. Dal punto
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
65
di vista intellettuale, come non hanno saputo cogliere il senso
del presente nel dolce mondo, così qui sfugge loro il senso
più profondo ed essenziale del presente: nel dolore, cioè, non
riescono a vedere la luce (come avviene invece per le anime
del purgatorio).
In sostanza il loro limite è non riuscire ad andare oltre la
percezione sensoriale, incapaci di cogliere il senso altro delle
cose.
Perciò il vero strazio degli epicurei, pena più forte di quella
fisica, sta proprio nel togliere loro la vista dell’unica cosa di
cui hanno sempre avuto certezza: la conoscenza sensuale
della realtà materiale e tangibile, coglibile con la
speculazione dell’intelletto, lo «stato umano» che è tanto
caro, anche nella morte, a questi dannati.
Nel colloquio con Dante, infatti, Farinata appare turbato
non tanto dal dolore fisico della pena, quanto piuttosto al
racconto delle vicende fiorentine, che riguardano la fazione
ghibellina. La dolorosa scoperta della cacciata dei “suoi”
sicuramente lo spingerebbe a voler sapere di più di quanto
Dante gli rivela.
Ciò nella consapevolezza che senza un intervento esterno,
senza qualcuno che racconti loro i fatti, il presente storico
resta per questi dannati un buio perenne; ma la specificazione
di Farinata, quell’«altri», è evidentemente un adynaton di cui
il ghibellino è consapevole: l’inferno è solitudine e trovarvi
un viandante come Dante rappresenta un fatto eccezionale.
Le parole di Farinata appaiono perciò come il frutto di una
vis sadica del dannato contro se stesso e contro gli altri,
perché rimarcare la propria condizione di cecità serve a
rinnovare il dolore. L’impeto distruttivo e autolesionista va
anche oltre, poiché Farinata svela a Dante come anche il
futuro rappresenti in fondo, per lui e per gli altri, una
disillusione.
ROBERTA ROGNONI
66
Queste anime, infatti, sanno che verrà un giorno in cui la
loro conoscenza diventerà del tutto cieca, al momento del
Giudizio Universale. Un dettaglio, questo, di grande
importanza per il Dante poeta, che vuole sottolineare al
lettore: non a caso questo concetto, ora ripreso da Farinata, si
ricollega sinfonicamente a quanto già anticipato da Virgilio
al pellegrino, all’inizio del canto, circa i coperchi degli avelli:
Ed elli a me: “Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là su hanno lasciati”.
Inf. X, 10-12
“Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta”69.
Inf. X, 106-108
La disperazione di questa malavista è resa bene dalla figura
di Cavalcante che, riconosciuto Dante, d’istinto balza fuori
con la testa dall’avello, per vedere se assieme al poeta ci sia il
figlio Guido.
Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra lungo questa infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che il sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse: “ Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? perché non è ei teco?
Inf. X, 52-60
69
Nel primo caso è Virgilio a parlare a Dante; il secondo brano è invece la
conclusione del discorso di Farinata. Si noti il richiamo sinfonico tra la «porta
chiusa» e i «coperchi serrati».
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
67
Non è solo la disperata invocazione nei confronti del figlio
Guido a rivelare al pellegrino il tormento di queste anime
dannate. L’atrocità della loro condizione sta soprattutto nella
rapida allusione, sottolineata poeticamente con l’enjambement, al «carcere cieco» in cui si sono rinchiusi.
Dal punto di vista di questi dannati il buio del presente
appare come una pena inflitta nell’inferno, che ha spezzato la
loro facoltà cognitiva. In realtà — e ciò rende ancora più
tragicamente grottesca la loro condizione — questi epicurei
non si rendono neppure conto di avere sempre vissuto
nell’oscurità, scambiando la tenebra del piacere fallace con la
vera luce. L’inferno, perciò, non li pone di fronte a un’altra
condizione, ma è, in sostanza, una dilatazione ad aeternum
del buio che li ha sempre avvolti sostanzialmente.
La mimica del vecchio Cavalcante è quella di un supplice
disperato, di un uomo che mendica notizie di quel mondo
terreno che sente vicinissimo dentro di sé, ma troppo lontano
perché egli possa vederlo con i suoi occhi.
Non appena riconosce la voce di Dante, Cavalcante si
mette «in ginocchie», cerca affannosamente di scorgere dei
segni della presenza del figlio e, quando si accorge che non è
con Dante, piange; al pellegrino pone una serie di domande
concitate e sconnesse ma, davanti all’esitazione dell’interlocutore, Cavalcante chiude il suo monologo senza neppure
attendere la risposta, precipitando nel suo avello, richiudendosi in sé e nel proprio dolore.
E io a lui: “Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena,
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”.
[…]
Di subito drizzato gridò: “Come
dicesti? elli ebbe? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi il dolce lome?”
Quando s’accorse d’alcuna dimora
Ch’io facea dinanzi alla risposta,
68
ROBERTA ROGNONI
supin ricadde e più non parve fora.
Inf. X, 61-63 / 67-72
Il contegno di Cavalcante è l’opposto rispetto a quello di
Farinata: la sua è una reazione scomposta, sollecitata
dall’affetto che prova per il figlio, di cui non sa più nulla.
Cavalcante, che razionalmente non aveva concepito una vita
ultraterrena, ora diventa l’irrazionale per eccellenza. Non è
soltanto la morte di Guido a spaventare il padre, quanto
l’ansia che egli possa essere dannato: che, come in un castigo
biblico, la colpa del padre ricada anche sul figlio.
Guido è il terzo grande personaggio di questo episodio,
non fisicamente sulla scena, ma richiamato con forza dalle
parole di Cavalcante. Nella Vita Nuova, Dante non lo nomina
direttamente, ma lo definisce più volte il suo migliore amico,
simbolo di un legame forte che appartiene alla giovinezza
biografica e poetica dell’autore70:
io vidi venire verso di me una gentile donna, la
quale era di famosa bieltade, e fue già molto donna
di questo primo mio amico.
Cap. XXIV, 3
E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così
rimano stoltamente.
Cap. XXV, 10
E simile intenzione so ch’ebbe questo mio primo amico a cui io ciò
scrivo, cioè ch’io li scrivessi solamente in volgare.
Cap. XXX, 3
70
Vita Nuova, cap. III, 14. Il rapporto con il Cavalcanti è evidente anche nelle
rime giovanili.
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
69
Al prosimetrum si riallaccia sinfonicamente questo passo
della Commedia: ma nell’inferno Guido è chiamato per
nome, in un contesto ben diverso rispetto al libello giovanile;
tutta la distanza tra il poeta e l’amico della giovinezza si
legge in quel «vostro», che sembra cancellare, come una
palinodia, il «mio» con cui, nella Vita Nuova, si allude
sempre all’amico Cavalcanti.
La radice di questa distanza, che il poeta mette tra sé e
l’amico di un tempo, è rivelata inconsapevolmente dallo
stesso Cavalcante, che vedendo Dante percorrere l’inferno
«per altezza d’ingegno» si aspetta logicamente di trovarvi,
come compagno del pellegrino, anche il figlio Guido, di non
minor valore. L’errore di Cavalvanti è un vizio di malavista:
la sua condizione di epicureo-materialista, per cui è
inconcepibile la fede oltre alla ragione, gli fa dedurre senza
alcun dubbio che il viaggio di Dante sia dovuto alle sole sue
doti intellettive, comuni a quelle del figlio.
Dante non risponde chiarendo in modo esplicito le ragioni
che stanno alla base del suo cammino — fides e caritas —,
non svela a un dannato i misteri del cielo che comunque la
sua vista limitata non potrebbe abbracciare: ma nell’allusione
a colui che lo attende — e che evidentemente non attende
anche Guido — si coglie l’abisso che separa lui e i due
Cavalcanti.
Il «disdegno» di Guido sembra essere la ragione
fondamentale del distacco con l’amico, ma sull’oggetto di
questo disprezzo, anche in questo caso, Dante sembra non
chiarire di proposito. Pensando a un riferimento immediato,
l’oggetto di questo disdegno può essere identificato in
Virgilio — simbolo della ragione — che sta aspettando, poco
lontano, il discepolo impegnato a dialogare con Farinata. In
effetti lo stare in disparte del poeta latino, in tutto l’episodio,
sembra ricollegarsi perfettamente alle parole pronunciate da
Dante, accrescendone il senso più profondo.
70
ROBERTA ROGNONI
L’esilio del 1300, cui è costretto anche Guido Cavalcanti,
per ordine dei priori tra cui compare lo stesso Dante,
rappresenta dal punto di vista storico-biografico il momento
più alto della frattura tra i due amici. Ma la distanza tra lui e
Dante è ormai anche tutta poetica e, prima ancora, morale.
Rispetto alla Vita Nuova, Dante compie un percorso
evolutivo, acuendo la sua percezione visiva: non si
abbandona definitivamente alla morte fisica di Beatrice, alla
distruzione dei sensi, né alla visione razionale offerta dal
carcere della filosofia; ha, piuttosto, il coraggio — nel senso
etimologico e originario del termine — di condurre avanti la
sua ricerca, fino a raggiungere la vera vista, quella offerta
dalla nuova Beatrice.
La poetica di Guido è, invece, quella dell’amore come
morte e paura, perché fa smarrire e spaventa l’anima del
poeta, in quanto concepito soltanto, a differenza dell’approdo
della poetica dantesca dopo la Vita Nuova, come totale e
doloroso abbandono ai sensi, rinunciando alla ricerca
razionale (in senso cristiano) e all’aprirsi alla grazia. La cupa
visione poetica cavalcantiana si ricollega al monopsichismo
averroista abbracciato dal suo pensiero: la concezione,
condannata dall’ortodossia ecclesiastica, per cui l’anima
individuale muore definitivamente assieme al corpo, mentre
nella visione oltremondana essa, come luce, va a
ricongiungersi all’Uno da cui proviene, in un unico insieme
dove della personalità e singolarità dell’uomo che fu in terra
non resta più nulla.
L’averroismo ribadisce la necessaria eternità del mondo e
nega la provvidenza: in questo senso «colui ch’attende là, per
qui mi mena/ forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» può
essere identificato con Dio stesso (l’Altro) — quello
dell’ortodossia cristiana — che, implicitamente, attraverso
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
71
Virgilio e Beatrice quali instrumenta voluntatis Dei, guida i
passi di Dante e che egli incontrerà alla fine del suo viaggio71.
La distruzione dell’individualità umana rappresenta per
Dante, poeta e uomo, una visione inaccettabile, materialistica
quanto quella degli “epicurei” della Commedia. Il pellegrino,
nel canto X, segna così la distanza che lo separa da Farinata e
da Cavalcante, ma anche da Guido stesso su cui pesa una
implicita e grave condanna72.
Così Dante si fa qui, come altrove nella Commedia, anche
un inconsapevole instrumentum iustitiae, acuendo il dolore di
entrambe le anime dannate. Di fronte al silenzio di Dante
circa la sorte del figlio, Cavalcante sprofonda dolorosamente
nell’avello, credendo che Guido sia morto. Dante non agisce
per ferire volontariamente il vecchio padre: come spiegherà
più avanti a Farinata, il suo indugio è derivato dalla reazione
di sorpresa di fronte alla non conoscenza del presente da
parte del dannato.
Se il dolore di Cavalcante è intenso, il lettore ha
comunque la certezza che verrà rassicurato, poiché Dante
invita Farinata a chiarire l’equivoco per lui:
Dissi: “Or direte dunque a quel caduto
Che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto”
Inf. X, 110-11
Più pesante è invece il fardello che Dante infligge a Farinata;
stavolta non con il silenzio ma, sinfonicamente, con le sue
parole, che rivelano la disfatta decisiva dei ghibellini:
71
Un’identificazione non esclude l’altra: per cui Dante può riferirsi in senso
letterale a Virgilio, ma in un senso più ampio, anagogico e morale, a Dio.
72
Occorre tenere presente che Guido non è morto al momento della
narrazione dei fatti, ma lo è quando Dante poeta compone questo canto della
Commedia: la sua, qui, appare come una sorta di profezia post eventum che getta
un’ombra sulla sorte del Cavalcanti.
72
ROBERTA ROGNONI
mi dimandò: “Chi fuor li maggior tui?”
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in soso,
poi disse: “Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fiate li dispersi”.
“S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogni parte”
rispuosi lui “l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte”
Inf. X, 42-51
Farinata, appreso che la famiglia di Dante parteggia per la
fazione guelfa, ricorda le due sconfitte inflitte dai ghibellini
nel 1248, coalizzati con l’imperatore Federico II, e poi a
Montaperti nel 1260, che segna l’esilio e la dispersione dei
guelfi. Dante risponde richiamando le vittorie della propria
parte: «l’una e l’altra fiata» si riferiscono alla disfatta
ghibellina a Fegghine (1251) e a quella successiva alla morte
di Riniero di Montemerlo, podestà degli svevi a Firenze.
Con uno scatto d’orgoglio, Dante ricorda poi la battaglia
di Benevento, che segna la rotta definitiva delle forze
ghibelline in Italia, avvenuta nel 1266; Farinata, a
quell’epoca, è morto da appena due anni (1264): quindi
troppo vicino cronologicamente per riuscire a “vedere” dal
suo avello quell’evento che segna la distruzione dei suoi.
Il comprensibile desiderio di Farinata di saperne di più —
si noti che le parole di Dante al ghibellino sono un’allusiva
sferzata più che una precisa esposizione dei fatti di
Benevento — è interrotta dalla scomposta intrusione di
Cavalcante. Per tutto il tempo Farinata resta in silenzio, come
chiuso in se stesso a riflettere sul senso di ciò che ha appena
saputo, in un dolore composto:
Ma quell’altro magnanimo a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
nè mosse collo, né piegò sua costa;
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
73
e sé continuando al primo detto,
“S’egli han quell’arte” disse “male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.”
Inf. X, 73-78
La rivelazione della disfatta ghibellina, che rappresenta per il
cieco Farinata una vera e propria profezia, è per lui la più
cruda delle pene. E lo strazio di sapere che i suoi siano stati
sconfitti è amplificato all’infinito, nell’eternità, fino al
giudizio universale e anche dopo, perché a Farinata viene
negata, ora al presente e poi per sempre, la capacità di vedere
come sia caduta la sua parte e quale sarà il destino dei
ghibellini ormai per sempre abbattuti.
Farinata riesce a controllare esternamente i segni di quel
dolore ma, allo stesso tempo, ne esprime l’amarezza con la
profezia che, a sua volta, pronuncia nei confronti di Dante,
annunciandogli l’esilio e la cacciata dei Bianchi da parte dei
Neri:
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia della donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa.
Inf. X, 79-81
Lo scambio di profezie tra Dante e Farinata — e, più in
generale, il loro discorso — segue la struttura della tenzone
poetica, con la ripresa da parte dei personaggi, tra una battuta
e l’altra, delle parole chiave: al v. 48 Farinata dirà che «per
due fiate» i ghibellini dispersero i guelfi; così Dante si
ricollegherà a «l’una e l’altra fiata» (v. 50), specificando che
i ghibellini «non appreser ben quell’arte» (v. 51) 73.
73
Celebre è la tenzone tra Dante e Forese Donati, fratello di quel Corso capo
dei Neri, che segnerà la rovina di Dante e il suo esilio da Firenze.
74
ROBERTA ROGNONI
Dopo l’intermezzo cavalcantiano, Farinata “risponderà per
le rime” a Dante, aprendo il suo discorso con «S’elli han
quell’arte […] male appresa» (v. 77) e concludendo la
profezia dell’esilio spiegando che Dante saprà bene «quanto
quell’arte pesa» (v. 81).
Come nella tenzone poetica le ingiuriose villanie scagliate
contro l’avversario e i difetti imputati all’altro sono
invenzione poetica, che cela comunque un senso di verità,
così il rapporto che Dante uomo mostra nei confronti di
Farinata è caratterizzato da pari ambiguità: la sua condanna
come epicureo è chiara, ma allo stesso tempo è viva in lui la
stima per l’uomo politico, che, nella violenza e nella follia
della guerra civile, rifiutò di avallare la distruzione della
nemica Firenze, istigata invece dai suoi compagni ghibellini.
Non è un caso perciò che il Dante poeta decida di affidare
proprio a un personaggio come Farinata, avversario politico
ma «magnanimo», una profezia così importante che riguarda
il suo destino di esule di parte bianca.
Confrontando i personaggi di Farinata e Cavalcante,
secondo la descrizione che ne fa Dante, sembra che il poeta
intenda volutamente tratteggiare le due diverse tipologie
umane che conducono all’errore, se si concepisce l’esistenza
come pura materia, indicando al lettore due strade che, se
imboccate, portano alla dannazione.
La prima è l’adesione a un radicale razionalismo, che non
riesce a concepire nulla oltre la morte corporale, di cui la
composta fierezza di Farinata è un exemplum efficace. La
seconda via è quella di chi si affida solo ai sensi, di chi vede
la gioia e il fine ultimo della vita nella sola soddisfazione del
piacere, che scompare con la morte; in questo senso
l’immagine di Cavalcante che perde ogni dignità, stravolto
dal dolore, è ben espressiva. E Dante uomo, in momenti
storici diversi, è stato sia l’uno sia l’altro, pur riconoscendo
alla fine il proprio errore.
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
75
Se il limite visivo degli eretici è una condanna prima di
tutto intellettiva, altrove la malavista diviene una vera e
propria deformazione fisica, come nel canto XX, dove Dante
incontra gli indovini, puniti con una pena che stravolge in
modo terribile la figura umana:
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com’io potea tener lo viso asciutto.
quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.
Inf. XX, 19-24
L’incedere degli indovini, che hanno il capo rivolto alle terga
e perciò camminano all’indietro, bagnando con le proprie
lacrime le natiche, è una delle realizzazioni drammatiche più
potenti di tutta la Commedia. Di fronte a questo spettacolo
che stravolge «nostra natura» e che quindi coinvolge
l’umanità tutta, il pellegrino non riesce a trattenere le
lacrime; anche poco dopo ribadirà «certo io piangea,
poggiato a un de’ rocchi/ del duro scoglio» (vv. 25-26):
davanti a quello spettacolo inaspettato, Dante è l’uomo
comune e universale che scoppia in un pianto spontaneo, così
disperato da lasciare il suo corpo senza volontà, abbandonato
a un appoggio che lo regge “suo malgrado”, in una reazione
istintiva e naturale alla vista di quanto l’umanità possa cadere
in basso.
L’aspro rimprovero di Virgilio, che lo invita a non avere
compassione per quei dannati, scuote il pellegrino e il lettore:
mi disse: “Ancor se’ tu delli altri sciocchi?
Qui vive la pietà quand’è ben morta:
chi è più scellerato che colui
76
ROBERTA ROGNONI
che al giudicio divin passion comporta?
Inf. XX, 27-30
Il duro richiamo del maestro di fronte al pianto del discepolo
può essere interpretato come un ulteriore esempio di quella
“armonica distonia”, già vista altrove, che caratterizza a tratti
lo scambio dialogico tra Dante e Virgilio, arricchendolo di
significato.
Come filosofo, Virgilio non può accettare la liceità della
divinazione e delle arti magiche usate da questi indovini, cui
contrappone la purezza del logos, del ragionamento
filosofico. Perciò di fronte alle lacrime di Dante, il maestro
sferza il suo discepolo invitandolo a prendere le distanze da
quei dannati.
In realtà Virgilio non riesce ad arrivare a capire la
profonda sensibilità di Dante, tutta cristiana, che lo spinge a
provare compassione e a commuoversi non tanto per quelle
anime dannate, quanto più per la natura umana nel suo essere
universale, che vede orribilmente stravolta nella
rappresentazione di quelle tragiche caricature infernali.
La punizione di questi indovini è dovuta al fatto che, in
vita, hanno cercato di penetrare e piegare il futuro a loro
piacere, traendone un egoistico profitto. La loro veggenza
non è stata messa a frutto dell’umanità (per la conquista dei
beni essenziali), ma è stata utilizzata per cercare di creare
un’altra realtà, parallela a quella del Creatore, modellata a
proprio piacere («al giudicio divin passion comporta»).
Lo stravolgimento della natura umana nel corpo degli
indovini corrisponde bene alla perversione che caratterizza la
loro visione del tempo. Il futuro, per questi veggenti, non è
l’eskaton cristiano, il momento in cui si realizza la perfetta
armonia tra la creatura e il Creatore; in cui la linea vettoriale
del tempo, fatta di corsi e ricorsi, di felicità e di sofferenza, si
riassorbe nel cerchio perfetto per rappresentare il
VISTA, MALAVISTA, VEGGENZA E PROFEZIA
77
raggiungimento della “tutta gioia”, ricollegandosi all’essenza
del passato originario, prima del peccato primordiale.
Ciò che hanno vaticinato in vita, quindi, è un falso futuro,
un inganno. Invece di cercare la vera essenza del tempo che
verrà, in una prospettiva escatologica, questi indovini
infernali si sono concentrati sull’opposto, sul passato,
analizzandolo come un ripetersi ciclico di casi provocati da
precisi legami di causa-effetto. La loro, perciò, non è altro
che un’interpretazione del futuro alla luce delle strutture
degli eventi già trascorsi.
Come già gli eretici, anche questi dannati, nel girone
infernale, non fanno altro che ripetere in eterno quanto
compiuto in vita; da qui la condanna a guardare alle proprie
spalle, come spiega Virgilio a Dante, indicando l’anima
dannata di Anfiarao che, vaticinando la propria morte nella
guerra di Tebe, aveva cercato di sottrarvisi invano:
Mira c’ha fatto petto delle spalle
perché volle veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle
Inf. XX, 37-39 / 52-54
L’orribile deformazione di queste anime è resa, più oltre,
nella descrizione del tutto innaturale della maga Manto:
E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le treccie sciolte,
e ha di là ogni pilosa pelle
Inf. XX, 52-54
Dante e Virgilio passano in rassegna queste figure deformate
come un grottesco catalogo infernale, in cui compaiono
personaggi sia mitologici sia storici, anche vicini
cronologicamente al poeta, a dimostrazione che la magia e la
78
ROBERTA ROGNONI
divinazione come asservimento egoistico del mondo
rappresentano un vizio universale, che riguarda tutta la storia,
dalle origini più remote fino alla realtà contemporanea.
La marcia degli indovini, che è un finto movimento —
come quello di tutti i dannati — perché si ripete
circolarmente intorno alla bolgia, in una fissa e ossessiva
ripetizione che non conduce in nessun posto, è ancora più
assurda per il fatto che questi rei camminano all’indietro.
Paragonando il movimento nella bolgia al circolo del
tempo, che viene rappresentato nell’“uroboro”, il serpente
vorace della coda, gli indovini sembrano destinati a
ripercorrere all’indietro, per l’eternità, la storia dei tempi,
muovendosi dalla coda alla testa del serpente in un continuo
vortice a spirale.
È il contrappasso perfetto per queste anime nere che,
avendo cercato di ingannare il futuro, restano imprigionate in
un passato sempre uguale.
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MMVIII