Eroi e rivoluzionari - Consolato Venezuela in Napoli

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Eroi e rivoluzionari - Consolato Venezuela in Napoli
10/2014
Eroi
e rivoluzionari
RESISTENZA E INDIPENDENTISMO
VERSO LA PATRIA GRANDE
NUESTRAMÉRICA
LE RIVOLUZIONI
SOMMARIO
Eroi e rivoluzionari
Consolato Generale della Repubblica
Bolivariana del Venezuela a Napoli
Coordinatrice generale:
Marnoglia Hernández Groeneveledt
Coordinatrice di redazione:
Emilia Saggiomo
Hanno collaborato:
Ambasciata della Repubblica Bolivariana
del Venezuela in Etiopia, Geraldina Colotti,
Marnoglia Hernández Groeneveledt,
Alessandra Riccio, Emilia Saggiomo, René
Velásquez (articoli); Porfirio Hernández, Indira
Pineda (partecipazione)
Testi selezionati di:
Alejandro Casas, Pablo Neruda, Eduardo
Galeano, Gabriel García Márquez, Luis Vitale,
Arturo Warman
Traduttori:
Ciro Brescia, Samanta Catastini, Marco Nieli,
Pier Paolo Palermo, Simona Palumbo, Emilia
Saggiomo
Fonti:
AA.VV., Concurso “Salón Libertadores y
Héroes sociales de Latinoamérica y el Caribe”, pubblicazione a cura del Ministero del
Potere Popolare per gli Affari Esteri, Repubblica Bolivariana del Venezuela; avn.info.ve,
correodelorinoco.gob.ve, Alejandro Casas:
Pensamiento sobre Integración y Latinoamericanismo, Ediciones Ántropos, Bogotá,
Colombia, 2007; Ufficio del Viceministro per
l’Africa della Cancelleria del Venezuela (da
afroamiga.wordpress.com); Nina Bruni: La insurrección del Negro Miguel en las letras y el
muralismo de Venezuela in Cuadernos Americanos 144 (México, 2013/2, pp. 205-225);
Juan José Ramirez: alcaldiadematurin.gob.ve;
radiocomunaelhatillo.blogspot.it, treccani.it,
ccsbmontreal.org, blogs.elpais.com, pablo-neruda2-france.blogspot.com, sagarana.it, bbc.
com, radiomundial.com.ve, theprisma.co.uk,
simonbolivar.gob.ve, kyky.org, nocturnar.com,
collater.al, psuvelhatillo.blogspot.com, albaciudad.org., granma.cu, 5av.it, eldiariointernacional.com, aporrea.org, alainet.org, muralespoliticos.blogspot.it
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via A. Depretis, 102 – Napoli
Tel.: +39 081 5518159
Per scrivere alla redazione: convenap.
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Consulado General de la República
Bolivariana de Venezuela en Nápoles
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Elaborazione Grafica:
Dario Buonanno e Pino Buonanno
3 Editoriale
Eroi rivoluzionari
di Marnoglia Hernández Groeneveledt
4 Resistenza e indipendentismo.Verso la patria grande
6 La resistenza indigena
di Luis Vitale
10 Eroi ed eroine afrovenezuelani
di AA.VV. / Ambasciata della Repubblica Bolivariana del Venezuela in Etiopia
16 Pensiero sull’integrazione e il latino americanismo.
Progetto unionista nell’Indipendenza
di Alejandro Casas
21 Bolívar e Chávez: due epoche, due giganti, un progetto
di René Velásquez
25 Manuela Sáenz, la Colonnella d’America
di Marnoglia Hernández Groeneveledt
28 Da Anacaona a La Pola, L’America latina riscopre le sue eroine
di Emilia Saggiomo
32 Nuestramérica. Le rivoluzioni
34 La Rivoluzione messicana
37
39
44
49
di AA.VV.
Novantanove anni fa Zapata e Pancho Villa
di Adrián Durán
Sandino, esaltatore dell’identità latinoamericana
da “Correo del Orinoco”
La Rivoluzione cubana
di AA.VV.
Storia di un’amicizia: il Che e Fidel
di Alessandra Riccio
La morte del Che
di Julio Cortázar
Salvador Allende attraverso gli scritti
di Pablo Neruda / Gabriel García Márquez / Eduardo Galeano
Storie di guerrilleros (In Venezuela ; Identità latinoamericana e guerrilla)
di Geraldina Colotti
Agenzia di Pubblicità:
Adek | adekcreative.it
Foto di copertina:
Dario Buonanno
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Il Consolato Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli declina ogni responsabilità circa la correttezza o completezza
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di sottoporre a revisione e, ove necessario, a correzione i testi tradotti, nonché di sospendere temporaneamente o definitivamente la
pubblicazione di un articolo.
EDITORIALE
Eroi rivoluzionari
di Marnoglia Hernández Groeneveledt*
S
i può essere eroi senza essere
rivoluzionari? O essere rivoluzionari senza essere eroi?
Eroe è colui che compie atti
coraggiosi diventando un
personaggio degno di ammirazione
che si distingue per le sue gesta e virtù.
Nella mitologia greca l’eroe è un semidio, figlio di un dio e di un essere
umano. D’altro canto, il rivoluzionario
è qualcuno che con le proprie azioni
provoca cambiamenti profondi nelle
istituzioni politiche, economiche e sociali di un territorio.
L’eroe politico-sociale è obbligato a essere rivoluzionario: dalla sua impresa
valorosa dipenderà il destino altrui.
Sebbene il rivoluzionario cambi il corso della storia attraverso le sue idee e
azioni, tuttavia questi non suscita negli altri ammirazione immediata e, al
contrario, provoca una moltitudine di
detrattori: per questa ragione molti rivoluzionari non sono considerati eroi.
Gli eroi rivoluzionari sono uomini e
donne che hanno dato la vita in nome
di una causa: per la terra, per la liber-
tà, per l’unione, per la giustizia sociale.
Uomini e donne che hanno scosso una
società e il cui modo di agire segna
un precedente che cambia il destino
di migliaia di persone. Sono eroi in
carne e ossa, lontani dalla mitologia,
persone che hanno osato fare grandi
passi, che hanno tralasciato il benessere individuale e si sono consacrate alla
lotta degli oppressi, degli emarginati,
all’impegno nella costruzione di un’altra società, senza uniformarsi all’ordine stabilito e decidendo di combattere
per i propri ideali.
Da Mexicali a Capo Horn, la storia
dell’America Latina è stata scritta da
eroi rivoluzionari, con il loro valore e
con il loro coraggio. Il lascito latinoamericano trasmesso al mondo intero
è quello della resistenza indigena, con
il coraggio di Lautaro e la prodezza di
Cuauthémoc; quello delle gesta indipendentiste, la grandezza di Bolívar,
l’audacia di Miranda, la passione di
Sáenz e l’ingegno di San Martín; quello
dei movimenti rivoluzionari nell’America Latina del Novecento, la rivolu-
zione di Zapata in Messico per la terra
e la libertà, la rivoluzione cubana e il
Che, la democrazia socialista del presidente Allende. Eventi e processi epici
che preparano il Continente al consolidamento della Patria Grande nel XXI
secolo.
Questo numero è dedicato alla memoria dei creatori della Patria, dei combattenti per la libertà e per la giustizia,
di coloro che nacquero mortali e che
nella lotta divennero eterni; alle rivoluzioni che questi uomini e queste
donne hanno concepito e compiuto, e
all’eredità di cui hanno lasciato il seme
in ogni dove in America Latina; eredità che li proclama oggi e sempre eroi
rivoluzionari.
Traduzione di Emilia Saggiomo
* Console
Responsabile cultura
Consolato Generale della Repubblica
Bolivariana del Venezuela a Napoli
3
Resistenza e
indipendentismo
Verso la patria grande
La resistenza
degli indigeni
di Luis Vitale*
Tra le tante leggende che ritroviamo nella tradizionale storiografia si
distingue quella in cui si dice che gli
indigeni, dopo aver ricevuto occhiali e
bigiotteria, si sottomisero rapidamente ai colonizzatori.
La resistenza degli indigeni ha avuto
due fasi, una che riguarda i primi anni
della conquista militare, caratterizzata da una forte difesa dell’etnia e della
terra; e l’altra che riguarda soprattutto
l’interminabile spedizione dove i conflitti tra etnie si intersecano con le lotte
contro lo sfruttamento nelle miniere,
fattorie e piantagioni.
In generale, si potrebbe dire che popoli come i cañaris, mapuches, caribes,
charrúas, tribù amazzoniche, ecc, -
6
non soggetti ad imposta o a qualsiasi
Stato, furono quelli più attivi e resistenti da un punto di vista militare.
Tuttavia, altri, come gli Aztechi e Incas furono inizialmente i più sorpresi;
alcuni, non concordi con il dominio
dello Stato inca o azteco e con la tassazione forzata, all’inizio approvarono
i ranghi spagnoli, credendo di liberarsi
della precedente sudditanza.
Ossia, il dominio dello Stato azteco ed
inca e il suo sistema fiscale spianarono
la strada per la conquista spagnola, generando il malcontento di molte tribù
che, in una certa misura, li abituò alla
tassazione.
Al contrario, popoli come i Mapuches
resistettero per più di tre secoli agli
spagnoli, nello stesso modo in cui avevano affrontato gli Incas [...] In realtà, i
Mapuches non furono mai sottomessi,
non furono costretti a pagare le tasse
o ad obbedire al padrone. Anche altri
popoli con esperienze simili, come i
Charrúas ed i pampa argentini, non si
inchinarono mai agli spagnoli.
In ogni caso, sia l’uno che l’altro mostrarono una spietata resistenza nei
confronti dei conquistadores. Seguendo il percorso della conquista spagnola, si può anche comprendere la lotta
che intrapresero i Popoli Indigeni.
Nell’isola La Espanola i Tainos intorno al 1500 realizzarono la prima spedizione contro gli spagnoli in America Latina. Secondo Roberto Cassà : “Il
capo tribù indiano di Managua, Caonabo, guidò una lega militare di capi
tribù indiani che riuscì ad ostacolare i
propositi degli spagnoli. In seguito alla
cattura di questo capo tribù indiano, si
formò ancora un’altra lega più estesa
dove apparentemente misero la maggior parte dei capi tribù indiani del
settore centrale dell’isola e anche di altre regioni. La grande capacità di resistenza degli indigeni obbligò Colombo
a pianificare una campagna che sarebbe durata diversi mesi e che portò poi
alla totale sconfitta degli indios dopo
una serie di scontri che culminarono
nel combattimento del Santo Cerro”.1
I Tainos inizialmente si opposero rifiutandosi di pagare le tasse poi passarono ad altre forme di resistenza come
la fuga verso le montagne, campi agricoli abbandonati per costringere gli
spagnoli a lasciare l’isola per la fame,
diffusa pratica di aborti e di alcuni suicidi individuali e collettivi.
L’insurrezione più importante fu guidata da Enriquillo, capo tribù delle
montagne del Baoruco, che riuscì ad
unificare dopo 15 anni di lotta (15191533) diverse comunità e a far arruolare numerosi compatrioti che avevano abbandonato i propri incarichi. Le
doti militari di Enriquillo si esternavano soprattutto nella capacità di scegliere le zone inaccessibili al nemico,
1
ROBERTO CASSA: Historia Social y
Económica de la República Dominicana, Tomo I,
p. 41, Ed. Alfa y Omega, Santo Domingo, 1978.
forniture sicure, scegliere per bene gli
informatori e affrontare gli spagnoli
nel campo più adeguato alle proprie
esigenze. Enriquillo riuscì, per la prima volta in America, ad unirsi nella
lotta con gli schiavi neri che si erano ribellati nella regione di Baoruco.
Entrambe impiegavano la loro forza
militare contro i conquistadores, sabotando le miniere d’oro del Cibao e le
piantagioni, dove di solito gli spagnoli
cercavano di convertire al cristianesimo gli indigeni e neri che lavoravano
nelle encomiendas e nei campi che
producevano zucchero. [...]
Uno degli eroi della resistenza sudamericana all’epoca della colonizzazione
spagnola fu l’indio Hatuey che arrivò
a Cuba, fuggendo dalla persecuzione
dei conquistatori , da una piccola isola
nell’arcipelago della Hispaniola. Nella
parte orientale di Cuba organizzò una
guerriglia insieme ai Tainos. [...]
Quando, catturato e legato ad un palo,
un religioso di San francisco gli disse
che sarebbe stato meglio morire da
cristiano e che quindi avrebbe dovuto
ricevere il battesimo egli rispose “per
quale motivo, se i devoti di questa religione sono cattivi?”. Il Padre replicò: “coloro che muoiono da cristiani
andranno in cielo, vedranno Dio e
avranno gioia”. Egli chiese se in cielo
sarebbero andati tutti i cristiani. Il Padre continuò dicendo che sarebbero
andati solo coloro che si erano mostrati buoni. Al che concluse che non voleva andarci, perché essi andando lassù
poi ci restavano per sempre.2 Quindi
fu bruciato al rogo. [...]
Gli Aztechi, a differenza degli Incas,
furono conquistati rapidamente, in
quanto l’unità dell’impero era meno
solida e l’insoddisfazione di alcuni
villaggi era maggiore. Difatti quando
Hernán Cortés sbarcò e successivamente occupò Veracruz assediando
Tenochtitlán, molti indigeni abbandonarono Moctezuma e altri, come
gli indi Totonacas e Tlaxcalani passarono al fronte spagnolo. Tuttavia,
2
BARTOLOME DE LAS CASAS:
Historia de las Indias, libro III, Cap. XXV, Ed.
Aguilar, Madrid, 1927.
Tenochtitlán, che era ben sviluppata
politicamente ed etnicamente omogenea combatté fino alla resa dell’ eroico Cuauhtémoc nell’agosto del 1531.
Cuauhtémoc fu selvaggiamente torturato da Cortés rifiutandosi di indicare dove erano nascosti i tesori del suo
popolo.
[...] La tecnica adottata da Cuauhtémoc per la gestione delle ricchezze della
propria cultura fu seguita da diverse
popolazioni del Messico che ricoprivano i monumenti e le opere d’arte con
terra e rami, - come possiamo ammirare nella piramide delle sette Culture
Cholula- affinchè i conquistatori non
li distruggessero o si impadronissero
di essi con fini di lucro. Questa tradizione di difesa della cultura indigena
e di ripudio nei confronti della conquista spagnola è rimasta così salda
nel tempo che il popolo messicano è
uno dei pochi in America Latina che
ha statue di conquistadores spagnoli
nei luoghi pubblici. Ricoprire le opere
d’arte fu una forma di resistenza aborigena che non finì con la caduta della
capitale dell’impero azteco. Dal 15241528, a Oaxaca, i Zapotechi minacciarono gli spagnoli. [...]
In America Centrale si ebbe una forte
resistenza ai conquistatori, un esempio
fu Gil Gonzalez, che riuscì a sottomettere gli indigeni dell’Honduras, o ancora Pedrarias Dávila che fu nominato
governatore del Nicaragua. Tuttavia,
essi non riuscirono mai a sconfiggere
il capo tribù Urraca, che affrontò per
nove anni l’esercito spagnolo, utilizzando diverse tattiche di guerriglia.
[...]
In Colombia, i conquistatori trovarono
resistenza nel capo tribù Bogotá che
combatté per diverso tempo; suo figlio fu torturato dagli spagnoli. Questi
ultimi miravano al tesoro di Bogotà.
La morte del torturato non abbatté gli
indigeni che riuscirono ad organizzare
una nuova resistenza sotto il comando di Sagipa, un nipote di Bogotá. Si
combatté sulle montagne del Gaitana,
della panchea, los Pijaos de Ibague e le
chimilas di Santa Marta. 3
L’impero Inca ebbe una maggiore resistenza rispetto al popolo azteca grazie
ad una più efficiente organizzazione
territoriale e politica. La prigionia
di Atahualpa e l’entrata di Pizarro
a Cuzco nel 1533 non riuscirono a
schiacciare gli indiani. Manco Inka
assunse il comando del suo popolo
marciando fino ad arrivare nel 1535
ad assediare Cuzco con l’intenzione
di cacciare gli spagnoli. Vi trovarono
una forte difesa e per tale motivo furono costretti a dar fuoco alla loro città. La resistenza momentaneamente si
indebolì per la defezione dei “Canari”
(Ecuador), che mai accettarono il dominio dello Stato Inca.
La lotta ricominciò nella zona di Vilcabamba, dove gli indigeni del luogo
e gli Incas riuscirono a costruire in
breve tempo una grande fortezza. L’archeologo peruviano Edmundo Guillén
ha riscoperto nel 1976 l’intera fortezza
e nonostante la rapidità con cui fu costruita per far fronte ai conquistatori,
è un’opera d’arte straordinaria quanto
Macchu Picchu. La statua del leader
della resistenza, Túpac Amaru, fu eseguita dal viceré Francisco de Toledo
nel 1572. [...]
I conquistadores guidati da Diego de
Almagro, e poi da Pedro de Valdivia,
continuarono l’esplorazione verso sud
alla ricerca di El Dorado. Non lo trovarono. Trovarono, invece, la più fervida resistenza aborigena. I Mapuches
(Mapu = Terra, Che = popolo), chiamati Araucaniani dagli spagnoli, che
resistettero per tre secoli in una delle
guerre più lunghe della storia universale, infliggendo agli invasori una perdita di soldati compresi tra 25 e 50.000
per l’intera campagna. [...]
La prolungata resistenza fu dovuta
non solo all’ingegno militare di leader
come Lautaro, Caupolicán e Pelantaru, bensì fondamentalmente al sostegno attivo delle popolazioni indigene.
La guerra Arauco fu una guerra vera
e propria; una guerra popolare che
durò tre secoli ispirata dal profondo
3
JUAN FRIEDE: La conquista del territorio y el poblamiento, en Manual de Historia
de Colombia, T. I, p. 106, Bogotá, 1978.
7
odio che gli indigeni provavano nei
confronti dei conquistatori. I motivi di
tale tenacia furono la difesa del territorio, le tribù, i costumi e il diritto di
vivere liberamente in piccoli villaggi.
[...]
Gli indios delle pampas argentine furono tenuti sotto controllo per tutta
la campagna spagnola. La colonizzazione della provincia di Buenos Aires,
non avvenne oltre i 100 chilometri dal
porto. Neanche gli spagnoli furono in
grado di dominare l’area centro-nord
a causa della spietata resistenza indigena.
I Charrúas dell’ Uruguay sconfissero i
primi conquistadores guidati da Juan
de Solis nel 1516. Soltanto un secolo
dopo, gli spagnoli osarono addentrarsi in questa zona, guidati da Hernandarias de Saavedra, che fu comunque
sconfitto dai Charrúas. Solo i gesuiti
ed i francescani furono in grado di garantire un certo assoggettamento mediante la fondazione di colonie, come
quella di Soriano nel 1624.
Pertanto alla fine della campagna, i
Mapuches, i pampas ed i charrúas
mantennero la maggior parte delle
terre che già possedevano prima della
conquista spagnola.
I Guarani della zona paraguaiana, i
guaycuríes del Chaco argentino e la
8
regione brasiliana limitrofa del Paraguay nel 1525 affrontarono i primi
conquistadores, uccidendo in breve
tempo Alejo García, che era andato
alla ricerca della Sierra del Plata. Più
tardi, sconfissero anche il navigatore
Sebastiano Caboto, il primo ad attraversare con navi europee il fiume
Paraguay. Sia Garcia che Caboto fallirono nel tentativo di conquistare la
terra con “sangue e fuoco”. Trovarono
invece la feroce resistenza dei Guarani,” più facili da persuadere che da sottomettere”. 4
Gli indigeni del Brasile combatterono
con i portoghesi; dopo la sconfitta si
ritirarono nella foresta, qui fronteggiarono alcuni schiavi neri in rivolta.
Alcune tribù delle Amazzoni si unirono a quelle dell’ Orinoco, ma in particolar modo ai Caribes, sorprendendo con imboscate i conquistadores. I
caribes fecero diverse incursioni nelle
Antille, lungo la costa e all’interno del
Venezuela, arrivando a scontrarsi con
gli spagnoli a Valencia (1572-1584).
Attaccavano e nascondevano le loro
canoe nel Guárico per tornare poi alla
base di sicurezza, l’imponente Orinoco.
Secondo i cronisti, uno dei primi importanti scontri armati tra gli spagnoli
e gli indiani si verificò sulla coste venezuelane nel 1515. Quattro anni più
tardi, ci fu la ribellione. Il cronista
Gonzalo Fernández de Oviedo e Valdes ha detto che “nel 1519, nello stesso
giorno, gli indios di Cumana, quelli di
Cariaco, di Chiribichi, Maracapana,
Tacarras, Neveri e Unari si ribellarono
e uccisero principalmente nella provincia di Maracapana circa ottanta cristiani spagnoli in meno di un mese”.5
Uno dei capi indios più importanti fu
Guaicaipuro. Egli fece il suo primo
intervento nelle miniere d’oro di Los
Teques quando aveva appena venticinque anni. Riuscì a coordinare le
tribù del centroamerica e a costituire un esercito di oltre 14.000 uomini
tra il 1560 e il 1568. Il suo desiderio
di guidare non solo la lotta dei popoli
indigeni ma anche quella degli schiavi neri, fu espresso nel tentativo di
combinare le battaglie degli indigeni
con quelle dei seguaci di Miguel, capo
della rivolta dei neri nel Venezuela occidentale.
Guaicaipuro affrontò il più coraggioso
degli spagnoli, Diego de Losada, che,
4
EFRAIM CARDOZO: Breve Historia del Paraguay, p. 10, Ed. Eudeba, Buenos
Aires, 1965.
5
GONZALO FERNANDEZ DE
OVIEDO Y VALDES: Historia General y Natural de las Indias, Bibl. de la Academia Nacional
de la Historia, Vol. 58, T. I, p. 62 y 63, Caracas.
secondo il cronista José de Oviedo y
Baños, “si trovò di fronte a più di diecimila indiani guidati dal capo tribù
Guaicaipuro. Essi al battito dei tamburi e al risuonare dei fotutos annunciavano la nobile battaglia” .6
Il cronista ha distintamente sottolineato la prodezza di Gayauta, di Tiuna e
dei bambini indigeni, come anche la
strategia di guerra di Guaicaipuro che
“incominciò a far commuovere i capi
tribù indiani, ad agitare le nazioni e
a fare in modo che queste ultime, interessate al bene comune, si presentassero completamente armate”.7 Insieme
a Terepaima, Guaicaipuro riuscì a
sconfiggere più volte Fajardo e altri
comandanti spagnoli. Consapevole del
pericolo, il governatore decise di organizzare una grande spedizione al comando di Diego de Losada, che dopo
diversi attacchi riuscì a sconfiggere l’esercito di Guaicaipuro nel 1568.
Tuttavia dopo la morte Guaicaipuro, la
lotta continuò per diversi decenni con
il comandante Pacamaconi e Conopoima. Tamanaco riuscì a radunare
circa 15.000 uomini che fecero irruzione negli accampamenti e nei villaggi spagnoli. Fu sconfitto e condannato
a tormentarsi come un cane rabbioso.
[...]
Il popolo dei Caribes fu quello che
nelle Antille oppose maggiore resistenza ai conquistadores affrontando
spagnoli ma anche inglesi, francesi ed
olandesi. Gli spagnoli furono sempre
sorpresi dalle incursioni dei Caribes.
I francesi furono respinti quando nel
1635 cercarono di occupare l’isola di
Dominica. Nel Guadalupe i Caribes
resistettero a lungo fino a quando non
furono sconfitti nel 1640. Tuttavia tornarono a ribellarsi nel 1653, devastando le isole di Grenada e San Vicente;
stavano per conquistare la Martinica.
Nel 1657 attaccarono diverse isole
con una rivolta globale e ben guidata
ma furono sopraffatti dal generale Du
Parquet, che propose ai 6.000 Caribes
di vivere in pace a Dominica e San Vicente dove gli sarebbero state concesse
delle terre. È importante sottolineare
che, nelle insurrezioni dei Caribes furono coinvolti schiavi neri che riuscirono a scappare dalle numerose piantagioni che vi erano nelle Antille.
Durante la resistenza gli aborigeni impiegarono diverse tattiche e metodi di
lotta. Dopo le disastrose conseguenze
delle prime esperienze, di attaccare
in massa, gli indigeni riadattarono la
loro tattica e affrontarono gli spagnoli
attaccandoli a gruppi; in alcuni casi si
arrivò a combinare i metodi che caratterizzavano una guerra di gruppo
con quelli adottati in una guerra fatta
di spostamenti ovvero concentrare le
forze per attaccare, disperderle rapidamente e fare un nuovo attacco a lungo
raggio, muovendosi in ampie fronti di
lotta. [...]
La genialità delle popolazioni indigene nel trarre conclusioni rapide sulle
proprie esperienze militari si evidenziò anche nell’invenzione di nuove
armi. In pochi anni sostituirono arco
e freccia con le clave, scudi e lance con
punta in acciaio, utilizzando strumenti
di ferro che traevano dalle miniere o
dalle armi nemiche. Ben presto impararono ad usare armi da fuoco, come i
moschetti e cannoni. Iniziarono a raccogliere lo zolfo per mettere a punto la
polvere da sparo. Un’altra invenzione
dei Mapuches fu il laccio, con il quale
sorpresero gli spagnoli nella battaglia
di Marigüeño, facendoli cadere dai
loro cavalli.
Uno degli aspetti più rilevanti della resistenza fu l’unità d’azione che si
raggiunse in innumerevoli occasioni
tra le ribellioni degli indigeni e quelle
degli schiavi neri. Esempi notevoli di
questa lotta comune furono Miguel il
Nero a metà del XVI secolo in Venezuela e Enriquillo Bahoruco nella zona
di Baoruco sull’isola La Española.
Nonostante i combattimenti, gli aborigeni non poterono mai passare all’
offensiva strategica. Non superarono la tappa della difesa attiva e della
controffensiva sporadica. È noto che
al trionfo finale si arriva solo quando
si conviene ad una guerra regolare,
guerra realizzata con metodi convenzionali.
[...]
Traduzione di Simona Palumbo
*Storico argentino-cileno
6
JOSE DE OVIEDO Y BAÑOS: Historia de la conquista y población de la provincia
de Venezuela, Capítulo III, Bibl. de la Academia
Nac. de la Historia, Caracas.
7
Ibid., Cap. IX, p. 54.
9
Eroi ed eroine
afrovenezuelani
di AA.VV.*
Con le loro idee e con le loro lotte
hanno segnato la storia del Venezuela, sebbene rimangano sconosciuti ad
alcuni. Un buon motivo per raccontare, almeno in breve, le azioni eroiche
dei ribelli venezuelani afrodiscendenti, precursori dell’Indipendentismo.
HIPÓLITA E MATEA
BOLÍVAR
H
ipólita e Matea rimasero con il piccolo Simón
di nove anni quando nel
1792 morì ancora molto
giovane sua madre María Concepción
Palacios. Hipólita lo adottò come figlio
proprio mentre Matea lo curava come
un fratellino. Le due donne lo accompagnarono nel penoso calvario, seguito alla morte nel 1803 di sua moglie
María Teresa del Toro nella casa “El
Ingenio” a San Mateo.
Anni dopo, lo videro arrivare trionfante a Caracas nell’agosto del 1813, in
10
seguito alla Campagna Ammirevole.
Agirono come soldatesse e infermiere,
quando la bella casa di San Mateo si
trasformò in quartier generale dell’Esercito Liberatore. Bolívar per loro
continuava a essere “il piccolo Simoncito”. Molti raccontavano che il Liberatore, nel vederle, dichiarò: “ecco le mie
amate negre: Hipólita che mi ha dato
da mangiare, Matea che mi ha insegnato i miei primi passi”.
Hipólita Bolívar era nata a San Mateo, stato di Aragua, nel 1763 e Matea
Bolívar a San José de Tiznados, stato
Guárico, nel 1773. I loro nomi sono da
sempre nella memoria del Venezuela
perché rappresentano la negritudine,
l’afro-discendenza, l’identità venezuelana, oltre alla storia tenera e bella del
Padre della Patria durante la sua infanzia, adolescenza e gioventù.
JUAN ANDRÉS LÓPEZ
DEL ROSARIO, DETTO
“ANDRESOTE”
S
i dice che fosse nativo di Valencia, stato Carabobo, figlio di un
afro-discendente e di un’indigena. Era uno zambo (cioè un
meticcio nato da un genitore indio e
da un genitore nero africano) schiavizzato in una hacienda di Yagua, proprietà di un Portoghese.
Lottò contro la schiavitù e l’ingiusti-
zia degli Spagnoli e della compagnia
Güipuzcoana, che voleva mantenere
i suoi privilegi, uccidendo e punendo tutti quelli che non le obbedivano,
non pagando il salario e mantenendo schiavizzati i negri e gli aborigeni.
Il movimento di Andresote è uno dei
primi organizzati contro gli Spagnoli –
va contestualizzato tra i movimenti di
pre-independenza, iniziati dal negro
Miguel de Buría a Yaracuy, continuati con la rivolta del negro Guillermo a
Barlovento e con quella dell’eroico José
Leonardo Chirino nella sierra di Coro
a Falcón – e vi presero parte aborigeni,
negri, zambos, mulatti e bianchi creoli
uniti in una lotta comune.
La rivolta ebbe successo ma subito
Andresote si vide obbligato ad abbandonare la lotta: con alcuni seguaci, si
imbarcò su di un battello olandese –
tra il 1732 e il 1735, nella regione del
fiume Yaracuy - e non ritornò mai più
in Venezuela. Ma tra le montagne
dello Yaracuy rimase il focolaio della
ribellione, che arrivò a essere dominato solo grazie alla collaborazione che
i missionari cappuccini offrirono alle
autorità.
JUANA RAMÍREZ,
“LA AVANZADORA”
N
el 1790 nacque, nella
hacienda di cacao dei
Ramírez Rojas a Chaguaramas, a Piar nello stato
Mongas, la mulatta Juana Ramírez.
Dalla cucina, Juana ascoltava le notizie
che alimentavano il suo spirito libertario.
A 15 anni era già la mano destra del
Generale Don Andrés Rojas ed era
pronta ad affrontare le avventure della
guerra; a vent’anni - mentre aveva luogo la rivolta del 1810, la Prima Repubblica - Juana era diventata una donna
molto imponente e carismatica, che
infondeva agli schiavizzati la passione
per la lotta indipendentista.
È così che, tra il 1813 e il 1814, Juana partecipò alle cinque battaglie che
si realizzarono nelle vicinanze di Maturín contro Antonio Zuazola, de La
Hoz, Monteverde e Morales. La più ricordata è quella di Alto de los Godos,
una battaglia che, grazie all’intrepida
avanzata di Juana fu una vittoria sicura per i patrioti: a causa di quest’episodio, l’eroina venezuelana è conosciuta
come Juana “La Avanzadora”. Inoltre,
Juana fondò il famoso battaglione che
fu chiamato “Batteria delle Donne”
formato da tutte le donne del popolo.
LEONARDO INFANTE
N
ato a Maturín, stato Monagas, nel 1795, discendeva da una famiglia
povera, abituata al rigore
della servitù. Espresse fin dall’infanzia
tutto il suo odio verso l’oppressione e
l’amore per la libertà. A quindici anni
di età, Infante, con tutta l’energia e la
decisione del suo carattere, si manifestò devoto alla grande rivoluzione che
assicurò le nostre libertà pubbliche. La
rivoluzione del 1810 operò in quell’anima una trasfigurazione: l’uomo della
pianura si trasformò in arcangelo della
guerra.
Con il suo comportamento nell’azio-
ne di Carabobo Infante si guadagnò
le simpatie del Liberatore e il grado
di Comandante, che lo destinò a servire nella cavalleria leggera per le sue
brillanti attitudini nel maneggio della
lancia.
Il 17 aprile del 1818 a San José de
Tiznados, nel luogo conosciuto come
il Rincón de los Toros, salvò Simón
Bolívar, in seguito a un agguato dei realisti. Partecipò insieme al Liberatore
alle battaglie liberatrici della Nuova
Granada, ottenendo il trionfo in ognuna di esse. Fu catturato e fucilato il 26
marzo del 1826.
11
LUIS BELTRÁN PRIETO
FIGUEROA
F
u uno dei più importante educatori venezuelani del secolo
XX, promotore di una educazione democratica, gratuita
e obbligatoria, nonché distinto lottatore per i diritti del popolo. Nato a La
Asunción, stato Nueva Esparta, il 14
marzo 1902, si laureò al liceo Caracas,
diretto dal maestro Rómulo Gallegos
e a 18 anni cominciò a lavorare come
maestro di scuola nell’Isola di Margarita: da quel momento, non tralasciò
di trasmettere i suoi insegnamenti a
bambini e giovani.
Dottore in scienze politiche e sociali
all’Università Centrale del Venezuela,
fu co-fondatore di diverse organizzazioni politiche di indirizzo democratico e popolare. Come conseguenza del
colpo di Stato del 24 novembre 1948,
Prieto Figueroa fu esiliato. Fino al suo
ritorno in Venezuela – in seguito al ristabilimento della democrazia puntofijista il 23 gennaio 1958 - si dedicò al
lavoro educativo all’estero come capo
di missione al servizio dell’UNESCO,
in Costa Rica e Honduras; fu anche
professore dell’Università de La Habana.
Come giureconsulto al servizio dell’educazione, integrò la Commissione
Redattrice del Progetto di Costituzione Nazionale (1936) e della Carta
Magna (1961). Morì a Caracas il 23
maggio 1993. Lungo tutta la sua vita
esercitò importanti cariche pubbliche, ma i Venezuelani lo ricorderanno
sempre come “il maestro Prieto”.
12
LA COMANDANTA
ARGELIA LAYA
JOSÉ LEONARDO
CHIRINO
N
N
dre era un montonero (membro della
guerrilla contadina) e finì varie volte
in prigione; sua madre, membro del
“Gruppo Culturale Femminile”, le insegnò a difendere la condizione delle
donne e dei neri.
Essendo entrata nel Partito Comunista, nella politica della lotta armata e
nel movimento guerrillero, si diede alla
clandestinità e percorse le montagne
di Lara: per sei anni fabbricò bombe
molotov e impugnò il fucile, lottando
quotidianamente contro l’ingiustizia
sociale. La guerrillera conobbe Mao
Tse Tung, Ho Chi Min e Fidel Castro e
fu anche presidentessa del Movimiento
al Socialismo (M.A.S).
Argelia Laya muore nel 1987, lasciando un’eredità di eterna lotta per le donne, per il socialismo alla creola e per
le trasformazioni economiche, sociali
e politiche necessarie per migliorare le
condizioni di vita.
la Legge dei Francesi, cioè, la Repubblica: l’eliminazione della schiavitù,
l’eguaglianza delle classi sociali, la soppressione dei privilegi, la deroga alle
imposte di gabella.
Sconfitta la ribellione, Chirino fu catturato dalle autorità e trasferito a Caracas, dove la Real Audiencia lo condannò alla forca (10 dicembre 1796),
sentenza che fu eseguita nella plaza
Mayor (oggi plaza Bolívar). Come segnale di ammonimento e per scorag-
ata in una hacienda di
cacao a Río Chico, stato
Miranda, il 10 Julio 1926,
la “Comandanta Jacinta”,
originaria di Barlovento e orgogliosa
della sua afro-discendenza, è l’esempio
più alto della partecipazione politica
della donna venezuelana nel campo
della politica contemporanea. Suo pa-
el 1754, Curimagua, sierra
Falcón, fu il luogo natio
dell’eroe ribelle afro-discendente José Leonardo
Chirino, forse il maggiore rappresentante dell’integrazione dei due
continenti (Africa e America), grazie
alla madre indigena e al padre negro
schiavizzato, unione che fece sì che le
sue lotte anti-schiaviste si estendessero
anche ad altri gruppi etnici.
L’eredità della rivoluzione francese
(Libertà, Eguaglianza e Fraternità) e il
processo liberatore e indipendentista
di Haiti servirono da ispirazione per il
suo lavoro rivoluzionario nel Venezuela colonizzato: nel 1795, si concretizzò
l’insurrezione del leader afro-discendente, seguito in gran parte da negri
della tribù dei “loangos” o “minas”,
del Regno del Congo, che misero su
un programma rivoluzionario: l’instaurazione di quello che chiamavano
giare future ribellioni, la testa di Chirino fu posta in una gabbia di ferro che
fu messa lungo il cammino verso le
Valli di Aragua e Coro.
PEDRO CAMEJO
“EL NEGRO PRIMERO”
N
ato nel 1790, a San Juan
de Payara, stato Apure, il
soprannome Negro Primero che gli fu affibbiato era
ispirato alla sua destrezza nel maneggio della lancia.
All’inizio della Guerra d’Indipendenza
formò parte dell’esercito realista. Nel
1816 si arruolò nelle fila repubblicane,
nelle forze che comandava il general
José Antonio Páez nell’Apure. Fu uno
dei 150 lancieri che parteciparono alla
battaglia di las Queseras del Medio (2
aprile 1819) e in quell’ occasione, ricevette l’Ordine dei Liberatori del Venezuela.
Nella Battaglia di Carabobo (24 giugno 1821) fu membro di uno dei reggimenti di cavalleria della prima divisione di Páez, e lì lasciò la vita: «Mio
generale, vengo a dirle addio perché
sono morto». Furono le ultime parole
che diresse al Generale Páez a Carabobo.
GUILLERMO RIBAS,
L’EROE CIMARRÓN
C
onosciuto come “El Cimarrón” (schiavo ribelle fuggitivo), fu lo schiavo del regidor Marcos Ribas, dalle cui
mani era fuggito nell’anno 1767; non
volle adattarsi ai capricci del conquistador spagnolo e fondò - insieme al
suo compagno Francisco Mina e alle
eroine cimarronas Juana Francisca,
María Valentina e Manucha Algarín
- il cumbe della montagna di Ocoyta
(1768), luogo considerato il primo
bastione libertario contro la schiavitù
e il colonialismo nella sotto-regione
mirandina (gli Spagnoli chiamavano
cumbe quei luoghi inaccessibili dove
si rifugiavano gli afro-discendenti
cimarrones che rifuggivano il giogo
schiavista).
Questo cimarrón cercarono di catturarlo in diverse occasioni ma inutilmente. Fino a che, il 16 ottobre 1771,
il negro Guillermo con 18 dei suoi
uomini si presentò nel villaggio di Panaquire, dove sequestrarono il tenente
della guardia locale Pedro Casaña: per
questo, gli hacendados spagnoli chiesero al governatore della Provincia di
Venezuela un’azione urgente contro
l’afro-discendeente ribelle, dal momento che costituiva un “cattivo esempio” per gli schiavi. Il cumbe di Ribas
a Ocoyta fu circondato e attaccato:
Guillermo e Francisco Mina morirono
nell’imboscata; altri furono catturati e
alcuni riuscirono a scappare.
Il Negro Ribas fu decapitato e gli tagliarono una mano: la sua testa e la sua
mano furono collocate all’entrata del
villaggio di Panaquire, affinché servisse da segnale ammonitore per il resto
dei negri intenzionati a liberarsi. Ciò
nonostante, il cimarronaje a Barlovento continuò ad aumentare.
MARTA CUMBALE,
IL BRACCIO DESTRO
DELL’AVANZADORA
N
ata a Güiria de la Costa,
in una famiglia di negri
manumisos, ancora giovane si confrontò alle tristi
condizioni alle quali erano sottomessi
gli schiavi, e per questa ragione si rifugiò nei culti e rituali ancestrali africani. Le condizioni di maltrattamento
e annichilimento nelle quali vivevano
gli schiavi, provocarono la ribellione
di quelle famiglie. Questa giovane gioiosa e di forte temperamento cominciò a militare sui
campi di Chaguaramal, al lato di Juana Ramírez la “Avanzadora”. Già negli
anni 1811-12, indios, negri, meticci
creoli e orilleros formano un solo raggruppamento. Marta andò a integrare le fila della famosa Batería de las
Mujeres, quelle eroine che combatterono senza tregua in cinque battaglie
libertarie: il 18 marzo 1813, l’11 aprile
1813, il 25 maggio 1813, l’8 settembre
1814 e l’11 dicembre 1814. Il villaggio
dove viveva fu raso al suolo dal furioso Francisco Tomás Morales, il quale
13
agiva così per vendicare la morte del
generale spagnolo José Tomás Boves.
Alla fine della Guerra di Indipendenza, Marta cercò di dedicarsi alla vita
familiare e a Carúpano si sposò con
Don Santiago Aristiguieta, dal quale non ebbe figli. Morì il 28 dicembre
1864.
MIGUEL DE BURÍA,
ANTESIGNANO DEI
RIVOLUZIONARI
M
iguel del Barrio diresse la rivoluzione degli
schiavi di Nueva Segovia de Buría tra il 1552
e il 1553, la prima rivoluzione venezuelana. Le proficue alleanze con gli
indios jiraharas gli permisero di por-
di insurrezioni, tra le quali possiamo
ricordare: quella di Cañada de los Negros in Messico nel secolo XVII; quella
di Palenque di Palmares in Brasile nel
secolo XVII, diretta da Zumbí di Palmares; il sollevamento dei tre capi neri
in Suriname alla fine del secolo XVII;
la ribellione dei Sastres o Alfayates a
Bahía; il Giuramento di Bois Caïman ad Haití nel 1791, al comando di
Toussaint Louverture; la Cospirazione di Aponte a Cuba, tra il 1811 e il
1812, guidata dal liberto José Antonio
Aponte.
Nonostante l’importanza di questo
atto di ribellione, la rivoluzione di
Buría non è conosciuta in Venezuela.
Tuttavia, compare come riferimento letterario o racconto storico nelle
opere dei più autorevoli intellettuali e
scrittori venezuelani: nel Resumen de
la historia de Venezuela (1810) di Andrés Bello, nel racconto La negramenta
di Arturo Uslar Pietri (1936), e in Cantaclaro (1934) e Pobre Negro (1937) di
Rómulo Gallegos, i primi romanzi che
fanno riferimento alla rivoluzione di
Miguel.
sóstomo Falcón a Generale di Brigata
e tre anni più tardi a Generale di Divisione. Morì il 18 gennaio 1865.
FRANCISCA PAULA
AGUADO
O
riginaria dello Stato Miranda, schiava della mantuana
(aristocratica)
Gertrudis Aguado, che le
concesse la Lettera di Libertà a condizione che stesse a suo lato fino alla
JOSÉ ASCENSION
FARRERAS
D
iscendente di Africani,
nato ad Angostura, Stato
Bolívar, il 27 agosto 1785.
Abbandonò le forze realiste nel 1817 e partecipò alla battaglia
di San Felix, nella quale liberò la Guyana. Fu compagno di Bolívar e Sucre.
Nel 1828, fu promosso a Colonnello.
Nel 1861, fu promosso da Juan Cri-
tare a termine l’impresa con successo:
attaccarono alcuni villaggi spagnoli,
pianificarono la liberazione di El Tocuyo e della Nueva Granada, abolirono la schiavitù e organizzarono sotto
forma di regno uno dei primi tentativi di stabilire in America uno Stato
indipendente dagli Europei. Dopo il
sollevamento guidato da Miguel contro l’oppressione spagnola nelle Minas
de Buría nel 1553, si scatenò una serie
14
sua morte. Dopo la morte di questa,
l’erede di Gertrudis, Miguel del Toro,
si rifiutò di darle la libertà. Francisca
Paula vinse una causa che cominciò
il 7 luglio 1800 e terminò il 9 agosto
1801. Così, ottenne un’importante vittoria giudiziaria nella lotta contro lo
schiavismo.
GERÓNIMO
“GUACAMAYA”
M
iguel Gerónimo, soprannominato “Guacamaya”, era un Africano
schiavizzato tra gli anni
1794 e 1795, nello Stato Miranda. Insieme a María Concepción Sánchez,
guidò il cumbe di Taguaza nella comu-
AFROAMERICANI
nità di Aragüita, a Barlovento. Di questo cumbe, si riconobbe la forza dei membri cimarrones che, molto ben organizzati, reclamavano le proprie legittime libertà, dando vita a
un’importante ribellione nel Venezuela di fine secolo XVIII.
INÉS MARÍA PÁEZ
O
riginaria della Stato Carabobo, Páez, sposata
con un mantuano, fu portata in Tribunale per
avere osato utilizzare un cuscino per inginocchiarsi alla Messa, privilegio esclusivo delle
mantuanas. Fu difesa da Juan Germán Roscio Nieves, i cui
argomenti ottennero che la Real Audiencia Española si pronunciasse a favore di María Inés. Fu la prima causa contro
la discriminazione e l’inizio della difesa dei diritti civili in
America.
Traduzione di Marco Nieli
*Si ringraziano: l’Ambasciata della Repubblica Bolivariana del
Venezuela in Etiopia per il suo contributo coi testi della mostra
Heroes y heroínas de la afrovenezolanidad, nonché i siti e i testi
consultati per i contenuti di questo articolo (afroamiga.wordpress.
com, radiocomunaelhatillo.blogspot.it, Juan José Ramirez da
alcaldiadematurin.gob.ve, e Nina Bruni da La insurrección del
Negro Miguel en las letras y el muralismo de Venezuela in Cuadernos
Americanos 144, México, 2013/2).
L’opposizione alla schiavitù fu tenace e attuata con tutti
i mezzi possibili: la morte per inedia, il suicidio (fondato sulla concezione che l’anima ritorna ai luoghi degli
antenati), l’aborto (per evitare al nascituro la schiavitù),
il sabotaggio del lavoro, la fuga, le rivolte, numerose e
sanguinose. Celebri quelle ad Haiti, a Santo Domingo,
nelle Antille inglesi, a Puerto Rico, nella Martinica. La
più famosa fu quella iniziata ad Haiti la notte del 14 agosto 1791 con una cerimonia vudù, che si concluse, dopo
il massacro dei bianchi, con l’indipendenza dell’isola
(1804). Si ebbero ribellioni anche nel Nord-est del Brasile come quella dei Malê, organizzata da capi musulmani. Fu famosa la ‘repubblica di Palmares’, fondata ad
Alagoas da schiavi fuggiaschi (metà XVII secolo). Tali
rivolte fallirono tutte (tranne ad Haiti).
Le fughe diedero invece origine a persistenti comunità
di afroamericani detti marrones (dallo spagnolo cimarrón, «porco selvatico»), rifugiatisi in località inaccessibili dove poterono sopravvivere tratti integrali di culture
africane. Per esempio i Bush negroes (poi quasi scomparsi) che nel XVIII secolo costituirono nelle Guiane gruppi organizzati riuscendo perfino a fondare degli Stati,
con i quali i governatori bianchi dovettero concludere
trattati di amicizia. Altri gruppi finirono invece assorbiti
dalle popolazioni aborigene. Schiavi di origine africana
e popolazioni amerinde si sono talvolta fusi dando luogo a un tipo di meticcio detto cafuso o carioca in Brasile
e zambo o lobo nell’America spagnola.
Gli afrovenezuelani. Il Venezuela è oggi una nazione
multietnica, e almeno il 32% della popolazione è di discendenza africana. Il presidente Hugo Chávez, in visita
negli Stati Uniti, dichiarò in un’intervista: «Quando eravamo bambini, ci raccontavano di avere una madre patria, la Spagna. Successivamente, abbiamo scoperto, nelle
nostre vite, che come dato di fatto, avevamo molte madri
patrie. Una delle più grandi patrie di tutte è senza dubbio
l’Africa. Noi amiamo l’Africa. E ogni giorno siamo sempre
più consapevoli delle nostre radici africane. Il razzismo
è una caratteristica dell’imperialismo. Il razzismo è una
caratteristica del capitalismo. L’odio verso di me ha senza dubbio a che fare con il razzismo. A causa della mia
grande bocca, a causa dei miei capelli ricci. Io sono molto
orgoglioso di avere questa bocca e questi capelli, perché
sono africano».
15
Pensiero sull’integrazione e il latinoamericanismo
Progetto unionista
nell’Indipendenza
Genesi e apogeo
di Alejandro Casas
D
urante il progetto di indipendenza politica dalla
Spagna e dal Portogallo,
si possono identificare tre
grandi tappe nella formulazione e conformazione del progetto di unità ispanoamericana, come costruzione della
“patria grande”.
La prima, precedente allo scoppio generalizzato dei movimenti rivoluzionari e che si identifica come quella dei
“precursori”, in buona misura diede il
fondamento e l’impulso iniziali delle
fasi posteriori. La seconda, dal 1810 al
1821, che consiste nella formulazione
e nello scambio di dichiarazioni unilaterali di unionismo continentale; la
terza, fra il 1821 e il 1828, che porta la
consapevolezza della necessità di una
gestione diplomatica dell’unionismo
continentale […]
Se è vero che il progetto unionista di
carattere ispanoamericanista fu quello dominante ed egemonico, in non
poche occasioni coinvolse il Brasile
direttamente o indirettamente, sebbene più nelle intenzioni che non nelle
realizzazioni.
GERMI DEL PENSIERO
INDIPENDENTISTA E
INTEGRAZIONISTA
U
na delle cause scatenanti
della lotta indipendentista
nelle colonie spagnole fu
senza dubbio la detronizzazione del re di Spagna nel 1808 da
parte di Napoleone, che fece da sti-
16
molo per gli obiettivi di autogoverno
già esistenti in importanti settori delle
colonie. I creoli più radicalizzati videro l’indipendenza come una dinamica
che doveva abbracciare tutto il continente.
Si visualizzavano problemi comuni
di oppressione e dipendenza, struttura sociale, tradizione e lingua che
condussero i creoli (si comprendono
in questo concetto bianchi, meticci,
mulatti, neri e indigeni) a intendere l’indipendenza in una prospettiva
continentale. Lo scontro che avrebbe
portato alla sconfitta degli imperi oppressori doveva basarsi su una lotta
unitaria e concertata.
[…]
Non dobbiamo dimenticare che la
prima rivoluzione indipendentista di
successo, e con peculiarità notevolissime, ebbe luogo ad Haiti, che raggiunse l’indipendenza politica nel 1804,
proclamata da Jean Jacques Dessalines – comandante in capo del primo
esercito del primo paese libero dell’America Latina. La grande insurrezione
di schiavi neri, scatenatasi nel 1791, e
capeggiata da Touissant L’Ouverture,
finì per assumere il carattere di guerra d’indipendenza. Nel 1793 si abolì la
schiavitù, settant’anni prima che negli
Stati Uniti.
In Brasile, l’indipendenza arrivò per
via graduale, dall’alto, senza che mancassero antecedenti rivoluzionari,
come la Congiura dei Minatori, per
la quale furono giustiziati nel 1792
Tiradentes e altri leader. Il principe
reggente e la corte di Portogallo si trasferirono in Brasile per non cadere prigionieri dei francesi dopo l’invasione
napoleonica del 1808. L’erede del principe, diventato imperatore, dichiarò
l’indipendenza nel 1822. L’America
portoghese, a differenza di quella spagnola, riuscì a conservare la sua unità
sulla base di un’importante centralizzazione politico-militare, e mantenne
un modello monarchico che ritardò di
molti decenni l’instaurazione della repubblica e l’abolizione della schiavitù.
MIRANDA:
LA MAGNA COLOMBIA
F
rancisco de Miranda è considerato un precursore fondamentale dell’unionismo latinoamericano. Il suo “piano
unitario” prevedeva che il Brasile fosse
tere in discussione i principi e le istituzioni consacrati nella Costituzione
venezuelana del 1811. Temeva di più la
“anarchia e la confusione” della stessa
dipendenza.
PICORNELL, GUAL E
ESPAÑA: LA LOTTA
UMANITARIA
I
parte integrante della lotta di liberazione dei popoli della “Magna Colombia” (termine che comprendeva tutta
l’America Latina), così come le regioni
di lingua francese. Dopo 15 anni di
preparazione, arrivò ad Haiti nel 1806,
con un contingente militare chiamato
“Esercito della Colombia al servizio
del popolo libero del Sud America”.
Aveva intenzione di instaurare un governo monarchico-repubblicano, con
un’importante partecipazione degli
Inca.
Dopo la sua sconfitta in terra venezuelana, si dirige a Londra, dove raggruppa i settori latinoamericani di
avanguardia. […] In Miranda predominano idee politiche conservatrici,
più vicine al modello politico inglese di monarchia limitata dell’epoca e
lontane dai principi dell’illuminismo
francese. Questo lo portò fino a met-
spirati dai principi della Rivoluzione Francese e di quella Haitiana, Juan Bautista Picornell, Manuel Gual e José María España
capeggiarono nel 1797 un altro movimento precursore, questa volta in Venezuela. Il primo, ispiratore in buona
misura del programma rivoluzionario,
oltre a proporre una rivoluzione liberal-borghese, era fautore dell’uguaglianza sociale e di un chiara difesa
delle aspirazioni dei neri e dei popoli
autoctoni. L’appello alla lotta unitaria
fu un pilastro del suo movimento.
Nel documento Ordenanzas Constitucionales si parlava di una società organizzata in base a un sistema repubblicano, federale e democratico, di modo
che “fra bianchi, indios, pardos1e neri
regni la massima armonia, vedendosi tutti come fratelli di Gesù Cristo”.
Si chiedeva anche l’abolizione della
schiavitù, pene per chi offendesse le
donne e uguaglianza sociale.
CARATTERE
CONTINENTALE DELLA
PRIMA INDIPENDENZA
A
partire dall’esplosione rivoluzionaria del 1810, le
prime giunte governative
rivoluzionarie (di Caracas,
Bogotà, Buenos Aires, Quito, Cile e
Paraguay) invocarono l’unità continentale.
Il 21 dicembre del 1811 si licenziò la
Costituzione della Prima Repubblica
del Venezuela, che poneva un’enfasi
ancora maggiore sull’idea unionista,
prevedendo perfino l’ammissione di
qualsiasi altra provincia del “continen-
1
Si definivano pardos i figli nati
dall’unione di schiavi di origine africana con
persone indigene ed europee.
te colombiano”, “che voglia unirsi sotto le condizioni e garanzie necessarie
per fortificare l’Unione con l’aumento
delle sue parti integranti e dei legami
fra di esse”. Si proclamavano allo stesso
tempo “l’amicizia e l’unione più sincere
fra noi stessi e con gli altri abitanti del
Continente Colombiano che vogliano
associarsi a noi (…) alterare e mutare
in qualsiasi momento queste risoluzioni, in accordo con la maggioranza dei
Popoli della Colombia che vogliano riunirsi in un’entità nazionale” […]
Nel 1810 il messicano Miguel Hidalgo
si proclamava “Generalissimo d’America”, reclamava la “valorosa Nazione
Americana” e l’unione per ottenere la
sospirata libertà: “Uniamoci dunque,
noi tutti che siamo nati in questa terra
fortunata: vediamo da oggi come stranieri e nemici delle nostre prerogative
tutti coloro che non sono americani”.
Nel 1811 diceva il cileno Juan Egaña:
Siamo uniti da vincoli di sangue, lingua, rapporti, leggi, costumi e religione […] Ci sembra che manchi solo che
la voce autorizzata dal consenso generale di un qualsiasi popolo dell’America faccia appello agli altri, in modo solenne e chiaro. E chi impedirà questo
Congresso? (citato in Ardao, 1997b,
7).
Sempre nel 1810, a Buenos Aires, Mariano Moreno riaffermava la fratellanza e la solidarietà rivoluzionaria ispanoamericana, che si doveva spingere a
“soffiare sul fuoco della ribellione del
Brasile contro la dominazione portoghese”.
[…]
In Uruguay, allora detto Banda Oriental, José Artigas esaltava nel 1811 la
patria continentale, anche se non entrava nel tema del Congresso Generale
e ancor meno in quello del governo
unico. Nel 1812 manifestava la volontà di estendere i trionfi delle sue
armi “fino a portarli in tutto il nostro
continente”. Nel 1813, la sua coscienza
continentalista si sarebbe manifestata
così: “La libertà dell’America costituisce il mio sistema, e stabilirla (è) il mio
unico anelito”.
17
[…]
Le idee di unità latinoamericana fecero la loro comparsa anche in Brasile.
I patrioti di Pernambuco, che capeggiarono la rivolta del 1817 contro
l’imperatore, aspettavano l’ingresso di
Bolívar in Brasile affinché collaborasse
al rovesciamento dell’impero portoghese e la proclamazione della Repubblica. D’altro canto, insieme a Bolívar
e con un ruolo da protagonista, lottò
poi Abreu Lima, figlio del martire di
Recife.
[…]
Nel 1823, O’ Higgins chiamò Bolívar
“l’Anfizione d’America”. Era fiducioso
che potesse realizzare la CONFEDERAZIONE degli stati americani, “che è
ancora un sogno per l’Europa”.
Nell’America Centrale si distinse José
18
Cecilio del Valle. Questo honduregno
invitava nel 1822 a tenere un congresso ispanoamericano, affinché nessuna
provincia dell’America “sia presa da
invasori esterni, né vittima di divisioni
intestine”.
[…]
Juan Nepomuceno Troncoso, anche
lui centroamericano, formulò un progetto di confederazione continentale,
con punti concreti “come la fondazione di una banca nazionale, un fondo di
previdenza dei contadini e l’apertura
del canale di Panama”. L’unità centroamericana riuscì a concretizzarsi per alcuni anni quando Francisco Morazán
riunì con successo cinque stati durante
gli anni Trenta.
[…]
SAN MARTÍN: “UN
GOVERNO GENERALE
DI TUTTA L’AMERICA
UNITA”
J
osé San Martín merita senza dubbio un posto di primo ordine nel
pensiero e nella prassi di liberazione e unità latinoamericane.
Dopo una paziente preparazione a
Mendoza durante il 1816 e simultaneamente alle spedizioni di Bolívar
da Haiti per riconquistare il Venezuela, San Martín intraprendeva nel
1817 la traversata delle Ande, che lo
avrebbe portato prima a trionfare in
Cile (1818), poi in Perù (1821) e infine all’incontro personale con Bolívar
nella storica intervista di Guayaquil
(1821).
[…]
Da parte sua il Direttore Juan Martín
de Pueyrredón, a capo del governo di
Buenos Aires […] diresse una lettera
a Bolívar nella quale esprimeva la volontà di unificare gli sforzi nella stessa causa di liberazione e unione delle
nazioni americane. Nel Proclama agli
abitanti della Tierra Firme sostiene che
“arriverà il giorno in cui, conte d’allori,
si uniranno le nostre armi trionfanti”.
[…]
San Martín contò anche sulla importante collaborazione di O’ Higgins e
di Manuel Rodríguez nella cosiddetta
Guerra di Zapa. Con essa si intendeva
minare il morale dell’esercito spagnolo
in Cile, in una guerra di guerriglia che
ebbe l’appoggio dei contadini, di buona parte del popolo e degli artigiani di
Santiago […]
Il 26 maggio del 1821, in una lettera a
Bolívar da una Lima fresca d’indipendenza, scrisse San Martín:
Difensori di una stessa patria, consacrati a una stessa causa e uniformi
nei nostri sentimenti per la libertà del
Nuovo Mondo, spetta a Vostra Eccellenza il merito del fatto che i soldati
della Repubblica di Colombia si adoperino contro il potere tirannico della
Spagna in qualsiasi parte del continente in cui siano afflitti i figli dell’America (citato in Ardao, 1998b, 9)
La vittoria di San Martín a Lima accelerò l’insurrezione creola di Guayaquil e del nord del Perù. A Lima pose
la questione della liberazione degli
schiavi e si affinò il suo progetto di una
monarchia costituzionale in America
Latina. Forse quest’ultimo aspetto fu
una differenza importante rispetto a
Bolívar nell’intervista a Guayaquil, il
27 luglio del 1822, in cui trionfa l’idea
repubblicana di quest’ultimo.
[…]
BOLÍVAR: “UNA SOLA
DEVE ESSERE LA
PATRIA DI TUTTI GLI
AMERICANI”
D
istingue Bolívar dal resto
delle figure dell’indipendenza il fatto di essere un
grande scrittore, oltre che
un grande statista, pensatore e militare di rilievo. Uno dei suoi più grandi
meriti consiste nell’aver coniugato la
chiarezza concettuale e dottrinaria con
una visione strategica (non tatticista
o di corto respiro) basata su principi
progressisti di organizzazione politica
e democratica, ancorati al contempo
a un forte realismo politico (che ci fa
respingere per lui l’etichetta di utopista), con cui si adattava ai momenti e
alle sfide del processo indipendentista.
Condivise una visione americanista
con grandi dirigenti come San Martín
e Sucre, Artigas e O’Higgins. Per questo si definirono il bolivariani futuri
rivoluzionari come Francisco Bilbao,
José Martí, Fidel Castro e Che Guevara, così come l’attuale rivoluzione del
Venezuela.
[…]
Da molto presto Bolívar si ispira alla
concezione “magno-colombista” di
Miranda e altri precursori. Già nel
1810 affermava da Londra: “Nemmeno tralasceranno [i venezuelani] di invitare tutti i popoli d’America a unirsi
in una confederazione. Tali popoli, già
preparati per questo progetto, seguiranno svelti l’esempio di Caracas”. Nel
1811 disse al riguardo: “Posiamo senza timore la pietra fondamentale della
libertà sudamericana: vacillare vuol
dire perderci”. Mentre nel 1814 affermò chiaramente: “per noi la patria è
l’America”.
[…]
Bolívar non pretendeva la costituzione di un solo stato nazione in America
Latina. La sua proposta girò intorno
all’idea di una confederazione che
raggruppasse gli stati esistenti, in base
comunque all’esistenza di una patria
grande o nazione americana, che permettesse anche di avere un governo
unificato.
[…]
Dopo quel periodo, si riprende il progetto rivoluzionario e americanista, a
partire soprattutto dalla traiettoria liberatrice di San Martín nel Sud e del
contatto più fluido fra i due grandi governi rivoluzionari ispanoamericani.
Nella sua risposta, nel 1818, alla già
menzionata lettera di Pueyrredón, il
Libertador afferma nel 1818: “Una sola
deve essere la patria di tutti gli americani, poiché in tutto dobbiamo avere
una perfetta unità”. Torna all’idea della
confederazione, nel promuovere il patto americano che, formando di tutte le
nostre repubbliche un corpo politico,
presenti l’America al mondo con un
aspetto di maestà e grandezza senza
pari fra le antiche nazioni. L’America
così unita, se il cielo ci concede questo desiderio, potrà chiamarsi la regina
delle nazioni e la madre della repubbliche.
In questa epoca il progetto bolivariano
acquista un chiaro carattere sociale. Su
questo influì in modo decisivo l’esilio
di Bolívar, la rielaborazione di alcune delle sue concezioni e strategie e il
soggiorno ad Haiti, prima repubblica
indipendente di ex schiavi […]
Nel 1816 e 1817, sul suolo patrio,
Bolívar dichiarò la liberazione degli
schiavi, e abolì tutte le forme di servitù
a Guayaquil e Quito (1820). Attuò il
regime salariale, dopo la liberazione di
queste regioni, fortemente marcate da
rapporti di produzione servili.
[…]
Nelle istruzioni ai suoi delegati diplomatici, nell’ottobre del 1821, Bolívar
promosse “la formazione di una lega
19
veramente americana” che superasse i
principi della mera difesa militare comune. “È necessario che la nostra sia
una società di nazioni affratellate, separate per ora e nell’esercizio della loro
sovranità dal corso degli eventi umani,
ma unite, forti e potenti per sostenersi
a vicenda contro le aggressioni del potere straniero”.
[…]
Nel 1822, rivendicando la nazione delle repubbliche, dice ai capi di Stato rivoluzionari:
il grande giorno dell’America non è
arrivato. Abbiamo cacciato i nostri oppressori, rotto le tavole delle loro leggi
tiranniche e fondato istituzioni legittime: ma dobbiamo ancora porre le basi
del patto sociale che deve formare a
partire da questo mondo una Nazione
di Repubbliche […] Chi resisterà all’America unita in un solo cuore, sottomessa a una sola legge e guidata dalla
torcia della libertà?
Prima della dominazione portoghese Bolívar, sollecitato da Alvear, si
impegnò a lottare contro i propositi
espansionisti dell’imperatore Pedro
I del Brasile. Quello conosceva già il
suddetto espansionismo, da quando
le truppe brasiliane occuparono la
provincia di Chiquitos, nell’Alto Perù.
Ma non poté concretizzare le sue aspirazioni: né la Colombia né il Perù gli
diedero il via libera per marciare verso
il sud. Tuttavia, la cosa fondamentale
fu la sua decisione di arrivare in Argentina per collaborare alla lotta contro l’imperatore Pedro I, che aveva già
preso possesso della Banda Oriental,
sotto il nome di Provincia Cisplatina,
da vari anni. La solidarietà di Bolívar
si estese anche ai leader del movimento libertario clandestino a Cuba e Porto Rico.
Traduzione di Pier Paolo Palermo
*Storico colombiano
20
AMERICA LATINA E
LATINOAMERICANISMO
di Alejandro Casas
America Latina è la denominazione proposta dal cileno Francisco
Bilbao nel 1856 e poi, nel 1865, dal colombiano José María Torres
Caicedo, per riferirsi al nostro subcontinente (compresi il Brasile e
i Caraibi). Questa nozione si è imposta fino ai nostri giorni e ha ottenuto un importante consenso, insieme a quella di Nostra America,
di José Martí.
Sono esistite e perdurano altre denominazioni più restrittive sul piano concettuale o nella loro portata, come quelle di Colombia, (nella
versione del precursore Francisco de Miranda), Ispanoamerica, Iberoamerica e Indoamerica, fra le altre.
Il latinoamericanismo presenta due grandi accezioni: una più militante e l’altra più accademica. La prima è legata alla lotta per il riconoscimento e l’affermazione dell’entità storica dell’America Latina, in
diverse forme: quella di comunità, quella di integrazione e quella di
unione delle sue repubbliche o nazioni, nella sfera culturale, economica e politica. La seconda mirerebbe allo studio sistematico delle
questioni concernenti l’America Latina. Il primo concetto emerge già
a partire dai precursori latinoamericanisti delle rivoluzioni indipendentiste contro la Spagna e il Portogallo. Il secondo comincia a svilupparsi organicamente a partire dagli anni Quaranta del secolo XX,
con il movimento della Storia delle Idee, che confluisce nel latinoamericanismo militante vincolato all’dea di unità continentale.
Ad ogni modo, non dobbiamo adottare una distinzione rigida. Si
tratta di due dimensioni di uno stesso processo sociostorico. Il latinoamericanismo, nelle sue diverse espressioni, come quella dello
stesso Bolívar e quella di Martí, per nominarne solo due, fondamentali nel secolo XIX, è difficilmente scindibile in una versione militante
ed una più propriamente riflessiva. La prima versione apporta diversi
dei fondamenti politici e ideologici per la formulazione di un pensiero propriamente latinoamericanista. In questo senso, vale la pena di
riprendere l’importanza del pensiero di José Martí e il suo carattere
fondante di una tradizione di riflessione e pensiero, che lo rende il
primo pensatore moderno dell’America Latina.
Trad. P.P.P.
Bolívar e Chávez: due epoche,
due giganti, un progetto
di Luís René Velázquez*
I
l 28 luglio di quest’anno in uno degli atti commemorativi per il 60° anniversario della nascita dell’ex Presidente Hugo Chávez, il Presidente della República Bolivariana del Venezuela Nicolás Maduro ha affermato:
«A volte mi chiedo: perché Dio ce l’ha portato via così
presto? Ce l’ha sottratto quando il mondo ne aveva più
bisogno. Ma la Storia ha dimostrato che i profeti quasi sempre muoiono giovani. Vengono e accendono la
luce che illumina il cammino dei popoli affinché questi continuino sul cammino da loro tracciato».
Il Presidente Maduro si riferiva alla precoce scomparsa del
Libertador Simón Bolívar a 47 anni e a quella del Presidente
Chávez prima di compiere i 59. Le vite di questi due predecessori si sono spente dopo aver sofferto penose malattie.
I due hanno compiuto ineguagliabili missioni storiche e
considerarono che se ne sarebbero andati senza aver consolidato il grande progetto della creazione della Patria grande
latinoamericana e caraibica costituita da nazioni pienamente indipendenti, sovrane e completamente integrate nonché
fondate sui valori della fratellanza, della pace, della cooperazione, della solidarietà, del rispetto, e sul rifiuto di ogni
forma imperialista e colonialista.
Bolívar, nel 1819, dopo il fallimento della I e della II Repubblica e dopo aver stabilito le basi dell’unità grancolombiana,
nel suo celebre discorso di Angostura del 15 febbraio dello
stesso anno, aveva affermato:
«Nel mezzo di questo mare di angosce non sono stato
nulla più che un semplice giocattolo dell’uragano rivoluzionario che mi travolgeva come una debole paglia.»
Il 13 gennaio del 2011, 192 anni dopo, il Presidente Chávez nel suo ultimo discorso di fronte alla sovrana Asamblea
Nacional disse:
«Siamo obbligati a consolidare in questa terra latinoamericana e caraibica un mondo di pace, e dare l’esempio a questo mondo di guerre, di miserie, di invasioni
e di violenze, di come si costruisce un mondo in democrazia.»
Entrambi erano coscienti delle avversità che si presenta-
21
vano nella loro epoca e accetarono la sfida di mettersi alla
testa della lotta di classe provocata dalla Storia e riflessa nel
vortice dello scontro tra forze politiche e sociali che tentano di rendere possibili i cambiamenti reclamati dai popoli,
e quelle che oppongono una feroce resistenza difendendo
modelli politici e strutture socioeconomiche già decadute
nel loro momento.
Per stabilire la relazione di continuità dell’opera che hanno
intrapreso i nostri due personaggi bisogna tenere presente
il contesto storico nel quale sono nati e vissuti da giovani ognuno di loro. Cominceremo identificando la diversa
estrazione di classe che li contraddistinguevano.
Bolívar nasce il 24 luglio del 1783 in una delle famiglie più
ricche e agiate della società coloniale caraqueña. Egli, quindi, godeva di tutti i privilegi della nobiltà criolla. Era figlio
di proprietari terrieri, padrone di schiavi, era stato formato nelle milizie del Re Fernando VII, ebbe l’opportunità di
viaggiare e conoscere l’Europa, fu suo ospite e conobbe il
lusso nel quale viveva il monarca. Perse i suoi genitori in età
precoce ma ricevette un’educazione moderna grazie a personalità di riconosciuto spessore intellettuale come Andrés
Bello, Simón Rodríguez, il padre Andújar, Miguel José Sanz
e intrattenne lunghe conversazioni con il barone Alejandro
Humboldt ed il Marchese Ustáriz, tra gli altri. Apparantemente non aveva ragioni per lottare contro un sistema che
favoriva tutti gli interessi della classe sociale al quale apparteneva.
Nella seconda metà del XVIII secolo, il sistema coloniale feudale e schiavista costituito dalla Spagna e dalle altre
potenze in America mostrava indicatori di esaurimento
che si riflettevano nelle numerose ribellioni e rivolte sociali
contro l’inumano trattamento che i propietari terrieri e le
autorità coloniali riservavano alle comunità schiave e i contadini come: La Ribellione di Andresote tra il 1730 e il 1733;
La Ribellione di San Felipe dal 4 al 16 genaio del 1741; la
Ribellione di El Tocuyo del 11 maggio 1744 e la Ribellione
dei Comuneros di Mérida nel Maggio del 1781. È, però, la
colonia francese di Haití, la prima nel dichiarare la sua indipendenza nel 1791. Quattro anni dopo, nel 1795 si produce
la rivolta di José Leonardo Chirino nella Provincia di Coro,
domini della Capitanía General del Venezuela, a seguito
della Cospirazione ordita da Picornell, Gual e España nel
1797.
Questi elementi indicano che in diversi settori della società
coloniale albergava lo spirito dell’indipendenza e che era
venuta meno la paura della tirannia coloniale. Questa storia recente è conosciuta e valutata criticamente dal giovane
Simón e presto comincia a prendere forma in lui il suo spirito combattivo contro il sistema oppressore attuato dalla
Spagna con i suoi propri antenati familiari. Di conseguenza,
di fronte alle invasioni di Miranda nelle terre del Venezuela
nel 1806, di Napoleone in España, con la conseguente abdicazione di Fernando VII nel 1808, a soli 22 anni e dopo aver
perso molto precocemente sua moglie, il 15 aogsto 1805, in
presenza del suo più influente maestro Simón Rodríguez, il
22
giovane Simón realizza il suo celebre Giuramento di Monte
Sacro, (Roma, Italia) nel quale dichiara:
«Giuro davanti a voi, giuro per il Dio dei miei
padri, giuro per loro, giuro per il mio onore e giuro per la mia patria, che non darò riposo al mio braccio, né riposo alla mia anima,
fino a quando non avrò rotto le catene che ci opprimono
per volontà del potere spagnolo!»
Diversa è la provenienza sociale di Chávez che è figlio di
una famiglia contadina, il cui più grande privilegio risiede
nel fatto che i suoi genitori sono maestri rurali e le loro più
importanti virtù: l’umiltà e l’amore per il lavoro. Ma così
come per Bolívar, la nascita del bambino Hugo Rafael, avviene in un monento di grandi cambiamenti e scontri che
hanno lo stesso impatto in America.
Nel mezzo di un susseguirsi di avvenimenti politici internazionali le cui circostanze aiutano l’avanzamento del socialismo conquistando spazi al capitalismo, inizia la vita
del bambino Hugo Rafael. Si può affermare senza alcun
dubbio, che così come i rivoluzionari borghesi di USA e
Francia ispirarono i settori politici e sociali delle colonie
europee dell’America per scontrarsi con il modello coloniale feudale e schiavista avvenuto alla fine del XV secolo
e che ebbe come effetto nel XIX la fondazione di repubbliche oligarchiche dipendenti dal neocolonialismo europeo, nonostante gli USA emergessero come potenza egemonica nella regione all’inizio del XX secolo, imponendo
alle nostre nazioni deboli, terribili dittature militari per
la maggior parte di quel secolo, le rivoluzioni socialiste
saranno il nuovo riferimento per la continuazione della lotta per l’emancipazione dei popoli latinoamericani.
Giovane studioso critico della Storia, il leader inquieto e
con alta sensibilità sociale, fin dall’infanzia, non dovrebbe
sorprendere il suo allinearsi con le cause e le lotte dei popoli
oppressi della sua Patria, e il dichiarare la sua simpatia per
le rivoluzioni socialiste del mondo e dei governi progressisti
in America latina. Il giovane Capitano Chávez è convinto
di essere utile ad uno Stato dominato dalle elites politiche
ed economiche prostrate agli interessi del capitale transnazionale. SI riafferma che… l’indipendenza, secondo El Libertador… unico bene conquistato a spese di tutti gli altri
dalla guerra contro la Spagna era stata tradita in tutte le sue
dimensioni. Lo rinforza lo spirito e la determinazione a impegnarsi completamente per il riscatto della dignità e della
sovranità del suo popolo che tanto sangue aveva versato per
conquistare una Patria libera e per superare le miserevoli
condizioni di vita che ha subito per 500 anni.
La realtà complessa svelata nella coscienza di Hugo Chávez
come tragica e immeritata per il nostro popolo, è paragonabile alle situazioni in cui si è trovato Bolívar trasformatesi
nel mare di angosce e con la stessa intensità anche lui si
è visto trasformato in un semplice giocattolo dall’uragano rivoluzionario. Indignato altresì dai governi della conciliazione di cui furono protagonisti i governi del Pacto di
Punto Fijo che misero la sovranità e le
richezze nazionali nelle mani dei capitali straieri, il Capitano Chávez convoca e motiva un gruppo di giovani
compagni ufficiali con la sua abituale
uniforme di campagna a riprendere
l’impegno del giramento di Bolívar nel
Monte Sacro nel 1805. La Storia lo narra in questo modo:
«Giuro per il Dio dei miei genitori,
giuro per la mia Patria, Giuro per il
mio Onore, che non darò tranquillità
alla mia anima, né riposo al mio braccio, finché non vedrò rotte le catene
che opprimono il mio popolo per volontà dei potenti.
Elezioni Popolari, terre e uomini liberi. Orrore all’Oligarchia».
Giuramento del Samán de Güere, Maracay, 17-12-1982
Come si può vedere, la differenza delle origini di classe non
è di alcun ostacolo per il giovane capitano dell’Esercito a
che si allinei con la stessa missione storica del Libertador
Simón Bolívar che non fu altro che quella di: «consolidare
in questa terra latinoamericana e caraibica un mondo di
pace, e dare l’esempio in questo mondo di guerre, di miserie, di violenze e di invasioni, di come si costruisce un
nuovo mondo in democrazia.»
Bolívar non ha sacrificato la sua vita solo per liberare i nostri popoli dalla dominazione politica spagnola e fondare
alcune repubbliche borghesi, la sua visione andava oltre.
Nel 1816 decretó in Carúpano, Stato Sucre, la libertà degli
schiavi che si aggregarono alla causa patriottica. Tale giusta
misura la propone nuovamente nel suo celebre Discorso di
Angostura nel quale inoltre segnala per orientare il parlamento nella redazione della Costituzione della nuova Repubblica:
«Il sistema di Governo più avanzato, è quello che
produce la più alta quantità di felicità possibile,
la più alta quantità di sicurezza sociale e la più alta
quantità di stabilità politica.»
Angostura, 15 febbraio 1819
Basandosi su questo documento, Chávez suggeriva che si
sarebbe dovuto interpretare e considerare Bolívar come
uno dei precursori del socialismo, solo che gli intrighi delle
oligarchie e l’ingerenza diplomatica degli USA, nelle nascenti repubbliche sabotarono la grande opera liberatrice,
antischiavista, umanista, integrazionista e antimperialista
del genio d’America. Tanto acuta è stata la sua profetica visione che nel 1829 in una lettera di un colonnello amico,
dichiara:
«Gli USA sembrano destinati dalla Provvidenza a
appestare l’America di miseria in nome della libertà.»
Lettera al Coonello PATRICIO CAMPBELL, Guayaquil, 5
agosto 1829
Nei giorni successivi, disilluso dalla miseria dei suoi ne-
mici, per la disintegrazione dell’unità della sua amata Colombia, totalmente esautorato dal potere politico-militare
che arrivò a detenere e frustrato da una penosa malattia,
nel suo ultimo proclama enunciato pochi giorni prima della
sua morte, Bolívar afferma:
«Colombiani! I miei ultimi voti sono per la felicità della mia Patria. Se la mia morte contribuirà a che cessino
i partiti e a che si consolidi l’Unione, potrò scendere
tranquillamente nel sepolcro.»
Santa Marta, Colombia 10 dicembre 1830.
Nel caso di Chávez, la sua intensa attività politica comincia
dopo il suo giuramento presso il Samán de Güere quando
crea dalla clandestinità, con un gruppo di ufficiali dell’Esercito: il Movimento Bolivariano 200 (MBR-200). Con
questa piattaforma politico-militare inizia ad eleborare il
suo piano per la presa del potere. L’esaurimento del modello
capitalista imposto dall’impero yankee con il Patto di Punto
Fijo già indebolito, entra in crisi con l’esplosione sociale del
27 febbraio 1989 che avviene in conseguenza dell’applicazione del pacchetto di misure neoliberali imposto dal FMI
e dalla Banca Mondiale all’inizio del secondo mandato di
Carlos Andrés Pérez (CAP) e che passa alla Storia come El
Caracazo. Il popolo indignato per le misure economiche
abusive si riversò spontaneamente nelle strade a reclamare
con la forza i beni primari e gli alimenti per la sua sussistenza. Questa rivolta fu selvaggiamente repressa dalle forze
militari dello Stato borghese con un saldo di oltre 5 mila
morti, uomini e donne disarmati, ma accellerò e fu di motivo per l’insurrezione del MBR-200 guidato da Hugo Chávez
il 4 febbraio del 1992. È la prima apparizione pubblica del
personaggio che cambierà la direzione storica, non solo del
Venezuela ma della grande regione latinoamericana e caraibica.
La ribellione fallisce e i protagonisti furono arrestati, ma il
volto del leader del movimento con il suo breve intervento
nei media nel quale pronunciòil fatidico por ahora, accesero la fiamma della speranza dei settori opporessi e tante
volte traditi nella storia patria. Tanto profonda era la crisi in
seno alle Forze Armate del puntofijismo che il 27 novembre
dello stesso anno si produce anche la ribellione di un im-
23
portante numero di ufficiali della Fuerza Aérea Venezolana, che ugualmente è controllata dagli stessi fattori militati
e politici favorevoli al governo di Carlos Andrés Pérez, il
quale in seguito la Contraloría de la República e il Congreso
Nacional viene messo sotto inchiesta per fatti di corruzione; finisce per essere destituito dalla presidenza e la Corte
Suprema di Giustizia lo condanna agli arresti domiciliari. Il
periodo costituzionale dovette essere concluso dal Dottor
Ramón J. Velásquez.
Per il successivo periodo costituzionale (1994-1998) è eletto presidente, ormai svincolato dal Patto di Punto Fijo per
la seconda volta Rafael Caldera. Questi decreta l’indulto e
concede la libertà a tutti quelli che permangono presi per
gli eventi insurrezionali del 1992.
Chávez comincia a girare tutto il paese e decide di partecipare alla presa del potere nell’ambito delle regole del sistema puntofijista e per questo crea il Movimiento V República
e la sua principale offerta elettorale era stimolare un processo constituente per rifondare le basi della Repubblica. Tale
progetto denominato Revolución Bolivariana ottine il suo
primo sostegno popolare vincendo le elezioni del dicembre
del 1998.
Al momento dell’investitura in quanto Presidente all’inizio
del 1999, senza alcuna titubanza sollecita la Corte Suprema
di Giustizia a che attivi un meccanismo per convocare un
referendum e realizzato questo, conformemente a quanto
stabilito dalla legge, il popolo elegge la prima Assemblea
Nazionale costituente della storia venezuelana.
Ciò che avviene successivamente è un susseguirsi di trionfi caratterizzati dal sostegno popolare. Allo stesso modo,
però, della cariera politica di Bolívar, le forze reazionarie
24
interne ed esterne non smettono di contrastare i cambiamenti stimolati da Chávez e si uniscono nella cosidetta Coordinadora Democrática, organizzazione che attivia tutti i
meccanismi di cospirazione e destabilizzione con l’aperto
sostegno del governo USA per abbattere il potere legittimo
determinato dal popolo tramite elezioni liberee riconsciute
nazionalmente e internazionalmente. Chávez è poi relegittimato successivamente dall’approvazione della Constituzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela.
Il 5 marzo del 2013 avviene la sua morte per la quale non
potrà esercitare il suo terzo mandato di governo dei successivi sei anni. Ma a differenza della sorte della opera iniziata dal suo ammirato Libertador de América, la sua non è
stata tradita e la rivoluzione bolivariana-chavista continua
affrontando e vincendo tutte le minacce e gli attacchi che
naturalmente continueranno da parte dei nemici storici
del socialismo. E come sostiene il Presidente Nicolás Maduro, nella citazione dell’inizio di questo articolo, Chávez e
Bolívar morirono molto giovani ma la loro colossale opera,
che in entrambi casi rimane inconclusa, lascia nelle diverse
epoche storiche il cammino aperto e fertile per i popoli che
continueranno questa opera emancipatrice e integrazionalista imprescindibile per la costruzione del pieno stato di
sovranità, di giustizia ed uguaglianza per le grandi maggioranze storicamente dimenticate.
Traduzione di Ciro Brescia
*Docente (Universidad Bolivariana de Venezuela)
LEI
Tu eri la libertà,
liberatrice innamorata.
Doni e dubbi portavi,
irriverente adorata.
Era spaventato il gufo nell’ombra
finché la tua chioma passò.
E rischiararono le tegole,
gli ombrelli si illuminarono.
Cambiarono veste le case.
L’inverno si fece trasparente.
Era Manuelita che attraversò
le strade stanche di Lima,
la notte di Bogotá,
l’oscurità di Guayaquil,
l’abito nero di Caracas.
E da allora è giorno.
(da Pablo Neruda, L’insepolta di Paita)
Manuela Sáenz,
la Colonnella d’America
di Marnoglia Hernández Groeneveledt
A
Quito, nella seconda decade dell’Ottocento, vive una
donna dal carattere di fuoco, di grande impeto, fedele alla causa di liberazione dei popoli
della Nostra America. Una donna che
ha destato sia odio che amore. La sua
tempra e la sua intuizione la trasformano in nemica dei nemici del Liberatore Simón Bolívar. La società dell’epoca non le ha mai perdonato la sua
irriverenza verso i costumi del tempo,
la sua libertà di decidere come donna
e soprattutto la sua lealtà verso Bolívar,
sommergendola di calunnie incessantemente, fino ai secoli successivi. Questa donna è Manuela Sáenz Aizpuru,
la Colonnella dell’Esercito Liberatore.
Manuela nasce nella città ecuadoriana
il 27 dicembre 1797, da Simón Sáenz
e María Joaquina de Aizpuru. Dopo
la morte di sua madre viene portata
in convento e, successivamente, per
terminare gli studi entra in monastero
(Santa Caterina da Siena). All’età di 19
anni, per mettere a tacere le voci sulla
sua indole ribelle, contrae matrimonio
con il medico inglese James Thorne a
Lima, allora capitale del Vicereame.
Nella società limegna stringe amicizia
con Rosita Campusano, che la invita
alle riunioni di patrioti che si tenevano in casa sua, e si avvicina alla causa
patriottica di San Martín. La Manuela
cospiratrice svolge diversi incarichi di
spionaggio e ottiene che il battaglione
realista Numancia si unisca alla causa
patriottica: questo e altri episodi persuadono lo stesso San Martín a decorarla nel 1821 con l’ordine “Cavalleresco del Sole”, come altre 111 donne
impegnate nella causa dell’Indipendenza del Perù.
Manuela, consapevole dell’infedeltà di
suo marito e della campagna di liberazione che si ordiva a Quito, decide
di abbandonare suo marito per unirsi
a suo fratello e tornare alla sua città
natale per proseguire la sua lotta patriottica. Arrivata alla città ecuadoriana, Manuela comincia a lavorare alla
causa libertaria con l’invio di mule da
trasporto al battaglione colombiano di
Paya del generale Sucre, e nell’attività
25
di spionaggio della pattuglia militare
spagnola a Quito. Dopo la Battaglia di
Pichincha, Manuela diventa Tenente.
Nel 1822 Manuela conosce Simón alla
sua entrata trionfale a Quito: l’aneddoto sul primo contatto tra i due patrioti
vuole che durante l’accoglienza a Bolívar Manuela avesse lanciato una corona
di alloro al cavallo del Libertador, e che
questa fosse finita accidentalmente sul
petto di Bolívar, che immediatamente
avrebbe scorto l’autrice di tale gesto.
Qualche ora dopo, durante il ballo di
ricevimento, Bolívar, facendo sfoggio
della sua galanteria, lusinga Manuela:
parabili. Sáenz era una donna sposata,
ma nonostante le insistenti richieste di
suo marito per riaverla al suo fianco,
la combattente non cede; la sua decisione era già presa: decretava la fine
del matrimonio con Thorne e l’unione a Bolívar e alla causa patriottica nel
campo di battaglia.
Nei mesi che precedono il tradimento
a Bolívar, la società bogotana odiava
Manuela. I nemici di Bolívar tentano
di denigrarla in più di un’occasione,
fino a richiedere di portarle via il titolo di Colonnella, per il fatto di essere
donna. Manuela subisce le conseguen-
di custodire gli archivi del Libertador,
impegno cui tiene fede fino all’ultimo
momento della sua vita. Svolge anche
attività di pattugliamento per la sicurezza di Bolívar, e infatti in due occasioni gli salva la vita: una volta durante
un ballo in maschera, e poi di nuovo
nel 1827, quando Sáenz mette in salvo
Bolívar da un attentato ordito dai suoi
nemici, affrontando dodici cospiratori
mentre Simón fuggiva dalla finestra
della sua camera. Di qui l’epiteto di
Libertadora del Libertador. Manuela è
stata una donna combattente, disposta
a dare la vita per Bolívar e per la rivoluzione patriottica, un’eroina che ha
sacrificato tutto per la Patria Grande.
«Mia Capitana —mi disse un indio—,
grazie a lei la Patria è salva». Lo guardai e vidi un uomo con la camicia
sgualcita, insanguinata. Ciò che restava
dei suoi pantaloni gli arrivava ai ginocchi sporchi. I suoi piedi avevano il grosso callo di quegli uomini che non ebbero
neppure la possibilità di usare le alpargatas1. Ma era un uomo felice perché
era libero. Non sarebbe più stato uno
schiavo (da M. Sáenz, Diario de Paita).
Gli porsi le mie scuse per quanto accaduto la mattina e lui mi rispose dicendomi: «Mia cara signora, ma sei lei è
la bella dama che ha incendiato il mio
cuore toccandomi il petto con la sua
corona! Se tutti i miei soldati avessero
questa mira, avrei vinto tutte le battaglie». Mi vergognai un po’, cosa che S.E.
notò all’istante e, scusandosi, mi prese
per mano invitandomi a ballare una
contraddanza (da M. Sáenz, Diario de
Quito).
Senza curarsi delle accuse di adulterio
rivoltegli, Simón e Manuela da quel
momento diventano compagni inse-
26
ze della sua avversione all’ordine stabilito, soffre come chi si oppone a coloro
che pretendono di decidere dell’altrui
destino.
Durante la sua partecipazione alla
campagna patriottica, Manuela non
solo si prende cura dei feriti in battaglia, ma vestita da ussaro cavalca al
comando di una truppa di patrioti,
battendosi anche a fuoco aperto contro il nemico nella Battaglia di Ayacucho insieme a Antonio José de Sucre.
Per questo il Maresciallo di Ayacucho
appoggia la sua promozione a Colonnella.
Al tempo stesso, Manuela è incaricata
Manuela non ha potuto essere vicina
a Bolívar nei suoi ultimi giorni: era a
Bogotá, impegnata nella cospirazione per portare al potere il Generale
Urdaneta (fedele alla causa bolivariana) dopo che i nemici di Bolívar
avevano assassinato il Maresciallo di
Ayacucho, presidente incaricato della
Colombia. Dopo la morte del Libertador, gli attacchi aumentano: Sáenz è
vilipesa, perseguitata, fatta prigioniera ed espulsa dalla Colombia e, non
potendo reggere tanto dolore, tenta
il suicidio. Esiliata in Giamaica, pianifica da lì il suo ritorno a Quito nel
1835 venendo immediatamente esiliata al porto peruviano di Paita. I suoi
beni vengono confiscati, così Manuela
si dedica al commercio di dolci e tabacco, al ricamo e al lavoro a maglia,
e alla traduzione di testi. Nel 1847, alla
morte del suo Thorne, Manuela rifiuta
1
Calzatura in fibra naturale, in
tela o cotone, con la suola in corda di iuta o
canapa, diffusa in Spagna e in America Latina.
l’eredità, pur vivendo immersa nella
povertà e nonostante le buone relazioni che manteneva con il defunto.
Presso la sua ultima dimora le fanno
visita diverse personalità, tra cui Herman Melville e Giuseppe Garibaldi.
Muore di difterite a 59 anni senza poter tornare a Quito, e avendo in custodia molti dei documenti del Libertador, che vengono inceneriti insieme a
lei, probabilmente secondo la pratica
utilizzata all’epoca per i defunti vittime del virus. Hanno voluto cancellare
Sáenz dalla storia, eliminando ogni indizio della sua esistenza, e limitando la
sua figura al solo ruolo di amante del
Libertador. Ma Manuela era una donna colta, che aveva letto Plutarco, Tacito, Cervantes, Garcilaso e Álvarez de
Cienfuegos. Una donna che già prima
di incontrare Bolívar era impegnata
nella causa patriottica, e non accettava
l’oppressione e la giustizia della società
dell’epoca; amava, invece, la libertà, e
per questo amò Bolívar. Manuela stessa era l’emanazione delle idee di libertà
e Independenza.
Il lascito di Sáenz è andato oltre le nuove generazioni e nel 2007 il presidente
Rafael Correa la proclama “Generalessa dell’Ecuador”. Manuela, la insepulta
de Paita, non solo salva il Libertador,
ma salva se stessa da una società spietata, rivendicando le donne rivoluzionarie d’America e sfidando gli schemi
della società borghese. Manuela col
suo coraggio, rivendica e fa insorgere
la lotta di donne umiliate, punite pubblicamente ed esiliate; Juana Azurduy,
Policarpa Salvatierra, Luisa Cáceres
de Arismendi, Luisa Arambide de Pacanis; Nanny dei cimarroni, Micaela
Bastidas, Josefa Camejo. Manuelita,
la Colonella, è stata e sarà il simbolo
delle donne valorose che hanno dato la
vita per la causa patriottica.
Traduzione di Emilia Saggiomo
JUANA AZURDUY,
EROINA TRA MITO E STORIA
Insieme a Manuela, c’è stata una seconda colonnella degli eserciti liberatori:
Juana Azurduy, eroina dell’Alto Perù (attuale Bolivia). Di padre spagnolo e
madre indigena, durante l’infanzia era in contatto con la cultura, i riti e le cerimonie dei popoli originari, parlava sia spagnolo che aymara. Dopo la morte dei suoi genitori entra in convento: qui forma gruppi clandestini e viene
espulsa dall’istituzione. In ambienti legati alla rivoluzione patriottica conosce il suo futuro marito Manuel Padilla, che nel 1809 si unisce alla resistenza
guerrigliera; Juana, nonostante le proibizioni imposte alle donne di prendere
parte a quei conflitti, nel 1813 è tra i rivoluzionari che occupano Potosí. Nel
mezzo della sommossa perde i suoi cinque figli a causa di malattie contratte
nella zona. Nel 1816 Juana e suo marito al comando di 6.000 indigeni conquistano la regione di Chuquisaca e Santa Cruz de la Sierra, azione che vale
a Don Manuel il titolo di Tenente Colonnello. Dopo il suo assassinio, Juana
continua a combattere finché non perde il sostegno dei combattenti. Muore
anziana e dimenticata da tutti. Ma gli indigeni la considerano l’incarnazione
della Pachamama (in lingua quechua, la mitica Madre Terra).
Trad. E.S.
DALLE LETTERE DI SIMÓN BOLÍVAR
A MANUELA SÁENZ
Senza data
Manuela, sei arrivata all’improvviso, come sempre. Sorridente. Familiare.
Dolce. Eri tu. Ti guardai. E la notte fu tua. Tutta. Le mie parole. I miei sorrisi.
Il vento che avevo respirato e che dai miei sospiri arrivava a te. Il tempo è stato
complice per il tempo che ho prolungato il discorso al Congresso per vederti
di fronte a me, senza muoverti, calma, mia…
Ho usato le parole più soavi e decise; ho indicato territori con problemi da
risolvere mentre la mia immaginazione percorreva te; i generali che applaudivano in piedi non hanno immaginato che stessi descrivendo la notte di martedì quando i nostri cavalli hanno galoppato insieme; che la descrizione delle
possibilità di superare il problema della guerra fosse la descrizione dei tuoi
baci. Che le risorse che sarebbero arrivate per comprare aratri e cannoni fossero il miele dei tuoi occhi che nascondevi per proteggere la mia stanca persona, come mi ripetevi per nascondere le lacrime del piacere che ti inondava.
Poi ho ascoltato la tua voce. Era la stessa. Ti ho dato la mano, e la tua pelle mi
ha percorso tutto quanto. Come... i minuti eterni che hanno arrestato le maree, il vento del nord, la rosa dei venti, il tintinnio di stelle sospese in giardini
segreti e l’arcobaleno che si vedeva fino a mezzanotte. Tutto questo sei stata,
avvolta nella tua uniforme dai distintivi dorati, la stessa con cui aggredisci la
ripugnanza di quanti ignorano come si costruisce la vita.
Domani si terrà un’altra riunione al Congresso. Ci sarai?
Trad. E.S.
27
DA ANACAONA A LA POLA
L’America latina
riscopre le sue eroine
Una rassegna sintetica per ricordare le protagoniste della
Resistenza indigena e dell’Indipendenza latinoamericana,
recuperate alla memoria storica grazie al revisionismo e agli studi
di genere indirizzati da nuove istanze politiche e culturali.
a cura di Emilia Saggiomo*
PIONIERE
DELLA RIVOLTA
Repubblica Dominicana. ANACAONA (1474 - 1503). È considerata
la prima eroina. Cacicca dei Taino,
nell’isola La Española, e moglie del
cacicco Caonabo, viene ricordata per
la sua arguzia e per il talento poetico.
Flor de Oro - questo il significato del
suo nome nella lingua taino - governa
Jaragua all’arrivo di Cristoforo Colombo nel 1492 e in un primo momento
è incuriosita dagli spagnoli; ma i loro
abusi sulle donne taino a Fuerte Navidad le fanno cambiare atteggiamento:
convince allora Caonabo a sterminarli.
Al suo ritorno sull’isola, il 28 novembre de 1493, Colombo trova la fortezza distrutta e i suoi 39 uomini uccisi.
Anni dopo Anacaona protesta contro
il governatore Nicolás de Ovando: la
cacicca viene catturata, condannata
28
alla forca e giustiziata nel 1503. Nasce
così l’eroismo in America.
Colombia. GAITANA (anni ‘30/‘40
del XVI secolo). Cacicca di Timaná,
nelle Ande colombiane, conosciuta
anche come Guaitipán, guida il suo
popolo contro i conquistadores spagnoli (1540 ca.). In quel tempo, vivevano nella regione gli indigeni Yalcón,
che contavano cinquemila guerrieri,
e i Timanaes, gli Avirama, i Pinao, i
Guanaca e i Paez. La Gaitana (così gli
spagnoli chiamavano la cacicca) mette insieme più di seimila indios, che
all’alba attaccano Pedro de Añazco e
i suoi 20 umonini: 16 vengono ammazzati, 3 fuggono, e Añazco cade in
mano dei suoi nemici. Gaitana gli fa
cavare gli occhi e lo esibisce portandolo con un cappio al collo di villaggio
in villaggio fino alla morte. Qui la resistenza indigena conta molti episodi
che portano alla caduta dei capitani
Ampudia e Añazco; finché gli spagnoli, tornati coi rinforzi, mettono gli
indigeni in schiacciante svantaggio e
fanno strage, fino all’estinzione di interi popoli: secondo fra Pedro Simón,
di quindicimila indigeni presenti a Timaná nel 1626, ne rimasero forse 600.
Venezuela. OROCOMAY (prima
metà del XVI secolo). Cacicca, esempio del potere delle donne in epoca
precolombiana: 5.000 indigeni delle
comunità lungo del fiume Unare obbediscono a lei. Gonzalo Fernández
de Oviedo riporta nel trattato Historia
general y natural de las Indias (1535):
«signori assoluti governano i loro Stati
e praticano l’arte della guerra, come la
regina Orocomay».
Perú. KURA OQLLO e MAMA
ASARPAY (anni ‘30 del XVI secolo),
tra le prime eroine. Entrambe lottano
e congiurano contro gli spagnoli in
epoca incaica, ed entrambe trovano la
morte (la prima a Cuzco, la seconda a
Lima) per ordine, rispettivamente, di
Hernando Pizarro e Francisco Pizarro.
Cile. GUACOLDA (metà del XVI secolo). Combatte al fianco di Lautaro
in difesa del territorio: l’espulsione
dell’invasore spagnolo era una missione condivisa da tutto il popolo mapuche, incluse le donne. L’esistenza reale
di Guacolda, e delle altre combattenti
Fresia, Tila e Caupolicán, è oggetto di
discussione: secondo alcuni storici,
Guacolda sarebbe un mito nato dal
personaggio letterario dell’autore spagnolo Alonso de Ercilla y Zúñiga nel
suo poema epico La Araucana.
PERÙ, NEL SEGNO
DI TÚPAC AMARU
E SAN MARTÍN
ANA DE TARMA nel 1742 comanda
un gruppo di 52 donne guerriere che
combattono contro l’esercito spagnolo
guidato da Benito Troncoso nelle battaglie di Río La Sal e Nijandaris, dove
le truppe realiste vengono sconfitte.
Per tredici anni tengono testa agli invasori. JUANA MORENO si ribella ai
soprusi degli encomenderos: si occupa
di approvvigionare di armi i suoi per
affrontare il tenente governatore generale don Domingo de la Cajiga, che nel
1777 arriva nel paesino di Llata per riscuotere tasse. La casa dove alloggiava
il capo dell’esercito viene circondata,
e fu proprio Juana Moreno a uccidere
il governatore. MARCELA CASTRO
(1781) accusata di aver partecipato
alla rivolta Tupacamarista a Marcapata e di non aver rivelato nulla agli
spagnoli quando interrogata, viene
giustiziata: del suo corpo viene dilaniato, la testa è collocata sul sentiero
che va a San Sebastián, un braccio a
Sicuani, l’altro al ponte di Orcos, una
gamba a Pampamarca, l’altra a Ocongate, e il resto del corpo viene bruciato
in piazza. CECILIA TÚPAC AMARU
(1781) supporta la ribellione occupandosi della fornitura di viveri e di
un fondo economico e prende parte
ai preparativi bellici di Cerro Piccho
con Túpac Amaru. Soffocata la rivolta, viene fatta prigioniera e condannata a duecento frustate per le strade di
Cuzco e all’esilio nel convento Las Recogidas in Messico. TOMASA TITO
CONDEMAYTA Cacicca di Acos e
Acomayo, nel Dipartimento di Cusco.
Combatte al fianco di Tupac Amaru
II nella rivoluzione del primer Grito e muore giustiziata dagli spagnoli
nel il 18 maggio 1781: il suo corpo
viene dilaniato e la sua testa esposta
nella piazza di Acos. MICAELA BASTIDAS PUYUCAHUA (Tamburco,
Abancay, 1744 - Cusco, 1781). Coraggiosa precorritrice dell’Independenza
ispanoamericana. Moglie e consigliera
di Túpac Amaru II, che nel 1780 inizia un movimento contro la dominazione spagnola: Micaela assume in
esso molteplici ruoli. Una legione di
combattenti andine, quechua e aymara collaborano con Micaela nella
sommossa. Sono a capo del movimento anche Cecilia Túpac Amaru
e Tomasa Tito Condemayta. Rimane
gloriosa la vittoria di Sangarará (18
novembre 1780), quando Micaela viene nominata vice comandante della
rivolta. Ma a causa di un grave errore
tattico, il contingente di Túpac Amaru
cade in un agguato realista: insieme a
lui, Micaela, i loro figli Hipólito (18
anni) e Fernando (10), e altri famigliari vengono catturati e portati a Cusco.
Condannati tutti alla pena capitale, il
18 maggio 1781 nella Plaza de Armas
di Cuzco vengono giustiziati uno a
uno con spaventosi strumenti di morte e sacrifici raccapriccianti. ROSA
CAMPUZANO (Guayaquil, Ecuador
1796 - Lima, Perù 1851). Detta “La
Protectora” perché amante del Generale José de San Martín esaltado come
Protector del Perú. Attivista affiliata
alla causa dell’Indipendenza del Perù.
Le sue capacità intellettuali, la posizione economica e le importanti relazioni
sociali da lei intessute le permettono
di sostenere San Martín nella lotta di
liberazione. LE EROINE TOLEDO
(marzo o aprile 1821). A Concepción
un episodio eroico nella storia dell’indipendenza del Perù si deve a queste
tre donne: una madre, Cleofé Ramos,
e le sue figlie María e Higinia Toledo.
Nella sierra centrale, le “Toledo” guidano un gruppo di abitanti di Concepción per bloccare il passaggio alle
truppe del generale realista Jerónimo
Valdés: demoliscono il ponte sul fiume
Mantaro, via d’entrata nel loro paese,
così l’avanzata di Valdés è ritardata e
le forze patriottiche si mettono in salvo. Il Protector José de San Martín le
insignisce della “Medaglia delle Vincitrici”.
IN BOLIVIA
Il 5 settembre si celebra in America
Latina la Giornata internazionale della donna indigena, istituita in Bolivia
nel 1983 in memoria di Bartolina Sisa.
Oggi molte comunità indigene, in particolare in Bolivia, Perù, Chile e Ar-
gentina, celebrano lei e le eroine della
Coronilla.
BARTOLINA SISA (Sullkawi del Ayllu, 1753 - La Paz, Vicereame del Perù,
1782). Eroina indigena aimara, viceregina e comandante con suo marito
il viceré aimara Túpac Katari (Julián
Apaza, 1750-1781). Nell’Alto Perù
(oggi Bolivia) Bartolina, a capo di
guerrieri indigeni, in battaglia l’esercito realista, è una protagonista della
resistenza contro gli spagnoli insieme
a sua cognata GREGORIA APAZA
(Ayo Ayo, 1751 - La Paz, 1782), eroina
e guerriera, sorella di Túpac Katari; poi
le due eroine aimara vengono catturate
e giustiziate: le membra mutilate sono
inviate in diversi luoghi e il resto del
corpo viene incenerito e dato al vento.
EROINE DELLA CORONILLA (27
maggio 1812). A Cochabamba, durante la guerra d’Indipendenza dell’Alto
Perù, valorose donne cochabambine,
guidate dalla non vedente Manuela
Gandarillas e da Manuela Rodríguez, lottano contro la corona spagnola sulla collina di San Sebastián, nella
Coronilla, dove i soldati realisti le sterminano tutte.
PATRIOTE
COLOMBIANE
MANUELA BELTRÁN (Santander,
Colombia, seconda metà del XVIII
secolo). Si sa poco di lei. Era “una
donna del popolo”, ma sapeva leggere
abbastanza da comprendere il testo
dell’editto sui nuovi tributi imposti
dal prefetto Juan Francisco Gutiérrez de Piñerez. Facendosi portavoce
dell’indignazione del popolo, Manuela
Beltrán al grido “Viva il Re e muoia il
malgoverno!” strappa l’editto il 16 de
marzo de 1781, divenendo con tale
gesto la prima donna ad affrontare il
regime spagnolo e prendendo parte
all’insurrezione dei Comuneros. Beltrán, come la Gaitana, fino a quell’epoca sono le donne che si ricordano per
il coraggio che le rese capaci di sfidare
per prime la corona spagnola. POLICARPA SALAVARRIETA DETTA
LA POLA (Guaduas, 1795 - Bogotá,
1817). Sarta e spia colombiana, opera
per conto delle forze rivoluzionarie.
29
Nel 1802 a Bogotá perde i genitori e
due fratelli in un’epidemia di vaiolo,
poi lavora come sarta a Guaduas; al
suo ritorno a Bogotá nel 1817 è già politicamente attiva. La Pola, non essendo nata nella capitale, può muoversi liberamente e incontrare altri patrioti e
spie senza destare sospetti; può anche
infiltrarsi tra i realisti offrendosi come
sarta alle mogli e alle figlie degli spagnoli: Policarpa entra nelle loro case
e ascolta le conversazioni, raccoglie
notizie sui loro piani, capisce i loro sospetti. Le sue operazioni segrete proseguono finché, scoperta e accusata di
aver trasportato armi, munizioni e rifornimenti ai rivoltosi, viene arrestata
con suo fratello Bibiano. Condannati a
morte per fucilazione, il 14 novembre
1817, Policarpa, il suo amante Alejo
Sabaraín e sei altri prigionieri vengono giustiziati. Salita sul patibolo, un
soldato le porge un bicchier d’acqua
e lei risponde: «Non berrò l’acqua di
un tiranno». La Pola muore in quella
che oggi è piazza Bolívar. Dal 1967, il
14 novembre è il “Giorno della donna
colombiana” in onore all’eroina. Sul
monumento del 1910 a lei dedicato,
a Bogotà, un epitaffio riporta un anagramma perfetto del suo nome (secondo la variante arcaica grecizzante): “Polycarpa Salavarrieta - Yace por
salvar la patria”. ANTONIA SANTOS
(Santander, 1782 - El Socorro, 1819).
È una delle eroine dell’Independenza
della Colombia. Si unisce alla causa di
Simón Bolívar e crea la «guerrilla de
Coromoro», la prima formatasi nella
provincia del Socorro per lottare contro l’invasione spagnola. Questo gruppo ha un ruolo importante nelle battaglie di Pantano de Vargas e Boyacá.
Tradita da uno dei suoi, Antonia Santos è arrestata e giustiziata (28 luglio
1819). Tra i suoi discendenti, Eduardo Santos e Juan Manuel Santos, presidenti della Colombia nel 1938 e nel
2010.
GIAMAICA
NANNY DEI CIMARRONI (Costa
d’Oro, Africa 1680 ca. – Giamaica,1750
ca.). Una madre del popolo, un leader
politico e religioso, i cui avi erano di
30
Asante (Ghana); le attribuivano poteri soprannaturali, magico-religiosi.
Protagonista della resistenza contro
il dominio inglese, Nanny conduce
molti schiavi fuggiaschi verso le colline di Portland, zona che prende poi
il nome di Nanny Town. Le forze coloniali invadono le colline per recuperare gli schiavi e Nanny e i cimarroni,
combattono contro i soldati britannici.
I cimarroni si organizzano poi in due
grandi comunità: quella di Leeward a
est, e quella di Windward che riconosce Nanny come regina (Queen Nanny, Nanny of the Maroons). Non hanno molte armi se non quelle prese ai
soldati uccisi, ma gli schiavi fuggiaschi
sono abili a combattere nella selva, nel
posizionare trappole, negli agguati, e
Nanny nel travestimento. Nanny Town
viene distrutta dagli inglesi e cambierà
nome in Moore Town. La resistenza
Maroon è considerata storica presa
di coscienza dell’autodeterminazione
della componente africana in Giamaica (che diventerà poi maggioritaria)
nei confronti di quella bianca e inglese; non a caso, come riconoscimento
al valore della lotta contro i britannici,
Nanny è l’eroina nazionale.
HAITI
CATHERINE FLON (Arcahaie, Haiti). È un simbolo della libertà haitiana:
fu lei a cucire la prima bandiera della Repubblica. Il 18 maggio 1803, nei
pressi di Port-au-Prince, il patriota indipendentista Jean-Jacques Dessalines
prende la bandiera francese, strappa
via la frangia bianca centrale e consegna le due frange restanti, dai colori
blu e rosso, a Catherine Flon, la sua
figlioccia, perché le imbastisca. Così
nasce la bandiera della Repubblica di
Haiti. Il 18 novembre 1803 l’esercito di
Dessalines aveva sbaragliato i francesi
nella Battaglia di Vertières, e il 1º gennaio 1804 l’ormai ex colonia dichiara
la sua indipendenza. È del 1988 il riconoscimento dell’importanza storica
e simbolica di Catherine Flon, il cui
volto appare sulle banconote da 10
gourdes e alla quale nel 2000 viene intitolata una piazza.
ARGENTINA
MANUELA PEDRAZA (Tucumán,
Provincias Unidas del Río de la Plata). Manuela la tucumanesa, difensora
della città di Buenos Aires durante la
prima invasione inglese (1806), lotta eroicamente nelle giornate 10, 11
e 12 agosto nella battaglia della plaza
Mayor intorno a La Fortaleza (oggi
Casa Rosada, sede del Governo). In
battaglia perde suo marito e Manuela
insegue e uccide il soldato inglese che
ne aveva causato la morte. Alla fine il
comandante Liniers la inserisce nel
Battaglione dei Patricios dandole il
grado di sottotenente. Oggi una strada
e una scuola di Buenos Aires portano
il suo nome, così come numerose vie e
cittadine argentine.
EL SALVADOR
MARÍA FELICIANA DE LOS ÁNGELES MIRANDA (1811) Patriota
salvadoregna, guida uno delle prime
insurrezioni contro le autorità spagnole: nasce il primo movimento indipendentista a San Salvador contro
le autorità della Capitaneria Generale
del Guatemala (divisione amministrativa del Vicereame della Nuova Spagna, nell’Impero coloniale spagnolo),
alla quale apparteneva la Provincia di
San Salvador. Le sorelle María Feliciana e Manuela Miranda diffondono le
notizie sul movimento. I patrioti Juan
Morales, Antonio Reyes, Isidro Cibrián e le sorelle Miranda organizzano
e guidano una rivolta a Piedra Bruja,
Cabañas (29 de dicembre 1811). Catturati dagli spagnoli e imprigionati nel
castello di Omoa in Honduras, mentre
le sorelle Miranda, recluse nel convento di San Francisco, vengono poi processate a Sensuntepeque, condannate a
cento frustate e a lavorare come serve
senza paga nella casa del parroco Manuel Antonio de Molina y Cañas, sacerdote realista che taccia il movimento come eretico. Pare che María de los
Ángeles Miranda sia morta durante il
supplizio.
VENEZUELA, EROINE
AL TEMPO DI BOLÍVAR
EULALIA RAMOS SÁNCHEZ (Tacarigua de Mamporal, 1796 - Barcelona,Venezuela, 1817). Conosciuta
come Eulalia Buroz o Eulalia Chamberlain, eroina dell’Indipendenza del
Venezuela, vicina ai seguaci del Libertador Simón Bolívar, nel 1812 sposa il
patriota Juan José Velásquez, dal quale
si separa a causa della persecuzione
degli spagnoli. Sua figlia neonata perde la vita mentre Eulalia è in fuga sui
monti di Tacarigua: dovrà scavare lei
stessa la fossa per seppellire il piccolo corpo. Alcuni giorni dopo, a Río
Chico viene catturata ma, poco prima
della fucilazione, dei patrioti la soccorrono. Tornata a casa, trova riparo
e alloggio presso la famiglia Buroz (da
lì l’equivoco del cognome). Nel 1814,
mentre Caracas è assaltata dalle truppe di José Tomás Boves, scappa in Colombia. Mesi dopo, viaggia a Cumaná
e viene a conoscenza della fucilazione
del marito a Río Chico. Più tardi sposa
il colonnello William Charles Chamberlain, un inglese che ha il ruolo di
aiutante di campo di Bolívar. Nel 1817,
a Barcelona, muore durante l’assedio
realista di Juan Aldama: si dice che
nello sparare a un soldato, gridando
“Viva la Patria, a morte i suoi tiranni!”,
sia stata a sua volta colpita a morte, e
che il suo cadavere mutilato sia stato
esibito per le strade. Oggi nell’antica
Casa Fuerte di Barcelona si erge una
statua dell’eroina con la pistola in pugno, e un municipio porta il nome di
Eulalia Buroz. LUISA CÁCERES DE
ARISMENDI (Caracas, 1799 - 1866).
Moglie del patriota Juan Bautista Arismendi, suo padre José Domingo e suo
fratello Félix vengono fucilati a Ocumare del Tuy dal comandante spagnolo Francisco Rosete (1814). Successive
sconfitte e l’offensiva di José Tomás
Boves e della sua “Legione infernale”
obbligano le fuerze patriottiche ad abbandonare la piazza di Caracas; inizia
la ritirata comandata da Simón Bolívar e José Félix Ribas (la Emigración a
Oriente); durante la quale muoiono
quattro membri della famiglia Cáceres. Molti trovano rifugio a Margarita
grazie al colonnello Arismendi, che
nel 1814 sposa Luisa Cáceres. Luisa,
incinta, è catturata e interrogata su
Arismendi e i suoi, messa in una cella
buia dove iniziano torture e maltrattamenti ai quali non cederà mai. Viene
obbligata a bere acqua mista a sangue
dei patrioti ammazzati in prigione, e il
26 gennaio 1816 dà alla luce una bambina che muore appena nata a causa
delle condizioni del parto e della cella.
Dopo anni di prigionia e varie peripezie che la portano a spostarsi come prigioniera dal carcere della Guaira a Caracas, da Cadice in Spagna a Filadelfia
negli Stati Uniti, nel 1819 le è concessa
libertà assoluta. Vive a Caracas fino
alla morte, dopo aver visto libera la sua
patria. Nel 1876 Luisa Cáceres diventa la prima donna i cui resti riposano
nel Panteon Nazionale. JOSEFA CAMEJO DETTA “DOÑA IGNACIA”
(Curaidebo, 1791 – Maracaibo, 1870
ca.). Eroina dell’Indipendenza e tenace difensora della Provincia di Coro,
durante la guerra d’Indipendenza del
Venezuela. Il 18 ottobre 1811 firma
il “Manifesto del Gentil Sesso al Governo di Barinas”: le firmatarie, consapevoli dell’invasione che avrebbero
tentato i guayanesi da San Fernando
de Apure, si mettevano a disposizione
per la difesa di Barinas, senza timore
per gli orrori della guerra. In abiti maschili, insieme ad altre donne, si unisce
all’esercito di Rafael Urdaneta in marcia verso Nueva Granada dove resta
per cinque anni; da guerrigliera vive
clandestinamente tra i monti, vagando, secondo alcuni racconti, travestita
da vagabonda o da mendicante. Tornata dall’esilio, nel 1821, con trecento
schiavi sostiene la ribellione contro le
forze realiste della Provincia di Coro;
ma è una disfatta. Il 3 maggio dello
stesso anno, con un gruppo di quindici uomini si presenta a Baraived, dove
riposava il capo realista Chepito González, che affronta e sconfigge. In seguito, si reca con altri patrioti a Pueblo
Nuevo, dove il governatore è fatto prigioniero. Viene allora nominato un
governatore civile repubblicano (Mariano Arcaya), e quello stesso giorno
Josefa Camejo legge a Pueblo Nuevo il
manifesto che dichiarava libera la Provincia de Coro e nel quale si giurava
fedeltà alla Repubblica. L’8 marzo 2002
la Camejo è posta simbolicamente nel
Panteon Nazionale.
*Coordinatrice di redazione Amerindia
Addetto alla cultura
Consolato Generale della Repubblica
Bolivariana del Venezuela a Napoli
31
Nuestramérica
Le rivoluzionI
Novantanove anni fa
Zapata e Pancho Villa giunsero
vittoriosi a Città del Messico
di Adrián Durán*
E
ra il 6 dicembre 1914, quando
Emiliano Zapata e Francisco
(Pancho) Villa fecero il loro
trionfale ritorno a Città del
Messico, capitale della nazione omonima. Fu un atto di vittoria e di conquista rivoluzionaria.
Zapata, che era conosciuto come “Il leader del Sud”, e Villa, “Il Centauro del
Nord”, avevano firmato due giorni prima il Patto di Xochimilco, con il quale
si consolidava l’alleanza tra l’Esercito
di Liberazione del Sud e le truppe della Divisione Nord, al fine di promuovere e far rispettare riforme agrarie e
affidare ad un civile la presidenza della
34
Repubblica.
Fu un momento cruciale per la rivoluzione messicana, che ebbe inizio nel
1910 e si concluse nel 1920.
Attivisti sociali, insieme a contadini e
forze militari marciarono per le strade di Città del Messico, fino al Palazzo
Nazionale, dove mesi prima c’era stato
Venustiano Carranza, ritiratosi a Veracruz per stabilire il proprio dominio.
Questo fu il plotone degli uomini della Divisione Nord e l’Esercito di liberazione del Sud; due forze che si unirono
con anima, cuore e armi.
Poco più di 50.000 uomini si concentrarono a Chapultepec e alle 11 del
mattino cominciarono a dirigersi verso il Paseo de la Reforma, secondo un
resoconto del ricercatore Alejandro
Rojas, il quale precisa che la giornata si
concluse quando Villa, accompagnato
da Zapata, si sedette sulla sedia presidenziale.
Per la ricercatrice Elsa Aguilar Casas,
storicamente, il viaggio intrapreso durante la guerra del Messico aveva come
meta finale Città del Messico, dunque
tutte le forze armate avrebbero dovuto
trovare un modo per raggiungere questo luogo simbolico, che era sinonimo
di vittoria. Fu l’atto che legittimò la
vittoria.
Durante il soggiorno di queste forze
armate a Città del Messico, Villa ordinò di cambiare il nome di via dei
Plateros in Francisco I. Madero dimostrando così affetto e rispetto nei
confronti del suo compagno che stava
combattendo.
UN DURO CAMMINO
P
Aguilar Casas nel suo testo Villa e Zapata a Città del Messico.
Questo accadde quando ci fu l’ incontro tra tutte le forze patriottiche nella
città di Aguascalientes, ossia quando
Carranza fu respinta dagli zapatisti e
villisti i quali non vollero riconoscere
il Plan de Ayala, che prevedeva la riforma della normativa agricola, la libertà,
la giustizia e la legge, e con la quale
si ripudiava il governo del presidente
Francisco I. Madero (1911-1913), accusato di tradire la causa contadina.
A quel punto era impossibile generare
un accordo per lo sviluppo del paese.
Zapata e Villa decisero di unire i loro
eserciti e quindi iniziarono la guerra
contro Carranza, che a sua volta era
sostenuto dal generale Alvaro Obregon il quale si era recato a Veracruz
per avere il supporto degli invasori
americani.
Con questa unione, gli zapatisti e le
forze della Villa riuscirono ad accedere a Città del Messico.
«In perfetto schieramento / allinea-
er arrivare a Città del Messico, gli zapatisti e Pancho
Villa dovettero tracciare un
percorso e lottare con sangue,
guerra, speranza e vittoria.
Dopo l’assassinio di Francisco I. Madero, che governò il Messico durante il
1911 e il 1913 e quello del Vice Presidente José María Pino Suárez per conto del generale Victoriano Huerta, in
Messico si sprigionò una lotta contro
Huerta per tradimento e il colpo di
stato che aveva causato.
Con il passare del tempo, il governo ,
al di fuori della costituzione di Huerta, diventò impossibile da sostenere,
in quanto durante la dittatura militare
si sciolse il Congresso dell’Unione e
Dopo questo evento storico che segnò
si ignorò la Costituzione e successivala rivoluzione messicana, gli eserciti
mente si intensificò anche la lotta
di Villa e Zapata Carraza si affroniniziata nel 1910 contro gli zapatarono nel 1915 e 1916.
tisti, poi ‘trattenuta’ nel 1911
Carranza, che nel 1917 fu eletquando si formò il governo di
to presidente costituzionale,
Madero.
firmò la Magna Carta, con la
Per contrastare il terrore in“Chi desidera essere un’aquila, voli!
quale si stabiliva la distribustaurato da Huerta, le forze
chi desidera essere un verme, strisci!
zione della terra, ciò che inrivoluzionarie chiesero aiuto
ma che non gridi quando lo pestano!”
debolì la causa zapatista.
a Venustiano Carranza, che
Emiliano Zapata
Il 10 Aprile 1919, Zapata fu
divenne primo capo dell’eserucciso in seguito ad un ordine
cito costituzionalista e rappreautorizzato da Carranza. Nel
sentante del potere esecutivo.
frattempo, Villa fu assassinato
Gli oppositori di Huerta optaroin un agguato il 20 luglio 1923 .
no per il costituzionalismo contro
«Meglio morire in piedi che vivere
la dittatura, dissolto poi nel 1914,
in ginocchio tutta la vita»: così oggi
quando Huerta fuggì dalla capitale e
ricordiamo le parole di Zapata.
presentando successivamente al Congresso le sue dimissioni. Questo segnò
il trionfo dell’esercito costituzionale.
to, rigoroso, fiero / conformemente Traduzione di Simona Palumbo
Tuttavia, i conflitti interni , sia politici impostato / e di prescrizione militache ideologici, infuriavano.
re/come ogni squadra di spessore/ si *Giornalista venezuelano AVN
«Se si giunse ad un accordo, ottenendo sfilò in modo bizzarro guardando la
così la resa di Huerta, è anche vero che gente che era lì ad assistere il soldato
successivamente le difficoltà tra Villa che marciava fiero e che raggiungeva
e Carranza, e tra Zapata e Carranza il fronte», dice una poesia di un autore
divennero sempre più delicate», dice anonimo.
35
LA RIFORMA AGRARIA MESSICANA:
UN SEGNO CHE DURA NEL TEMPO
di Arturo Warman*
La riforma agraria messicana fu un processo lungo e complesso. La riforma ha avuto origine nello stesso tempo in
cui era in atto una rivoluzione popolare per svilupparsi poi
durante la guerra civile. Il Plan de Ayala, proposto da Emiliano Zapata e adottato nel 1911, chiedeva la restituzione
ai popoli delle terre che erano state un tempo concentrate nelle haciendas. Nel 1912 alcuni leader militari rivoluzionari fecero le prime distribuzioni delle terre. Nel 1915
le tre principali forze rivoluzionarie, costituzionali, villisti
e zapatisti emanarono le leggi agrarie. L’attenzione ad una
diffusa richiesta di terra diventò una condizione di pace
e di restaurazione di un governo nazionale dominante: la
costituzione del 1917 comprendeva la distribuzione della
terra nell’ articolo 27. Da allora, e con successivi adeguamenti fino al 1992, la distribuzione delle terre coincide con
un mandato costituzionale e politico dello stato messicano.
Questa distribuzione rimane la prerogativa dello Stato, se
si considera la riforma agraria come una distribuzione più
ampia del concetto di proprietà semplice.
Durante il lungo periodo che va dal 1911 al 1992 agli agricoltori sono stati dati più di 100 milioni di ettari di terra,
pari alla metà del territorio del Messico e circa i due terzi
della proprietà totale del paese. [...]
La riforma agraria è nata come un processo di formazione
di alcune piccole aziende la cui produzione era insufficiente
a soddisfare pienamente le esigenze delle famiglie rurali. [...]
Nel primo periodo della riforma agraria, che va dal 1920 al
1934 le terre distribuite furono un supplemento del salario
dei lavoratori rurali, beni che avrebbero dovuto fornire cibo
di base, alloggio e altro per migliorare il reddito maturato
presso le aziende agricole e le proprietà di agro-esportazione, il settore più efficiente dell’economia messicana.
La distribuzione della terra viene quindi intesa come un
atto di giustizia che eleva il benessere dei contadini; ma la
sua importanza per lo sviluppo economico nazionale non è
stata presa in considerazione. [...]
Traduzione di Simona Palumbo
*Antropologo ed ex ministro della Riforma Agraria in Messico
“TIERRA Y HOMBRES LIBRES”
Ezequiel Zamora
(Cua, Venezuela, 1817- San Carlos, Venezuela, 1860).
Considerato il “Generale del Popolo Sovrano”, propugnò
una radicale riforma agraria a favore dei contadini. E per
molti fu il più grande leader popolare venezuelano del XIX
secolo.
Militare e politico, fu uno dei principali protagonisti della
guerra federale e primo leader sociale venezuelano. Durante la sua gioventù un amico lo indirizza alla filosofia moderna, diritto romano e agli ideali rivoluzionari. Più tardi
a Villa de Cura si occuperà di un negozio di alimentari
ma subirà la crisi economica causata dalla Guerra di Indipendenza. Successivamente simpatizza con le proposte del
Partito Liberale, capeggiato da Antonio Leocadio Guzman
e diviene capo regionale dei liberali. Nel 1846 si presenta
come candidato ad elettore per Villa de Cura, ma la sua
nomina è contestata dai conservatori. Per questo motivo
chiede di “far guerra ai nobili” a beneficio dei poveri. En
1846, mentre Jose Antonio Páez leader dei conservatori è
nominato capo dell’esercito nazionale, a Guambra Zamora
sta per attaccare, al grido di “terra e uomini liberi”. Risulta
vittorioso a Los Bagres e Los Leones ma nel 1847 è sconfitto e catturato. Il tribunale di Villa de Cura lo condanna
a morte, ma il presidente Josè Tadeo Monagas gli concede
l’indulto. Nel 1859 durante la guerra Federale, si unisce al
leader dei liberali Juan Crisóstomo Falcón, che lo nomina
guida nelle operazioni in Occidente. Organizza un esercito
popolare pro-federalista e fa in modo che lo stato di Coro
si converta in Stato Federale. Il 23 marzo trionfa a El Palito
e poi si dirige verso le pianure occidentali. Cinque giorni
dopo occupa San Felipe e riorganizza la provincia con il
nome di Stato Yaracuy. Il 10 dicembre sconfigge l’esercito
centralista nella battaglia di Santa Inés. Nel 1860 decide di
prendere d’assalto la città di San Carlos ma muore dopo essere stato colpito alla testa. La sua prematura scomparsa ha
cambiato il corso della guerra. Dopo la sua morte, la sua
persona è stata sistematicamente denigrata dai conservatori. Il nome di “Stato Zamora” con il quale si chiamarono gli
attuali stati di Apures e Barinas dal 1862, fu cambiato definitivamente in Barinas nel 1937, in quanto i proprietari non
furono d’accordo a rendere omaggio alla figura di Ezequiel
Zamora. Inoltre, la statua che avrebbe commemorato la sua
memoria nella piazza Zamora de Barinas è stata demolita
e gettata nel fiume Santo Domingo. Tuttavia, le sue spoglie
riposano nel Panteon Nazionale.
Trad. S.P.
36
A 121 anni dalla nascita
Sandino, l’edificatore della
nazionalità latinoamericana
da www.correodelorinoco.gob.ve
Nato nel 1893, Sandino ha combattuto
contro l’intervento statunitense in Nicaragua. A partire dal 1926 si è impegnato nella battaglia contro le forze occupanti che si erano istallate sul territorio
nicaragüense dal 1916 per difendere gli
interessi delle transnazionali degli USA.
I
l 18 maggio si commemora l’anniversario della nascita del leader guerrigliero nicaragüense
Augusto César Sandino, originario della città di Niquinohomo, nel
dipartimento di Masaya, edificatore
dell’idealità nuestroamericana ereditata da Simón Bolivar e dalla Revolución
Mexicana.
Nato nel 1893, Sandino ha combattuto
contro l’intervento USA in Nicaragua.
A partire dal 1926, dopo essere stato
in Honduras, Guatemala e Messico,
dove ha lavorato presso gli zuccherifici
e i pozzi petroliferi, si è distinto nella
battaglia contro le forze occupanti che
si erano istallate sul territorio nicaragüense dal 1916 per difendere gli interessi delle transnazionali degli USA.
Il Nicaragua era inoltre vittima dell’accordo Bryan-Chamorro, che concedeva agli USA i diritti di costruzione
di un canale interoceanico e una base
navale nel golfo di Fonseca; nonché
del trattato Stimson-Moncada, firmato il 4 Maggio del 1927, tra l’inviato
plenipotenziario di Washington Henry Stimpson ed il generale José María
Moncada.
Anche conosciuto come Pacto del
Espino Negro, attraverso questo accordo il governo di turno e la fanteria di
marina degli USA imposero la resa ed
il disarmo dell’Esercito Costituzionalista nonché la supervisione delle elezioni da parte dei marines statunitensi.
Tale patto segnò l’inizio della intesa
lotta di Sandino, che si oppose all’accordo decidendo di espellere i marines, dovendo scontrarsi con traditori
ed invasori, in una lunga lotta di liberazione nazionale.
SIMÓN BOLÍVAR NELLA
LOTTA DI SANDINO
L
’insieme delle idee che hanno
costituito la lotta di Sandino è
stato costruito sulla base del
pensiero di Simón Bolívar.
Ciò si riconosce nel manifesto del 20
marzo del 1929, che il capo guerrigliero nicaragüense definì “Plan de realización del supremo sueño de Bolívar”,
inviato ai 21 governanti latinoamericani dell’epoca.
Tale Piano si presenta come uno degli antecedenti più importanti della
Alianza Bolivariana para los Pueblos
de Nuestra América (ALBA) e della
37
CASIMIRRI: DALLE
BRIGATE ROSSE
ALL’ESERCITO
SANDINISTA?
Alessio Casimirri (Roma, 1951),
ex Br condannato a sei ergastoli
nel processo Moro-ter per la
partecipazione al rapimento di
Aldo Moro e ad altri attentati, vive
tuttora in Nicaragua, nonostante
i ripetuti tentativi delle autorità
italiane di ottenerne l’estradizione.
A Managua ha aperto un
ristorante con degli amici (Magica
Roma) e ne possiede un altro tutto
suo (La cueva del Buzo).
Sommozzatore
esperto
e
diplomato Isef, l’ex Br svolge
attività di pesca ed esplorazioni
subacquee, e pare che sia diventato
istruttore per l’addestramento
degli
incursori
dell’esercito
sandinista.
38
Unión de Naciones Suramericanas
(Unasur).
Sandino indica la necessità della
creazione della Nazionalità Latinoamericana essendo “profondamente
convinti come siamo del fatto che il
capitalismo nordamericano (USA)
è arrivato alla fase suprema del suo
sviluppo, trasformandosi di conseguenza, in imperialismo, e che ormai
non rispetta più alcuna teoria di diritto né di giustizia passando, senza
alcun rispetto, sopra gli inamovibili
principi della Indipendenza degli
stati dell’America Latina”, si legge nel
testo.
Il progetto, che invita alla creazione di una Alianza Latinoamericana,
dichiara “abolita la dottrina Monroe
e, di conseguenza, annulla la pretesa
di tale dottrina di immischiarsi nella
politica interna ed esterna degli Stati
Latinoamericani”.
Inoltre si dichiara “riconosciuto il
diritto di alleanza ai ventuno Stati
dell’America Latina Continentale ed
Insulare, e quindi, si stabilisce una
sola nazionalità, denominata Nazionalità Latinoamericana, riconoscendo a tutti gli effetti tale nazionalità”.
Altresì si invita a creare una Corte di
Giustizia ed un Esercito Latinoamericano, per la difesa della sovranità
dell’America Latina.
La sede della Corte viene battezzata
con il nome di Simón Bolívar, definito “egregio realizzatore della Indipendenza Latinoamericana” e “massimo
forgiatore dei popoli liberi”.
Si conviene sulla creazione di un organo finanziario comune, avente l’obiettivo di farsi carico della “costruzione
di opere, materiali e strade di comunicazione e trasporto”. Si invitano gli
Stati Latinoamericani a stimolare “in
maniera particolare il turismo latinoamericano al fine di promuovere il
reciproco avvicinamento e la mutua
conoscenza tra i cittadini delle nazioni
del Continente”.
Sandino ebbe come collaboratore importante il comunista salvadoreño
José Farabundo Martí per consolidare
il messaggio politico ed ideologico del
suo movimento.
Nel 1934, dietro un invito che era in
realtà una imboscata per eliminarlo, il
líder nicaragüense cadde sotto il fuoco
dell’allora capo della Guardia Nazionale, Anastasio Somoza.
Sandino è il riferimento ideologico
dell’attuale Frente Sandinista de Liberación Nacional (FSLN), oggi al governo, e della rivoluzione promossa
da questo movimento che sconfisse la
dittatura somozista nel 1979.
Traduzione di Ciro Brescia
Storia di un’amicizia:
il Che e Fidel
di Alessandra Riccio*
L
a storia della Rivoluzione cubana, a metà del secolo scorso,
ha sorpreso il mondo per la
sua aura di leggenda, corroborata dalle testimonianze fotografiche e
cinematografiche che diffondevano le
immagini di giovani, belli e determinati, con barbe e capelli lunghi, collane
di semi al collo, armati senza apparire
militareschi. Fra tutti si faceva notare
un corpulento avvocato, ex dirigente
studentesco, autore di un sensazionale e fallito attacco alla più importante caserma dell’esercito del dittatore
Batista, la Moncada, ex detenuto nel
carcere di Isla de Pinos, amnistiato a
furor di popolo, esiliato in Messico da
dove aveva organizzato una spedizione sul piccolo yacht Granma, sbarcando sull’isola per combattere il dittatore
in una guerra di guerriglia sui contrafforti dell’impervia Sierra Maestra.
Accanto a lui, un argentino, bello e
terribile, imbarcato come medico del-
la spedizione, che aveva abbandonato
la cassetta dei farmaci per imbracciare
il fucile durante il drammatico sbarco
e la disperata ritirata verso gli anfratti
della montagna.
Si erano conosciuti in Messico, dove
Ernesto Guevara, ribattezzato dai cubani “Che” a causa dell’intercalare tipico degli argentini, si era rifugiato dopo
il golpe contro il presidente Arbenz in
Guatemala. Il suo incontro con Fidel
è entrato nella leggenda: in una casa
ospitale i due conversano tutta la notte e all’alba il Che è reclutato e la sua
scelta di combattere per i diritti degli
oppressi è definitiva. Ne scrive ai suoi
familiari in Argentina quando ormai,
dopo essere stato arrestato con tutti
gli altri cubani, sorpresi ad addestrarsi
con le armi, non può più continuare
a fingere di voler proseguire nella sua
carriera di medico, come aveva fatto
credere fino a quel momento.
Questo momento determinante è regi-
strato nelle ultime lettere che ha scritto
a sua madre, amatissima, con una durezza che nasconde il dolore e la coscienza della gravità della sua scelta; la
redarguisce con severità per gli appelli
alla prudenza e a ripensare a quel che
faceva, naturali in una madre, ricordandole che la sua decisione scaturiva
proprio dall’educazione che aveva ricevuto da lei, donna colta e progressista.
In quelle lettere, il Che non nasconde
la possibilità di perdere la vita ma è disposto a farlo per partecipare, insieme
a quei giovani compagni, a lottare per
l’affermazione di diritti, per sconfiggere un dittatore sanguinario, per combattere lo sfruttamento, il neocolonialismo e l’imperialismo.
La storia di Fidel Castro è diversa ma
uguale nelle finalità, negli stimoli etici, nella visione antimperialista, nel
dovere di affermare la sovranità dei
paesi latinoamericani. Fidel è cubano
e a Cuba dedica il suo impegno dopo
aver sconfitto la dittatura nel gennaio
del 1959 ed aver dato inizio all’immane lavoro di costruzione di una società
rivoluzionaria. Resta a Cuba ma guarda al mondo in un momento in cui
tutto il Terzo Mondo è in fermento
e dall’Africa, dall’Asia e dall’America
Latina sorgono reclami e movimenti
di decolonizzazione che trovano eco a
Cuba. Il Che, ormai cittadino cubano
onorario, ha accettato importanti incarichi di governo, è Presidente della
Banca, è Ministro dell’Industria ma la
sua anima internazionalista lo porta a
combattere nel Congo, appena dopo la
morte di Lumumba, in un’avventura
finita male ma importante per rafforzare il suo internazionalismo. Ricercato come un delinquente, entra in clandestinità, appoggiato, difeso, protetto
e consigliato da Fidel Castro dal quale
riceva anche l’aiuto –segretissimo- per
organizzare la sua spedizione in Boliva
con l’intento di unirsi poi alla guerriglia in Argentina. “En silencio ha tenido que ser”, il Che scompare dalla
ribalta internazionale. Tutte le ipotesi,
spesso grottesche e perfide, circolano
per il mondo e mirano soprattutto a
insinuare che è lo stesso Fidel ad aver
fatto fuori il suo braccio destro, ad
39
averlo gettato in manicomio, ad averlo liquidato. Ma la lettera di addio che
Ernesto Guevara indirizza a Castro rivela la nobiltà di un’amicizia profonda:
“Ripeto ancora una volta che libero
Cuba da qualsiasi responsabilità, tranne quella che emana dal tuo esempio.
Che se l’ora definitiva mi raggiungerà
sotto altri cieli, il mio ultimo pensiero
sarà per questo popolo e specialmente
per te. Che ti ringrazio per i tuoi insegnamenti ed esempio e che cercherò di
essere fedele sino alle estreme conseguenze dei miei atti. Che mi sono sempre identificato con la politica estera
della nostra rivoluzione e che continuo
a farlo. Che ovunque andrò, sentirò la
responsabilità di essere un rivoluzionario cubano e come tale agirò. Che non
lascio a miei figli e a mia moglie niente
di materiale, ma ciò non mi preoccupa
e mi rallegro che sia così. Che non chiedo nulla per loro, perché lo Stato darà
loro quel che è sufficiente per vivere ed
istruirsi”.
*Docente (Università “Orientale” di Napoli)
e condirettrice della rivista Latinoamerica
FELTRINELLI, KORDA
E IL MITO DEL CHE
È il 1964 quando l’editore italiano Giangiacomo
Feltrinelli va a Cuba e incontra Fidel Castro, che
gli affida l’opera di Che Guevara Diario in Bolivia,
che diventerà uno dei maggiori best-seller della
casa milanese. Nel 1968 Feltrinelli si recò anche
in Sardegna: secondo i documenti scoperti dalla
Commissione Stragi nel 1996, l’editore voleva entrare in contatto con gli ambienti della sinistra isolana per trasformare la Sardegna in una Cuba del
Mediterraneo.
A Feltrinelli viene anche regalata, dal fotografo
cubano Alberto Díaz Gutiérrez, noto come Alberto Korda, la famosa foto del Che, Guerrillero
Heróico. Scattata da Korda il 5 marzo 1960, essa
divenne uno degli scatti più stampati e riprodotti nella storia della fotografia. Circostanza dello
scatto, i funerali di 81 cubani morti durante un
attentato terrorista finanziato ed appoggiato dagli
anticastristi e dalla CIA nell’ambito dell’Operazione Mongoose. Il profilo della persona che appare
nella foto accanto a Guevara è quello del giornalista italo-argentino Jorge Ricardo Masetti, amico
del Che e fondatore dell’agenzia giornalistica cubana “Prensa Latina”.
La celebre foto Guerrillero Heróico
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CIENFUEGOS, SIGNORE
DELL’AVANGUARDIA
Insieme con Fidel Castro, Raúl Castro ed Ernesto
Guevara, il rivoluzionario cubano Camilo Cienfuegos Gorriarán (L’Avana, 1932 - Oceano Atlantico, 1959) è stata una figura di spicco della rivoluzione cubana del 1956-‘59.
Nato da genitori anarchici, Cienfuegos, nel 1956,
dopo un soggiorno clandestino negli Stati Uniti,
giunse in Messico per unirsi a Fidel Castro e ai
“rebeldes”. Rientrato a Cuba con i “barbudos” a
bordo del battello Granma, diventò in breve uno
dei massimi comandanti militari della rivoluzione
cubana e portò avanti, insieme a Ernesto Guevara,
la strategia che permise alle colonne castriste a entrare all’Avana il 1° gennaio 1959, dopo la fuga del
dittatore Fulgencio Batista.
Dopo l’instaurazione del governo castrista, Cienfuegos assume il comando di tutte le forze armate
cubane meritandosi l’appellativo di “signore dell’avanguardia”, coniato dall’amico Guevara; in breve
tempo ricevette vari incarichi politici e divenne
uno dei personaggi più popolari di Cuba.
Pochi mesi dopo il trionfo della rivoluzione cubana, Camilo Cienfuegos fu inviato da Fidel Castro
a Camagüey per arrestare il rivoluzionario Huber Matos, che si opponeva alla svolta marxista
di Fidel. Ma non fece mai ritorno: il suo piccolo
aereo, un Cessna, a causa di un uragano scomparve nell’Oceano Atlantico. Camilo è uno dei leader
della rivoluzione più amati dalla popolazione cubana: il suo volto è scolpito, come quello del Che,
sulla facciata delle sedi ministeriali a plaza de la
Revolución, e il 28 ottobre di ogni anno i cubani
gettano in mare un fiore alla sua memoria.
GINO DONÈ
DALLA RESISTENZA ITALIANA
ALLA RIVOLUZIONE CUBANA
Gino Donè Paro (San Biagio di Callalta, 1924 San Donà di Piave, 2008), nato in Veneto da una
famiglia di poveri braccianti in provincia di Treviso, è stato un partigiano e rivoluzionario italiano,
unico europeo ad aver partecipato alla Rivoluzione cubana.
Nel 1951 lavorava all’Avana come carpentiere per
la costruzione della Plaza Civica (l’attuale plaza de
la Revolución). Nel 1952 conobbe Norma Turino
Guerra, sua futura prima moglie, amica di Aleida
March de la Torre (futura moglie di Ernesto Guevara) e sostenitrice del Partito Ortodosso Cubano,
il cui dirigente era il neolaureato avvocato Fidel
Castro.
In Messico, Fidel era in cerca giovani leali da arruolare nel suo Movimento 26 luglio: venuto a conoscenza che a Trinidad c’era un giovane italiano
che aveva fatto il partigiano in Italia, lo volle incontrare per proporgli di fare parte della spedizione per liberare Cuba dal dittatore Batista. Tra il ‘55
e il ‘56, furono numerosi i viaggi di Donè tra Cuba
e il Messico, per portare soldi e missive, grazie al
suo passaporto italiano che non generava sospetti
alle frontiere. In quanto ex soldato ed ex partigiano, collaborò agli addestramenti militari in Messico diretti da Fidel e divenne amico del medico
argentino Ernesto Guevara.
Il 25 novembre 1956 Doné fu tra gli 82 volontari imbarcati sul Granma, che salparono dal porto
messicano di Tuxpan per sbarcare a Cuba a Playas
de las Coloradas, nella Sierra Maestra. Con l’italiano Gino c’erano 78 cubani, l’argentino Che, il messicano Alfonso e il dominicano Ramin Mejóas. A
bordo Gino era il più anziano degli 82, e aveva il
grado di tenente del Terzo Plotone comandato da
Raúl Castro.
In seguito Gino, ricercato dalla polizia batistiana,
ricevette dai capi del Movimento 26 Luglio l’ordine di salpare da Trinidad de Cuba per raggiungere
Messico e Stati Uniti: “El italiano” era a New York
quando, il 1° gennaio 1959, i suoi “barbudos” entrarono trionfanti all’Avana.
41
CELIA SÁNCHEZ, FLOR
DE LA REVOLUCIÓN
ALIUCHA, ALEIDA
MARCH LA SOVVERSIVA
Aleida March (Santa Clara, 1937), rivoluzionaria e politica cubana, è stata
la seconda moglie di Che Guevara. Da
giovane studia Pediatria all’università
di Santa Clara e comincia a interessarsi alla politica quando la figura di Fidel
Castro diviene a tutti nota per l’assalto
alla Caserma Moncada.
Dopo lo sbarco del Granma del 1956,
la March partecipa a scioperi e azioni
di boicottaggio, e viene bollata come
«sovversiva» dalla polizia del dittatore Fulgencio Batista; iniziata la guerra civile, Aleida milita attivamente in
clandestinità nel M-26-7 ed è la messaggera del responsabile di Villa Clara.
Lolita Rossell, sua amica e militante,
dice di lei: «non aveva paura di niente.
Era molto impegnata, seria, sola, non
le interessavano le feste o cose del genere».
Intorno alla metà del 1958, Aleida ha
modo di conoscere sulla Sierra dell’Escambray il comandante Ernesto Che
Guevara. Una volta a Santa Clara, luogo natio di Aleida, la militante divenne
la guida del Che all’interno della città,
a lui pressoché sconosciuta: in questo
periodo i due si avvicinarono, conoscendosi meglio e avviando un solido
rapporto.
Dopo la vittoria della Rivoluzione, il
Che e Aliucha – come lui la chiamava
affettuosamente – dapprima convivono; poi, una volta che Guevara ottiene
il divorzio da Hilda Gadea, si sposano
il 2 giugno 1959 a L’Avana. La coppia
avrà quattro bambini: Aleida, Camilo,
Celia ed Ernesto.
Attualmente Aleida è il presidente
del centro studi “Che Guevara”, situato nella casa in cui vivevano insieme
all’Avana.
42
Una delle donne più amate della Rivoluzione Cubana è Celia Sánchez
Manduley. Nata il 10 Maggio 1920 a
Media Luna, in provincia di Granma,
era soprannominata “la más hermosa
y autóctona flor de la Revolución”.
Celia inizia a prestare aiuto al suo
intimo amico Fidel Castro e ai suoi
compagni, detenuti in prigione dopo
l’assalto alla Caserma Moncada (26
Luglio 1953). Nel 1955 fonda e dirige
la sezione di Manzanillo del Movimiento 26 de Julio, proponendosi successivamente per preparare attivamente il territorio allo sbarco dello Yacht
Granma, proveniente dal Messico, con
a bordo gli uomini che dettero il via
alla Rivoluzione.
Insieme a Frank País, (Santiago de
Cuba 1934-1957), Celia organizza il
primo contingente di rinforzi per i
guerriglieri dalla Sierra Maestra e nel
marzo del 1957 fa parte dei ribelli che
operavano nella Sierra, occupandosi,
insieme a Fidel, del comando generale
del Movimiento 26 de Julio.
Dopo la vittoria della rivoluzione, lavorò come segretaria del Consejo de
Ministros e più tardi come segretaria del Consejo de Estado. Nominata
membro del Comité Central del partito dopo la sua fondazione, e deputata
al Poder Popular , è morta l’11 gennaio
del 1980.
LIDIA E CLODOMIRA,
EROINE DEL SILENZIO
Lidia Doce Sánchez e Clodomira Acosta Ferrals, due militanti, coraggiose
messaggere della Sierra Maestra, rimangono nella memoria per il loro
valore e per la fedeltà alla Rivoluzione.
Dal golpe del 10 marzo 1952, Lidia
Doce manifesta la sua ribellione alla
dittatura batistiana, e con lo sbarco
del Granma decide di unirsi all’Esercito Ribelle. Secondo quanto racconta
il Che, Lidia prende parte alle imprese
della Rivoluzione con entusiasmo e
devozione fin dal primo momento.
Allo stesso modo Acosta, proveniente
da una umile famiglia contadina del
Cayayal, dal 1957 partecipa alla Rivoluzione come militare dell’esercito di
Fidel Castro, lottando in scontri armati nella parte orientale e centrale di
Cuba insieme a Guevara. Nel 1958 le
viene assegnata la missione di messaggera all’Avana, per fare da nesso tra la
città e la montagna: qui conosce l’altra
rivoluzionaria, Lidia Doce.
L’11 settembre 1958 le due donne vengono catturate e torturate: il 17 settembre, moribonde e senza aver confessato
nulla ai loro persecutori, vengono lanciate in mare dentro sacchi carichi di
pietre e lasciate affondare. Guevara le
ricorda così: «I loro corpi sono scomparsi, stanno facendo il loro ultimo
sogno Lidia e Clodomira, sicuramente
insieme, come insieme lottarono fino
agli ultimi giorni la grande battaglia
per la libertà».
LA MORTE DEL CHE
di Julio Cortázar
Lettera a Roberto Fernández Retamar
Parigi, 29 Ottobre 1967
Miei carissimi Roberto, Adelaida:
Ieri notte sono tornato a Parigi da Algeri. Solo ora, a casa mia, sono capace di scrivervi coerentemente; laggiù, in un mondo
dove contava solo il lavoro, ho lasciato trascorrere i giorni come in un incubo, comprando giornali su giornali, senza volermi
convincere, nel vedere quelle foto che tutti abbiamo visto, nel leggere le stesse notizie e nell’entrare, ora dopo ora, nella più dura
delle realtà da accettare.
È stato allora che mi è arrivato il tuo messaggio per telefono, Roberto, e mi sono dedicato a questo testo che avresti già dovuto
ricevere e che ti invio nuovamente perché tu possa trovare il tempo di vederlo un’altra volta prima che venga stampato, poiché
so quali sono i meccanismi del telex e quello che accade con le parole e con le frasi.
Voglio dirti questo: non sono capace di scrivere quando qualcosa mi ferisce tanto, non sono, non sarò mai lo scrittore professionale pronto a produrre quello che ci si aspetta da lui, quello che gli viene richiesto o quello che lui chiede disperatamente
a se stesso. La verità è che la scrittura, oggi e di fronte a ciò, mi sembra la più banale delle arti, una specie di rifugio, quasi di
dissimulazione, la sostituzione dell’insostituibile.
Il Che è morto e a me non resta altro che il silenzio, chissà fino a quando; se ti ho inviato questo testo è stato perché eri tu che
me lo chiedevi, e perché so quanto amavi il Che e quello che lui significava per te. Qui a Parigi ho trovato un telegramma di
Lisandro Otero che mi chiede centocinquanta parole per Cuba. Così, centocinquanta parole, come se uno potesse toglierle dal
portafoglio come monete. Non credo di poterle scrivere, sono vuoto e arido, e cadrei nella retorica. […] mi sento incapace di
dire qualcosa di lui. Allora sto zitto.
Hai ricevuto, spero, il telegramma che ti ho inviato prima del tuo messaggio. Era il mio unico modo per abbracciare te ed
Adelaida, e tutti gli amici della Casa. E questo è per te, l’unica cosa che sono stato capace di scrivere in queste prime ore, questo
che è nato come un poema e che desidero che tu tenga e che conservi affinché ci faccia sentire più vicini.
Che
Io avevo un fratello
Non siamo mai vissuti vicini ma
Non ha importanza.
Io avevo un fratello
Che vagava per i monti
Mentre io dormivo.
Gli ho voluto bene a modo mio,
ho interpretato la sua voce
libera come l’acqua,
ho camminato volta volta
vicino la sua ombra.
Non ci siamo mai visti
Ma non aveva importanza,
mio fratello sveglio
mentre io dormivo,
mio fratello che mi indicava
nella notte
la sua stella eletta.
Ci riscriveremo. Un grande abbraccio ad Adelaida. Per sempre.
Julio.
(Traduzione di Samanta Catastini)
43
Salvador Allende
attraverso gli scritti dei grandi
autori latinoamericani
Il mio popolo è stato il più tradito di quest’epoca (da Confesso che ho vissuto)
di Pablo Neruda
D
ai deserti del salnitro,
dalle miniere sottomarine di carbone, dalle alture terribili dove si trova
il rame estratto con lavoro inumano
dalle mani del mio popolo, è emerso
un movimento liberatore di grandiosa
ampiezza. Quel movimento ha portato
alla presidenza del Cile un uomo chiamato Salvador Allende, affinché riscattasse le nostre ricchezze dalle grinfie
straniere.
Dovunque sia stato, nei paesi più lontani, i popoli hanno ammirato il presidente Allende e hanno elogiato lo
straordinario pluralismo del nostro
governo. Mai nella sede delle Nazioni
Unite a New York, si è udita un’ovazione come quella tributata al presidente
del Cile dai delegati di tutto il mondo.
Qui, in Cile, si stava costruendo, fra
immense difficoltà, una società vera-
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mente giusta, elevata sulla base della
nostra sovranità, dal nostro orgoglio
nazionale, dall’eroismo dei migliori
abitanti del paese. Dalla nostra parte,
dal lato della rivoluzione cilena, stavano la costituzione e la legge, la democrazia e la speranza.
Dall’altra parte non mancava nulla.
C’erano arlecchini e pulcinella, pagliacci, terroristi con pistole e catene,
frati falsi e militari degradati. Gli uni
e gli altri giravano nel carosello della
disperazione. Andavano tenendosi per
mano il fascista Jarpa e i suoi cugini di
Patria e Libertà, disposti a rompere la
testa e a spaccare l’anima a chiunque,
pur di recuperare la grande azienda:
per loro il Cile era solo questo. Pur di
rendere più ameno l’avanspettacolo
ballavano assieme a un grande banchiere un po’ macchiato di sangue; il
campione di rumba Gonzales Videla,
che a passo di danza, aveva consegnato tempo fa il suo partito ai nemici del
popolo. Adesso era Frei ad offrire il
suo partito agli stessi nemici del popolo seguendo la musica che questi gli
suonavano. Ballava al suo fianco l’ex
colonnello Viaux delle cui malefatte
è stato complice. Questi i principali
artisti della commedia. Avevano preparato i viveri dell’accaparramento, i
miguelitos, la garrota e gli stessi proiettili che ieri avevano ferito a morte
il nostro popolo a Iquique, a Ranquin,
a Salvador, a Puerto Montt… e in altri posti. Gli assassini di Hernàn Mery
ballavano con chi avrebbe dovuto difenderne la memoria. Ballavano con
naturalezza, facendo finta di niente. Si
sentivano offesi se venivano rimproverati per questi piccoli particolari.
Il Cile ha una lunga storia civile con
poche rivoluzioni e molti governi
stabili, conservatori, mediocri. Molti
presidenti piccoli e solo due presidenti
grandi: Balmaceda e Allende. Curioso
che entrambi provenissero dallo stesso ceto, borghesia ricca, che qui si fa
chiamare aristocrazia. Come uomini
di principi, impegnati a ingrandire un
paese rimpicciolito da una oligarchia
mediocre, i due sono stati condannati
a morire allo stesso modo.
Balmaceda costretto al suicidio per
essersi opposto alla svendita delle
ricchezze del salnitro alle compagnie
straniere. Allende assassinato per aver
nazionalizzato l’altra ricchezza del sottosuolo cileno, il rame. In entrambi i
casi l’oligarchia ha organizzato contro
rivoluzioni sanguinose. In entrambi i
casi i militari hanno svolto la funzione
di una muta di cani da caccia. Le compagnie inglesi con Balmaceda, quelle
nordamericane con Allende, hanno
incitato e finanziato rivolte militari.
Le abitazioni dei due presidenti sono
state svaligiate per ordine dei nostri
distinti aristocratici. I saloni di Balmaceda distrutti a colpi d’ascia. La casa di
Allende, grazie al progresso del mondo, bombardata dai nostri eroici aviatori. Eppure, questi due uomini erano
molto diversi. Balmaceda, un oratore
seducente. Aveva un aspetto imperioso che lo spingeva all’esercizio solitario
del comando. In ogni momento era
circondato da nemici. Nell’ambiente
in cui viveva manifestava una superiorità così grande, e così grande era la
sua solitudine da essere quasi costretto
a chiudersi in se stesso. Il popolo che
doveva aiutarlo esisteva come forza,
vale a dire non era organizzato. E il
presidente finiva per essere condannato a comportarsi da sognatore illuminato: sogno di grandezza che è rimasto
un sogno. Dopo il suo assassinio i rapaci mercanti stranieri e i parlamentari del suo paese hanno messo le mani
sul salnitro: agli stranieri la proprietà
e le concessioni, ai criollos ricche percentuali. Incassati i trenta denari tutto
è tornato alla normalità. Il sanguedi alcune migliaia di uomini del popolo si è
subito asciugato sui campi di battaglia.
E gli operai più sfruttati del mondo,
quelli delle regioni settentrionali del
Cile, hanno continuato a produrre immense quantità di sterline per la City
di Londra.
Allende non è mai stato un grande oratore. E come statista chiedeva sempre
consiglio prima di prendere qualsiasi
decisione. Un antidittatore, democratico per principio anche nelle piccole
cose. Ha ereditato un paese non più
abitato dagli idealisti principianti di
Balmaceda; c’era una classe operaia
consapevole, sapeva ciò che voleva.
Ed Allende l’ha guidata da dirigente collettivo, un uomo che pur non
provenendo dalle classi popolari, era
il prodotto della lotte di queste classi
contro la stagnazione e la corruzione
degli sfruttatori. Ecco spiegate le cause
e ragioni per le quali l’opera realizzata
da Allende in cosi breve tempo è superiore a quella di Balmaceda; non solo,
è anche più importante nella storia del
Cile. La nazionalizzazione del rame ha
una storia titanica. E lo è la distruzione
dei monopoli, la radicale riforma agraria e moltri altri obiettivi realizzati dal
suo governo essenzialmente collettivo.
Le opere e le scelte di Allende, di incancellabile valore, hanno reso furiosi i nemici della nostra liberazione. Il
simbolismo tragico di questa crisi si
rivela nel bombardamento del palazzo
del governo; fa pensare ai blitz dell’a-
viazione nazista contro indifese città
straniere, spagnole, inglesi, russe; e
adesso il crimen si ripete da noi: piloti
cileni attaccano in picchiata il palazzo
che da due secoli è il centro della vita
civile del paese.
Scrivo queste righe a soli tre giorni da
fatti inqualificabili che hanno portato
alla morte il mio grande compagno,
caro presidente. Sul suo assassinio si è
voluto fare silenzio; è stato sepolto segretamente. La versione degli aggressori è quella di un corpo inerte, con
segni visibili di suicidio. La versione
che raccontano all’estero è diversa. Immediatamente dopo il bombardamento aereo sono entrati in azione i carri
armati, molti carri armati, impegnati a
lottare intrepidamente contro un solo
uomo: il presidente della repubblica.
Allende li aspettava nel suo ufficio,
avvolto dal fumo e dalle fiamme con
la sola compagnia di un grande cuore.
Dovevano approfittare di un’occasione
così bella. Bisognava colpirlo, mitragliarlo perchè mai si sarebbe dimesso
dalla carica che il popolo gli aveva assegnato. Quel corpo è stato nascosto
in un posto qualsiasi. E’ andato verso
la sepoltura accompagnato da una sola
donna, la moglie, sulle cui spalle pesava tutto il dolore del mondo.
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Martedì 11 settembre 1973
La vera morte di un Presidente (da Patria Grande)
di Gabriel García Márquez
N
ell’ora della battaglia finale, con il paese alla mercé
delle forze della sovversione, Salvador Allende continuò afferrato alla legalità.
La contraddizione più drammatica
della sua vita fu quella di essere, contemporaneamente, nemico della violenza ed appassionato rivoluzionario,
e credeva di averla risolta con l’ipotesi
che le condizioni del Cile consentivano
una evoluzione pacifica verso il socialismo, all’interno della legalità borghese.
L’esperienza gli insegnò troppo tardi che non si può cambiare un sistema dal governo, ma dal potere.
Questa tardiva constatazione forse fu
la forza che lo spinse a resistere fino
alla morte, tra le macerie fumanti di
una casa che non era nemmeno sua,
una residenza costruita da un architetto italiano destinata alla zecca dello
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Stato, e terminò convertita in un rifugio per un Presidente senza potere.
Resistette per sei ore, impugnando il
mitra che gli aveva regalato Fidel Castro, fu la prima arma che Salvador Allende usò in vita sua.
Il giornalista Augusto Olivares che
rimase al suo fianco sino alla fine, ricevette numerose ferite e morì dissanguato in un ambulatorio pubblico.
Verso le quattro del pomeriggio, il generale di divisione Javier Palacio, riuscì ad occupare il secondo piano, con
il suo aiutante capitano Gallardo e un
gruppo di ufficiali. Lì, tra le poltrone
finto Luigi XV, il vasellame di dragoni
cinesi e i quadri di Rugenda del salone
rosso, Salvador Allende stava aspettandoli. Aveva un casco da minatore,
stava in maniche di camicia, senza cravatta e con i vestiti macchiati di san-
gue. Impugnava il mitra.
Allende conosceva il generale Palacio.
Pochi giorni prima aveva detto ad Augusto Olivares che quello era un uomo
pericoloso, perché manteneva stretti
contatti con l’ambasciata degli Stati Uniti. Come lo vide apparire dalla
scalinata, Allende gridò: “Traditore!”
e gli riuscì di ferirlo ad una mano.
Allende morì a seguito dello scambio
di raffiche con questa pattuglia. Poi,
tutti gli ufficiali, quasi seguendo un
rito di casta, spararono sul suo corpo.
Alla fine, un ufficiale lo sfigurò con il
calcio di un fucile. Esiste una fotografia: la scattò il fotografo Juan Enrique
Lira, del giornale El Mercurio, l’unico
autorizzato a fotografare il cadavere.
Era tanto sfigurato che, alla signora
Hortensia, sua moglie, mostrarono il
corpo solo quando stava nella bara. E
non permisero che scoprisse il volto.
Allende aveva compiuto 64 anni in
luglio, era un Leone tipico: tenace, deciso e imprevedibile. Quel che pensa
Allende lo sa solo Allende, mi disse
una volta un suo ministro. Amava la
vita, amava i fiori e i cani, era di modi
galanti come si usava in altri tempi.
La sua maggiore virtù fu quella di essere conseguente, però il destino gli
riservò la rara e tragica grandezza di
morire difendendo con le armi l’anacronistico diritto borghese; difendendo una Corte Suprema che lo aveva
ripudiato e che poi legittimò i suoi
assassini; difese un miserevole Parlamento che aveva contestato la sua legittimità e che poi finì per arrendersi
agli usurpatori; difendendo i partiti
dell’opposizione che avevano già venduto la loro anima al fascismo; difendendo tutti gli ammennicoli di un
sistema tarlato che si era impegnato
ad annichilire senza sparare una sola
pallottola.
Il dramma accadde in Cile, per disgrazia dei cileni, però passerà alla
storia come qualcosa che irrimediabilmente coinvolse tutti gli uomini del tempo, destinato a rimanere per sempre nelle nostre vite.
1973, Santiago del Cile (da Memoria del fuoco / Il secolo del vento)
di Eduardo Galeano
La trappola. Arrivano con le valigie
diplomatiche i verdi bigliettoni che
finanziano scioperi e sabotaggi e cascate di menzogne. Gli imprenditori
paralizzano il Cile e gli tagliano gli
alimenti. Non c’è altro mercato che il
mercato nero. La gente fa lunghe file
in cerca di un pacchetto di sigarette o
di un chilo di zucchero; trovare carne
o olio richiede un miracolo della Vergine Maria Santissima. La Democrazia
Cristiana e il quotidiano «El Mercurio» dicono peste e corna del governo
e chiedono a gran voce il colpo di stato
redentore: ormai è ora di farla finita
con questa tirannia rossa; gli fanno
eco altri quotidiani e riviste e radio e
canali televisivi. Il governo fa fatica a
muoversi: giudici e parlamentari gli
mettono i bastoni tra le ruote, mentre
nelle caserme complottano i capi militari che Allende crede leali.
In questi tempi difficili i lavoratori
stanno scoprendo i segreti dell’economia. Stanno imparando che non è impossibile produrre senza padroni, né
approvvigionarsi senza mercanti. Ma
la moltitudine operaia marcia senza
armi, a mani vuote, sulla strada della
sua liberazione.
Dall’orizzonte avanzano navi da guerra degli Stati Uniti, e si presentano davanti alle coste cilene. E il golpe militare, tanto annunciato, avviene.
Allende. Gli piace la bella vita. Ha affermato più volte di non avere la stoffa
dell’apostolo né le qualità del martire.
Ma ha anche detto che vale la pena di
morire per tutto ciò senza di cui non
vale la pena di vivere.
I generali ribelli gli chiedono le dimissioni. Gli offrono un aereo per lasciare il Cile. Lo avvertono che il palazzo
presidenziale sarà bombardato da terra e dall’aria.
Insieme a un pugno di uomini, Salvador Allende ascolta le notizie. I militari si sono impossessati di tutto il paese.
Allende si mette un elmetto e prepara
il fucile. Risuona il fragore delle prime
bombe. Il presidente parla alla radio,
per l’ultima volta:
- Non cederò...
«Si apriranno i grandi viali», annuncia Salvador Allende nel suo messaggio finale. Non cederò. Sono venuto a
trovarmi in un momento critico della
nostra storia, e pagherò con la vita la
lealtà del popolo. E vi dico che il seme
che consegneremo alla coscienza e alla
dignità di migliaia e migliaia di cileni
non potrà essere completamente distrutto. Loro hanno la forza. Potranno
asservirci, ma i processi sociali non si
fermano con il crimine e con la forza.
La storia è nostra e la fanno i popoli...
Lavoratori della mia patria: ho fiducia
nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio
e amaro in cui il tradimento pretende
di imporsi. Andate avanti, sapendo che,
più presto di quanto si pensi, si apriranno di nuovo i grandi viali per lasciar
passare l’uomo libero di costruire una
società migliore. Viva il Cile, viva il popolo, viva i lavoratori! Queste sono le
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mie ultime parole. Ho la certezza che il
mio sacrificio non sarà vano.
La casa di Allende. Prima del palazzo presidenziale hanno bombardato la
casa di Allende.
Dopo le bombe i militari sono entrati
per distruggere quel che restava: a colpi di baionetta si sono avventati contro
i quadri di Matta, Guayasamin e Portocarrero, e a colpi d’ascia hanno fracassato i mobili.
È passata una settimana. La casa è un
immondezzaio. Sparse dappertutto,
braccia e gambe delle armature di ferro che adornavano la scala. Disteso a
gambe larghe nella camera da letto, un
soldato russa smaltendo la sbronza,
circondato di bottiglie vuote.
Nel soggiorno, si odono lamenti e ansimi. Lì è ancora in piedi, tutta spappolata ma in piedi, una grande poltrona gialla. Sulla poltrona la cagna degli
Allende sta partorendo. I cuccioli, ancora ciechi, cercano il caldo e il latte.
Lei li lecca.
La casa di Neruda. In mezzo alla devastazione, nella sua casa anch’essa fatta a pezzi a colpi d’ascia, giace Neruda,
morto di cancro, morto di pena. La
sua morte non bastava, poiché Neruda è uomo di lunga sopravvivenza, e i
militari gli hanno assassinato le cose:
hanno ridotto in frantumi il suo letto
felice e la sua tavola felice, hanno sventrato il materasso e hanno bruciato i libri, hanno spaccato le sue lampade e le
sue bottiglie colorate, i suoi vasi, i suoi
quadri, le sue conchiglie. All’orologio
a muro hanno strappato il pendolo e
le lancette; e hanno conficcato la baionetta in un occhio del ritratto di sua
moglie.
Dalla sua casa rasa al suolo, inondata
d’acqua e di fango, il poeta parte per il
cimitero. Lo scorta un corteo di amici
intimi, capeggiati da Matilde Urrutia.
(Lui le aveva detto: Fu così bello vivere
quando vivevi.)
A ogni nuovo isolato, il corteo cresce.
A tutti gli incroci si aggiungono persone che si mettono a camminare nonostante i camion militari irti di mitragliatrici e i carabineros e i soldati che
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vanno e vengono, su motociclette e autoblinde, che fanno rumore, che fanno paura. Da dietro qualche finestra,
una mano saluta. Dall’alto di qualche
balcone, sventola un fazzoletto. Oggi
sono passati dodici giorni dal colpo di
Stato, dodici giorni di tacere e morire,
e per la prima volta si ode l’Internazionale in Cile, l’Internazionale mugolata,
pianta, singhiozzata più che cantata,
finché il corteo diventa processione e
la processione diventa manifestazione e il popolo, che cammina contro la
paura, comincia a cantare per le strade
di Santiago a perdifiato, a voce piena,
per accompagnare come si deve Neruda, il poeta, il suo poeta, nell’ultimo
viaggio.
Storie di guerrilleros
di Geraldina Colotti
IN VENEZUELA
E
mperatriz Guzman, alias
Chepa. Terzo comandante del
Frente Guerrillero Amèrico
Silva. Sor Fanny Alonso, 32
anni. Carmen Rosa Garcia, 19 anni....
Tre guerrigliere venezuelane, uccise
durante il massacro di Cautaura, nello stato Anzoategui, il 4 ottobre del
1982. Militanti del gruppo Bandera
Roja, nato nel 1970 da una scissione
del Movimiento de Izquierda Revolucionaria (Mir). Trent’anni dopo,
un libro della Defensoria del Pueblo,
diretta da Gabriela del Mar Ramirez,
ricostruisce quei fatti e spiega: “Per
l’elevato numero di vittime – 23 – e
per la violenza dimostrata dallo stato,
il massacro di Cantaura costituisce il
primo di quattro eventi emblematici,
durante la decade degli anni ‘80, che
mostrano come la violazione sistematica dei diritti umani in Venezuela fu
parte di una politica strutturata, cosciente e pianificata nelle più alte sfere
di potere tra il 1958 e il 1998. In meno
di dieci anni seguiranno il massacro di
Yumare (8 maggio 1986), quello di El
Amparo (29 ottobre del 1988) e il più
grave di tutti: la mattanza del 27 febbraio del 1989 – il Caracazo -, di cui
chissà mai se arriveremo a conoscere il
numero esatto delle vittime”.
Nel 2006, la Procuratrice generale,
Luisa Ortega Diaz, ha creato una commissione della magistratura per indagare sui crimini commessi durante la
IV Repubblica. I familiari delle vittime
hanno potuto ritrovare i corpi di alcuni scomparsi e ristabilire la verità storica. Un lavoro che ha portato all’ap-
provazione della Legge contro l’Oblìo,
diventata operativa alla fine del 2012.
Una legge che rivendica il diritto dei
popoli a ribellarsi, anche con le armi, e
anche contro le “democrazie camuffate”: perché la lotta armata in Venezuela
non si è rivolta contro regimi dittatoriali, ma contro governi usciti dalle
urne, spesso lodati dagli Usa.
“Noel Rodriguez è tornato, abbiamo
trovato i suoi resti”, ha annunciato Ortega Diaz nel gennaio del 2013. Noel
Rodriguez, un giovane di 27 anni attivo nelle lotte sociali e militante del
gruppo armato Bandera Roja, scomparve il 29 giugno del 1973: durante
uno dei governi presieduto da Rafael
Caldera (1969-’74), che continuò la
politica repressiva iniziata dai governi di Romulo Betancourt (1959-’64),
e di Raul Leoni (1964-’69). I resti del
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ragazzo hanno ricevuto un funerale di
stato. In quell’occasione, la Fiscal General ha annunciato il ritrovamento di
altri resti (studenti, sindacalisti, contadini, combattenti in armi o impegnati
nelle lotte sociali), scomparsi dal ’58
al ’98: ovvero dalla caduta del dittatore Marco Perez Jimenez, il 23 gennaio
del ’58, e per tutto il periodo dell’alternanza di governo tra centrodestra e
centrosinistra, nata dal Patto di Punto
Fijo. Un patto fondato sull’esclusione
dei comunisti dal governo, in base ai
dettami di Washington.
Gli esami hanno appurato che Rodriguez è morto per le torture subite, il
29 luglio del ’73, un mese dopo essere
stato sequestrato dalla Direccion de
Inteligencia Militar (Dim). L’ex agente
della Dim, Felipe Diaz Marin, ha consentito di ricostruire i fatti.
Secondo le testimonianze di alcuni
militari, Victor Soto Rojas (fratello del
deputato Fernando Soto Rojas) venne
invece gettato da un elicottero mentre
era ancora vivo. Scomparve nel luglio
del 1964, dopo esser stato arrestato a
Caracas dalla polizia politica e portato
al Comando militare.
Emperatriz, Noel e Victor sono tre
simboli della lunga resistenza armata
50
che si è sviluppata in Venezuela durante i governi della IV Repubblica e
che – seppur a ranghi ridotti e divisi
– è continuata fino agli anni ‘80-90:
aggiungendo altre sigle a quelle prime guerriglie (come il gruppo Punto
Cero oppure la Organizacion de revolucionarios (Or) in cui ha militato
Fernando Soto Rojas). Un impegno
generoso che non ha creduto nei processi di pacificazione che hanno visto
rientrare nelle istituzioni gran parte
delle formazioni: finché la ribellione
civico-militare animata dall’allora tenente colonnello Hugo Chavez non ha
portato a sintesi la rivolta degli ufficiali progressisti, schierati a fianco delle
guerriglie, e i vari filoni del marxismo,
in lotta contro quel sistema di potere.
La guerriglia degli anni ‘60 – del cui
percorso è impossibile dar conto qui
in poco spazio – si è fatta le ossa durante la resistenza alla dittatura di
Marco Pérez Jimenez e ha preso forma nella contestazione alle politiche
pro-Usa di Romulo Betancourt, a
metà degli anni ‘60: nel contesto della
Guerra fredda, in corso allora tra Usa
e Unione sovietica, tra democrazia
borghese e socialismo. Il ‘62 fu l’anno
dell’insurrezionalismo civico-militare,
ma già nel 1961, il Pcv e il Mir avevano
adottato la lotta armata per conquistare il potere politico, contando anche
sull’appoggio del gruppo di sinistra
della Union Republicana Democratica
(Urd), diretta dal giornalista Fabrizio
Ojeda. Prima di essere eletto in parlamento per la Urd, Ojeda, in clandestinità, aveva guidato la Junta Patriotica,
l’organizzazione che portò alla caduta
della dittatura. Nel ‘62, lascia l’incarico di parlamentare e, nelle Ande,
organizza un fronte guerrigliero delle
Forze armate di liberazione nazionale
(Faln), in contatto con il comandante
Douglas Bravo. Il 20 giugno del 1966
viene catturato e ucciso. Per la polizia,
si tratta di suicidio. Il 15 novembre del
2012, i resti vengono riesumati per ordine del Ministerio Publico. E si riapre
l’inchiesta sulla sua morte, archiviata
per 46 anni.
IDENTITÀ
LATINOAMERICANA
E GUERRILLA
L
a lotta di guerriglia è antica
quanto l’America latina, e ha
preso forma anche prima della Conquista. Ma è solo con
l’arrivo della dominazione europea che
la presenza dei guerriglieri si è generalizzata per tutto il Continente. Lo stesso Bolivar si servì di questa forma di
lotta. Nel XX secolo, basti pensare alle
figure di Pancho Villa o Emiliano Zapata in Messico. Ma fu soprattutto con
la vittoria della Rivoluzione socialista
in Unione sovietica, nell’Ottobre 1917,
che si aprì una speranza per i popoli
oppressi in tutto il mondo.
Il movimento guerrigliero contemporaneo in America latina nasce con
Sandino in Nicaragua e continua nel
Salvador e poi a Cuba. Nel ‘59, la vittoria della rivoluzione cubana spinge
alla lotta insurrezionale i rivoluzionari di tutta l’America latina, ai quali si
aggiungono ufficiali progressisti e altre
tendenze avanzate, che abbracciano
il marxismo-leninismo di fronte alla
crisi dei vecchi partiti borghesi. Al-
lora nascono guerriglie in Venezuela,
Guatemala, Colombia, Perù, Bolivia,
dove Che Guevara perderà la vita. In
quegli anni, Movimenti di liberazione
nazionale costruiscono una speranza
di riscatto anche in Asia e in Africa.
E’ il contesto della Guerra fredda tra
Stati uniti e Unione sovietica: tra il
campo della democrazia borghese e
quello del socialismo. Una lotta senza
quartiere. Gli Usa affidano il controllo
del loro “cortile di casa” ai dittatori del
Cono Sur, che impesteranno gran parte del continente negli anni ‘70 e ‘80, e
a strutture criminali come la rete del
Piano Condor.
Nel caso del Venezuela, le prime gesta di guerriglia rimandano alla figura di Guaicaipuro, leader dei popoli
indigeni in lotta contro l’invasore, e a
quelle del Negro Felipe, simbolo della resistenza dei popoli in catene del
continente africano. E proseguono poi
con Simón Bolívar, Leonardo Chirino,
Ezequiel Zamora....
Il loro esempio risuona nelle montagne dello stato Lara dove, nel 1926, nasce la prima cellula comunista che, nel
1931 darà luogo al Partito comunista
del Venezuela, nella città di El Tocuyo.
Dalla rivolta indigena del 1960, guidata da “El Indio” Jacinto Romero, nasce
il nucleo fondatore del fronte guerrigliero Simon Bolivar, alla fine del ‘61.
Alle gesta di quei primi “libertadores”
si ispirerà Hugo Chávez per costruire
una nuova speranza: quella del socialismo bolivariano. Il socialismo del XXI
secolo.
*Scrittrice e giornalista de Le Monde
Diplomatique / Il Manifesto
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Questa pubblicazione, di distribuzione gratuita, è stata realizzata dal Consolato
Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli nel mese di ottobre 2014.