Il mare si è portato via la spiaggia

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Il mare si è portato via la spiaggia
Maurizio Lanteri
Lilli Luini
Il mare si è portato via la spiaggia
Teresa ha gli occhi secchi e guarda verso il mare
Per lei figlia di pirati penso che sia normale1
La prima volta che la vidi, Teresa aveva tre anni e mezzo. Mi fissava attenta, in silenzio, con
i suoi occhi larghi e i capelli biondi a incorniciarle il viso. Aveva abbandonato paletta e secchiello sul bagnasciuga, dove il mare si allungava con onde decise, ed era corsa lì. Vicino a
sua madre, come una sentinella.
Lei chi è, chiesi a Barbara.
Mia figlia, rispose.
Avevi giurato di non tradirmi, sibilai.
E chi ti dice che l'ho fatto, replicò lei.
Venti ore prima, mi ero lasciato alle spalle le mura di San Vittore. Quattro anni per furto
con scasso, la mia condanna più pesante. Fino a quel momento. Barbara, lei si era buscata
un anno per favoreggiamento e un altro di libertà vigilata, con obbligo di soggiorno dagli zii
a Lavagna.
E lì era rimasta.
Con te non ci torno, mi disse alla fine di quella giornata, seduta sulla spiaggia di sassi con
un bikini rosso fuoco.
Invece venne via. Giusto o sbagliato che fosse, Barbara venne via con me perché ero il suo
uomo. Me la ripresi quella notte stessa, giù in fondo alla passeggiata a mare, appoggiati a un
muro del sottopasso della ferrovia. Le sollevai il vestito a fiori ed entrai dentro di lei senza
neanche toglierle le mutandine. Non aspettavo altro, da quattro anni, e non ci fu bisogno di
minacce né di botte. Se scese giù da casa, quella notte, se rispose ai sassi che le tirai sulle
tapparelle, è perché voleva la stessa cosa.
Era pazza di me, Barbara.
Da allora è passata una vita intera. Il mare si è portato via la spiaggia dove Barbara mi disse no, e anche il sottopasso dove mi disse sì. Non riconosco più nulla, tranne la rotonda dove
la portai a ballare con le labbra ancora gonfie.
E proprio lì c'è Teresa, che guarda verso il mare.
La seguo da tre giorni. A quest'ora il marito le dà il cambio al bancone del bar e lei porta il
cane a spasso. Più tardi andrà verso la scuola a prendere sua figlia, una pischella che è lei
sputata trentacinque anni fa, quando la vidi l'ultima volta.
Teresa non vede l'ora di andare a scuola. Ha già indosso il grembiule a quadretti rosa e il
fiocco bianco. Accanto alla cartella, una sacca dell'upim le ricorda che questa è una giornata speciale. In quella borsa ci sono i vestiti per la recita di Natale. Una gonna di velluto,
un maglione, e la pecorella di peluche che porterà in braccio. Sarà la prima pastorella, la
più vicina alla capanna.
All'improvviso, una mano le ghermisce la spalla e papà – quell'uomo che a volte sta lì a
casa con lei e mamma – la solleva di peso e corre. Sente parole che lui dice sempre, “sbirri,
infami, porci”. Parole che lei non conosce. Fuori, sulle scale antincendio, l'aria è fredda, e
lei chiude gli occhi perché ha paura. Ma sente la mamma che scende dietro a loro, ed ecco
che sono in strada, e lui – quell'uomo, il papà – corre forte e Teresa è un fantoccio gettato
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Da Rimini di Fabrizio De André su una spalla, con il latte che le torna in gola. Lei ci prova, a ricacciarlo giù, e prova a tenere la pipì che scappa. Mamma, grida, ma è sempre più lontana, e girato un angolo non
la si vede più.
Teresa chiude gli occhi e piange, vuole andare a scuola, e invece chissà dove vanno, giù
da una scala che porta dentro la terra, e poi un'altra, e un uomo che non ha mai visto arriva con una torcia e corre davanti a loro. E ancora giù per un'altra scala, e di colpo una luce, forte, fortissima. Quell'uomo, il papà, si ferma e Teresa apre gli occhi.
Ci sono tre uomini, davanti a loro, dicono “fermo polizia” e hanno le pistole come in televisione. Lui –quell'uomo, il papà – le appoggia qualcosa di freddo alla base del collo e dice “se non mi lasciate andare l'ammazzo” ma Teresa non fa in tempo ad avere paura perché da dietro arriva qualcuno, e viene vicinissimo e dice “butta la pistola”.
E quell'uomo, il papà, la butta.
Teresa finalmente vomita, fa la pipì, piange, singhiozza e a quella recita ormai non andrà più.
Non doveva finire così. Un miliardo, dico un miliardo di lire diviso per quattro, e senza
tanta fatica. Il colpo che uno sogna per tutta la vita. Due anni a prepararlo e il destino ti gioca un tiro così.
Bastava che Luca Lozza, quel grandissimo coglione, fosse nato in gennaio anziché dicembre o avesse un altro passatempo per trastullarsi: il piccolo chimico, il meccano o farsi le
pippe come tutti.
Invece sognava di fare il fotografo, lui. Un pirla di quattordici anni, aspirante fotografo fottuto, che ti condanna a trentacinque anni di galera. C'aveva la Canon nuova, il pischello, regalo fresco fresco di compleanno. E invece di studiare passava il tempo alla finestra, a far fotografie.
E anche Dio ci si è messo di traverso. A Cusano Milanino, dove c'è sempre la nebbia, quel
giorno c'era un sole che neanche a Ferragosto.
Fotografò tutto, il Luca Lozza, l'Alfa di Turi e Ivan che bloccava il portavalori, la Kawasaki
con cui arrivammo io e il Dado. Fotografò le guardie con le mani sopra la testa. Ma erano foto mosse, perché gli tremava la mano.
Una sola, era perfetta. Anzi, due. Quelle fatte proprio sotto casa sua. La prima, quando mi
girai a sparare alla guardia che era uscita dalla banca. La seconda, quando la fronte di quello
scemo si aprì in due. Come un caco marcio quando cade dall'albero.
Non mi hanno dato nemmeno le attenuanti. Hanno detto che ridevo mentre gli sparavo.
Che si vedeva bene sulla foto. Palle, ma quando le cose devono andar male, vanno male fino
in fondo. Poi si sono attaccati alla storia di Teresa per dire che ero “crudele”. C'hanno un
modo di rigirarti le cose in corte d'assise... Teresa l'ho presa per salvarmi, se tieni un bambino in ostaggio ti lasciano andare. Chiunque al mio posto l'avrebbe fatto.
Chiunque c'avesse un bel miliardino diviso per tre.
Tre, perché quando ci hanno preso l'Ivan era già cibo per vermi. Serviva solo a guidare la
macchina, l'Ivan. Cervello più piccolo di quello di un ratto. Tu dagli duecentocinquanta milioni e il giorno dopo tutti sanno che l'Ivan ha fatto il colpo. Morto lui, si stava tranquilli, con
un centinaio di milioni in più a cranio che non guastano mica.
Se non saltava fuori il fotografo.
Così ci han preso, a me e al Dado. Rapina a mano armata e duplice omicidio di primo grado. La guardia e l'Ivan. Tutti e due affibbiati a me, del resto io li ho ammazzati.
Il Dado ne ha fatti venticinque, di anni, ed è uscito giusto per ammalarsi di cancro e morire. Senza godersi i suoi soldi. Voleva andare in Argentina e comprare una fazenda.
Il Turi non l'han preso e nemmeno identificato.
È sparito con i suoi trecentocinquanta.
Perché i soldi ce li abbiamo ancora noi, mica li hanno recuperati. Quando Luca Lozza è andato in Questura e ha calato la briscola, li avevamo già divisi.
I miei erano in cantina, stipati dentro una valigia.
La cantina di Barbara, con una serratura di quelle con la chiave lunga un palmo. Il giorno
che m'han preso, lei era dietro di me e poi di colpo non c'era più. Lì per lì ho pensato che l'avevano beccata. Invece no. Ha mollato la figlia per la cantina. È tornata là. E sa solo Dio dove
ha nascosto i miei soldi in quei sei giorni di latitanza, prima che si consegnasse come una
pecorella pentita e facesse i suoi dieci anni per complicità. Lo sa Dio, e secondo me anche
Teresa.
Teresa è pronta per uscire. Oggi compie diciotto anni, gli amici passano tra poco. Aperitivo, cena e discoteca.
Zia Paola – mamma Paola – bussa alla sua porta. Entra e pare mesta. “C'è... c'è tua madre. È entrata in drogheria. Stavamo chiudendo... Insomma, vuol vederti. Un momento solo, ha detto”.
Cinque minuti dopo Barbara è lì, a guardare la figlia nel suo primo abitino elegante. “Sei
diventata bella”, dice.
“Sono diventata grande”, risponde già esasperata.
“Volevo vederti ancora una volta. Vederti e portarmi via un ricordo di te”. Accarezza
prima con gli occhi e poi con le mani il gattino rosa che avevano comprato proprio qui, a
Lavagna, quando Teresa era un frugoletto biondo e inconsapevole. Il gattino con cui ha
dormito per anni.
Teresa non è contenta di vederglielo portare via, ma ha diciotto anni e da tempo lo ha riposto su quello scaffale. Se è il prezzo da pagare perché zia Paola e zio Aldo siano per sempre mamma e papà, per lei va anche bene. Tutto purché quella donna sparisca dalla sua
vita.
Però a cena non riesce a deglutire, e in discoteca scende a piangere nella toilette. Piange
per il gattino, e per quella donna con gli occhi cerchiati.
Teresa non va a prendere la bambina, l'ho capito. Gira in tondo da mezzora e questo vuol
dire che mi ha sgamato. Brava piccola, il sangue non mente.
Finalmente punta verso la fine della passeggiata e siccome il tempo promette acqua e fa un
freddo porco, non c'è in giro anima viva.
Quando arriva in fondo, si ferma. Si volta.
Barbara torna tredici anni dopo. Un lunedì. Il lunedì in cui Teresa ha ritirato dalla sarta
il suo abito da sposa e l'ha appeso all'anta dell'armadio.
Mamma Paola la chiama quasi in lacrime. “Mi dispiace, non ce l'ho fatta a mandarla via…”.
La invade una collera fredda.“Non deve vedere il mio vestito. Non deve sporcarmi anche
questo. Scendo io”.
La donna che l'aspetta seduta nel retro bottega è pallida e magra. In mano tiene il gattino rosa. “Te l'ho riportato”, dice. “Insieme a quello che ci avevo nascosto dentro”.
La collera di Teresa diventa un'onda che tracima e spazza via tutto, anche la pietà. Si
sente usata, tradita, violata un'altra volta, l'ennesima. “Vattene!” urla fino a scoppiare.
“Stai calma e ascolta. Non hai scelta. Non posso salvarti da lui perché ho sei mesi di vita
al massimo. Lui uscirà, prima o poi, e vorrà i suoi soldi. Qui ci sono la chiave di una cassetta di sicurezza, l'indirizzo della banca e la carta d'identità della barbona a cui l'ho intestata. A tuo padre basta prenderne un'altra dalla stazione centrale, lavarla, sistemarla e portarla in banca. Si somigliano tutte, in questi anni ne ho usate diverse e non ho mai avuto
problemi. Dentro quella cassetta ci sono i suoi soldi. Quando verrà, dagli tutto, tutto quanto. O non ti lascerà mai in pace. Lo conosco”.
Instupidita, Teresa rimane a fissare l'ultimo raggio di sole sulla parete. In lontananza
sente la voce di zia Paola – “Barbara, fermati, aspetta...”- e il din don della porta che si apre e si richiude.
Stavolta non la vedrà davvero più. Neppure morta. Vedrà la sua bara, mentre cala nel
cimitero di Musocco, senza il prete a benedirla perché le istruzioni di Barbara parlavano
chiaro.
Mi viene incontro, adesso. Ha gli occhi di sua madre, solo che quella mi adorava e questa
qui mi odia. Nessuno mi ha mai guardato così, neanche la moglie della guardia al processo.
Sai che paura! Mi sta di fronte per un minuto, forse neanche e alla fine ho la chiave del tesoro. Mi ha minacciato, ha giurato che starà attenta, che se legge sul giornale di una barbona
ammazzata a Milano, andrà dritta alla pula a denunciarmi.
Ma io mica l'ammazzo a Milano, scema. Si vede che non ti ha tirato su tuo padre ma quel
coglione di tuo zio. Incapace di vedere oltre il banco della drogheria. Che ne saprai tu di una
barbona accoltellata a Padova, o a Pavia?
Non lascio testimoni, io. Non adesso che mi riprendo i miei soldi, dopo trentacinque fottuti
anni.
Teresa è all'Harrys Bar e guarda verso il mare
Per lei figlia di droghieri penso che sia normale2.
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idem