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Giulia Colomba Sannia Exemplaria Collana di autori e testi latini Plauto L’arte di far ridere Estratto della pubblicazione S181 Giulia Colomba Sannia Exemplaria Collana di autori e testi latini Plauto L’arte di far ridere ® A Sandra, che conosce l’arte del far ridere Copyright © 2006 Esselibri S.p.A. Via F. Russo 33/D 80123 Napoli Azienda certificata dal 2003 con sistema qualità ISO 14001: 2004 Tutti i diritti riservati È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Per citazioni e illustrazioni di competenza altrui, riprodotte in questo libro, l’editore è a disposizione degli aventi diritto. L’editore provvederà, altresì, alle opportune correzioni nel caso di errori e/o omissioni a seguito della segnalazione degli interessati. Prima edizione: febbraio 2006 S181 ISBN 88-244-7995-2 Ristampe 8 7 6 5 4 3 2 1 2006 2007 Questo volume è stato stampato presso Arti Grafiche Italo Cernia Via Capri, n. 67 - Casoria (NA) Coordinamento redazionale: Grazia Sammartino Grafica e copertina: Impaginazione: Grafica Elettronica 2008 2009 Premessa In un bell’articolo del 1983, intitolato Il Latino che serve, attualissimo nella disarmante sincerità con cui è scritto, lo scrittore Luigi Compagnone affermava: «Io ho amato e amo il Latino…Se ho amato e amo il Latino non è per merito mio. Il merito è della fortuna che come primo insegnante di materie letterarie mi dette un professore che si chiamava Raffaele Martini… La sua lezione era un colloquio vivo, un modo chiaro e aperto di farci capire il Latino che per noi non fu mai una lingua morta. Perché lui sapeva rendere vivo tutto il vivo che è nel Latino. E nessuno non può non amare le cose vive che recarono luce alla sua adolescenza […]. In una società in cui le parole di maggior consumo sono immediatezza, praticità, concretezza, utilitarismo, la caratteristica del Latino è costituita dal “non servire” a nessunissima applicazione immediata, pratica, concreta, utilitaria… [Il Latino] fa intravedere che al di là delle nozioni utili c’è il mondo delle idee e delle immagini. Fa intuire che al di là della tecnica e della scienza applicata, c’è la sapienza che conta molto di più perché insegna l’armonia del vivere e del morire. È una disciplina dell’intelligenza, che direttamente non serve a nulla, ma aiuta a capire tutte le cose che servono e a dominarle e a non lasciarsi mai asservire ad esse […]. La disgrazia più inqualificabile [per gli studenti] è essere stati inclusi negli studi classici senza averne tratto nessun vantaggio intellettuale, la vera disgrazia è aver fatto gli studi classici ritenendoli e mal sopportandoli come il più grave dei pesi… [perché] al tempo della scuola tutto si è odiato, […] tutto è stato condanna e sbadiglio». Come dare, dunque, ai ragazzi un Latino che serve ed evitare che il suo studio sia noia e peso, un esercizio poco proficuo, un bagaglio di conoscenze sterili, di cui liberarsi presto, non appena si lascia la scuola, se non addirittura, subito dopo la valutazione? C’è una sola via che conduce all’amore per il Latino e quella via è costituita dalla lettura dei testi in lingua originale, ma di quei testi che nei secoli hanno resistito alla selezione e in tutte le epoche sono apparsi imprescindibili. Non possiamo illuderci che la biografia di un autore, un contesto storico, una pagina critica, un frammento di Nevio, un brano di Ammiano Marcellino possano avere lo stesso valore e la stessa funzione di una pagina di Lucrezio o di Tacito, di Catullo o di Cicerone. Quella sapienza che insegna l’armonia del vivere e del morire, la quale costituisce il portato più alto della cultura classica, passa d’obbligo attraverso la lettura di testi di altissima qualità. È la lingua latina, con la perfezione geometrica della sua struttura, con l’armonia delle sue assonanze, con la raffinatezza dei suoi accorgimenti retorici, a comunicare emozione e rigore logico, senso del bello e razionalità, accendendo l’interesse dell’adolescente posto di fronte ai grandi interrogativi della vita. Aver studiato il Latino, significherà, perciò, per i ragazzi, non tanto aver imparato la biografia di Cicerone o di Plauto o di Ovidio, o il contesto storico in cui essi hanno vissuto, ma aver meditato sulle loro parole. In tutte le epoche le loro opere sono state lette e rilette, 5 ricercate dagli umanisti in tutte le biblioteche d’Europa, riportate all’esatta lectio filologica, preservate dall’oblio dai monaci medioevali perché ricopiate con amore. Ci sono saperi che soltanto la scuola può dare, chiavi di lettura che solo da adolescenti si ricevono e che, una volta perduti o ignorati, non si recupereranno mai più. Uno studente, che non abbia letto nella lingua originale Virgilio o Lucrezio o Agostino o Tacito (come se non avrà letto Dante, Boccaccio e Ariosto), che non abbia acquisito sensibilità di lettore attraverso la consuetudine con le analisi testuali, mai più potrà provare il brivido di emozione che la parola poetica comunica. Forse nel tempo, se e quando un’arricchita sensibilità adulta gli farà avvertire il bisogno di tornare al passato, ricercherà in traduzione italiana qualche autore particolarmente amato, come Seneca o Catullo. Ma, perché si manifesti questo desiderio, la scuola dovrà aver trasmesso almeno il senso dello studio del latino, focalizzando l’attenzione su quello che è grande ed essenziale, evitando di far disperdere energie ed interesse sull’inutile. Ci piace citare, a sostegno di quanto si è detto, le parole di Nuccio Ordine. Nel Convegno tenutosi a Roma dal 17 al 19 marzo 2005 sul tema «Il liceo per l’Europa della conoscenza», promosso da EWHUM (European Humanism in the World), Nuccio Ordine ha usato parole che confermano, senza saperlo, quanto andiamo sostenendo da anni sulla didattica del Latino e che sentiamo il dovere di riportare per la profondità e la chiarezza del pensiero espresso: «Conoscere significa “imparare con il cuore”. E ha ragione Steiner a ricordarci che […] presuppone un coinvolgimento molto forte della nostra interiorità. In assenza del testo, nessuna pagina critica potrà suscitarci quell’emozione necessaria che solo può scaturire dall’incontro diretto con l’opera. […]. Nel Rinascimento (i professori) si chiamavano “lettori”, […] perché il loro compito era soprattutto quello di leggere e spiegare i classici. […] Chi ricorderà a professori e studenti che la conoscenza va perseguita di per sé, in maniera gratuita e indipendentemente da illusori profitti? Che qualsiasi atto cognitivo presuppone uno sforzo e proprio questo sforzo che compiamo è il prezzo da pagare per il diritto alla parola? Che senza i classici sarà difficile rispondere ai grandi interrogativi che danno senso alla vita umana? […]. Non è improbabile che le stesse biblioteche – quei grandi “granai pubblici”, come ricordava l’Adriano della Yourcenar, in grado di “ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi mio malgrado vedo venire”, – finiranno a poco a poco, per trasformarsi in polverosi musei. E lungo questa strada in discesa, chi sarà più in grado di accogliere l’invito di Rilke a “sentire le cose cantare, nella speranza di non farle diventare rigide e mute”? “Io temo tanto la parola degli uomini./Dicono sempre tutto così chiaro:/ questo si chiama cane e quello casa,/ e qui è l’inizio e là è la fine/ […] Vorrei ammonirli: state lontani./ A me piace sentire le cose cantare./Voi le toccate: diventano rigide e mute./ Voi mi uccidete le cose”». Sulla base di questi presupposti teorici nasce l’antologia latina in fascicoli della collana Exemplaria che comprende autori e temi di tutta la letteratura latina. Ogni singolo volume costituisce l’ossatura della storia letteraria e al tempo stesso una sorta di passaggio obbligato della cultura, perché tutta la letteratura posteriore e tutta la cultura occidentale hanno avuto come fermo punto di riferimento questi autori. Ed essi sono diventati exemplaria appunto (da cui il titolo della collana), perché modelli da accettare o rifiutare, ma comunque con i quali necessariamente confrontarsi per capire il presente. La scelta dei testi è stata guidata, quindi, dall’esigenza di focalizzare l’attenzione degli studenti sia sulla personalità dell’autore, sulla sua poetica, sul genere letterario privilegiato 6 Premessa Estratto della pubblicazione e sia, soprattutto, dal desiderio di suscitare l’amore per una lettura che aiuti a capire se stessi e la vita. È importante capire bene la struttura dei volumetti per poterla utilizzare al meglio. Ogni autore è introdotto dal paragrafo Perché leggerlo?, che consiste nella spiegazione, in sintesi, delle qualità per le quali quell’autore è diventato famoso e merita lo studio. La vita e il contenuto delle opere hanno, poi, un piccolo spazio in quanto sono solo funzionali alla migliore ricezione dei testi. Non manca un paragrafo sul genere di appartenenza o sul tema topico relativo. Ogni singolo brano quindi è introdotto da una presentazione più o meno breve, per fornire immediatamente agli studenti le informazioni sul contenuto, seguito dalle note al testo, che propongono sempre la traduzione e commenti di carattere morfosintattico, mitologico e storico-culturale, e dall’analisi testuale che permette di cogliere il messaggio poetico dell’autore, attraverso le strutture formali, stilistiche e letterarie, sia in rapporto ai generi che alle connessioni intertestuali e intersegniche. A conclusione di ogni percorso didattico i Laboratori prevedono prove di verifica delle abilità e delle competenze acquisite sul modello della tipologia A (Analisi testuale) della prima prova (italiano) all’Esame di Stato, con la scansione consueta del Ministero, in comprensione, analisi, approfondimento. Poiché si tratta di lingua latina, l’analisi si divide in analisi morfosintattica sulle concordanze, sui casi ecc. e analisi semantica, sullo stile e sul linguaggio. L’approfondimento, talvolta, fa riferimento anche alla tipologia B o D dell’Esame di Stato (saggio breve o trattazione generale). Lo scopo è stato quello di abituare gli studenti a un metodo che sappia distinguere le fasi del lavoro: comprendere, analizzare, sintetizzare, approfondire ecc. Non si è voluto rinunciare a momenti di creatività: si vedano gli esercizi “dare un titolo”, o “creare uno schema”, i confronti “intersegnici” ecc. Questo tipo di esercizi nella prassi didattica si è sempre rilevato molto gradito agli studenti e utilissimo a stimolare la loro capacità di osservazione e la loro creatività. contraddistingue alcuni testi e Una coppa circondata da una coroncina di alloro prove di verifica di particolare complessità, che possono essere riservati a quegli alunni che mostrano il desiderio di approfondire o ampliare lo studio dell’argomento e vogliano perseguire l’eccellenza. Non mancano le Pagine critiche che offrono le interpretazioni di noti studiosi su aspetti e tematiche riguardanti l’autore e la sua opera. I brani antologici sono accompagnati talvolta dai confronti intertestuali e intersegnici e dalla rubrica Incontro tra autori in cui si confrontano due autori su differenti versioni di un mito o differenti interpretazioni di un personaggio storico. Personaggi storici, come Cesare, Bruto, Catilina, o mitici, come Orfeo, Medea, Cassandra, tanto per fare solo qualche nome molto noto, oppure alcuni episodi famosi, ritornano nelle opere di autori diversi ed ogni autore li “legge” differentemente, secondo la sua sensibilità e il suo intento poetico. Il titolo della rubrica richiama una terminologia che si dice ucronica, da oúk + krónos («senza tempo»), cioè come se essi potessero, per assurdo, incontrarsi al di là delle loro epoche storiche e del contesto in cui vissero, per esprimere ciascuno di loro, nell’opera letteraria, il proprio pensiero sullo stesso tema. Chiude ogni singolo fascicolo il Vocabolario dei termini tecnici. Premessa 7 Indice Premessa p. 5 Introduzione » 12 » » 15 16 » » » » » 18 19 20 21 24 Pagine critiche: Il tema dell’avaro: da Euclione a Paperon de’ Paperoni (C. Questa) » » » » » » » 28 32 33 35 43 47 49 Laboratorio » 51 » » » » » 51 53 55 56 58 » » » » » » 62 75 77 79 86 92 » 93 Pagine critiche: Il teatro romano (S. D’Amico) Il “riso” (H. Bergson) Plauto 1. Perché leggerlo? 2. Il genere letterario di appartenenza: la commedia 3. La vita 4. La trama delle commedie T1 Amphitruo II, sc. 2a, 830-96; III, sc. 2a, 897-907: Una moglie risentita Incontro tra autori: Cicerone, Plinio il Giovane e Plauto: Figure di mogli (Ad Atticum V, 1, 3-4; Epistularum VII, 5) Pagine critiche: L’inganno nel teatro plautino (F. Bertini) La verecundia di Alcmena (G. Petrone) T2 Asinaria III, sc. 1a, 504-44; sc. 3a, 591-616: L’amore ricambiato, ma contrastato T3 Aulularia I, sc. 1a, 40-66: L’avaro T4 Aulularia IV, sc. 9a, 713-26: Il furto della pentola Prova Prova Prova Prova Prova di di di di di verifica verifica verifica verifica verifica 1 2 3 4 5 - Amphitruo, Prologus, 1-38 Amphitruo I, sc. 1a , 308-24 Amphitruo III, sc. 4 a, 988-1001 Asinaria, Prologus 1-15 Aulularia II, sc. 8a , 371-97 T5 Cistellaria I, sc. 1a, 1-119; II, sc. 1a, 203-29: Il tormento d’amore T6 Curculio I, sc. 2a, 148-58: La serenata ai chiavistelli T7 Rudens II, sc. 2a, 290-305: Il coro dei pescatori Incontro tra autori: Verga e Plauto: La vita dei pescatori (I Malavoglia, cap. X) T8 Trinummus II, sc. 1a, 223-75: L’amore come rischio Pagine critiche: La lingua di Plauto (C. Questa) Ridere in silenzio. Tradizione misogina e trionfo dell’intelligenza femminile nella commedia plautina (G. Petrone) 9 Laboratorio p. 95 » » » » » » 95 97 100 102 106 107 Metrica » 110 Vocabolario dei termini tecnici » 114 Prova Prova Prova Prova Prova Prova di di di di di di verifica verifica verifica verifica verifica verifica 1 2 3 4 5 6 - a Curculio I, sc. 2 , 97-106; 124-29 Curculio II, sc. 3a, 280-98 Miles gloriosus I, sc. 1a, 1-18: traduzione contrastiva Mostellaria II, sc. 2a, 440-514 Pseudolus I, sc. 3a, 359-69 Trinummus, Prologus 1-22 Legenda: T C = testo con analisi = confronto intertestuale o intersegnico = testi o verifiche di particolare complessità per l’eccellenza 10 Estratto della pubblicazione • Plauto Estratto della pubblicazione L’arte di far ridere Introduzione Ridere è proprio una necessità. Ridere serve. Serve a sconfiggere la malinconia connaturata all’uomo, a rendere lieve il peso della vita, a distrarre – letteralmente dis-trarre, in senso etimologico, cioè «trascinare via», – la mente dalle preoccupazioni. Quanto più faticosa appare la vita, quanto più drammatica la storia umana, tanto più emerge il bisogno di distaccarsi dal flusso dei pensieri, anestetizzando il cervello. Se le opere dei più importanti poeti, artisti, musicisti, in ogni tempo, indubbiamente sono nate dal dolore, è pur vero che è stato sempre avvertito ad ogni livello il bisogno di trovare uno spazio per la risata dissacrante, per l’ironia leggera, per l’umorismo salvifico. E, ripercorrendo le pagine dei più grandi scrittori, da Dante, ad Ariosto, da Shakespeare a Leopardi, Manzoni, Verga, fino ai giorni nostri, si scopre che, accanto alla rappresentazione della tragedia umana, essi hanno lasciato sempre una traccia di umorismo, a volte perfino di comicità, che diventa la cifra della vita: non solo dolore, non solo gioia. Nell’arco intero della letteratura, dal mondo greco e latino, fino ad oggi, gli scrittori hanno capito, però, che far ridere è un’arte raffinata e una conquista non facile. Riuscire a far ridere è sempre un’operazione di grande intelligenza, il risultato di una mente capace di senso critico alto e di distacco sapiente. Ride si sapis, «Ridi, se sei saggio», dice Marziale (Epigr. II, 41), ma, parafrasandolo, bisognerebbe aggiungere «fai ridere», se sei saggio. Chi è capace di suscitare il riso, sa farsi strada nell’anima dell’altro con la stessa efficacia di chi sa suscitare le lacrime, perché entra nell’intima sfera dei sentimenti. Per questa ragione alcuni autori addirittura si sono posti questo obiettivo in sede programmatica, come principio di poetica: basti pensare a Rabelais o a Palazzeschi. Nel Prologo al Gargantua e Pantagruel (1534), lo scrittore francese Francois Rabelais, ribadendo fermamente l’“umanità” del riso, dice, rivolto al Lettore, con provocatoria protervia: AL LETTORE Lettori amici, voi che m’accostate, liberatevi da ogni passione, e leggendo non vi scandalizzate: qui non si trova male né infezione. È pur vero che poca perfezione apprenderete, se non sia per ridere. Altra cosa non può il mio cuore esprimere vedendo il lutto che da voi promana: meglio è di riso che di pianti scrivere che rider soprattutto è cosa umana. A inizio Novecento, in polemica con i languori tardo decadenti, gli farà eco, in quasi tutte le sue opere, il futurista Aldo Palazzeschi, che, nel Il controdolore, (1914) sostiene che Dio 12 L’arte di far ridere Estratto della pubblicazione • Introduzione “ride” e addirittura anticipa alcune intuizioni sulla funzione fondamentale dei clown negli ospedali, quale oggi si è ampiamente sperimentata: Se io me lo (= Dio) figuro uomo non lo vedo più né grande né più piccino di me. Un omettino […] che mi stupisce per una cosa soltanto: che mentre io lo considero titubante e spaventato, egli mi guarda ridendo a crepapelle. La sua faccettina rotonda divinamente ride come incendiata da una risata infinita ed eterna e la sua pancina tremola, tremola di quella gioia. Perché dovrebbe essere questo spirito la perfezione della serietà e non quella dell’allegria? Secondo me nella sua bocca divina si accentra l’universo in una eterna motrice risata […] quei pochissimi che vivono ridendo [sono] protetti dal loro signore [= Dio] che, al centro di tutte le cose, ride più di loro […] Bisogna educare al riso i nostri figli […] Invece di fermarsi nel buio del dolore attraversarlo con slancio per entrare nella luce della risata […] Trasformare gli ospedali in ritrovi divertenti mediante five o’ clock thea, esilarantissimi …clowns […]. Dice Milan Kundera: «l’uomo pensa, dio ride», (L’arte del romanzo) e con questa affermazione esprime quel misterioso fascino che è nel sorriso. Gli dà conferma il famoso fotografo francese Jean Boubat quando spiega di poter cogliere il divino nel sorriso dei bambini. E perfino un poeta come Giacomo Leopardi, – che aveva toccato il fondo del dolore e aveva provato la pena del vivere, a tal punto da teorizzare l’infelicità come cifra comune della vita, – aveva riconosciuto che il riso, ben più dell’ironia già sostenuta dai romantici tedeschi, ha un potere particolare, “una potenza” che fa “terrore”, perché inattaccabile: «Grande tra gli uomini e di gran terrore è la potenza del riso, contro il quale nessuno nella sua coscienza trova sé munito (= nessuno sa difendersi) da ogni parte. Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti (= come chi) di chi è preparato a morire» (dai Pensieri, 78, 1830) E commenta, con la solita acutezza, Claudio Magris in Itaca e oltre (1991): [La] storia del riso di cui Leopardi ha tracciato abbozzi di grandissima poesia, non è mai stata scritta; le celebri spiegazioni della meccanica del comico, da quella di Bergson a quella di Freud, non compensano quella mancanza, perché esse lasciano sempre a onta di ogni acutezza, un margine di insoddisfazione, una dimensione del riso che sfugge all’ingegnosità sistematica dell’interpretazione. Accanto a quello che nasce dalla disperazione ci sono tante altre forme del riso: quello dell’amarezza e quello della gioia, dell’odio e della bonaria benevolenza dell’acre superiorità e della familiare cordialità; c’è il riso che nasce dall’esuberanza vitale […] e quello che sferza e schernisce, quello che soccorre e diverte […], c’è il riso che scaturisce dal disgusto per la vita e quello che sgorga dall’amore per quest’ultima. […] La comicità è il quotidiano che fa lo sgambetto al sublime […] è anche la festosa e ingenua magnanimità della vita che procede – buffa rispettabile e gaudente – sui propri compromessi. […] Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, lo scrittore Luigi Pirandello, con l’opera L’umorismo (1908), il fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud, con Il motto di spirito (1905) e il filosofo Henri Bergson, con il famoso saggio Il riso, sul significato del comico (1924), (cfr. p. 16) si occupano di questo tema da punti di vista diversi, cercando Estratto della pubblicazione L’arte di far ridere 13 • Introduzione di cogliere e spiegare i meccanismi che provocano l’ilarità. Molto nota, a tal proposito, è la teoria di Pirandello che il comico nasca dal «sentimento del contrario»: Riassumendo: l’umorismo consiste, nel sentimento del contrario, provocato dalla speciale attività di riflessione che non si cela, che non diventa come ordinariamente nell’arte una forma di sentimento, ma il suo contrario […]. L’artista ordinario bada al corpo solamente: l’umorista bada al corpo e all’ombra, talvolta più all’ombra che al corpo, com’essa ora si allunghi ora si intozzi, quasi a far le smorfie al corpo che intanto non la calcola e non se ne cura. Ma, solo in seguito, ai giorni nostri, le neuroscienze, hanno approfondito in maniera scientifica la riflessione sul ridere, e sono giunte alla conclusione, già intuita nel passato, che il riso è soprattutto un’esigenza della mente, prima che un diffuso piacere. Scrive a tal proposito, Michela Fontana (Corriere della Sera 2003): Ridere fa bene Norman Cousins, redattore di una rivista statunitense […] negli anni sessanta fu colpito da una grave e dolorosa forma di artrite progressiva. Fece scalpore nel mondo scientifico sostenendo su una rivista medica, di essere guarito a furia di risate.[…] La storia di Cousins che poi andò ad insegnare nella scuola di medicina nell’Università di California, può sembrare un caso limite. Ma è un fatto che oggi, in alcuni ospedali di New York si organizzano visite di clown nelle corsie per alleviare le sofferenze con un po’ di risate. […] Alberto Oliviero psiconeurobiologo docente all’Università di Roma [spiega che] «Non bisogna dimenticare che, riguardo alle emozioni, non siamo solo mente, ma anche corpo». In questa unione di fisico e di psichico starebbe la chiave per capire perché il riso fa bene. […] Delle caratteristiche biologiche del riso, però si sa poco.«_ molto strano, commenta […] John Hadfield medico dell’Università di Cambridge in Inghilterra». Non c’è nessuna emozione umana che, a parte l’amore sia così potente ed universale. Eppure per la scienza, il riso è ancora misterioso come un buco nero. «Se i filosofi, primo fra tutti il francese Henri Bergson che al riso dedicò un libro […] hanno riflettuto su questa espressione umana, gli scienziati sono stati per lo più silenziosi […] Quanto ridiamo? I bambini cominciano a ridere a 3-4 mesi. Prima si limitano a sorridere» spiega Luca Pani [ricercatore del centro di neurofarmacologia di Cagliari] «A 6 7 anni ridono in media 300 volte al giorno: Un adulto sano invece ride da un minimo di 15 a un massimo di 100 volte al giorno. E le donne si divertono e ridono nettamente più degli uomini. […] Antonio Damasio, il famoso neurologo statunitense […], nel libro L’errore di Cartesio spiega che la parte del cervello che controlla la muscolatura nel sorriso vero» è diversa da quella per il controllo volontario di un sorriso “falso”. Ridere fa bene insomma, purché si rida con sincerità. E naturalmente, con la maggiore frequenza possibile. Noi vogliamo completare questo rapido excursus sul riso con una storia poco nota, ma emblematica. Lo scrittore inglese C.S. Lewis, in Le lettere di Berlicche (1942), ci dà una visione esemplare del potere che possiede colui che «sa ridere». Egli racconta che il diavolo Berlicche, inviato sulla terra da Lucifero, con l’incarico di far dannare il maggior numero di uomini possibile, scrive, irritato, al suo padrone che soltanto con uno non gli riesce proprio l’impresa. Come mai? Che cosa ha quest’uomo qualunque per poter resistere alla dannazione? Questi non si perderà mai, dice Berlicche, perché sa ridere, ha il senso dell’umorismo e chi ride nelle situazioni più difficili, è invulnerabile. 14 L’arte di far ridere Estratto della pubblicazione • Introduzione Avevano, dunque, ragione i Romani che veneravano il Dio Riso con una festa a lui dedicata? Certamente, come ci testimonia Apuleio (Metamorfosi, libro II, paragrafo 31, IV sec. d.C.): I convitati che già trasudavano vino dai pori, scoppiano in nuove risate e reclamano a gran voce di effettuare il brindisi di obbligo al dio Riso [e uno dice]: Nella giornata di domani ricorre questa solenne festa la cui istituzione rimonta alla prima infanzia della nostra città e […] onoriamo con una cerimonia improntata a serena letizia il Riso venerabile divinità. (trad. di Claudio Anarratone) Non è casuale, dunque, che la letteratura latina nasca proprio con il teatro comico. La letteratura delle origini, infatti, doveva permettere ai Romani di riposarsi dalle cure della politica, dalle guerre, dal lavoro dei campi. Le prime rappresentazioni teatrali, di tipo improvvisato, dall’Atellana che aveva quattro maschere fisse, ai Mimi, alla Satura nata per rallegrare gli dei, ai Fescennini apotropaici, fino alle opere di Livio Andronico e di Nevio, tutti i generi presupponevano lo svago, anche dietro l’intento più serio. Ma fu soprattutto la commedia plautina che riuscì ad assicurare un divertimento sicuro. Il cittadino romano le dette il suo consenso entusiasta e le assicurò un successo clamoroso, poiché, grazie ad essa, riusciva a rilassarsi a teatro, di fronte alla comicità scintillante che caratterizzava le opere di Plauto. Allo spettatore non si richiedeva una concentrazione intellettuale impegnativa o una riflessione profonda: gli si chiedeva soltanto di non fare troppo chiasso e di concentrarsi appena quel poco necessario per riconoscere i tipi fissi che sulla scena Plauto riproponeva in situazioni codificate e sempre facilmente prevedibili. Poi bastava che ci si affidasse all’estro creativo dell’autore e ai suoi affascinanti giochi linguistici per sentirsi appagati. E, così, perfino in questa cultura del comico, i Romani dimostravano ancora una volta la loro capacità di sapersi organizzare la vita con saggezza. pagine critiche Il teatro romano In queste pagine Silvio D’Amico parla di come si sia costituito e organizzato il teatro romano. Per i Greci, almeno il grande Teatro era un rito; per i Romani, tutto il Teatro è un ludus, un gioco. Senonché in progresso di tempo lo Stato, che dapprima lo ha guardato con un disprezzo anche maggiore della diffidenza, il giorno che gli influssi della cultura greca e il reale valore degli spettacoli drammatici cominciano a dargli una importanza sociale, finisce con l’assumerne la cura: badiamo bene, come di tutti gli altri giochi. Per moltissimo tempo i teatri non sono se non edifici provvisori; che si erigo- no, come le baracche dei saltimbanchi quantunque di ben altre proporzioni, nell’occasione di certi determinati spettacoli, e poi si riabbattono. Questo avviene non soltanto quando sono di legno, ma anche, strano a dirsi, quando si cominciano a fabbricare con pietre e marmi. Tipico il caso dell’enorme teatro fatto erigere dall’edile Scauro nel 60 a.C., capace di ottantamila persone, abbattuto dopo appena un mese. La costruzione di edifici stabilmente destinati all’uso di teatro cominciò Estratto della pubblicazione appunto in quel tempo (I sec. a.C.); e il primo teatro del genere eretto in Roma fu, come vedremo, quello di Pompeo. La scenografia romana, in origine, è quella ereditata dai Greci, secondo i tre tipi di scene plastiche, poi classificati da Vitruvio: la scena tragica, col palazzo regale a più piani; la comica, che suppone una via o piazza con due case a fronte; la satiresca, rappresentante una campagna. Gli spettacoli teatrali furono dati, da principio, a scopo di lucro. L’impresa- L’arte di far ridere 15 • Introduzione rio (conductor) pagava allora tanto l’autore, che gli cedeva (definitivamente o temporaneamente) il diritto di rappresentazione, quanto il capocomico (dominus gregis), il quale è verosimile abbia pagato a sua volta gli attori. Regista (choragus) era spesso lo stesso capocomico; o fors’anco un attore; oppure l’attore. Ma dacché lo Stato assunse la gestione diretta dei teatri, furono gli edili a pagare tutte le spese. L’ingresso allo spettacolo fu allora gratuito; le tessere di entrata – prima di coccio, poi d’osso e infine anche d’avorio finemente lavorato – servivano alla assegnazione del posto, secondo il grado e la classe sociale. Dato il concetto che i Romani avevano del Teatro, gli attori o istrioni, ben diversamente che in Grecia, erano socialmente «infami»; in origine, reclutati fra schiavi. Ciò, al solito, non impedì che taluni – nei tempi della grande passione per lo spettacolo, particolare all’ultimo secolo della Repubblica e a quelli dell’Impero – fossero pagati enormemente, e individualmente stimati e onorati. Tutti uomini anche per i ruoli femminili, gli attori potevan sostenere, come i greci, ciascuno più parti nella stessa commedia: ma si distingueva l’ actor primarum partium, cui spetta- vano i ruoli importanti, dall’attore secondario o, diremmo noi, generico. Orazio nella sua Arte poetica cita il precetto per cui non possono parlare più di tre attori nello stesso dialogo; ma, anche rispettando questa regola, sembra che in realtà gli attori potessero essere fine a cinque, e forse più. Si sa che anche questi attori portavano la maschera, e si conosce l’enorme varietà di maschere romane; ma si ignora quando precisamente questo uso sia stato introdotto sulla scena regolare. Nella Tragedia gli attori calzavano il coturno; nella Commedia, il socco; nel Mimo, erano scalzi, e perciò il Mimo si chiamò anche planipedia. Poiché la Commedia latina, come quella attica nuova, rimetteva sempre in scena gli stessi personaggi, ciascuno dichiarava a priori col suo costume il suo «ruolo» fisso: il messaggero o il viaggiatore apparivano col cappello e il tabarro (paenula), il soldato con la spada e la clamide, il parassita col mantello avvoltolato, il villano in casacca e pelliccia, l’uomo del popolino in farsetto, il servo con una tunichetta succinta; un servo furbo con la tunica bianca, un mezzano con la tunica nera, e via dicendo. Così il pubblico li riconosceva al solo vederli. Del pubblico romano ci son rimaste molte descrizioni (anche nei prologhi delle commedie di Plauto, per es. nel Poenulus). Almeno in origine non è certo paragonabile al pubblico ateniese, quello d’appassionati all’arte, che prendono gusto alle parodie letterarie di Aristofane, o possono interessarsi alle sentimentalità, se non addirittura alle malinconie, di Menandro. Dev’essere un pubblico di grossi mercanti e di soldatacci, di femmine e ragazzi e servi turbolenti, davanti al quale il primo scopo del capocomico è d’ottenere un po’ di silenzio. Per attrarne l’attenzione, converrà presentargli cibi molto pepati; e anche chi intenda sollazzarlo con intrecci di commedie attiche, bisognerà che gliene rilevi decisamente le linee essenziali, in primo luogo esponendogli preventivamente, come s’è detto, l’intreccio nel prologo, e poi cercando di fargli entrare ben bene nel comprendonio i dati più importanti, col presentarglieli in modo vivace e con l’insistervi sopra più volte, quasi con violenza. Solo un attore capace di questa fatica poteva sperare nel successo presso tali ascoltatori. Questo autore, fra il III e il II secolo a.C., fu Plauto. (S. D’Amico, Storia del teatro, Garzanti, Milano, 1972) Il “riso” Le riflessioni di Bergson sulla natura della comicità sono racchiuse in un breve libro, intitolato Il riso. Saggio sul significato del comico. Il riso, secondo Bergson, ha una funzione sociale ed è un’esperienza corale: l’autore, infatti, individua in coloro che “ridono insieme” una specie di complicità che li rende, seppur momentaneamente, un gruppo coeso. Ecco il primo punto sul quale richiamerò l’attenzione. Il comico non esiste al di fuori di ciò che è propriamente umano. Un paesaggio potrà essere bello, grazioso, sublime, insignificante o brutto; non sarà mai ridicolo. Ridere- 16 L’arte di far ridere mo di un animale, ma perché avremo sorpreso in esso un’attitudine d’uomo o un’espressione umana. Rideremo di un cappello, ma ciò che metteremo in ridicolo non sarà il pezzo di feltro o di paglia, bensì la forma che gli uomini Estratto della pubblicazione hanno dato, il capriccio umano di cui esso ha preso la forma. Mi chiedo come mai un fatto così importante nella sua semplicità non abbia fermato di più l’attenzione dei filosofi. Molti hanno definito l’uomo «un animale che sa • Introduzione ridere». Avrebbero potuto definirlo anche un animale che fa ridere, poiché se vi riesce anche qualche animale, o qualche oggetto inanimato, lo è sempre per una rassomiglianza con l’uomo, per il segno che l’uomo vi imprime o per l’uso che l’uomo ne fa. Segnaliamo ora, come un sintomo non meno degno di attenzione, l’insensibilità che accompagna ordinariamente il riso. Sembra che il comico non possa produrre la sua scossa se non a condizione di cadere su di una superficie d’anima molto calma e uniforme. L’indifferenza è il suo centro naturale. Il più grande nemico del riso è l’emozione. Non voglio dire che noi non possiamo ridere di una persona che ci ispiri pietà, per esempio, o anche affetto: soltanto che, per qualche istante, dovremo dimenticare questo affetto, far tacere questa pietà. In una società di pure intelligenze probabilmente non si piangerebbe più, ma forse si riderebbe ancora; mentre anime invariabilmente sensibili, accordate all’unisono con la vita, in cui ogni avvenimento si prolungasse in risonanza sentimentale, non conoscerebbero né comprenderebbero il riso. Provate per un momento a interessarvi di tutto ciò che si dice, e di tutto ciò che si fa; agite, in immaginazione, con coloro che agiscono; sentite con coloro che sentono; date infine alla vostra simpatia la più larga espansione: come per un colpo di bacchetta magica voi vedrete gli oggetti più leggeri prender peso, e una colorazione severa distendersi su tutte le cose. Adesso distaccatevi, assistete alla vita da spettatore indifferente; molti drammi si trasformeranno in commedia. Basta che chiudiamo le orecchie al suono della musica, in un salone in cui si danza, perché i balle- rini ci sembrino subito ridicoli. Quante azioni umane resisterebbero a una prova di questo genere? E non ne vedremmo molte passate a un tratto dal serio al ridicolo, se le isolassimo dalla musica di sentimento che le accompagna? Il comico esige dunque, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa come una anestesia momentanea del cuore. Esso si rivolge all’intelligenza pura. Però questa intelligenza deve restare sempre in contatto con altre intelligenze. Ecco il terzo fatto sul quale desideravo attirare l’attenzione. Non gusteremmo il comico se ci sentissimo isolati. Sembra che il riso abbia bisogno di un’eco. Ascoltatelo bene: non è un suono articolato, netto, definito; è qualcosa che vorrebbe prolungarsi ripercuotendosi via via, qualcosa che comincia con uno scoppio e continua continua con rullii, come il tuono di una montagna. Eppure questa ripercussione non deve andare all’infinito. Essa può muoversi all’interno di un cerchio largo quanto vorrete, il cerchio resterà sempre chiuso. Il nostro riso è sempre il riso di un gruppo. Vi è forse capitato, in treno o a mensa, di ascoltare dei viaggiatori raccontarsi delle storielle che dovevano essere comiche per loro, poiché ne ridevano di cuore. Voi avreste riso come loro, se foste stati della medesima società. Ma poiché non lo eravate, non avevate alcuna voglia di ridere. Un uomo, al quale si chiedeva perché non piangesse a un sermone in cui tutti versavano lacrime, rispose: «Io non appartengo alla parrocchia». Ciò che quest’uomo pensava delle lacrime sarebbe stato molto più vero per il riso. Per quanto schietto lo si supponga, il riso nasconde sempre il presupposto di un’intesa, direi quasi di complicità con altri burloni, reali o immaginare. Quante volte non si è detto che il riso dello spettatore a teatro è tanto più largo quanto più è affollata la sala? Quante volte non si è fatto notare, d’altra parte, che molti effetti comici sono intraducibili da una lingua in un’altra, e per conseguenza relativi ai costumi e alle idee di una data società? Ed è proprio per non aver compreso l’importanza di questo duplice fatto che si è vista nel comico una semplice curiosità, in cui lo spirito si diverte, e nel riso stesso un fenomeno strano, isolato, senza rapporto con il resto dell’attività umana. Da ciò le definizioni che tendono a fare del comico una relazione astratta percepita con lo spirito nelle idee «contrasto intellettuale», «assurdità sensibile» ecc. definizioni che, se pur convenissero realmente a tutte le forze del comico, non spiegherebbero minimamente perché il comico ci faccia ridere. Donde verrebbe, infatti, che questa relazione logica particolare, appena percepita, ci contrae, ci dilata, ci scuote, mentre tutte le altre lasciano il nostro corpo indifferente? Non è da questo lato che affronteremo il problema. Per comprendere il riso, bisogna ricollocarlo nel suo ambiente naturale, che è la società, bisogna soprattutto determinarne la funzione utile, che è una funzione sociale. […] Determiniamo nettamente il punto in cui vengono a convergere le nostre tre osservazioni preliminari. Il comico nascerà, sembra, quando degli uomini riuniti in gruppo dirigeranno tutti quanti l’attenzione su uno di loro, facendo tacere la sensibilità ed esercitando solo l’intelligenza. (H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Rizzoli, Milano, 1991) L’arte di far ridere 17 L’arte di far ridere Plauto 1. Perché leggerlo? Plauto può essere considerato il primo grande autore della letteratura latina. Le sue commedie, infatti, costituiscono un modello di riferimento assoluto per tutto il teatro europeo fino al Novecento. Le opere di Plauto assumono particolare importanza essenzialmente per due motivi: • con Plauto si stabilizzano i connotati dei personaggi comici in termini fissi, per cui essi acquistano una evidente «trasferibilità» da un’epoca all’altra. Del resto egli stesso per questo motivo aveva potuto trarli dalla «commedia nuova» greca di Menandro. Questi personaggi sono, quindi, sempre gli stessi: il servus currens, che è il motore dell’azione, poiché, con la sua energia e le sue iniziative, risolve i problemi dell’adulescens, il giovane innamorato, incapace di agire e di conquistare il suo amore; il laeno o la laena, cioè i protettori delle prostitute che tengono chiuse le ragazze e impediscono al giovane di possederle o di sposarle; il senex, cioè il vecchio, ricco, brontolone, avaro, che gareggia col figlio, o con il giovane, per la conquista di una ragazza; poi il miles gloriosus, il colax (il soldato buffone; il parassita) ecc. Di qui la gradevole prevedibilità dell’intreccio, in cui, dopo un inizio complicato dall’impossibilità che i due amanti si uniscano, segue, alla fine della commedia, il suo felice scioglimento, di solito, grazie al servo; • sua è la famosa vis comica, cioè la comicità tutta racchiusa nell’uso brillante e creativo del linguaggio. Plauto è un maestro nei giochi di parole (paronomasie), allitterazioni, assonanze, vocaboli inventati, ritmi sempre diversi (numeri/innumeri), doppi sensi ecc., in cui egli mescola la lingua parlata con una lingua raffinatissima e letteraria. La commedia, così, diventa una lettura gioiosa e divertente, nell’iperbolica e irrealistica rappresentazione dei personaggi e delle vicende. Il successo delle sue commedie, al di là della potente vis comica affidata al suo linguaggio, consiste però nella sostanza antropologica che le sottende. Con Plauto si ha un vero e proprio rovesciamento carnevalesco dei ruoli: il servo è la mente dell’azione, (in lui si identifica lo scrittore), il padrone vecchio è ridicolizzato, il giovane è inerte e incapace, la lena è furba e forte ecc. In tal modo i valori topici della cultura delle origini, la sapientia del senex, la mitezza del servus, la vivacità dell’adulescens vengono garbatamente ridicolizzati, permettendo allo spettatore di cogliere la comicità delle situazioni serie. Il compiacimento, ad esempio, con cui Amphitruo accoglie “l’onore” che Giove abbia voluto sua moglie Alcmena mostra il comico della situazione matrimoniale, deprivata del principio fondamentale della fedeltà. 18 L’arte di far ridere Estratto della pubblicazione • Plauto 2. Il genere letterario di appartenenza: la commedia Aristotele definisce la commedia «imitazione drammatica di personaggi inferiori», (i brutti, i ridicoli, i deformi ecc.), contrapposta alla tragedia, «imitazione drammatica di personaggi superiori» (eroi, divinità, uomini potenti). La commedia ha origine in Grecia intorno al VI sec. a.C., quando si diffondono forme teatrali popolari, costituite da canti, danze e recite di attori improvvisati, le farse, nelle quali si impersonavano tipi fissi. Nella sua origine contadina è chiara la stretta connessione con feste e rituali legati alla fertilità e alla protezione dei campi: gli attori simulavano un’enorme pancia o organi genitali posticci, molto evidenziati, ad indicare la fecondità. Così, durante le falloforie si usava portare in processione grossi falli in segno propiziatorio e ben augurale. La parola perciò, secondo Aristotele deriva da komoidía, «canto della gioia bacchica», connessa con il culto di Dioniso, piuttosto che «canto del villaggio» (come qualcuno ritiene). Questi rituali primitivi convergeranno, poi, nella cultura romana delle origini, nelle Atellane, nel Mimo, nei Fescennini, conservando la loro matrice strettamente antropologica. La commedia greca vera e propria, invece, come testo scritto con attori recitanti e coro, parti dialogate, mutuate dalle farse e parti cantate, mutuate dalle falloforie, nasce, in seguito, con Aristofane, il più grande commediografo greco (445-388 a.C.). Gli studiosi alessandrini dividono la commedia greca in tre periodi: • la commedia attica antica (con Aristofane), in cui sono fortissimi i legami tra il testo letterario e il contesto sociale, perché gli attori esprimono le tesi politiche dell’autore, ponendo in ridicolo personaggi contemporanei. Di qui si spiega la “non traferibilità” dei modelli nella letteratura latina, in quanto troppo connessi con un ambiente tipicamente greco; • la commedia di mezzo, di cui non ci è rimasto nulla, ma probabilmente segna un passaggio da quella antica a quella nuova; • la commedia nuova (con Menandro 340-292 a.C.), in cui l’attenzione si sposta dal cittadino all’uomo, i personaggi sono “tipi fissi”, l’avaro, il servo, il parassita, l’innamorato ecc., “trasferibili”, appunto, in qualunque altro contesto, come avverrà, quando nascerà a Roma, su questo modello la commedia latina. Anche la struttura e il plot (= schema narrativo) resteranno fissi: l’amore contrastato, il vecchio che gareggia col giovane per la conquista della ragazza, generalmente schiava, lo scambio di persone, la conclusione felice grazie al servo astuto che scioglie ogni intrigo con il riconoscimento (l’agnitio) e permette ai due innamorati di sposarsi. Dopo il disordine iniziale, perciò, si ricompone sempre l’ordine, concluse tutte le peripezie, secondo la logica convenzionale del “racconto”, indicata da Aristotele. Ai canti del coro iniziali (pàrodos) della commedia antica subentrano gli intermezzi musicali, si fissano i cinque atti e viene introdotto il prologo, tipico poi della commedia latina. A Roma, attraverso la mediazione di Livio Andronico (III sec. a.C.), che attinge alla commedia nuova, nasce, dunque, la palliata, così detta dal pallium l’abito greco dei personaggi, ambientata in Grecia, anche se frequenti sono le allusioni al contesto romano. Nuova è la tecnica così detta della contaminatio, cioè di utilizzare, rielaborandoli liberamente, personaggi, dialoghi, scene ecc. tratti da commedie diverse. Secondo una riconosciuta consuetudine, la commedia da cui era stato tratto un personaggio o un dialogo o altro non poteva più essere riutilizzata da un altro autore. E questa consuetudine spiega la polemica contro Terenzio, accusato di aver contaminato troppe commedie, per scriverne poche e precluderne così ad altri l’uso. Le commedie di Plauto e di Terenzio, Estratto della pubblicazione L’arte di far ridere 19 • Plauto molto simili nella trama, negli intrecci topici e nel tempo, appaiono, invece, ben diverse per quanto riguarda la tipologia del personaggio (tipi «fissi» in Plauto; tipi «reali», «piccola gente», come li definisce Francesco Arnaldi, in Terenzio) e l’uso della lingua (straordinariamente vivace e fantasiosa in Plauto; elegante, raffinata e filosofica in Terenzio). L’analisi del testo teatrale, pertanto, deve tener conto non solo della struttura complessiva in cui un dialogo o una scena o un monologo sono inseriti, ma anche degli specifici aspetti linguistici che, in particolare nella commedia, dovevano produrre un’«accumulazione di senso» per lo spettatore. Così, ad esempio, la presenza costante di personaggi topici (l’adulescens, il senex, il servus currens ecc.) costituiva un fattore di confronto fra testi diversi, appagava l’«orizzonte di attesa» del pubblico o era destinato a deluderlo se, come nel caso di Terenzio, la psicologia più complessa del personaggio comportava un’attenzione e una riflessione troppo impegnative e uno scarto notevole rispetto alle conoscenze possedute dallo spettatore. Auerbach (Mimesis 1956, I, p. 38) osserva che «tutta la bassa realtà, tutto quello che è quotidiano deve essere rappresentato solo comicamente, senza approfondimento problematico. In tal modo si pongono al realismo dei limiti molto ristretti […] Per la letteratura realistica antica la società non esiste come problema storico, ma tutt’al più come problema moralistico e inoltre il moralismo si rivolge più all’individuo che alla società». Per Bachtin la commedia ha tutte le caratteristiche del carnevalesco con il rovesciamento dei ruoli (il servo più astuto del padrone, la prostituta più onorevole della signora ecc.) e dei valori dominanti (il soldato fanfarone anziché coraggioso ecc.). 3. La vita Tito Maccio Plauto nacque a Sarsina, in Umbria, intorno al 250 e morì nel 184 a.C. Della sua vita sappiamo ben poco. Dall’Umbria si trasferì a Roma, dove lavorò per compagnie teatrali. Investì male i suoi guadagni e si ridusse a dover lavorare come garzone presso un mugnaio. Scrisse così la sue prime tre commedie, (che non ci sono giunte) tra cui una forse autobiografica, l’addictus, lo schiavo per debiti. Ebbe successo e da quel momento diventò talmente famoso che a suo nome ci sono state tramandate moltissime commedie anche non sue. Varrone, un grammatico erudito del I secolo a.C., ne scelse 21 che raggruppò in ordine alfabetico (fabulae Varronianae): Amphitruo («Anfitrione»), Asinaria («La commedia degli asini»), Aulularia («La commedia della pentola»), Bacchides («Le Bacchidi»), Captivi («I prigionieri»), Casina («La fanciulla profumata di cannella»), Cistellaria («La commedia della cassetta»), Curculio («Il gorgoglione»: verme del grano), Epidicus («Epidico»), Menaechmi («I Menecmi»), Mercator («Il mercante»), Miles gloriosus («Il soldato fanfarone»), Mostellaria 20 L’arte di far ridere («La commedia del fantasma»), Persa («Il Persiano»), Poenulus («Il Cartaginesuzzo»), Pseudolus («Psèudolo»), Rudens («La gomena»), Stichus («Stico»), Trinummus («Le tre monete»), Truculentus («Truculento»), Vidularia («La commedia del bauletto»). La data di composizione va circa dal 200 al 191 a.C. Le commedie erano in 5 atti e in versi di metro vario. Le didascalie che le accompagnavano davano indicazioni sulla data di rappresentazione e sull’esito dell’opera. Il prologo aveva una duplice funzione: • fare una captatio benevolentiae, invogliare il pubblico, piuttosto rumoroso, rozzo e maleducato, ad ascoltare in silenzio e a non fare troppo chiasso; • riassumere il contenuto della commedia così da facilitarne la visione. Nelle commedie vi erano parti recitate (diverbia) e parti cantate (cantica), accompagnate dalla musica. Tuttavia, mancavano le parti del coro, che invece esistevano nella commedia greca. Estratto della pubblicazione • Plauto Questa differenza è molto significativa per capire la distanza tra le due culture: i Greci avevano previsto uno spazio per le evoluzioni del coro tra la cavea e la skenè (il palcoscenico); i Romani utilizzarono quello stesso spazio per collocarvi i sedili dei senatori. In Grecia l’arte aveva un valore superiore alla politica, mentre a Roma era il contrario. Gli attori erano tutti maschi, che recitavano anche le parti femminili. Portavano un alto calzare il soccus («zoccolo») per essere visti meglio e avevano un abbigliamento fisso che ne faceva subito individuare la funzione: ad esempio, chi portava il cappello a larga tesa (petasus) era lo straniero che veniva da lontano, chi aveva il vestito tirato su dalla cintura era il servus currens ecc. I personaggi indossavano il pallium, il mantello greco (da cui palliata), perché le commedie erano ambientate in Grecia, anche se le trame alludevano talvolta a una realtà tipicamente romana. Quando l’ambientazione sarà romana, la commedia si chiamerà togata (dalla toga romana). Il sipario aulaeum faceva anche da sfondo, per cui “alzare il sipario” significava far concludere la commedia e “abbassarlo”, darle inizio (al contrario di come avviene per noi). La scena era quasi sempre una piazza con una casa e gli effetti sonori si ottenevano con lamine metalliche che vibravano per indicare i tuoni. Plauto adottò la tecnica della contaminatio che già Nevio aveva iniziato: si attingevano personaggi, scene, dialoghi, trame, da diverse commedie greche per scrivere la propria. È importante ricordare, però, che ogni commedia utilizzata non poteva più fornire materiale per nessun altro scrittore, diventando, per così dire, esclusiva proprietà di chi l’aveva usata per primo. Plauto attinge i modelli alla Commedia Nuova greca (la Néa) del IV e III secolo a.C. il cui rappresentante più famoso è Menandro, poiché compaiono i tipi fissi, la cui utilizzazione in luoghi e tempi diversi è possibile e facilissima. 4. La trama delle commedie • Amphitruo (Anfitrione). Unica commedia a soggetto mitologico in cui sono presenti degli déi. Giove, si è innamorato di Alcmena la fedele moglie di Anfitrione: le si presenta allora sotto le spoglie del marito che è assente perché in guerra, e trascorre con lei una lunga notte d’amore. Mercurio, intanto, sotto le sembianze di Sosia, servo di Anfitrione, sta di guardia. Improvvisamente ritornano a casa il vero Anfitrione con il vero Sosia. Da questa situazione nascono una serie di esilaranti equivoci. • Asinaria (La commedia degli asini). Il giovane Argirippo cerca di riscattare la cortigiana Filenio di cui è innamorato. Il riscatto consiste nella somma di venti mine da dare alla madre della ragazza, che altrimenti offrirà la figlia al rivale Diabolo. Grazie alla complicità di suo padre Argirippo, che incarica due servi di casa di procurarsi il denaro, il giovane riuscirà a pagare il riscatto. • Aulularia (La commedia della pentola). Un vecchio avaro, Euclione, è preso dall’ossessione di essere derubato della sua pentola piena di monete d’oro e perciò la nasconde nel tempio della Buona Fede e successivamente in un bosco. Tra molte e inutili ansie dell’avaro, la pentola finisce davvero per sparire. Un giovane, innamorato della figlia di Euclione, con l’aiuto di uno schiavo, utilizza la pentola per ottenere le nozze con l’amata. • Bacchides (Le Bacchidi). Due sorelle gemelle chiamate entrambe Bacchide e tutte due cortigiane, vivono l’una a Samo, l’altra ad Atene. L’intreccio è estremamente complesso e l’intrigo ha un ritmo indiavolato, infatti, la “conquista” della donna viene in questo caso non solo raddoppiata, perché ci sono due giovani innamorati, ma anche turbata da una serie equivoci sull’identità delle Estratto della pubblicazione L’arte di far ridere 21 • Plauto • • • • • • • • gemelle. Il modello di questa commedia era il Dis exapatòn («Il doppio inganno») di Menandro: il recente ritrovamento di parti dell’originale greco permette finalmente, almeno in un caso, un confronto diretto fra Plauto e i suoi modelli greci. Captivi (I prigionieri). Il vecchio Egione ha perso due figli: uno, Tindaro, gli è stato rapito ancora bambino, l’altro, Filepolemo, è stato fatto prigioniero in guerra dagli Elei. Egione per riscattare il figlio prigioniero si procura due schiavi di guerra Elei, per tentare uno scambio: alla fine non solo ottiene indietro Filepolemo, ma scopre che uno dei prigionieri Elei in sua mano è l’altro figlio, da tempo perduto. Questa commedia si distingue dalle altre per l’assenza di personaggi femminili e, quindi, di qualsiasi intrigo a sfondo amoroso. Càsina (La fanciulla profumata di cannella). Della trovatella Casina si sono innamorati un vecchio, Lisidamo, e suo figlio, Eutinico: entrambi, quindi, escogitano di farla sposare a un proprio “uomo di paglia” per poi poterne approfittare. Il vecchio, che oltretutto è sposato, viene raggirato e trova nel suo letto un maschio, invece che la desiderata Casina. Il colpo di scena finale, in cui si scopre che la fanciulla è di libera nascita permetterà, poi, a Casina di sposare regolarmente il suo giovane pretendente. Cistellaria (La cestella). Il giovane Alcesimarco vorrebbe sposare la trovatella Selenio, mentre il padre gliene destina un’altra, di legittimi natali. Dopo varie vicissitudini il caso rivela la vera e regolare identità della fanciulla desiderata, permettendo ad Alcesimarco di sposare Selenio con l’assenso del padre. Curculio (Gorgoglione). La commedia prende il titolo dal parassita protagonista Curculio (= vorace insetto, parassita del grano). Per aiutare il suo padrone, il giovane Fedromo, innamorato della cortigiana Planesio, Curculio inscena un raggiro sia a spese del lenone della fanciulla sia di un soldato fanfarone che ha già comprato la ragazza. Alla fine non solo la fanciulla è riconosciuta di nascita libera, ma si scopre anche che il soldato ingannato è suo fratello e quindi Fedromo può felicemente sposare la donna. Epìdicus (Epidico). Il giovane padrone dello scaltro servo Epidico s’innamora in due tempi diversi di due cortigiane, affidando al servus l’incombenza di trovare ogni volta il denaro necessario a riscattarle. Epidico riesce varie volte a ingannare il vecchio padre del suo padroncino, carpendogli il denaro di cui ha bisogno. Ma, quando ormai le sue macchinazioni stanno per essere scoperte, una delle due ragazze viene riconosciuta figlia del vecchio il quale per riconoscenza affranca Epidico. Il padroncino innamorato ritrova, quindi, una sorella e si consola con l’altra cortigiana. Menaechmi (I Menecmi). Questa commedia, tra le più animate del teatro classico, costituisce il prototipo di tutte le commedie degli equivoci dovuti alla somiglianza di due personaggi. I due protagonisti sono i gemelli, Menecmo I e Menecmo II, che non si conoscono, perché separati fin dalla fanciullezza. Menecmo II diventato adulto parte alla ricerca del fratello e, arrivato nella città dove questi vive, scatena una incredibile confusione per la somiglianza e l’omonimia con il gemello. Mercator (Il mercante). La commedia si basa sulla rivalità amorosa tra un giovane e il suo vecchio padre per una bella schiava. Dopo una serie di mosse e contromosse, il giovane riuscirà ad avere la meglio sul vecchio padre, che ha fra l’altro una moglie battagliera, e si terrà la cortigiana che ama. Miles gloriosus (Il soldato fanfarone). La commedia presenta uno schema di fondo tipico: un giovane innamorato si affida a un servo arguto, Palestrione, per sottrarre a qualcuno la dispo- 22 L’arte di far ridere Estratto della pubblicazione • Plauto • • • • • • • • nibilità della ragazza amata, ma, durante un’assenza del giovane, la ragazza viene rapita dal miles Pirgopolinice, un soldato smargiasso e fanfarone, a cui un parassita fa credere di essere irresistibile con le donne. Il servo riuscirà infine a convincere il soldato che un’altra donna è innamorata di lui, spingendolo a liberare la fanciulla. Mostellaria (La commedia del fantasma). Il servo Tranione fa credere al vecchio padrone Teopropide, tornato all’improvviso da un viaggio di affari, che nella sua casa c’è un fantasma, per evitare che entri in casa e scopra in qualche modo le malefatte del giovane padrone che, in assenza del padre, ha dilapidato buona parte del patrimonio familiare. L’inganno non può tuttavia reggere a lungo, quindi grazie all’intercessione di un amico, la vicenda si chiude su un perdono generale al giovane libertino e al servo. Persa (Il persiano). Ancora una beffa ai danni di un lenone, solo che questa volta l’innamorato è lui stesso un servo: non manca però un altro servo con funzione di aiutante. L’inganno, che ha successo, prevede una buffa mascherata, in cui il servo-coadiuvante impersona un improbabile Persiano. Pseudolus (Pseudolo). Il giovane Calidoro ama la cortigiana Fenicio, che il lenone Ballione ha già venduto ad un miles per venti mine: quindici anticipate, più cinque che un messo del soldato sborserà entro la sera. Calidoro si affida al servus Pseudolo (= ingannatore), un modello di furbizia e di ingegnosa astuzia che si mette all’opera, superando progressivamente ogni ostacolo e vincendo addirittura un’impossibile scommessa con Simia, padre di Calidoro. Ballione perde la ragazza, è costretto a restituire il denaro al messo del miles e a sborsare per giunta altre venti mine a Simia per un’altra scommessa perduta. Poenulus (Il cartaginese). Il personaggio annunciato dal titolo è sul serio uno straniero, un Cartaginese. Rapiti in tenera età nella loro patria, Cartagine, vivono a Calidone di Etolia un giovinetto e le sue due cugine: ma se il giovinetto è ricco, le due fanciulle conducono invece una vita misera, in potere del lenone Lico. Giunge frattanto da Cartagine, in cerca delle figlie scomparse, il padre Annone che si incontra con il giovinetto ed è condotto da questi in casa di Lico, dove può riconoscere e riabbracciare le figlie. Rudens (La gomena). Un lenone, dopo aver promesso una bella fanciulla ad un giovane innamorato di lei, da cui ha ricevuto un lauto anticipo, decide di fuggire velocemente durante la notte per sfruttare altrove la ragazza. Il Caso vuole che la tempesta scarichi i naufraghi su una spiaggia sulla quale si trovano sia il padre della fanciulla rapita sia il suo innamorato: la ragazza, sottratta all’avido lenone, può finalmente riabbracciare il padre e sposare il suo innamorato. Interessante è il coro al principio del II atto, che costituisce un esempio unico nella commedia latina. Stichus (Stico). Un vecchio cerca di spingere le sue due figlie, sposate con due giovani, da tempo in viaggio per affari, a risposarsi, ma l’arrivo dei mariti risolve la questione. I due mariti si rappacificano con il vecchio suocero, soddisfatto dalle ricchezze da loro guadagnate. Assieme a loro torna anche il servo Stico, che organizza grandi festeggiamenti. Trinummus (Le tre monete). Lesbonico, un giovane scialacquatore, in assenza del padre Carmide ha dissipato buona parte del patrimonio familiare e ha perfino venduto la casa a un altro vecchio, Callicle, il quale per fortuna è un amico del padre e decide, perciò, di salvaguardare per il ritorno dell’amico un tesoro sepolto nella casa. Segue il lieto fine con il matrimonio dei figli di Carmide. Truculentus (Truculento). La commedia prende titolo dal nome del rustico e brutale schiavo Truculento di Strabace. Per la prima volta troviamo una cortigiana che non è elemento passivo: Estratto della pubblicazione L’arte di far ridere 23 • Plauto Fronesio è, infatti, una creatrice di inganni, che sfrutta e inganna i suoi tre amanti. Lo spostamento dei ruoli tradizionali fa sì che la protagonista sia tratteggiata in modo più fosco che la media dei “cattivi” plautini. • Vidularia (La commedia del baule). Il giovane Nicodemo, che era stato rapito da bambino, viene riconosciuto dal padre per mezzo degli oggetti conservati in un baule, scomparso in mare durante un naufragio e poi ritrovato da un pescatore. T1 Amphitruo II, sc. 2ª, 830-96; III, sc. 2ª, 897-907: Una moglie risentita Giove si è innamorato di Alcmena, la bella moglie di Anfitrione, donna onesta e soprattutto fedelissima. L’unico mezzo per poterla conquistare è quello di assumere l’aspetto fisico di suo marito, in modo che lei creda di avere un tranquillo rapporto coniugale. A tale scopo Giove si trasforma in Anfitrione e il suo aiutante Mercurio prende l’aspetto del servo di Anfitrione, Sosia, da cui deriva, appunto, per antonomasia, il termine «sosia», cioè identico. Dopo una lunga serie di equivoci, per il ritorno dalla guerra del vero Anfitrione, Alcmena darà alla luce due gemelli, l’uno figlio di Giove e l’altro del marito. Anfitrione saprà tutta la verità e sarà felice dell’«onore» ricevuto, per avere Giove scelto sua moglie. Nei versi che seguono Alcmena è sdegnata: il vero marito è tornato dalla guerra con i Teleboi e lei lo ha ricevuto stupita, poiché, poco prima, ha già accolto in modo affettuoso e festoso Giove che si è presentato sotto le spoglie di Anfitrione e le ha perfino raccontato episodi della guerra che egli, in quanto onnisciente, conosce bene, donandole una coppa d’oro, bottino della vittoria. Al vero Anfitrione, quindi, la moglie ricorda che poco prima sono stati già insieme ed egli è andato via in tutta fretta, lasciandola, anzi, un poco triste per la brevità dell’incontro. Anfitrione è furente: non crede alle parole di Alcmena, ma deve riconoscere la stranezza delle sue affermazioni, perché lei possiede già perfino quella coppa d’oro che le aveva portato, senza che egli gliel’abbia data. Ritiene, allora, che lei lo abbia tradito e mostra intenzione di ripudiarla. Amphitruo - Alcmena - Sosia Am. Nescio quis praestigiator hanc frustratur mulierem. Alc. Per supremi regis regnum iuro et matrem familias Iunonem, quam me vereri et metuerest par maxume, ut mi extra unum te mortalis nemo corpus corpore contigit, quo me impudicam faceret. Am. Vera istaec velim. 830. Nescio quis…mulierem: AM. «Non so quale impostore inganna questa donna». Praestigiator: deriva da praestigia, «inganni», la cui radice è quella del verbo praestringo (= «abbagliare»); si ricordi che i nomi in -tor indicano mestiere, per cui qui è come dire «ingannatore di mestiere»; nescio quis: in senso etimologico «non so chi»; frustratur: da frustror, «ingannare», della stessa radice dell’avverbio frustra (= «invano»); mulierem: si riferisce ad Alcmena. 831-34. Per supremi…istaec velim: ALC. «Ti giuro in nome del regno del re supremo e della protettrice della famiglia Giunone, che è doveroso soprattutto che io 24 L’arte di far ridere rispetti e tema, che nessun mortale, tranne te solo ha toccato il mio corpo col suo corpo in modo da rendermi impudica». AM . «Vorrei che fosse vero». Supremi regis: riferito a Giove, la formula appare tanto solenne, quanto ridicola per lo spettatore che sa, invece, come proprio Giove sia stato da lei; familias: genitivo arcaico; Iunonem: protettrice del parto (col nome di Lucina) e delle donne (col nome di Virginalis e Matronalis, donne vergini e sposate). Perciò giurare in suo nome era un segno di grande sacralità. Notare che supremi regis e Iunonem sono collocati in rilievo in incipit; metuerest: forma sincopata per Estratto della pubblicazione 830 metuere est; i due infiniti vereri e metuere: dipendono dalla formula impersonale par est; quam: concordato con Iunonem; maxume: sta per maxime, avverbio; vereri, metuere: significano «rispettare» e «temere»: nel De Senectute (11, 57) Cicerone sottolinea la differenza tra i due verbi: metuebant eum servi, venerabantur liberi («lo temevano i servi, lo rispettavano i figli»); ut…contigit: dichiarativa dipendente da iuro; corpus corpore contigit: il nesso allitterante e il poliptoto fanno percepire come una sorta di balbettamento che tradisce l’emozione; quo: sta per ut hoc, consecutiva, «così che con questo»; impudicam: parola chiave