e non nell`apparire. è una verità confermata mille

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Uomini che hanno fatto la Storia
IL VERO POTERE
STA NELL’ESSERE...
[ DI
GIANLUCA TENTI
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CORBIS
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H E N RY K I S S I N G E R , QU I R I T R AT TO N E L L A S I T UAT I O N R O O M , A L L A CA SA B I A N CA ( L A FOTO È D E L 1 9 6 9 ) , È S TATO S E G R E TA R I O D I S TATO S OT TO L E
P R E S I D E N Z E D I R I C H A R D N I XO N E G E R A L D FO R D . U N A M E N T E R A F F I N ATA S U L LO S CAC C H I E R E I N T E R N A Z I O N A L E , P E R A N N I L ’ U O M O P I Ù P OT E N T E D E L L A
TERRA. NELLA PAGINA A FIANCO, ENRICO CUCCIA: HA TIRATO PER DECENNI LE FILA DELLA FINANZA ITALIANA MANTENENDO UNO STILE DI VITA MONASTICO.
CORBIS
. . . E N O N N E L L’ A P PA R I R E . È U NA V E R I T À C O N F E R M ATA M I L L E
V O LT E N E L L A S T O R I A R E C E N T E , C H E P E R Ò S F U G G E A G L I
E F F I M E R I P R O TAG O N I S T I D E L L E C R O NAC H E , C I C A L E
C H I A S S O S E D E S T I N AT E A BA L L A R E P E R U N A S O L A E S TAT E
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IN CASO DI GUERRA, L’IMPORTANTE È VINCERE E VINCE SOLO CHI SA PROGRAMMARE IN MODO CHE QUANDO SI SCENDE IN CAMPO SI OTTENGA IL MASSIMO
PROFITTO NEL MINOR TEMPO POSSIBILE, MEGLIO SE SENZA COMBATTERE O COL MINIMO DI PERDITE: QUESTA LA LEZIONE DI SUN TZU (SOPRA, A SINISTRA,
UN RITRATTO DEL IV SECOLO A.C.) NEL TESTO «L’ARTE DELLA GUERRA». A DESTRA, NICCOLÒ MACHIAVELLI E, NELLA PAGINA A FIANCO, GIULIO ANDREOTTI.
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pi di volumi dai titoli inequivocabili come Esercizio del potere e arte della persuasione. E questa scuola di pensiero ha partorito un esercito di spregiudicati speculatori che arrivano spesso dalla teoria senza pratica. Dalle cattedre conquistate coi moti del ’68. Dall’arte tutta italiana della raccomandazione. Dalla corsa all’arricchimento ignorando le regole. Dall’intrallazzo. Dalla tessera di partito. Dall’uso distorto del potere. Per cui oggi tutto finisce
nel tritacarne del qualunquismo e passa l’equazione denaro=potere, che è un
concetto alquanto discutibile. Almeno quanto la presunzione di chi, affetto da delirio di onnipotenza, crede di comandare il mondo con un telefonino sentendosi intoccabile, ma anche di chi sulle intercettazioni telefoniche costruisce le sentenze già scritte di una giustizia senza prove. Ecco perché alla fine si capisce che il potere, quello vero, non appartiene alle mode
dettate da presunti guru della
comunicazione, ma a una serie
limitata di esempi che anche
nella negazione della legalità
costituita hanno un loro stile.
Motivo per cui, provocatoriamente, alla fine risultano più
affidabili i pizzini di U’ Binnu-Provenzano che non l’ostentazione di un successo artificiale. Provenzano il suo potere l’ha esercitato lungo oltre
quarant’anni di latitanza, vivendo solitario, preparandosi
la ricotta, mentre il mondo intero lo cercava. Per riuscire ad
arrestare questo Capo dei capi
la polizia ha impiegato lunghe
settimane di appostamenti. E
per arrivare a capo del suo impero sono state necessarie ancora settimane anche solo per decrittare quegli appunti che tanto hanno fatto discutere. Ma
come, si è domandata l’Italia, il capo della mafia viveva così?
Inconcepibile agli occhi di quanti si sono assuefatti alle icone taroccate del
successo dei giorni nostri, alla generazione degli impomatati da fuoribordo, dei laccati da fuoriserie, di chi indossa un capo solo perché è il più costoso, senza neppure capire cosa acquista. Ed ecco la prima verità: il potere, quello vero, non è mai ostentato. Come la vera eleganza e lo stile. E pensare che noi italiani, campioni del mondo per qualità della vita (oltre che nel
calcio), arriviamo da tutt’altri percorsi. Da noi «potenza» e «potestà» esistevano già ed erano esercitate da dinastie che hanno costruito le ricchezze del Bel Paese. Altra cosa rispetto al «possesso» detenuto dai conquistatori alla Gengis Khan. Il sostantivo ha acquistato un’enorme diffusione, in
tutte le lingue occidentali. Il power inglese, il pouvoir francese, il poder spagnolo. Termini che non sono stati da meno dell’italiano potere. Anzi. Il divo Giulio ha reso questo concetto eterno: «Il potere logora chi non ce l’ha».
Mi riferisco, ovviamente, a Giulio Andreotti. Un testimonial ideale di cosa sia e come si eserciti il potere in Italia, a tal punto da essere unanimemente
riconosciuto come il grande vecchio della politica. Lui che ha dominato la
scena per cinquant’anni: sette volte presidente del Consiglio, otto volte ministro della Difesa, cinque degli Esteri, due delle Finanze, del Bilancio e dell’Industria, una volta ministro del Tesoro e una dell’Interno.
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All’inizio era il verbo. Già, perché in latino «possum» è davvero un verbo e
non un sostantivo. Poi qualcosa è cambiato, non solo in grammatica. E il termine «potere» è entrato prepotentemente nel vocabolario quotidiano come
significato astratto che può essere adattato alle più svariate circostanze. Si
parla, per esempio, di potere politico, giudiziario, religioso, si fa riferimento a forme come «abuso di potere», si motivano sentenze «in virtù del potere conferitomi». Insomma, è un dilagare di potere, anche se gli eccessi dei
tempi moderni portano spesso a confondere il significato intrinseco del termine. E in una società sempre più votata all’apparire che non all’essere si è
persa anche l’essenza stessa di questa parola che è, in realtà, summa dei valori richiesti per una posizione di comando: autorevolezza, competenza, etica, rispetto e riservatezza. Tutto il contrario, insomma, di quanto certe testate giornalistiche vanno propinandoci ormai da oltre un
ventennio. Più o meno da
quando la zecca della comunicazione emise il conio di «yuppies» e tutti, in Italia, si professarono self made man, ambirono a diventare uomo copertina, in una corsa sempre
più vorticosa alla cura maniacale
di un’immagine che alla fine è
risultata spesso senza contenuto. All’ostentazione di una certa qual forma di potere come
status symbol prim’ancora di
capire cosa effettivamente significhi potere. Che invece i siciliani concepiscono saggiamente in una massima: «Cumannari è megghiu ca futtiri» (comandare è meglio di fottere). Proprio così, perché il vero potere (che, come tale, può essere esercitato solo da poche
eminenze) vale assai più di una collezione di ville, auto e yacht o di pacchetti
azionari. Ma cos’è questo potere? Un tempo, per parlarne, si riportavano riferimenti chiari e inequivocabili. Si parlava cioè di «potestas», «auctoritas»
e «virtus». L’Antica Roma concepiva, per esempio, le cariche pubbliche come incarichi che non erano associati a un potere concreto (che restava in mano all’imperatore e in parte alla casta sacerdotale). Poi qualcosa mutò. La società si adeguò al cambiamento e, sviluppando nuove forme di organizzazione, adottò differenti funzioni di potere che portarono alla concezione di
poteri (intesi come entità) dopo il Medioevo, tanto che in più di un volume si arriva alla definizione di «separazione dei poteri» solo all’epoca di Montesquieu. Dubito che gli autoproclamati potenti della società contemporanea sappiano di cosa si stia parlando, ma questa in fin dei conti è la missione
di Monsieur: raccontare le verità che gli altri non vedono (o non vogliono
vedere). Ma torniamo al potere. Negli anni 80, come dicevo, fu tutto un fiorire di pubblicazioni, manuali e fascicoli dedicati a «come raggiungere il successo» e quindi il (presunto) potere. Nelle università delle lauree per corrispondenza attribuite solo ai migliori offerenti da improvvisati, quanto redditizi, atenei stranieri, neppure si presero la briga di spiegare che cosa c’era scritto in testi come L’arte della guerra di Sun Tzu o Il principe di Niccolò Machiavelli. No, l’imperativo era vincere la battaglia del marketing a col-
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Credono di dominare il mondo col telefonino
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GIANNI LETTA (SOPRA, A SINISTRA) PORTA A LIVELLI ELEVATISSIMI LA RAFFINATA ARTE DELLA MEDIAZIONE, RESTANDO DIETRO LE QUINTE. A DESTRA, BERNARDO
PROVENZANO, ESEMPIO DI COME ANCHE IN CAMPO CRIMINALE IL VERO RISPETTO SI OTTIENE EVITANDO OGNI OSTENTAZIONE. NELLA PAGINA A FIANCO, GIOVANNI
AGNELLI RITRATTO DA GIUSEPPE PINO NEL 1980: DOPPIOPETTO E CAR SHOES PER DIMOSTRARE CHE LA PERTINENZA È UNA DOTE CHE SI RICEVE ALLA NASCITA.
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re da accuse pesanti come quella di aver avuto un ruolo nel colpo di Stato
di Pinochet. Durante il Watergate, alle dimissioni di Nixon, rimase alla segreteria di Stato nell’amministrazione Ford: sulla sua figura pesano come
macigni le accuse relative all’invasione di Timor Est del 1975. Ma anche in
questo caso, pur in presenza di indagini approfondite, non si arriverà mai
a una condanna. Ecco, il potere politico ha il volto di personaggi come Andreotti e Kissinger. Ha la forza di un presidente emerito della Repubblica
come Francesco Cossiga che dalle colonne di Libero arringa (lui che pure
è stato presidente del Csm) la magistratura italiana sulle relazioni dei servizi segreti e sui relativi segreti di Stato. Ma se lasciamo il campo della politica, parlando di potere effettivo dobbiamo fare altri veloci esempi. Il primo è economico-finanziario. Parlo di Enrico Cuccia, genero di Alberto Benedice cioè una delle eminenze
grigie dell’economia durante il
Fascismo (era l’uomo che fondò Ina, Inps e Iri). Di lui molto si è scritto. Certamente molto più di quanto Cuccia non
abbia parlato, perché lui voleva
parlare solo con le operazioni e
non attraverso i giornali: fatti e
non parole. Tutti lo ricordano
schivo, nella sua passeggiata
mattutina fino alla sede di via
Filodrammatici a Milano dove
oggi c’è, non a caso, piazzetta
Cuccia. Una delle sue rare battute ci aiuta a capire qual è il vero concetto di potere per l’uomo che ha dettato le alleanze
tra industria e sistema bancario:
«Le azioni si pesano, non si contano» (come dire: in un’azienda non è importante il patrimonio, ma chi detiene il potere). E lui il potere economico lo ha detenuto dal 1946 agli anni 2000, da quando cioè la Banca Commerciale di Raffaele Mattioli lo mise a capo di Mediobanca. Di lui gli archivi giornalistici ricordano accordi e transazioni che hanno fatto epoca. Cuccia è l’uomo che salvò la Montecatini, portandola alla fusione con la Edison, fu regista di salvataggi per imprese che portano il nome di Fiat, Pirelli e Olivetti. In particolare l’asse con un altro grande esponente del potere,
Gianni Agnelli, produsse risultati al di là di ogni aspettativa. Basti pensare che nel 1976 ebbe un ruolo chiave nella cessione di azioni Fiat alla Libia quando l’azienda era alla disperata ricerca di capitali. Andate a rileggervi
il libro di Giancarlo Galli su di lui. E capirete meglio cos’è il potere. A iniziare, ancora una volta, da uno stile che oggi si potrebbe banalizzare in low
profile e, invece, era e rimane un’esigenza dettata dalla serietà dell’agire.
C’è poi un riferimento a un grande servitore dello stato: Gianni Letta. Di
lui mi piace ricordare due aneddoti. «Un giorno lesse che dietro ogni grande carriera c’è una sveglia alle sei», ha scritto Giancarlo Perna. «Da allora
si alza alle sei meno un quarto». Ma soprattutto c’è il ricordo di quando il
Tempo doveva trovare il sostituto del direttore Renato Angiolillo. «Resterò 15 giorni», disse un mattino del 1973 Letta. Lasciò la direzione nell’88,
prima di approdare a una politica di servizio, mai ostentata, da abile regista anche a Palazzo Chigi. Ecco, questo (più o meno) è il vero potere.
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Sempre in Parlamento dal 1945 (fu eletto, tanto per capirci, già all’Assemblea
costituente). Ora, si può discutere sulla sua figura, ma è innegabile che il potere esercitato da Andreotti sia forse il più forte mai concepito nell’Italia del
dopoguerra. E non solo per le centinaia di nomine che il senatore a vita ha
fatto. Lui che a 28 anni era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio
nel governo di Alcide De Gasperi, e che nel 1976, stagione del compromesso
storico, affrontò le emergenze di una profonda crisi economica e del terrorismo. Lui che nel 1978 è stato protagonista delle scelte di un governo di
solidarietà nazionale che prevedeva il voto favorevole anche dei comunisti
in piena Guerra Fredda. Lui che era alla guida della politica italiana quando Aldo Moro venne rapito e, con un Paese sull’orlo di una crisi senza precedenti, non cedette al ricatto brigatista ma, anzi, sposò la linea della fermezza contro le Br, con l’accordo di Pci e Repubblicani.
Lui che è riuscito a recitare un
ruolo da protagonista sulla scena internazionale con scelte
che, storicamente, segneranno
la vita d’Italia: appoggio alla
strategia atlantica; ruolo primario nell’ambito delle crisi
mediorientali; sostegno ai Paesi dell’Est nel cammino verso la
democrazia... Se non è potere
questo... Anche con tutto ciò
che ne consegue: ogni suo gesto
è stato oggetto di amore-odio,
perché alla fine questo è il prezzo da pagare quando si detiene
così a lungo il potere. Lo sa bene Andreotti che, verso la metà degli anni 90, in odore di Quirinale, fu processato da due procure: quella di Perugia (l’accusa: essere stato il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli) e quella di Palermo (collusione con la mafia).
Andreotti non ha mai avuto bisogno di ostentare il potere, l’ha gestito. Non
si è mai messo in mostra, perché era il suo profilo che cercavano i riflettori di tutto il Paese. Ha superato crisi, ostacoli e tragedie. Con la forza della sua fede e di indimenticabili battute. Penso ad Andreotti e vedo solo un
suo «sosia» a livello internazionale. Henry Alfred Kissinger, politico statunitense di prima caratura, segretario di Stato sotto le presidenze di Richard
Nixon e Gerald Ford. Una mente raffinata sullo scacchiere internazionale,
per anni l’uomo più potente della Terra. Lui, che era stato ingaggiato inizialmente come traduttore per il tedesco dal controspionaggio e che, dopo
i massimi voti ad Harvard, entrò in politica avvicinandosi a Nelson Rockefeller per poi diventare segretario di Nixon. Certo, la piazza americana lo ha
spesso contestato, ma è grazie a lui che si lavorò concretamente a un allentamento della tensione con l’Unione Sovietica, a negoziati e trattati rivoluzionari (nel 1971 sarà per due volte in Cina, in missione segreta, per preparare il viaggio di Nixon con il quale si avviò la normalizzazione delle relazioni con gli Usa). Due anni più tardi ricevette il premio Nobel per la pace dopo l’avvio della composizione del conflitto vietnamita. E anche in questo caso siamo di fronte a un potere assoluto, di un protagonista del mondo che non ha mai ostentato la propria potenza. Che si è dovuto difende-
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Resterò 15 giorni, disse, ma restò per 15 anni
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