1 Il sole non era ancora sorto e l`aria era fredda e pungente, l`uomo

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1 Il sole non era ancora sorto e l`aria era fredda e pungente, l`uomo
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Il sole non era ancora sorto e l’aria era fredda e pungente, l’uomo si strinse la coperta sulle spalle e
con un legnetto rinfocolò la brace addormentata nella cenere. Vivevano nel deserto da più di tre
settimane, ma né lui né i suoi compagni sembravano accorgersi delle condizioni estreme che si
susseguivano ogni giorno. Mise un bricco di latta sulle fiamme che si erano sprigionate e attese che
il caffè bollisse. La notte sembrava ancora più nera in quell’ora che precede l’alba, le stelle erano
già tramontate e lui non riusciva a scorgere il profilo delle montagne a nord-ovest.
L’aroma caldo gorgogliò e si sparse per il campo, mentre gli uomini si alzavano e si avvicinavano
alle fiamme che guizzavano allegre nelle tenebre circostanti. Nessuno parlava, era gente avvezza al
silenzio del deserto, che non sprecava le parole, si fidavano dell’uomo che li aveva guidati fino a
quel momento e non si ponevano domande.
Un ragazzo, poco più di sedici anni, mise sul fuoco una pignatta contenente spezzatino di montone e
si accovacciò in paziente attesa.
In lontananza, una iena lanciò il suo urlo sadico nella notte, la risata oscena fu ripresa prima da una,
da un’altra e poi dall’intero branco, e si propagò nell’aria immobile, sembrò rimbalzare sul terreno
roccioso e rotolare lontano, fino a perdersi nel buio. Ad est, le tenebre incominciarono a dissolversi
e un chiarore lattiginoso si propagò velocemente nel cielo, mentre le sagome delle basse colline del
deserto del Sudan sorgevano dal nero una dopo l’altra. Gli uomini mangiarono insieme,
accovacciati intorno al paiolo in cui intingevano pezzi di focaccia di mais. Terminarono, spensero le
fiamme e coprirono con attenzione i resti della brace fino a che non ne rimase traccia, poi raccolsero
gli zaini e si incamminarono verso nord. Il caldo si fece sempre più opprimente, il cielo assunse un
colore giallognolo e l’aria prese ad ondeggiare, tremolare e ad ingannare la vista. La colonna
proseguì come un serpente, snodandosi tra gli avvallamenti delle colline e mantenendo un’andatura
costante che permetteva di percorrere decine di chilometri ogni giorno. Il sole superò lo Zenit e
l’uomo in testa alzò la mano destra. Decine di piedi si fermarono all’unisono e la lunga fila rimase
immobile, attendendo ordini. Quando ripresero la marcia si diressero verso uno scarno bosco di
alberi rinsecchiti, cresciuti a ridosso di una collina dalla forma di leone addormentato. Si
accamparono e attesero. Appena l’imbrunire oscurò il cielo e raffreddò l’aria, il capo si alzò e
s’incamminò verso la cima dell’altura, la raggiunse e si sedette con le spalle addossate alla roccia.
«Ti vedo, Mujane.» La voce spuntò dal silenzio più assoluto e fece sobbalzare l’uomo, «tu e i tuoi
cuccioli siete in ritardo, vi aspettavo tre notti fa.»
«Anch’io ti vedo, Chui, sei sempre silenzioso come un leopardo.» L’uomo sorrise nella notte e i
denti biancheggiarono come un lampo nel cielo. «Ho dovuto allungare la strada perché avevano
mandato gli elicotteri a cercarci.»
«Sì, li ho visti volteggiare come avvoltoi», disse l’altro interrompendosi per sputare un grumo di
saliva nel vuoto, «i veri uomini non combattono dal cielo.»
Rimasero in silenzio ad ascoltare il suono del vento della sera tra le rocce e guardarono le prime
stelle sorgere. L’Africa ha i suoi tempi, non esiste fretta nelle sue distese sconfinate, segue un ritmo
ancestrale, lento come il trascorrere dei secoli. Chui aprì la piccola borsa di pelle d’antilope che
teneva legata alla cintura, prese un pizzico di tabacco nero da fiuto, lo aspirò e starnutì con
soddisfazione, poi passò il sacchettino all’uomo seduto al suo fianco e attese che fiutasse a sua
volta.
«Lumube ti aspetta fra tre giorni a qualche chilometro a ovest di Heglig.» Il richiamo lugubre di una
iena si levò poco lontano e si spense lentamente. «Ci sarà una grande battaglia e i figli del deserto si
faranno onore.»
«Sì», assentì Mujane, «si faranno onore.» L’uomo si alzò e strinse una spalla al messaggero.
«Riferisci a Lumube che gli porterò uomini assetati di sangue. Va’ in pace, Chui.»
«Va’ in pace anche tu, Mujane» e scomparve nella notte.
Lumube era appostato con i suoi uomini nei pressi di un piccolo villaggio a pochi chilometri ad
ovest dei campi petroliferi di Heglig. Due giorni prima, mimetizzato nel paesaggio arido che
caratterizza la maggior parte del Sudan, aveva osservato i Janjaweed, le truppe arabe del governo di
Khartoum, fare pulizia. Erano arrivati a cavallo nel tardo pomeriggio e senza proferire una parola
avevano cominciato il loro lavoro. Avevano radunato donne, bambini e vecchi e li avevano
rinchiusi nel recinto delle bestie, poi, sotto gli occhi degli uomini della tribù legati mani e piedi,
avevano fatto fuoco. Per dieci minuti il rumore delle raffiche di mitra fu a tratti sovrastato dalle
grida dannate di padri, fratelli e mariti, poi una ventina di colpi singoli misero fine a tutto. Lumube
era rimasto immobile, nascosto tra la sabbia di una collinetta che sovrastava il villaggio, aveva
assistito al massacro senza battere ciglio. Aveva quarantatre anni ed era un mercenario da sempre.
In tutti quegli anni al servizio di governi indifferenti ai diritti umani aveva assistito ad abbastanza
dolore da non sentirne più il gusto asprigno e metallico. Gli scorreva addosso, come semplice
acqua. Le fiamme brillavano nell’oscurità danzando oscenamente sui resti della piccola comunità
agricola di un centinaio di persone, le urla si erano spente da tempo e anche i Janjaweed se ne erano
andati, lasciando il luogo agli spettri. Lumube si alzò e si scrollò la sabbia e l’indolenzimento della
lunga sosta forzata con una scrollata di spalle, poi si avviò verso i suoi uomini, accampati in uno
wadi distante un paio di chilometri, in attesa degli ordini. Nel pomeriggio, mentre procedevano in
convoglio verso il punto scelto per l’incontro con i rinforzi in arrivo dal sud, avevano avvistato una
nuvola di polvere che si avvicinava velocemente. Si erano fermati nel letto prosciugato di un antico
corso d’acqua e avevano preparato un campo minato di protezione, mentre la sabbia sembrava
arrestarsi, sospesa nell’aria bollente. A quel punto, Lumube aveva deciso di andare personalmente
in avanscoperta e, rimanendo bloccato sulla cima della collina, aveva informato i suoi uomini via
radio di non fare nulla e attendere ordini, quindi era rimasto immobile ad osservare. Lanciando un
segnale ai quattro armati che aveva scorto nell’oscurità, rifletté su un dato di fatto: il villaggio
bruciato non sarebbe stato controllato per molto altro tempo e lui avrebbe potuto disporre di un
campo base relativamente sicuro a solo una ventina di chilometri dal bersaglio e, non ultimo, di un
pozzo con acqua potabile in un territorio dove quel liquido valeva più dei diamanti grezzi ad
Amsterdam. Sorrise e scivolò come un surfista sulla sabbia che ricopriva le pareti dello wadi. Andò
diretto alla sua jeep e fischiò. Un attimo dopo due uomini gli si avvicinarono. Erano di una delle
mille tribù africane, non si era mai chiesto chi fossero e perché facessero quel mestiere, a lui
importava solo che obbedissero agli ordini e sapessero sparare, non aveva bisogno di un braccio
destro con cui consigliarsi, solo di sottoposti da comandare.
«Nyoka, disponi i camion distanziati e mimetizzali con le reti, lascia una decina di uomini a
guardia. Mbuyu, tu invece fai prendere quello che serve per il campo e dì agli uomini di seguirci, io
e te andiamo a dare un occhio al lavoro degli arabi.»
Khartoum sembrava morta, viste le strade deserte e le case con gli scuri chiusi, invece covava la
rinascita quotidiana nel fresco delle abitazioni, dietro ai pesanti tendaggi, nell’atmosfera satura di
spezie e di fogne a cielo aperto. Nel palazzo presidenziale, l’attività era ridotta al minimo, ma
nell’ufficio del capo di Stato ferveva un’insolita agitazione. Omar El Beshir ascoltava attentamente
quello che un uomo alto e sottile come il fusto di una palma da datteri gli stava raccontando. Nel
Darfur la situazione era degenerata, centinaia di persone erano fuggite verso i confini del Chad dove
le organizzazioni umanitarie erano pronte ad accoglierle e ad ascoltare i racconti dell’inferno da cui
erano scampate. I Janjaweed non erano riusciti nel loro compito: quelle milizie fuori dal tempo
erano state inviate laggiù per mettere a tacere l’opposizione a Khartoum e invece avevano
trasformato un rumoroso malessere in un caso internazionale. Il presidente aveva un’espressione
indecifrabile in volto e mantenne uno stretto silenzio anche quando Mohamed Pasha terminò il suo
resoconto. Il messaggero era appena tornato dal Darfur ed indossava ancora gli abiti che aveva
durante la marcia forzata, ordinatagli per raccogliere informazioni dettagliate. Non aveva mangiato,
non si era lavato e non aveva nemmeno pregato ed era impaziente di tornare a casa per compiere le
sue abluzioni e i suoi riti. Mohamed non era un militare e nemmeno un politico, faceva parte dello
staff presidenziale per meriti personali. Era il marito di una delle cinque sorelle del presidente,
aveva studiato legge e faceva l’avvocato e, non essendo coinvolto negli intrighi di potere, era un
uomo super partes il cui parere era tenuto in gran considerazione dal primo uomo del Sudan.
«Mi hai portato brutte notizie che confermano quelle che già sapevo. Speravo di riuscire a riportare
l’ordine prima dell’arrivo dei Caschi Blu ONU. Ma mi sbagliavo.» El Beshir sembrò invecchiato di
dieci anni nell’arco di un minuto.
«Quando arriveranno?»
«Domani atterrerà il primo contingente, quello italiano.»
Mohamed Pasha corrugò la fronte e prese una sigaretta senza filtro da un pacchetto gualcito che
teneva nella tasca della giacca militare, la accese con calma e fece un’osservazione. «Ho letto il
contenuto della missione, i Caschi Blu sono destinati a proteggere proprietà e personale ONU, non
dovrebbero muoversi da Khartoum e tanto meno andare nel Darfur. Di cosa ti preoccupi allora?»
Il presidente alzò lo sguardo senza posarlo su nulla in particolare, rimase per qualche istante in un
luogo remoto ed inaccessibile, poi tornò al presente e sospirò:
«È una questione complessa, Mohamed, tenuta in equilibrio da un sottile gioco di interessi: se gli
americani riusciranno a metterci un piede sarà la fine del nostro paese come lo conosciamo.»
Guardò il cognato dritto negli occhi e sorrise. «Grazie, potevo fidarmi solo di te, ora torna pure a
casa dalla tua famiglia, ti ricompenserò per quello che hai fatto.»
Mohamed Pasha annuì imbarazzato e con un gesto di saluto uscì dall’ufficio del presidente,
lasciando il cognato da solo con i suoi pensieri, felice di tornare alla sua quieta esistenza. Per la
prima volta si accorse di non invidiarlo. No, sorrise tra sé, non lo invidiava per nulla.