La sentenza della Corte di giustizia dell`Unione Europea in tema di

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La sentenza della Corte di giustizia dell`Unione Europea in tema di
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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ENRICO MARIO AMBROSETTI
Professore ordinario di Diritto penale – Università di Padova
La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea
in tema di disapplicazione dei termini di prescrizione:
medioevo prossimo venturo?
The judgment of the Court of Justice of the European Union (CJEU)
concerning the disapplication of rules limiting the interruption of
the prescription periods: in the years to come Middle Ages is to be
expected?
La decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea impone al giudice nazionale di disapplicare le norme che
impediscono allo Stato interessato di rispettare gli obblighi imposti dall’art. 325, § 1 e 2, TFUE nella causa C–
105/14 (Taricco) ed in specie la normativa italiana in tema di prescrizione del reato prevista all’art. 160, ultimo
comma, c.p., che prevede, in presenza di un atto interruttivo, un prolungamento di solo un quarto del periodo, nel
caso in cui tali norme impediscano di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi
di frode grave che ledono gli interessi finanziari della Unione. Tale decisione – così come è stato riconosciuto dalla
Corte d’Appello di Milano – si pone in palese contrasto con il principio di legalità, legittimando la Corte costituzionale ad attivare quei “controlimiti” rappresentati dai principi fondamentali dell’ordinamento italiano.
The decision of the Court of Justice of the European Union (CJEU) oblige the national judge to disapply the rules
and regulations which prevent the concerned State from respecting the obligations imposed by Art. 325 § 1, 2
TFUE (Taricco) judgment and specifically the Italian regulations concerning the requirement crime provided for by
Art 160, last paragraph, Criminal Code, which provides, in case of interruption, for a period to be extended by only
a quarter following interruption, in case the above mentioned rules bar to administer effective and dissuasive penalties in a significant number of serious fraud cases which prejudice the financial interests of the Union. Such decision – as it has been recognized by the Milan Court of Appeal – clearly conflicts with the principle of legality, and
thus legitimating the Constitutional Court to activate those “counter-limits” which are represented by the fundamental principles of the Italian legal system.
LA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA: I PRIMI EFFETTI NELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO E DI LEGITTIMITA’
Nell’ambito dell’ormai ricorrente dibattito in tema di prescrizione del reato si apre un nuovo scenario. L’8
settembre è stata pubblicata la decisione della Corte di Giustizia UE nella causa C– 105/14 (Taricco) con la
quale la Grande Sezione ha dichiarato che la normativa italiana in tema di prescrizione del reato prevista
all’art. 160, ultimo comma, c.p., che stabilisce, in presenza di un atto interruttivo, un prolungamento di
solo un quarto del periodo previsto dall’art. 157 c.p., è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati
membri UE dall’art. 325, § 1 e 2, TFUE, nel caso in cui tali norme impediscano di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari della
Unione. Conseguentemente, il giudice nazionale in tali casi è tenuto a disapplicare le norme che impediscono allo Stato interessato di rispettare gli obblighi imposti dall’art. 325, § 1 e 2, TFUE 1.
1
La sentenza C. giust. UE, Grande Sezione, 8 settembre 2015, è pubblicata in www.archiviopenale.it, con nota di G. Civello, La
sentenza “Taricco” della Corte di Giustizia UE: contraria al Trattato la disciplina penale in materia di interruzione della prescrizione del
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A fronte di questa pronuncia la giurisprudenza italiana si è schierata su fronti opposti.
La terza Sezione della Corte di Cassazione, all’udienza del 17 settembre 2015, ha dato per la prima
volta applicazione alla sentenza Taricco, affermando che in un procedimento penale riguardante il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti al
fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto (IVA), il combinato disposto dell’art. 160, ultimo comma,
c.p. e dell’art. 161 di tale codice – come modificati dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 –, il quale prevede
che l’atto interruttivo verificatosi comporta il prolungamento del termine di prescrizione di solo un
quarto della sua durata iniziale, è idoneo a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’art.
325, § 1 e 2, TFUE, prevedendo termini assoluti di prescrizione che possono determinare l’impunità del
reato, con conseguente potenziale lesione degli interessi finanziari dell’Unione europea. Pertanto, tale
pregiudizio comporta l’obbligo per il giudice italiano di disapplicare le predette disposizioni di diritto
interno, in quanto queste possono pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dal diritto dell’Unione.
Non essendo ancora stata depositata la motivazione – va subito detto – non è chiaro quali siano le
conseguenze “pratiche” derivanti da tale disapplicazione. In altri termini, non è chiaro quale sia il concreto regime prescrizionale applicabile ad un’ipotesi di frode grave in materia IVA punita ai sensi del
d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74.
In via di mera ipotesi, si può affermare che a seguito della disapplicazione dell’art. 160, ultimo
comma, c.p., per i casi di frode grave in materia, che ledono gli interessi finanziari della UE in materia
IVA, il regime della prescrizione sarebbe equiparabile a quello riferibile ai delitti indicati all’art. 51,
commi 3 bis e 3 quater, c.p.p. In altre parole, per i delitti di frode IVA varrebbe una sorta di “imprescrittibilità di fatto” 2.
Di diverso avviso è stata la Corte d’Appello di Milano, la quale il giorno successivo ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, l. 2 agosto 2008, n. 130, con cui viene ordinata l’esecuzione
del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, come modificato dall’articolo 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (TFUE), nella parte che impone di applicare la disposizione di cui all’art. 325,
§§ 1 e 2, TFUE, dalla quale – nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia nella sentenza in data
8.9.2015, causa C-105/14, Taricco – discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160,
ultimo comma, e 161, secondo comma, c.p., in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, anche se
dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato per il prolungamento del termine di
prescrizione, in ragione del contrasto di tale norma con l’art. 25, comma 2, Cost. 3.
In particolare, la Corte d’Appello ha rilevato come la disapplicazione delle norme (di carattere sostanziale) di cui agli artt. 160, ultimo comma, e 161, comma 2, c.p., imposta dall’art. 325 TFUE nella interpretazione datane dalla sentenza CGUE Taricco, produrrebbe la retroattività in malam partem della
normativa nazionale risultante da tale disapplicazione, implicante l’allungamento dei tempi prescrizionali, con effetti incompatibili con il principio di legalità in materia penale, come affermatosi nella consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione.
La Corte d’Appello di Milano sottolinea, inoltre, che, emergendo un contrasto tra l’obbligo di disapplicazione derivato dall’art. 325 TFUE, considerato dalla Corte di Giustizia conforme al principio di legalità in sede europea sulla base dell’art. 49 CDFUE, e il principio di legalità in materia penale, nella
estensione attribuitagli dal diritto costituzionale italiano sulla base dell’art. 25, comma 2, Cost., è necessario rimettere alla Corte costituzionale la valutazione della opponibilità di un “controlimite” alle limitazioni di sovranità derivanti dall’adesione dell’Italia all’ordinamento dell’Unione europea ai sensi
dell’art. 11 Cost., in funzione del rispetto del principio fondamentale dell’assetto costituzionale interno,
poziore rispetto agli stessi obblighi di matrice europea.
Alla luce di quanto ora esposto, si può affermare che si è oggi aperto un complesso scenario giuridico. Per meglio dire, l’obbligo di disapplicazione per il giudice italiano delle norme regolanti la prescrizione del reato – derivante dalla sentenza Taricco – ha determinato una situazione che non è facilmente
inquadrabile nell’ambito delle tradizionali categorie giuridiche.
reato e in www.penalecontemporaneo.it, con un commento di F. Viganò, Disapplicare le norme vigenti sulla prescrizione nelle frodi in
materia di IVA?
2
Sul punto, si vedano le ampie considerazioni di G. Civello, La sentenza “Taricco”, cit., p. 10 ss.
3
App. Milano, sez. II, 18 settembre 2015, in www.penalecontemporaneo.it.
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Prima di affrontare tale questione è, peraltro, opportuno analizzare quale sia lo stato della dottrina e
giurisprudenza in ordine all’istituto della prescrizione del reato ed in specie ai profili di diritto intertemporale.
BREVI CENNI SULL’ISTITUTO DELLA PRESCRIZIONE DEL REATO
In materia di prescrizione la discussione ha principalmente riguardato gli effetti derivanti da interventi
legislativi che comportino modifiche della disciplina prescrizionale relativamente a fatti illeciti commessi precedentemente all’entrata in vigore della nuova normativa. E ciò nel caso di modifiche in peius
o in melius rispetto alla pregressa disciplina.
Il problema è strettamente connesso alla natura sostanziale o processuale dell’istituto 4. In effetti, accogliendo quest’ultima tesi, si potrebbe sostenere che la normativa in tema di prescrizione sia sottratta
al divieto di retroattività sancito dall’art. 25, comma 2, Cost. In altre parole, la previsione di termini prescrizionali più lunghi sarebbe riferibile anche a fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della
nuova legge sfavorevole al reo.
A tale riguardo va subito chiarito che la prescrizione è stata tradizionalmente qualificata come un
istituto di natura sostanziale 5. Tuttavia, il problema di un diverso inquadramento dell’istituto è sempre
presente in quanto la ’costante’ crisi del sistema giudiziario penale ha portato come inevitabile conseguenza che procedimenti, a volte di notevole rilevanza, si siano chiusi con sentenze di proscioglimento
per estinzione del reato a seguito del decorrere del termine prescrizionale. Tale situazione ha pertanto
indotto parte della dottrina penalistica a proporre che, in relazione ad una serie di reati, siano introdotti
termini di prescrizione più lunghi di quelli attualmente previsti dall’art. 157 c.p. e che contestualmente
venga sancita la loro applicabilità retroattiva anche ai reati anteriormente commessi ancora sub iudice 6.
Invero, secondo questo indirizzo, la tesi dell’applicazione retroattiva di norme che mutano in senso
sfavorevole al reo i termini prescrizionali avrebbe trovato avallo in una ormai risalente ordinanza della
Corte costituzionale, secondo la quale «non può assegnarsi alcun rilievo giuridico ad una sorta di
’aspettativa’ dell’imputato al maturarsi della prescrizione» 7.
In realtà, questa lettura della decisione della Corte costituzionale non sembra del tutto condivisibile
alla luce della questione di legittimità specificamente sollevata. In effetti, il giudice remittente lamentava una disparità di trattamento, ai sensi dell’art. 3 Cost., ed una violazione del diritto di difesa, sancito
dall’art. 24 Cost., nel fatto che il termine prescrizionale – secondo la consolidata interpretazione della
Corte di cassazione – debba considerarsi interrotto già al momento dell’emissione del decreto di citazione a giudizio, e non quando successivamente l’imputato riceve la notifica dell’atto. Pertanto, il riferimento «all’aspettativa» dell’imputato al decorso della prescrizione, la quale nell’interpretazione della
Corte costituzionale non assume rilievo alcuno, deve intendersi come riferita alla possibile inerzia
dell’autorità giudiziaria, che può attivarsi più o meno celermente, e non certamente al potere legislativo, che può incidere sulla durata della prescrizione. Infatti, l’affidamento del reo non va letto solamente
come calcolabilità anticipata del trattamento, ma anche come legittima fiducia che una «situazione punitiva», la quale comprende le cause di punibilità e le norme di favore, non venga ad essere peggiorata
dal legislatore dopo la commissione dell’illecito 8.
4
Sulla natura della prescrizione quale istituto di natura sostanziale o processuale si vedano la voce di A. Molari, Prescrizione
del reato e della pena (dir. pen.), in Ns. dig. it., XIII, Torino, 1966, p. 680 ss., e la recente monografia di F. Giunta-D. Micheletti, Tempori cedere. Prescrizione del reato e funzioni della pena nello scenario della ragionevole durata del processo, Torino, 2003, p. 63 ss.
5
Sul punto, si veda per tutti E.M. Ambrosetti, La legge penale nel tempo, in M. Ronco, Commentario al Codice Penale, Bologna,
2010, p. 287 ss.
6
È stato G. Marinucci, Bomba a orologeria da disinnescare, in Il Sole 24 Ore, 12 marzo 1998, a sollevare provocatoriamente la
questione dell’opportunità della approvazione di provvedimenti legislativi che, anche operando retroattivamente, impedissero
il maturarsi del termine prescrizionale con riferimento a processi particolarmente rilevanti. In seguito, la tesi è stata più ampiamente illustrata in G. Marinucci-E. Dolcini, Corso di diritto penale, cit. 262 ss.; ID. e ID., Manuale di diritto penale, p. gen., 4a ed., Milano, 2015, p. 100-101 (favorevoli a questa chiave di lettura sono anche D. Pulitanò, Legalità discontinua? Paradigmi e problemi di
diritto intertemporale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 1270; e V. Grevi, Garanzie individuali ed esigenze di difesa sociale nel processo
penale, in AA.VV., Garanzie costituzionali e diritti fondamentali, Roma, 1997, p. 279).
7
C. Cost., ord. 17 dicembre 1999, n. 452, in Giur. cost., 1999, p. 3890.
8
Il riferimento è alla posizione di M. Donini, in M. Nobili-L. Stortoni-M. Donini-M. Virgilio-M. Zanotti-N. Mazzacuva, Prescri-
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Una implicita conferma della tesi qui sostenuta – va da ultimo ricordato – è stata offerta dalla sentenza della Corte costituzionale, n. 393 del 2006, la quale ha ribadito l’inquadramento della prescrizione
come istituto di natura sostanziale con conseguente assoggettamento al divieto di retroattività della
normativa più sfavorevole ai sensi dell’art. 25, comma 2, Cost. 9.
Tale è, dunque, nei suoi termini essenziali lo stato della giurisprudenza in tema di prescrizione.
Allo stato attuale della giurisprudenza costituzionale resta, dunque, ferma la natura sostanziale dell’istituto. Pertanto, allineandosi a tale consolidata posizione, ne consegue che ogni intervento “peggiorativo” sul regime della prescrizione ricadente sul “passato” si porrebbe in contrasto con il principio di
legalità ed in specie con il suo corollario del divieto di retroattività della norma sfavorevole per il reo.
In forza di questo quadro costituzionale emerge in modo palese il contrasto della sentenza Taricco
con il principio di legalità.
Si deve nondimeno dar conto di una possibile obiezione. La situazione che si è verificata dopo la
sentenza della Corte UE è sicuramente diversa da quella tradizionale derivante da un intervento legislativo che modifichi in modo sfavorevole il regime della prescrizione. Per certi versi, essa presenta
aspetti simili a quelli della declaratoria di illegittimità della c.d. «norma di favore», e cioè una norma
che abbia depenalizzato una precedente fattispecie incriminatrice o abbia introdotto una disciplina meno afflittiva rispetto alla pregressa.
È, quindi, opportuno ripercorrere brevemente anche i punti essenziali in merito alla giurisprudenza
relativa a questo diverso fenomeno giuridico.
LA DICHIARAZIONE DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA C.D. NORMA DI FAVORE
Come è noto, già da tempo la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibili e valutato nel merito questioni relative al presunto contrasto con la legge fondamentale di «norme di favore» – ad esempio, cause di giustificazione o di non punibilità –, sul presupposto che disposizioni che restringano l’area della
punibilità abbisognano di un puntuale fondamento, concretato dalla Costituzione o da altre leggi costituzionali 10.
Particolarmente significativa è una sentenza della Corte costituzionale, la quale, in ordine a una eccezione sollevata con riferimento alla riforma dei reati societari ed in specie del delitto di false comuni-
zione e irretroattività fra diritto e procedura penale, in Foro it., 1998, V, p. 324. Per ulteriori riferimenti alle tradizionali posizioni contrarie
ad un’applicazione retroattiva delle modifiche della durata della prescrizione sfavorevoli al reo si rinvia a E. M. Ambrosetti, La legge
penale nel tempo, cit., p. 287e ss.; M. Romano, in M. Romano-G. Grasso-T. Padovani, Commentario sistematico del codice penale, III, Milano, 1994, p. 63, agli scritti di M. Nobili-L. Stortoni-M. Donini-M. Virgilio-M. Zanotti-N. Mazzacuva, op. cit., p. 317 ss., ed infine
all’editoriale di G. Conso, Non dimenticarsi delle vittime specie di fronte al rischio prescrizione, in Dir. pen. proc., 1998, p. 269-270.
Per completezza, va infine ricordato che un’impostazione parzialmente diversa del problema è stata proposta da F. GiuntaD. Micheletti, op. cit., p. 89 ss. Secondo gli studiosi, va infatti operata una netta distinzione fra l’ipotesi in cui il termine prescrizionale sia già maturato o sia ancora in corso. Con riferimento alla prima situazione, gli studiosi affermano che «una volta spirato il termine prescrizionale, il potenziale autore vanta un vero e proprio diritto soggettivo all’impunità; diritto, che non può essere dunque menomato da un allungamento retroattivo del termine richiesto per l’estinzione, giacché una tale modifica si porrebbe certamente in contrasto con il fondamento garantistico dell’art. 25, comma 2, Cost.». Nel caso, invece, in cui la prescrizione non sia compiuta, non opererebbe il divieto di retroattività sancito dalla Carta Costituzionale, in quanto in tale ambito è più
corretto invocare il principio del tempus regit actum. Conseguentemente, l’eventuale riformulazione in senso negativo
all’imputato non sarebbe di per sé contrastante con il dettato costituzionale. Tuttavia, «un allungamento retroattivo ed indiscriminato della prescrizione, dovuto all’incapacità dell’ordinamento di svolgere nei tempi preventivati i giudizi in corso, risulterebbe certamente illegittimo; ma si badi, non perché contrasti con il divieto di retroattività sfavorevole enunciato dall’art. 25,
comma 2, Cost. – che come si è chiarito non ha in questo settore ragione di operare – bensì per la ragione che una tale riforma
violerebbe il coacervo di vincoli costituzionali, tra cui spicca il principio personalistico, che fa da sfondo alla rilevanza costituzionale della prescrizione penale e che non possono non limitare la derogabilità del principio tempus regit actum dove non opera
l’art. 25, comma 2, Cost.».
9
C. Cost., sent. 23 novembre 2006, n. 393, in Cass. pen., 2007, p. 419, con nota di E. M. Ambrosetti, La nuova disciplina della prescrizione: un primo passo verso la «costituzionalizzazione» del principio di retroattività delle norme penali favorevoli al reo e O. Mazza, Il
diritto intertemporale (ir)ragionevole (a proposito della legge ex Cirielli).
10
Sul punto, si veda, fra le altre, Corte Costituzionale, sent. 3 giugno 1983, n. 148, in Foro it., 1983, I, p. 1800 ss., con nota di E.
Gironi, Le guarentigie del Consiglio superiore della magistratura, e D. Pulitanò, La «non punibilità» di fronte alla Corte Costituzionale.
Per una completa disamina delle posizioni della Corte Costituzionale si rinvia a S. Riondato, Competenza penale della Comunità
Europea, Padova, 1996, p, 318 ss.
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cazioni sociali, ha avuto modo di affrontare specificamente il problema degli effetti derivanti da una
declaratoria di illegittimità costituzionale 11. Per comprendere i termini della questione, peraltro, si rendono indispensabili alcune considerazioni preliminari. Nell’ambito delle numerose censure di ortodossia costituzionale proposte alla Corte, il giudice delle leggi ha esaminato espressamente anche profili di
diritto intertemporale, ed in particolare le conseguenze che sarebbero derivate da un’eventuale declaratoria di illegittimità per le nuove fattispecie in materia di false comunicazioni sociali 12. Più precisamente, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi in ordine ad un’eccezione di legittimità costituzionale, relativa alle soglie di punibilità a carattere percentuale, espressamente finalizzata ad ottenere una pronuncia che – tramite la rimozione delle soglie medesime – estendesse l’ambito di applicazione della norma
incriminatrice di cui all’art. 2621 c.c. a fatti che attualmente non vi sono compresi 13. All’atto pratico, nella prospettiva del giudice a quo, la declaratoria di illegittimità costituzionale della nuova normativa
avrebbe comportato la reviviscenza del vecchio art. 2621 c.c. e, conseguentemente, l’applicabilità di tale
disposto, per lo meno, a tutti i fatti commessi prima che entrasse in vigore il d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61.
Diversa è stata, però, la posizione assunta dalla Corte costituzionale. Nella sentenza 161 si legge infatti
che «all’adozione della pronuncia invocata osta, tuttavia, il secondo comma dell’art. 25 Cost., il quale –
per costante giurisprudenza di questa Corte – nell’affermare il principio secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso, esclude che la Corte
costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi reati o che l’effetto di una sua sentenza possa essere quello di ampliare o aggravare figure di reato già esistenti, trattandosi di interventi riservati in via
esclusiva alla discrezionalità del legislatore [cfr., ex plurimis, sentenze 49 del 2002; 183, 508 e 580 del
2000; 411 del 1995]. Contrariamente a quanto sostiene il giudice a quo, non vale richiamarsi, in senso
opposto, all’orientamento di questa Corte che ha ritenuto suscettibili di sindacato di costituzionalità,
anche in malam partem, le c.d. norme penali di favore: ossia le norme che stabiliscano, per determinati
soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione
di norme generali o comuni [cfr., tra le altre, sentenze 25 del 1994; 167 e 194 del 1993; 148 del 1983)].
Orientamento, questo, fondato – quanto all’esigenza di rispetto del principio di legalità – essenzialmente sul rilievo che l’eventuale ablazione della norma di favore si limita a riportare la fattispecie già oggetto di ingiustificato trattamento derogatorio alla norma generale, dettata dallo stesso legislatore (fermo
restando, altresì, il divieto di applicazione retroattiva del regime penale più severo ai fatti commessi
sotto il vigore della norma di favore rimossa)».
In ultima analisi, alla luce di quanto si è venuti finora esponendo, il quadro della giurisprudenza costituzionale appare univoco:
1. la disciplina della prescrizione, in quanto istituto di diritto sostanziale, è soggetta al divieto di irretroattività della legge penale sfavorevole;
2. l’effetto di una sentenza della Corte Costituzionale o Europea non può essere quello di ampliare o
aggravare figure di reato già esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore 14.
11
C. Cost., sent. 1° giugno 2004, n. 161, in Guida dir., 2004, 25, p. 73 ss., con nota di A. Lanzi, Sulle condotte a rischio di sanzioni
penali nessuna interferenza con il legislatore.
12
Per una completa disamina delle questioni di legittimità costituzionale e comunitaria, si vedano, per tutti, E. Musco, I nuovi reati societari, cit., p. 119 ss.; E. Dolcini, Leggi penali ad personam, riserva di legge e principio costituzionale di eguaglianza, in Riv. it.
dir. proc. pen., 2004, p. 50 ss., spec. 57 ss.; F. Giunta, La vicenda delle false comunicazioni sociali. Dalla selezione degli obiettivi di tutela
alla cornice degli interessi in gioco, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2003, p. 643 ss.; G. Insolera, Democrazia, ragione e prevaricazione. Dalle vicende del falso in bilancio ad un nuovo riparto costituzionale nella attribuzione dei poteri?, Milano, 2003, p. 13 ss.; ID., I profili di legittimità costituzionale e «comunitaria», in C. Piergallini (a cura di), op. cit., p. 93 ss.; G. Salcuni, Le false comunicazioni sociali: questioni di
legittimità costituzionale e obblighi comunitari di tutela, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 843 ss.; C. Sotis, Obblighi comunitari di tutela e
opzione penale: una dialettica perpetua?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 171 ss.
13
L’ordinanza del Trib. Milano, sez. II, 12 febbraio 2003, è pubblicata in Guida dir., 2003, 10, p. 74 ss., con nota critica di A. Di
Martino, Nel mirino dei giudici costituzionali i limiti delle soglie di rilevanza penale. Sul punto, si vedano anche i rilievi parimenti critici di A. Lanzi, Considerazioni sull’eventualità di un sindacato di ragionevolezza sulle scelte politico-criminali, in Indice pen., 2003, p. 895
ss. In una prospettiva analoga a quella accolta dal Tribunale di Milano si segnalano, inoltre, le considerazioni di E. Dolcini (op.
cit., p. 57 ss.) e G. Insolera (Democrazia, ragione e prevaricazione, cit., passim).
14
Sul punto, sia pure in termini critici, si veda F. Viganò, Disapplicare le norme vigenti sulla prescrizione nelle frodi in materia di
IVA?, cit., p. 11 ss.
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LA DISCUSSA COMPATIBILITÀ DI UNA DISAPPLICAZIONE DEI TERMINI PRESCRIZIONALI CON IL PRINCIPIO
DI LEGALITÀ E DEL GIUSTO PROCESSO
È giunto ora il momento di prendere posizione in ordine al complesso scenario che si è aperto a seguito
della sentenza Taricco. Ed a tale proposito, va subito chiarito che il giudizio nei confronti di tale pronuncia è assolutamente negativo per un molteplice ordine di ragioni. E a maggior ragione – per le ragioni che si andrà ad esporre – ancora più negativo nei confronti della Corte di Cassazione.
Tuttavia, almeno su un punto – va doverosamente riconosciuto – un merito a tale sentenza deve essere attribuito. E cioè di avere messo in luce la circostanza che non è più differibile una riforma della
prescrizione del reato che assicuri, da un lato, una maggiore effettività della sanzione penale, e dall’altro, una ragionevole durata del processo. E ciò per due diversi motivi: il primo perché in molti casi effettivamente l’odierna disciplina dell’art. 157 c.p. porta a pericolosi fenomeni di impunità; il secondo
perché proprio tale regime prescrizionale costituisce il comodo pretesto – in altrettanto numerosi casi –
per un’inerzia dell’Autorità Giudiziaria che “lascia morire” ogni anno migliaia di procedimenti penali
adducendo come giustificazione il prossimo maturarsi della prescrizione. A conferma di tale rilievo critico vi è proprio il procedimento penale da cui è scaturita la sentenza Taricco: quando il Tribunale di
Cuneo ha sollevato la questione mancavano ancora quattro anni al maturarsi della prescrizione. Ciò significa che il Tribunale di Cuneo ha ritenuto che nello spazio di quattro anni non fosse possibile lo
svolgimento del processo di primo e secondo grado – tenuto conto che nell’ormai consolidata interpretazione della Suprema Corte di Cassazione in caso di inammissibilità del ricorso il termine finale per il
maturarsi della prescrizione coincide con la sentenza di appello –.
Ciò detto, se la “malattia” è la disciplina legislativa della prescrizione del reato, la “medicina” costituita dalla sentenza Taricco è peggiore del male.
Va subito chiarito tale assunto. Si intende qui fare riferimento esclusivamente alle conseguenze derivanti dalla sentenza della Corte UE.
I profili di incertezza sono, infatti, molteplici. Il primo attiene ai casi in cui è oggi tenuto il giudice
italiano alla disapplicazione. La Corte ha individuato l’illegittimità in relazione alle “frodi gravi” in materia di IVA. È intuitivo che si ponga allora la questione in ordine ai parametri in base ai quali individuare la gravità della frode. Peraltro, non vi è alcun riferimento normativo che possa dettare i limiti
della frode grave e quella non grave. Al giudice dovrebbe spettare il compito – secondo il prudente apprezzamento – di “creare” questa soglia di gravità.
Il secondo profilo attiene più specificamente al regime della prescrizione oggi applicabile a queste
frodi gravi in materia IVA. Le opzioni interpretative – va subito detto – sono plurime.
Una possibile ipotesi è che oggi, a seguito della disapplicazione dell’art. 160, ultimo comma, c.p., per
i casi di frode grave in materia, che ledono gli interessi finanziari della UE in materia IVA, il regime della prescrizione è equiparabile a quello riferibile ai delitti indicati all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater,
c.p.p., e che, quindi, anche in presenza di atti interruttivi, non operi il limite dell’aumento del quarto.
Tale soluzione si pone in palese contrasto con il principio di legalità sotto diversi profili.
In primo luogo, è evidente che seguendo questa tesi si giunge ad applicare retroattivamente un nuovo regime di “imprescrittibilità di fatto”. Né si può affermare che in tale caso non si può parlare di effetto retroattivo perché la norma di cui all’art. 160, ultimo comma, c.p. costituiva una illegittima “norma
di favore”. In effetti, il regime prescrizionale cui sono assoggettate le frodi IVA è quello generale di tutti
reati ad esclusione di quelli indicati all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. Per la precisione, dall’agosto del 2011 è meno favorevole in quanto ai sensi dell’art. 17, comma 1-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, i termini
di prescrizione sono aumentati di un terzo.
In altre parole, appare pacifico che è la disciplina relativa ai delitti elencati all’art. 51, commi 3-bis e
3-quater, c.p.p. a costituire un’eccezione rispetto alla generale disciplina prevista in tema di prescrizione. Eccezione che si giustifica in ragione della gravità dei reati previsti da quest’ultima norma. Anche la
fattispecie che appare più vicina alla frode IVA, e cioè l’art. 291-quater, d.p.r. n. 43/1973, che punisce
l’associazione a delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi esteri, è, in realtà, stata inserita perché fa riferimento al fenomeno di criminalità organizzata.
In buona sostanza, allineandosi a tale linea interpretativa, oggi si applicherebbe retroattivamente alle frodi IVA un regime eccezionale nato per i crimini di criminalità organizzata, terrorismo e altri gravi
reati.
La seconda opzione è che in relazione alle frodi IVA, a seguito della disapplicazione della norma
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dell’art. 160, ultimo comma, c.p., torni in vigore l’originario regime del codice penale prima della modifica dell’art. 160 c.p. ad opera della legge c.d. ex Cirielli, che comportava l’aumento della metà e non di
un quarto. Anche questa soluzione appare, peraltro, paradossale dal momento che a questo punto resterebbe del tutto incomprensibile se anche questo termine più lungo sarebbe adeguato a garantire una
effettiva tutela in sede penale degli interessi finanziari UE.
Infine, come terza possibilità, il giudice italiano potrebbe creare una “lex mista”, facendo riferimento
all’originaria disciplina della prescrizione nella legge 7 agosto 1982, n. 516, che prevedeva per i reati di
dichiarazione un termine prescrizionale più lungo rispetto a quello dettato all’art. 157 c.p., cumulando,
inoltre, il regime in tema di prescrizione del reato antecedente sia al d.lgs. n. 74 del 2000, che ha riformato la disciplina dei reati tributari, con quello del codice penale prima della c.d. ex-Cirielli (termini
prescrizionali più lungi e limite agli effetti interruttivi più alto (metà in luogo di un quarto).
Se molteplici sono le soluzioni ermeneutiche che si aprono dopo la sentenza Taricco, un punto non
può che restare fermo. Tale regola non può che rivolgersi alle frodi IVA commesse dopo l’8 settembre
2015. E ciò per una evidente ragione. Oggi, quale che sia la soluzione accolta fra quelle dianzi prospettate, si verrebbe ad introdurre un regime sfavorevole in tema di prescrizione del reato che – al momento
della commissione dei fatti – non era riferibile ai delitti tributari in materia di frode IVA. Ad essere
maggiormente precisi, non era sicuramente relativo a tutte le frodi IVA commesse anteriormente
all’entrata in vigore della c.d. ex-Cirielli, e cioè al dicembre del 2005.
È quello che la Corte di Appello ha immediatamente compreso a differenza della Corte di Cassazione.
E a contrasto di questa tesi non si può invocare l’affermazione che l’aspettativa sul tempo della prescrizione non rientra nell’alveo di tutela del principio di legalità 15. È indiscutibile, infatti, che nella quasi
totalità dei fatti il reo al momento della commissione dell’illecito ignora quale sia il regime della prescrizione. Ma è altrettanto vero che quello stesso reo ignora anche il concreto regime della commisurazione
della pena in senso lato. Un esempio valga per tutti: la sospensione del reato. Fino ad oggi non vi è stato
dubbio che tale istituto rientra nella sfera di applicazione dell’art. 25, comma 2, Cost. Ed anche ad un istituto a cavallo fra il diritto sostanziale e processuale, come la querela, secondo la più recente giurisprudenza è riferibile il divieto di retroattività della modifica sfavorevole 16. Per coerenza, allineandosi a tale
ordine d’idee, si dovrebbe allora paradossalmente affermare che il divieto di retroattività copre solo il disvalore dell’illecito e il trattamento afflittivo in senso stretto. Tutto quello che attiene al regime sanzionatorio in senso lato sarebbe sottratto al principio di legalità, ed al suo corollario del divieto di retroattività.
Conseguentemente, secondo questa “nuova” prospettiva, vi sarebbe un legittimo potere del legislatore, e oggi anche del giudice europeo, di individuare ex post il concreto regime della prescrizione e di
altri istituti analoghi ad esso 17.
Per le ragioni finora esposte, non si può che respingere tale chiave di lettura e ribadire che l’affidamento del reo non va letto solamente come calcolabilità anticipata del trattamento, ma anche come legittima fiducia che una «situazione punitiva», la quale comprende le cause di punibilità e le norme di
favore, non venga ad essere peggiorata dal legislatore dopo la commissione dell’illecito.
E in tali termini fino ad oggi si è sempre pronunciata la Corte Costituzionale.
Ma vi è di più. Il contrasto già intollerabile con il principio di legalità diventa ancora più stridente
con il principio del giusto processo. Dopo la sentenza Taricco sono cambiate le regole del gioco. All’imputato – il quale legittimamente aveva fatto la scelta di non accedere ad un rito alternativo confidando
nella prescrizione del reato – il giudice italiano oggi dovrebbe dire che le regole non valgono più: le
frodi IVA sono di fatto imprescrittibili.
Sotto questo profilo, nel dodicesimo secolo, Robin Hood quando si presentava al giudice itinerante
della Contea di Sherwood aveva almeno una fondamentale garanzia: egli era consapevole che sarebbe
stato giudicato dalla Corte sulla base di una regola enucleata da un precedente vincolante.
Nulla di tutto questo nel “medioevo prossimo venturo” 18. Dopo la sentenza Taricco – venuto meno
15
Per una diversa posizione sul punto si vedano, oltre agli autori, citati nella nota 5, F. Viganò, Disapplicare le norme vigenti
sulla prescrizione nelle frodi in materia di IVA?, cit., p. 14 ss.
16
A tale proposito, si rinvia ad E.M. Ambrosetti, La legge penale nel tempo, cit., p. 280 ss.
17
Sul punto, si vedano le condivisibili osservazioni di G. Civello, La sentenza “Taricco”, cit., p. 8 ss.
18
Il riferimento è al libro di R. Vacca, Medioevo prossimo venturo, Milano, 1970, in cui l’autore descriveva un “nuovo medioevo” che si stava avvicinando per la civiltà occidentale.
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il principio del nullum crimen sine lege – non vi sono nemmeno le garanzie proprie del sistema penale di
Common Law 19. E ciò in quanto, svincolato dal sistema del precedente vincolante, è il giudice/legislatore ad individuare ex novo la regola che va applicata retroattivamente.
Attesa tale situazione, è solo da confidare che al più presto, da un lato, con riguardo a tutti reati
commessi anteriormente all’8 settembre 2015 la Corte Costituzionale intervenga sul punto, attivando
quei “controlimiti” che sono rappresentati dal principio di legalità e del giusto processo, dall’altro, che
il legislatore italiano introduca immediatamente una normativa idonea ad assicurare l’esigenza di una
maggiore effettività della sanzione penale, che non sia vanificata dall’istituto della prescrizione del reato, e allo stesso che sia rispettosa del principio della ragionevole durata del processo 20.
19
Il tema di un’erosione del principio di legalità per effetto del diritto internazionale è stato da tempo segnalato (per tutti, si
veda P. Jahnke, Zur Erosion des Verfassungssatzes “Keine Strafe ohne Gesetz” in Zeirschrif fur die internationale Strafrechtsdognatk,
2010, p. 463 ss.). Di recente, si vedano – in una prospettiva parzialmente diversa – le stimolanti osservazioni relative al rischio di
un’erosione del principio d legalità T. Weigend, Dove va il diritto penale? Problemi e tendenze evolutive nel XXI secolo, in Criminalia,
2014, p. 87. L’illustre studioso osserva che “perché mai non si dovrebbero applicare le norme penali in via analogica a casi non
previsti dal legislatore, quando il colmare la lacuna fosse idoneo ad accrescere il senso di sicurezza dell’intera società, vale a dire
di ’tutti noi’? Suppongo che, nel 2050, gli studenti e i giudici conosceranno e citeranno ancora il principio del nullum crimen sine
lege. È però possibile che lo percepiranno come un corpo estraneo e come ostacolo alla realizzazione di una auspicabile giustizia
penale, sicché saranno portati a concepirlo in maniera più restrittiva di quanto siamo abituati oggi noi a intenderlo”.
20
Al riguardo, ancora G. Civello, La sentenza “Taricco”, cit., p. 9 ss.
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