Esorto Evòdia ed esorto anche Sintiche ad andare d`accordo nel

Transcript

Esorto Evòdia ed esorto anche Sintiche ad andare d`accordo nel
ACCORDATI SUBITO CON IL TUO AVVERSARIO MENTRE SEI IN CAMMINO (Mt 2,25)
Come gestire i conflitti e vivere… insieme LABORATORIO, 26 marzo ‐ 28 marzo 2009 26 marzo 2009 Esorto Evòdia ed esorto anche Sintiche ad andare d’accordo nel Signore Il bene della dispersione La Bibbia stessa presenta a livello testuale diversi conflitti; ci sono passi in cui vi è un’evidente contraddizione. Ma chi ha redatto la versione definitiva della Bibbia ha preferito non risolvere le tensioni. Nella storia della trasmissione testuale è possibile rintracciare diversi tentativi dei copisti che imbarazzati dalle evidenti differenze e preoccupati che questo potesse generare scandalo hanno pensato, con piccoli ritocchi, di rendere più omogeneo il testo… Ma non è questa la strada. Meglio lasciare il conflitto, lasciare la voce discordante senza eliminarla; si otterrebbe forse un testo più unitario, sicuramente meno ricco . Ecco, la tensione può essere fonte di ricchezza. Un proverbio ebraico recita: metti insieme dieci ebrei a discutere e avrai undici pareri differenti. C’è un apparente unità che elimina le discordie, ma che si rivela alla lunga sbagliata. È questo che ci dice la storia di Babele (cfr. Gen 11,1‐9). A questo brano viene spesso accostato l’episodio della Pentecoste, come se in quel momento si ricucisse la dispersione determinata dall’orgoglio mediante la potenza dello Spirito. In realtà, quel che succede a Pentecoste è qualcosa di più, assolutamente legato a Babele, ma che non neutralizza semplicemente la differenza delle lingue con il miracolo dell’unica lingua. C’è un’unità a Pentecoste che è piuttosto comunione. Non si eliminano le differenze. Il testo le sottolinea, elencando molte nazionalità e la diversità delle persone presenti quel giorno (cfr. At 2,8‐11). Lo Spirito rende capaci gli apostoli di parlare in modo che ciascuno possa ascoltare le meraviglie di Dio nella propria lingua. Il bene dell’uomo passa per la differenza, per la “dispersione”: era questo, infatti, il comando di Dio (cfr. Gen 9,1.7; cfr. 10,1‐32). Ma gli uomini, paurosi, hanno deciso di farsi loro un nome, dopo che lo avevano ricevuto da Dio, di stare tutti insieme proprio per non disperdersi. Rapporto di minoranza Abbiamo paura di stare soli e non possiamo non comprendere le ragioni di coloro che decisero di mettersi all’opera per costruirsi la torre. È una delle verità primarie della Bibbia, riconosciute da Dio stesso, una verità fontale, originaria, genetica: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). Allora perché Dio disperde? Perché la risposta alla solitudine non è l’uguaglianza. Proprio perché da soli non ci si basta, proprio perché la solitudine dice «mancanza», non è possibile trovare pace in qualcosa, in qualcuno che è «uguale». Si ha bisogno di qualcun altro, di un «diverso». Ecco perché non può esserci compagnia se non nella vera comunione: quella che riconosce, valorizza, assume l’altro, la sua diversità. Il diverso, pur avendone fondamentale bisogno, fa anche tanta paura. Scatta così il meccanismo della difesa, della chiusura. Qualche volta anche dell’eliminazione. E ciò che salva davvero – ossia l’accoglienza della diversità – lo si rifiuta negandolo. Nella ricerca di noi stessi, nella ricerca di colmare quel vuoto che ci manca, davanti al rischio di perderci in un altro, lo si rifiuta. È istintivo. Ma non è un buon sistema quello che tenta di prevenire il male mettendo a tacere le voci discordanti. E proprio come nel film Minority report (S. Spielberg, 2002)1, spesso la “verità” – personale e comunitaria – è nascosta in un “rapporto di minoranza”. L’unità è più ricca quando assume la differenza e la lascia anche discutere. Può essere che in questa voce discordante si nasconda anche il seme della zizzania (cfr. Lc 13,24‐
30). Ma non è prudente, per la paura che l’erba cattiva infesti tutto il campo, estirpare tutte le piante. Occorre tempo per lasciar crescere e solo in un secondo momento si potrà vedere se si tratta di grano buono o zizzania. Se si agisce troppo presto sul conflitto, si corre il rischio di buttare via anche ciò che invece, se lasciato germogliare, si trasforma in vita e in sostentamento. Certamente si deve aver cura nello scegliere del “buon seme” da gettare nel campo; ma la parabola dice che “mentre tutti dormivano” viene 1
Liberamente tratto dall’omonimo racconto di P. K. Dick. Lo si può leggere in Rapporto di minoranza e altri racconti, Fanucci 2002. 1 ACCORDATI SUBITO CON IL TUO AVVERSARIO MENTRE SEI IN CAMMINO (Mt 2,25)
Come gestire i conflitti e vivere… insieme LABORATORIO, 26 marzo ‐ 28 marzo 2009 26 marzo 2009 il nemico. Il sonno è un’immagine forte per dire di qualcosa che accade e che non può essere dominato. Non si può non dormire. Non è dell’uomo il poter rimanere sempre sveglio: il tempo del riposo è necessario, pena la pazzia e, in definitiva, la morte. Allora c’è questa doppia dimensione da tenere presente: la necessaria attenzione al seme, ma la consapevolezza che non si può controllare tutto, gestire tutto. La paura non è una buona guardia però: con l’intento di non far entrare il nemico, qualche volta si può impedire anche agli amici di passare. È una tensione con la quale fare i conti e che, stando alle parole della Bibbia, soltanto nella dimensione definitiva della Gerusalemme celeste potrà essere risolta e sanata; soltanto là non vi sarà più notte e le porte della città potranno rimanere sempre aperte (cfr. Ap 21,25). La tavola dell’incontro Riconciliati con “il conflitto”, pacificati con questa dimensione, si deve tuttavia riconoscere che la tensione più forte è quella che spinge alla comunione. E la sofferenza che emerge in situazioni di disaccordo è proprio il segno di questa ferita presente, ma che vorrebbe essere definitivamente sanata. Non è un caso se la Bibbia usa spesso come immagine dei tempi messianici quella della tavola imbandita: è la realizzazione della comunione. A questa mensa c’è posto e pasto per tutti. Arrivano popoli da lontano e si accomodano insieme ai “vicini”; le vivande sono abbondanti e i vini succulenti. Attorno a questo tavolo tutti si sentono a casa. La salvezza prende, dunque, la forma di una tavola e di una compagnia (cfr. Is 25,6‐9). Un ideale che trova la sua realizzazione nel libro degli Atti. Dopo gli inizi travolgenti, segnati dall’ascensione di Gesù e dalla discesa dello Spirito c’è come una pausa; la narrazione degli avvenimenti si interrompe per lasciare lo spazio alla descrizione della prima comunità cristiana. C’è dello straordinario in queste righe: una realtà rinnovata, basata su rapporti improntati alla condivisione e al servizio reciproco. Quello che era stato preannunciato con il “miracolo delle lingue” – cioè una comunione tra gli uomini che supera le barriere dell’incomprensione (cf. At 2,4‐11) – ora si trasforma in esperienza quotidiana, ordinaria2. Il quadro che emerge da questa descrizione è veramente positiva e trasmette un senso di pace, di armonia. La posizione di questi versetti è strategica; collocati subito dopo la Pentecoste, il messaggio che ne viene è chiaro: la Chiesa è opera dello Spirito, ne è come la concretezza visibile, la manifestazione dei suoi effetti. L’ideale realizzato e presente nella comunità non è comunque una conquista definitiva. Tanto che, fin da subito, subisce gravi minacce e attacchi. Soltanto se si comprende il valore “teologico” e “antropologico” della comunione, si possono leggere con tutto il necessario timore quei gesti che tendono a turbarla e a deturparla. Pensiamo ad Anania e Saffira che mettono la morte in uno dei segni più eloquenti della vita nuova che viene dalla fede: la condivisione dei beni con i fratelli (cfr. At 5,1‐11). L’accordo possibile Tenendo perciò presente l’importanza della comunione, è possibile comprendere con quali sentimenti Paolo si preoccupa di quelle situazioni che mettono a rischio la concordia. Ne troviamo un esempio della finale della lettera ai Filippesi; spesso trascurati, in realtà i “saluti” conclusivi restituiscono l’immagine di una Chiesa storica, fatta di persone che rivelano il volto concreto delle prime comunità cristiane. “Esorto Evòdia ed esorto anche Sintiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego anche te, mio fedele cooperatore, di aiutarle, perché hanno combattuto per il Vangelo insieme con me, con Clemente e con altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita” (Fil 4,2‐3). 2
I verbi utilizzati sono tutti all’imperfetto, un tempo che dà l’idea di un’azione che dura, abituale, stabile e costante: “erano assidui, tenevano ogni cosa in comune, frequentavano il tempio”, ecc. 2 ACCORDATI SUBITO CON IL TUO AVVERSARIO MENTRE SEI IN CAMMINO (Mt 2,25)
Come gestire i conflitti e vivere… insieme LABORATORIO, 26 marzo ‐ 28 marzo 2009 26 marzo 2009 Già a livello lessicale, i versetti sono caratterizzati dall’idea dell’accordo e dell’unione. Vi sono, innanzitutto, i nomi che evocano concordia e risoluzione degli ostacoli: Euvodia («buon cammino»), Sintiche («incontro»); è possibile anche leggere il vocabolo súzuge, «collaboratore» come nome proprio3. È comunque evidente l’insistenza sulla preposizione syn che compare ben cinque volte in soli due versetti. Non sappiamo quale sia stato il motivo della discordia tra queste due donne. In realtà non sappiamo praticamente nulla su di loro. Eppure, il testo nella sua brevità punta sull’essenziale. In queste righe viene svelato che cosa è importante: primo, Evòdia e Sintiche fanno parte del gruppo degli stretti collaboratori di Paolo; secondo, hanno dato se stesse nell’opera di evangelizzazione, tanto che i loro nomi sono ormai incisi sul libro della vita. Inoltre, l’Apostolo doveva volere loro un bene particolare se si preoccupa del loro disaccordo; le nomina personalmente, quando altrove, richiamando ai responsabili della comunità situazioni di conflitto, si riferisce ai protagonisti in modo generico. Infine, Paolo manifesta la sua sollecitudine per loro chiedendo l’intervento di un terzo al quale raccomanda di aiutarle a ritrovare la comunione. E il tono delle parole non è affatto quello di un rimprovero, di un richiamo alla disciplina e all’osservanza di regole. Queste donne sono letteralmente, insieme a Paolo, delle atlete per il Vangelo, che hanno lottato, sacrificato e investito energie per l’annuncio del Signore. È questa loro caratteristica che il “collaboratore” – proprio perché “genuino”, “vero” – deve guardare e tenere in mente mentre cerca di aiutarle. Un grande insegnamento è detto qui: puntare sempre al positivo, ricordare, anche in situazione di conflitto, il bene che le persone coinvolte, in altre occasioni, hanno saputo fare. Il collaboratore chiamato a ricucire uno strappo deve sapere che Evòdia e Sintiche hanno dato la vita per il Vangelo e che questo loro valore supremo deve essere recuperato nella memoria e guardato come rinnovato traguardo da raggiungere. Tutta la cura, Paolo la esprime con un verbo che viene tradotto genericamente con “esorto”. È un verbo a lui caro e lo usa frequentemente. Nel greco ellenistico significa normalmente “invitare”, “pregare”. L’Apostolo non può però non tenere ben presente l’utilizzo di questo verbo nella versione della LXX, dove parakalein traduce l’ebraico nacham che significa consolare, confortare, incoraggiare e dove il soggetto è prevalentemente Dio. Nell’esortazione di Paolo non c’è nulla di distaccato o di moralistico; egli esprime invece tutto il suo coinvolgimento che mira a confortare i fratelli e le sorelle perché possano vivere il Vangelo consapevoli della consolazione di cui sono stati primariamente fatti oggetto da Dio in Gesù(cfr. 2Cor 1,3‐4). Il testo di Rm 15,5 è particolarmente vicino a Fil 4,2‐3: “E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù”. Dietro a quel che in Romani è reso con “stessi sentimenti” e in Filippesi con “andare d’accordo” si trova l’espressione to autò fronein che letteralmente significa “avere lo stesso pensare”, “la medesima mentalità”. Per le due donne non si tratta allora di risolvere le divergenze andando solamente d’accordo, ma c’è da ricercare ciascuna di convertire i propri pensieri al sentire di Gesù, al suo stesso pensiero. Si apre allora qui una strada davvero sicura per ricercare quell’armonia che costruisce la comunità e non la dissolve. Paolo è preoccupato che la tensione tra queste sue collaboratrici abbia come ricaduta un ostacolo per il vangelo; esorta quindi che le si aiutino con ogni mezzo possibile e il metodo per ritrovare la comunione si impara ricercando i pensieri di Cristo. Essi sono magnificamente descritti nella medesima lettera: Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la 3
La Nuovissima Versione dai testi originali, traduce infatti con “Sizigo”. 3 ACCORDATI SUBITO CON IL TUO AVVERSARIO MENTRE SEI IN CAMMINO (Mt 2,25)
Come gestire i conflitti e vivere… insieme LABORATORIO, 26 marzo ‐ 28 marzo 2009 26 marzo 2009 mia gioia con un medesimo sentire (tò autò fronēte) e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi (tò èn fronountes). Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti (touto froneite) di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso…” (cfr. Fil 2,1‐11). Paolo esorta le due donne a questo. Non nomina esplicitamente la croce, ma ne evoca la dinamica profonda. La croce fa dei due un solo uomo nuovo; la croce abbatte il muro di inimicizia e divisione (Ef 2,14‐
16). Evòdia e Sintiche sono collaboratrici di Paolo. Di questo Paolo che ha sperimentato la potenza della croce ed ha basato su di essa tutto il suo annuncio (cfr. 1Cor 2,2). Il punto d’accordo si può ritrovare soltanto nella croce perché la vera natura di Dio non è caratterizzata dall’afferrare o dall’ottenere, ma piuttosto dal condividere, dal donare generosamente e dal dare se stesso per gli altri allo scopo di arricchirli. Mediante questo inno Paolo dà ai Filippesi le basi dell’etica. Li prega di vivere umilmente, generosamente, disinteressati, premurosi per il bene degli altri (Fil 2,1‐5) perché questo era l’atteggiamento che aveva Cristo Gesù e che guidò tutto il suo comportamento, un atteggiamento che deve essere imitato da tutti coloro che portano il suo nome. Silvia Zanconato [email protected] 4