La terra dei nuraghi

Transcript

La terra dei nuraghi
Preistoria
La terra dei nuraghi
Settemila fra necropoli e villaggi, alcuni dei quali
ancora intatti, come quello di Losa
Antonio Saba
I
nuraghi sono il simbolo del silenzio, la testimonianza ultima
e incrollabile di una civiltà
senza tempo e senza più voce.
I nuraghi raccontano i sardi
dell’origine, parlano con i segni, con le tracce millenarie di una
quotidianità perduta, trasformata in
ciò che resta degli oggetti rituali, in
cocci e detriti. Le pietre annerite dai
falò rimandano a un’epoca senza
data, calendario e scrittura. Un popolo remoto di cui i sardi sono eredi
e discendenti ha lasciato i nuraghi a
certificare inoppugnabilmente che
si è vissuto, per affidare alla perizia
e all’immaginazione dei ricercatori
moderni la risposta su come si è vissuto. Grandi costruzioni di macigni,
uniche al mondo. Capaci di reggere
senza cementi alla forza infinita del
tempo, del vento e delle piogge grazie a un’architettura insieme semplice e geniale. Edifici arrivati fino a
noi per portarci il messaggio di
un’umanità lontanissima, estranea a
un mondo mutato e in continua mutazione come il nostro. Nuraghi come porta di passaggio tra un mondo
arcaico, popolato di esseri dal volto
oscuro e dal linguaggio ignoto, in
Qui sopra: visto da occidente, il sito archeologico Su Nuraxi, a Barumini,
In basso: la piantina del villaggio, il più grande della Sardegna, attorno a una fortezza.
comunicazione con chissà quale cielo, e il mondo della storia scritto sui
documenti, scandito dal calendario
degli eventi, dei personaggi, delle
opere dell’ingegno.
I signori di allora costruivano i
nuraghi per abitarli, per proteggersi
dalla minaccia dei nemici, per dare
riparo e protezione a comunità isolate, che diffidavano
anche del placido mare che circonda
la Sardegna. Dai luoghi scelti per
edificare il nuraghe si poteva scrutare il territorio, vedere lontano, prepararsi a una difesa militare e allo
stesso tempo offrire alle popolazioni
un luogo di vita e di culto organizzato e tranquillo. Erano siti mai scelti a
caso, perché dovevano soddisfare
sia le esigenze militari sia quelle religiose. Se arrivava un attacco, la
tribù alloggiata nel villaggio
di capanne poteva trasferirsi
all’interno della cinta di
pietra. E la posizione
strategica della gran
parte dei nuraghi garantiva la visibilità reciproca fra le torri maggiori, per costituire
nell’insieme un sistema di monitoraggio continuo delle pianure circostanti. Per anni e ancora oggi gli studiosi, sulla scia
del mistero di Stonehenge, si sono affannati a
rintracciare una logica
15
Preistoria
Fotografie di Gianmario Marras
geometrica, astrologica, trascendentale alla dislocazione delle torri di
pietra sarde. La sola certezza raggiunta è che ciascuno dei settemila
nuraghi giunti fino a noi rappresenta di per sé un miracolo edilizio, destinato da solo a sollevare più d’un
interrogativo. Quello fondamentale
è comune alle piramidi d’Egitto:
com’è stato possibile realizzarli, sovrapporre pietre colossali l’una all’altra secondo un progetto elemen-
In alto e sopra, a destra: il nuraghe Losa, ad Abbasanta. È una costruzione di tipo trilobato.
A sinistra e nell’altra foto qui sopra: nuraghe e recinto megalitico di Santu Antine,
sul monte omonimo (591 metri). Provvisto di sei torri, risale al V secolo avanti Cristo.
tare, invariabile nei secoli, ma enormemente impegnativo?
Di certo ogni nuraghe è costato
energie inimmaginabili e forse qualche vita umana è stata immolata alla
necessità collettiva. Un errore e la
fatica di giorni, di settimane, forse
di mesi sfumava nella polvere di
crolli rovinosi. Perché assieme alla
16
conformazione dei blocchi è il peso
stesso dei macigni a garantire la stabilità della costruzione, ma è sempre il peso a minacciarne la struttura
portante: la differenza tra eterno e
precario poteva essere una questione di centimetri. Come in Egitto,
erano certamente i servi a prestare
le braccia indispensabili all’opera.
Ma le braccia non bastavano: per
raggiungere altezze spesso vicine ai
venti metri serviva la tecnica ingegneristica. E Giovanni Lilliu, archeologo insigne, accademico dei
Lincei e autorità massima della nuragologia, parla nei suoi studi di
piani inclinati dotati di rulli. Un sistema complesso, certo rudimentale
ma efficace per arrivare a quanto la
forza dei muscoli non poteva garantire. La reggia di Barumini rappresenta un po’ il plastico ideale di un
complesso nuragico, un riferimento
essenziale e irrinunciabile per
chiunque voglia esplorare il mistero
muto e inquietante di questi monumenti alla Sardegna che non c’è più.
Fu Lilliu a scavarlo, partendo dai ru-
Fotografie di Antonino Saba
Preistoria
Sopra e sotto: il nuraghe Arrubiu,
nei dintorni di Laconi, zona di notevole
interesse archeologico dov’è possibile
ammirare in situ le famose statue-menhir
scolpite, di età prenuragica.
In alto: il celebre “toro”, nella necropoli
di Sant’Andria Priu, presso Bonorva,
ritenuto da alcuni una misteriosa scultura;
ha all’interno un piccolo ipogeo.
18
deri e dai reperti affiorati dopo una
sequenza di temporali. Era il 1951.
Da una semplice collina, la mano
esperta e appassionata del grande
archeologo e del suo staff fece emergere un insieme articolato di ambienti, talmente originale da sorprendere studiosi di consumata
esperienza. Un torrione con due
piani all’interno, nucleo ed elemento originario della struttura. Con un
margine d’errore di due secoli la
prova del Carbonio 14 permise di
accertare che la torre risale al 1460
avanti Cristo, vale a dire all’epoca
nota come Bronzo medio. Negli anni,
gli scavi riportarono alla luce del sole
una cinta muraria incernierata da altre quattro torri e a ridosso delle mura i ricercatori scoprirono gli zoccoli
in pietra delle capanne di un villaggio, recinti dove probabilmente gli
antichi abitatori custodivano animali.
Le scoperte di Lilliu in quello che
fu battezzato Su Nuraxi, il nuraghe,
sconfessano la vecchia idea di un
19
Preistoria
mondo sardo preistorico chiuso e
impermeabile. Nella reggia e attorno alla reggia c’era la vita quotidiana di una comunità non certo estesa,
ma comunque comunità, dedita anche ad attività diverse da quella militare, votata alle divinità, pronta a
cimentarsi in un dialogo con l’aldilà
destinato ad essere parte integrante
della vita terrena. I sardi della preistoria erano uomini e donne capaci
di muoversi all’esterno, di rapportarsi con altre genti vicine, di cercare
nel territorio il necessario per vivere. L’immagine è quella di una civiltà rurale, sardi d’altri tempi che
quando non sono impegnati nelle
battaglie contro gli invasori cartaginesi e poi romani vivono attorno al
fuoco delle loro capanne, lavorano
alla fusione dei metalli con cui realizzano statuine votive in bronzo, faticano su pesanti macine di pietra
per produrre farina e pane. Di quel20
A sinistra: domus de janas, nella necropoli
di Sant’Andria Priu, tre gruppi
di tombe scavate nella roccia trachitica.
Sotto: la necropoli di Montessu,
nel Sulcis, scavata in un anfiteatro naturale.
Giovanni Rinaldi
Antonio Saba
degli uomini: chilometri dei famosi
muretti a secco che delimitano poderi e pascoli sardi sono costruiti
con le pietre nuragiche.
Più difficile danneggiare le domus
de janas, le case delle streghe. Nell’insieme formano città dei morti e
dei vivi, abitate nei secoli e oggi monumento a una civiltà scolpita. Necropoli rupestri, poi diventate dimora per i pastori e usate fino a decenni fa, a seguire inconsapevolmente
il ciclo naturale della vita, della morte e della vita che genererà nuova
morte. Siti magici, destinati a insegnare ai vivi che il viaggio verso l’aldilà non deve far paura. La Sardegna conta migliaia di domus de janas.
Ma la necropoli di Montessu a Villaperuccio, nel cuore antico del Sulcis,
per la conformazione geologica del
sito è l’esempio più emozionante e
significativo. Quasi nascosta in un
grande anfiteatro naturale su una
collina di pietra, Montessu è un ca-
la civiltà rimangono oggi alcune decine di nuraghi intatti, i cui esempi
classici sono il Losa, il più grande
dell’isola, il Santu Antine di Torralba e il nuraghe Arrubiu di Orroli.
Poi migliaia di torri in parte diroccate, a causa del tempo ma soprattutto
nale di comunicazione con un mondo remoto, dove sembrano agitarsi
ancora oggi gli spettri di un popolo
sospeso nel tempo. Profumi e suoni,
nella campagna mediterranea, cancellano i riferimenti alla nostra epoca. E l’incontro col Toro, la divinità
21
Preistoria
stilizzata nelle corna che decorano
gli ambienti di sepoltura, si carica di
emozioni imprevedibili. Entrare a
Montessu è come compiere un passo all’interno di una dimensione inquietante, ostile alla ragione che
cerca collegamenti sicuri e dimostrabili. Qui la scienza si ferma e comincia l’ignoto: chi ha scavato queste centinaia di sepolcri, intaccando
la roccia con l’accetta di pietra dura,
credeva nelle virtù segrete della magia, aveva fede nell’influsso benefico del dio e ne voleva celebrare l’immagine per l’eternità. Ed era convinto che la morte fosse solo un passaggio, se questo vuole la misteriosa
forza che regola la vita.
La virilità del Toro e la fertilità della Dea Madre: le tombe di Montessu
Antonio Saba
La tomba del Capo, a Sant’Andria Priu:
due sale principali collegate ad altri
quattordici ambienti da passaggi interni.
e quelle delle altre necropoli del neolitico sardo sono affidate a queste
due speranze di buona fortuna. Solo
grazie a loro i defunti saranno salvati
dall’orrore dell’annientamento, del
buio infinito e senza ritorno. Soltanto
nel segno della vitalità saranno aperte le porte verso nuovi giorni di caccia, di cibo, di bisogni da soddisfare
perché il cuore non si è fermato per
sempre, ma seguita a pulsare in un
aldilà contiguo alla realtà, invisibile
22
Preistoria
ma certo. Nelle domus de janas il culto si esprime con le forme del simbolo. Ma gli antichi visitatori dovevano avere anche altre manifestazioni di rispetto per i morti. La presenza di grandi focolari lascia supporre
la preparazione di pasti rituali, da
consumare in comunità. In questo
modo, immaginando di dividere il
cibo con i trapassati, si sarebbe confermato il legame tra i defunti e il loro clan. E l’idea di un contatto mai
interrotto si coglie anche in alcune
strutture delle domus.
La sepoltura riproduce spesso la
casa dei vivi: travi, colonne, tetti e
perfino finestre o letti vengono scolpiti per alloggiare degnamente i defunti. Così il soffitto della tomba a
capanna di Sant’Andria Priu, una
necropoli nel territorio di Bonorva,
in provincia di Sassari, imita fedelmente una costruzione con le assi e
la copertura di un tetto spiovente. Le
città dei morti sono apprezzate e utilizzate anche dalle genti dei nuraghi.
Continuano, gli eredi dei sardi neolitici, a onorare i luoghi che custodiscono le ossa di artigiani, cacciatori,
guerrieri, madri, dei secoli in cui
l’ossidiana del Monte Arci aveva il
valore di una pietra preziosa.
Ma assieme alle domus de janas,
l’arte funeraria adotta le architetture
delle tombe dei giganti. Solenni, maestosi, perfetti per rappresentare le
glorie di genti sempre pronte alla battaglia, questi monumenti megalitici
danno sepoltura collettiva ai caduti
della comunità. Lastre infisse nel terreno abbracciano un elemento centrale, l’esedra, che col suo sportello aperto sull’infinito sembra un passaggio al
dominio dell’ignoto. Ma è solo un’illusione, una prospettiva falsificata dal
punto di vista dei nostri giorni. La galleria che completava le tombe con la
facciata a esedra è scomparsa, inghiottita dai secoli. Il vuoto adesso introduce una vertigine tutta moderna, estranea allo spirito dei costruttori. Il messaggio estremo delle tombe cavalca il
tempo, ma il tempo lo stravolge a rivendicare il suo potere inarrestabile.
Mauro Lissia
23