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ERIS
Rivista internazionale
di argomentazione e
dibattito
eris.fisppa.unipd.it/Eris
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Lo straniero amstelodamense e l’erista
Un dialogo sul metodo, di Epimenide Pseudomai, cretese
Edizione critica a cura di Anonimo Glossatore
Nota del curatore
In recenti scavi condotti sull’isola di Eutopia, nel luogo dove si trovava l’antica Accademia, è stato ritrovato
un manoscritto contenente due testi in parallelo, uno in una lingua barbarica a noi ignota, scritto con
caratteri mai visti prima, che non hanno alcuna affinità con le lettere fenicie o con quelle barbariche d’oltre
mare (alcune assomigliano più a disegni che a lettere vere proprie), e uno, purtroppo mutilo, scritto nella
nostra lingua attica, benché con molte ripetizioni, solecismi e peculiarità stilistiche (da noi eliminate, corrette
o limate ove necessario) che ci spingono a congetturare che si tratti di una traduzione di traduzione fatta da
autore barbaro poliglotta (in tal caso le particolarità sarebbero da attribuire a calchi e prestiti lessicali e
strutturali da lingua o lingue a noi ignote). Ulteriori studi si renderanno necessari per decidere la paternità del
manoscritto, tuttavia, allo stato attuale delle ricerche, possiamo dire che il secondo testo (benché mutilo)
sembra essere una traduzione (o una bozza di traduzione), più o meno fedele del testo in caratteri barbari,
anche perché, a un primo esame accurato, è emerso che due curiosi nomi presenti nel testo in attico
sembrano essere rintracciabili anche negli strani caratteri barbari. I nomi sono i seguenti: Xenos
Amstelodamense ed Erista Patavino. Si tratta dei protagonisti di un dialogo il cui tema, benché non indicato,
pare essere l’educazione dei giovani al metodo della disputa (o, forse, l’uso della disputa come strumento
educativo).
Non siamo in grado, per mancanza di fonti coeve attendibili, di verificare la veridicità di alcune
informazioni, piuttosto puntuali, fornite dal presunto autore del testo, un certo Epimenide Pseudomai,
cretese. Mentre i due protagonisti del dialogo (figure storiche reali o immaginarie che siano), sembrano avere
nomi indicanti una caratteristica o, più probabilmente, luoghi di provenienza (a noi purtroppo ignoti), il
secondo nome del presunto autore (che richiama un Epimenide più famoso, ma non per essere sincero, che
ci permette di sapere cosa pensare delle affermazioni dei cretesi), sembra alludere alla menzogna o al falso (o
a un plagio condotto su testi coevi). Sia come sia, in attesa di ulteriori approfondimenti, questo è tutto ciò
che possiamo riferire. Torniamo ora sulla questione tematica.
Nel testo si parla di pedagoghi, della capacità di pensare autonomamente che deve essere sviluppata nelle
scuole di una non meglio identificata città, purtroppo non sviluppata al di là di qualche cenno nella parte
mutila finale. Potrebbe trattarsi di un errore introdotto dal copista, non pienamente padrone dell’attico, o,
forse, di una città ideale sul modello della Kallipolis del nostro Platone. Alcuni studiosi ritengono di poter
avanzare l’ipotesi che si tratti di un dialogo tardo (e postumo) di Platone che, com’è attestato da più fonti
autentiche, coeve e indipendenti, dopo aver compiuto inutili viaggi a Siracusa (a fini politici), ed essere stato
a più riprese incarcerato dal tiranno (e addirittura venduto come schiavo), avrebbe tentato di scoprire se
esisteva, almeno tra i barbari di non meglio precisate terre sotto il mare (anche: terre basse, sempre al
plurale), un sistema politico fondato sulle competenze (in particolare, quelle logico-argomentative), e (anche
perché vi avrebbe trovato l’amore) non sarebbe mai tornato ad Atene (mentre altri sostengono che questo
dialogo platonico sarebbe ispirato a vicende reali accadute allo stesso Socrate, il quale, invece di bere la
cicuta, avrebbe compiuto il primo viaggio al di fuori di Atene all’età di 70 anni, accettando il suggerimento
dei suoi discepoli, in particolare di Critone, che avrebbe bevuto la cicuta al suo posto per ingannare il
carceriere, del resto piuttosto miope, ma secondo altre fonti Socrate avrebbe bevuto un estratto di
prezzemolo). Tali informazioni, però, sembrano piuttosto inverosimili e, in taluni casi, persino
anacronistiche, ragion per cui non le riferiremo oltre. D’altro lato, in questo testo, che come si è detto è
impostato in forma dialogica, ad avere la meglio sembra essere Erista, e non lo “straniero” amstelodamense,
come invece accade nei tardi dialoghi platonici. Tant’è vero che, alla fine del dialogo, prima del testo mutilo,
il nome della città – ideale? – cambia, come il lettore potrà vedere, in un modo che richiama, l’atteggiamento
dell’antagonista, che diventa così il vero protagonista del dialogo. Sul dialogo, vince lo scontro: Dialogòpoli
è schiacciata da Polemòpoli.
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Anonimo Glossatore
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[Del metodo della disputa]1, di Epimenide Pseudomai, cretese
Xenos Amstelodamense: Caro Erista, sono lieto che tu mi abbia raggiunto nelle terre sotto il
mare2, nel giorno in cui celebrano la loro indipendenza dall’Impero sul quale non
tramonta mai il sole. La tua venuta è opportuna, perché vorrei discutere con te delle regole
argomentative che dobbiamo insegnare agli studenti delle nostre rispettive scuole affinché
una divergenza di opinioni possa essere risolta nel merito seguendo il Galateo 3. Il nostro
obiettivo è quello di fornire le condizioni di possibilità per costruire la città di Dialogòpoli.
Tu conosci bene l’argomentazione, soprattutto le tecniche della retorica proibita4 e
conosci bene le posizioni che sono state sviluppate nella mia scuola, in un dialogo
costante, vivo, tra i ricercatori: la pragma-dialettica5.
Erista Patavino: Caro costruttore di cattedrali, hai chiesto proprio l’aiuto di un terremoto
per portare a compimento il tuo progetto. Farò del mio meglio... per distruggerlo.
X.A.: Da te non mi aspetto altro. So che le tue posizioni sono molto diverse. Ma se
l’obiettivo finale è riuscire a raggiungere una conclusione condivisa, è anche vero che è
dalle divergenze che nasce il sapere, dal conflitto che nasce la più bella delle armonie…
Partiamo dalla fine. La prima regola che vorrei insegnare agli studenti la chiameremo:
regola della conclusione.
E.P.: Non mi sembra una buona idea partire dalla conclusione. Visto che non sarete
d’accordo su niente, non avrete nemmeno le premesse per partire dalla conclusione. E
poi, se non sanno che cos’è una conclusione come farai ad applicare la regola?
X.A.: Allora dovrò spiegare cos’è una conclusione, e cos’è una premessa, e cos’è un
ragionamento.
Titolo proposto dal curatore. Le note seguenti sono tutte del curatore, eteronimo di Andrea Gilardoni.
In altre parti del testo anche: “terre basse”, spesso unite a due ulteriori termini indecifrabili, grachten e polder.
Si tratta verosimilmente di un’interpolazione successiva, che abbiamo provveduto a rimuovere, in quanto
inutili alla comprensione del testo.
3 Il dialogo si riferisce qui a libri a noi ignoti, che invece sembrano essere ben presenti agli interlocutori.
4 Sembra qui che lo straniero si riferisca a qualcosa di molto simile all’eristica, anche in considerazione degli
scambi che avverranno in seguito.
5 Ci limitiamo qui, nulla essendo riusciti a scoprire su questa scuola di pensiero, a riportare il nome della
scuola, anche se nel prosieguo del dialogo sembra chiarirsi l’essenziale della pragma-dialettica, come vedrà il
lettore: una sorta di decalogo per la discussione ragionevole basato sugli atti condotti attraverso il linguaggio
e sulle buone regole della comunicazione.
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E.P.: E come farai se l’altro non ti ascolta? La prima delle mie strategie sarà quella di
ignorarti. Ma per essere, come dici tu, “cortese”, ti permetterò di impostare di nuovo le
tue regole della discussione, e presupporrò che si viva in una città che permette la libertà
di opinione, senza la quale le tue regole non servirebbero a nulla.
X.A.: E sia. Allora ricomincerò daccapo. Una discussione, se mira alla risoluzione di una
divergenza di opinioni semplice, dovrà strutturarsi in quattro fasi o momenti: lo status
quaestionis (o fase di apertura), la presentazione della divergenza delle opinioni (o fase del
confronto, con l’assegnazione dell’onere della prova al protagonista in caso di divergenza
di opinioni semplice, ma se la divergenza di opinioni è complessa entrambi avranno
l’onere della prova, ed avremo allora due protagonisti che saranno anche, a turno,
antagonisti), la fase dell’argomentazione vera e propria e la conclusione. All’interno di
questa procedura, per favorire la risoluzione della divergenza di opinioni nel merito
dovranno essere rispettate alcune regole di base, che considereremo condizioni necessarie
per lo svolgimento “cortese” della discussione. Il confronto è tra due interlocutori che
cercano di prevalere l’uno sull’altro ma che sono aperti all’esito della discussione. Ti
proporrò dieci comandamenti. Il primo lo chiamerò la regola della libertà: in una
discussione condotta secondo le regole del Galateo non è consentito impedire alla
controparte di avanzare o mettere in dubbio una tesi. Intendo con “tesi” una posizione su
un argomento qualsiasi, che sia però giustificabile (ove richiesto).
E.P.: Tu parli di una discussione che mira alla risoluzione di una divergenza di opinioni nel
merito, ma non consideri che lo scambio dialettico, per il quale è richiesta l’esecuzione di
alcuni atti condotti attraverso le parole, può avere come obiettivo la persuasione di un
uditorio, più che la confutazione dell’interlocutore. In questo senso, l’uso delle parole mira
a influenzare un giudice, uno spettatore, più che la controparte della disputa “cortese”.
X.A.: Lo considero eccome, e ne sono consapevole, ma ritengo che in questo caso si abbia
più a che fare con la retorica e meno con la pragma-dialettica. Se l’obiettivo di persuadere
l’uditorio, il pubblico, prevale sulle regole del mio decalogo, se cioè la strategia prevale sui
fini, allora la disputa rischia di deragliare verso qualcosa d’altro, e dovrà essere rimessa in
carreggiata, riparata, per parlare metaforicamente.
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E.P.: Ho capito. Allora vediamo in che modo la farò deragliare. Tu dici che la prima regola
deve essere quella della libertà. Ma come farai se io limiterò la possibilità di esprimere
certe tesi o di metterle in dubbio? Che cosa farai se, per esempio, dichiarerò sacrosanta, o
tabù, una tesi determinata (o un argomento che tu dovresti usare per provarla)? Se, usando
mezzi estrinseci, ti metterò sotto pressione, con bastonate, appelli alla pietà, minacce? E se
ti rappresenterò come stupido, malvagio, inaffidabile (con attacchi personali diretti o
circostanziali), se metterò in evidenza delle contraddizioni nelle tue parole, o meglio, delle
incoerenze tra le tue parole e le tue azioni?
X.A.: In tal caso, non sarò in grado di condurre una discussione “cortese”, né di risolvere,
insieme a te, la nostra divergenza di opinioni.
E.P.: Perché, ti aspetti anche che io ti aiuti?
X.A.: Non sarebbe del tutto inopportuno, se la scelta fosse dialettica e non retorica.
E.P.: Come sei ingenuo... Ma continuiamo. Quale sarebbe il secondo comandamento del
tuo Galateo?
X.A.: Questo: chi avanza una tesi non può rifiutarsi di difenderla, ove richiesto.
E.P.: Ma io scaricherò l’onere della prova sulla mia controparte. Invece di difendere la mia
tesi, ti chiederò di difendere la tesi contraria, e se non sarai in grado di farlo ti chiederò
allora di mostrare che la mia tesi è sbagliata, e se non vi riuscirai allora ne concluderò che
ho ragione io.
X.A.: Questo sarebbe però un argomento ad ignorantiam, un modo per evadere l’onere della
prova che ti spetta, se sei tu ad avanzare la tesi. Ma non riuscirai a sfuggirmi come
un’anguilla. Io ti terrò fermo e ti chiederò di rendere ragione di quanto affermi, senza
permetterti di scaricare o far slittare l’onere della prova, che ti spetta. Né ti permetterò di
ritenerla auto-evidente, di garantire personalmente la giustezza della tua tesi, né di
immunizzarla, né di ignorare la mia richiesta, perché il pubblico, che ci ascolta, non cada
nel tuo tranello.
E.P.: Ma se io sarò capace di ingannarlo, per te non ci sarà alcuna speranza. Io non
dichiarerò apertamente di voler evadere l’onere della prova, e tuttavia lo farò slittare
impercettibilmente su di te. Al limite, dirò che è chi contesta una tesi a doverne
dimostrarne la falsità e, non essendo in grado di farlo, a doverla accettare. Chi lo negherà?
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X.A.: Su questo punto vedremo chi sarà più abile, tra noi due, nel formare il pubblico in
corso d’opera.
E.P.: Vedo che ormai ti sei decisamente spostato dal mio lato, e parli riferendoti a un
pubblico. Bene. Con ciò hai decretato la tua fine. Ma andiamo avanti. Quali sono i tuoi
altri “comandamenti”?
X.A.: Se tu critichi una mia tesi, e se io svolgo la parte di protagonista
dell’argomentazione, non puoi criticare una tesi che io non abbia realmente avanzato: non
puoi cioè attaccare un fantoccio, attribuirmi una tesi fittizia, rappresentare in modo
tendenzioso ciò che ho detto, enfatizzando delle parti secondarie o...
E.P.: Ma io, all’occorrenza, farò proprio questo. Anzi, di più: semplificherò in modo
eccessivo le tue posizioni, le esagererò, citerò le tue frasi fuori contesto, cambierò i termini
della questione, farò finta che con le tue parole tu stia rispondendo a una domanda diversa
da quella che ti era stata eventualmente posta. Sì, farò a pugni con un fantoccio, brucerò il
mio uomo di paglia, anzi, convincerò il pubblico che occorre darti fuoco insieme ai tuoi
libri (sia detto in senso affettuoso).
X.A.: Vedremo chi la vincerà. Io cercherò di richiamarti alla pertinenza delle
argomentazioni. Dirò che non è possibile difendere una posizione se non usando un
argomento, e che l’argomento dovrà essere pertinente rispetto a quanto si è detto: che non
si deve cioè parlare a vanvera.
E.P.: Sì, capisco, ma... e se io giocassi con le emozioni6 dell’uditorio, se usassi la mia
posizione gerarchicamente superiore per motivare una superiorità cognitiva (in quanto
esperto)7, riuscirei a mascherare la mancanza di argomenti o la loro non pertinenza. E il
pubblico non si accorgerebbe che ho commesso una ignoratio elenchi.
X.A.: Saresti un illusionista. Ma io insisterò e ti chiederò di rendere conto delle tue
premesse sottintese...
E.P.: Questa sarebbe allora la tua quinta regola, ma sai bene che io rifiuterò di riconoscere
che le premesse sottintese che tu mi attribuisci siano davvero le mie. Anzi, ribalterò
l’onere della prova ancora una volta, e ti appiopperò premesse sottintese eterogenee
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Qui il termine usato, che riprende la tradizione classica, è pathos. Lo impiegheremo anche di seguito.
Il testo sembra qui riferirsi al terzo strumento della retorica antica, oltre a pathos e logos: ethos.
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rispetto alla tua tesi, o esagererò la portata delle tue. Ciò mi permetterà di confutarti più
rapidamente, anche se solo apparentemente, sfruttando pathos ed ethos. Il pubblico ci
cascherà. E non mi assumerò alcun onere della prova per le mie, mentre ti obbligherò a
rendere conto di quelle che, scortesemente, ti avrò assegnato (e tali da essere
indimostrabili). Non mi inchinerò a farti i salamelecchi, non temere. Ma continua pure,
immagino che tu adesso voglia introdurre la strategia ex concessis, o del punto di partenza
condiviso.
X.A.: Sì. Formulerei la regola in questi termini. Non è consentito presentare qualcosa
come punto di partenza condiviso, se non lo è, o negare che lo sia, se lo è.
E.P.: Ma io lo negherò, o fingerò che lo sia, anche se tu non lo accetti. E dirò al pubblico
che certi punti di partenza sono accettati da entrambi. Userò le mie parole in modo sleale,
ambiguo, formulerò domande complesse (plurium interrogationum), piene di presupposizioni
implicite, tipo: “Quando la smetterai di evadere le tasse?” o “Proprio non vuoi cancellare
questa legge vergognosa?”, che ti faranno finire in trappola qualunque sia la tua disposta, a
meno che non ti riesca di distinguere le domande agglutinate e i giudizi di valore impliciti
nell’apparente banalità della domanda. La disputa slitterà allora sul punto di partenza, la
connessione tra argomenti e conclusioni finirà in secondo piano e prevarranno le
posizioni a cui si aderisce senza motivazioni argomentate. Prevarrà “la panza”. Con
questo, potrai scordarti la procedura di verifica condivisa e “cortese” delle
argomentazioni.
X.A.: Se però mi riuscirà di sciogliere le tue domande complesse, e se mi rifiuterò di
accettare i presupposti, ti terrò fermo alla struttura logica degli argomenti, e smaschererò i
tuoi sofismi.
E.P.: Quali? Intendi forse la negazione dell’antecedente? L’affermazione del conseguente?
Ma io dirò che queste strutture benché non possano essere applicate a un ragionamento
rigorosamente deduttivo, ci sono d’aiuto nei nostri ragionamenti quotidiani, in quello che
un grande logico che vive dall’altra parte del grande mare8 chiama “abduzione”. E, per
Non è stato possibile identificare con certezza il logico cui qui si allude, anche perché, se con “Grande
Mare” si intende l’Oceano, non siamo a conoscenza di terre che si trovino “dall’altra parte”. In ogni caso,
diversi mesi orsono abbiamo provveduto a inviare esploratori in quella direzione, perché potrebbe proprio
trattarsi di Atlantide.
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aggiungerne ancora una, dirò che le fallacie di divisio e compositio non sono tali, se applicate
al rapporto tra le parti e il tutto, perché le eccezioni non cancellano la regola, ma la
inverano. E negherò pertinenza ai tuoi esempi. Se poi tu attaccherai una mia posizione
cercando di falsificarla, sfruttando la dissimmetria tra verifica di una regola e sua
confutazione, io negherò valore alla procedura, perché valida solo per casi particolari,
mentre la regola tiene, e si trasforma in elevata probabilità, benché non in certezza
assoluta. Quest’ultima, del resto, non vale certo per i ragionamenti deduttivi, in quanto ciò
che conta in essi sono le premesse, e alle premesse si aderisce o tramite esempi
convincenti, o perché spinti dal pathos. Ma forse tu non intendevi solo le fallacie deduttive.
X.A.: No. Esistono altri modelli argomentativi, quali l’appello al popolo, la confusione di
fatti e giudizi di valore, che spinge a usare in modo inopportuno e senza “canoni”
adeguati, le inferenze a sostegno delle nostre ipotesi (o, come dicevi, abduzioni) miranti a
spiegare fatti sorprendenti. Ma bisognerà esercitare un controllo serrato anche su questo
tipo di seduzioni e sviamenti dell’uditorio, perché le parti della disputa saranno già
addestrate, saranno i guardiani del nostro sistema immunitario... contro il virus della
retorica.
E.P.: Ma questa regola, che prevede che qualsiasi schema argomentativo venga applicato
in modo corretto, per evitare di gridare in continuazione (e con troppa fretta) “fallacia,
fallacia!”, come si grida “al lupo!”, richiederebbe una delimitazione pragmatica
particolareggiata dell’impiego di ciascuno schema argomentativo, dall’appello all’autorità di
un esperto per distinguerne l’uso legittimo dalla fallacia ad verecundiam, l’argomento basato
sull’analogia dalla falsa analogia, la falsa relazione causale (post hoc ergo propter hoc) priva di
correlazioni o basata su pochissimi casi particolari che vengono indebitamente
generalizzati senza un gruppo di controllo da quella condotta secondo i canoni o criteri di
concordanza, differenza, gradi e variazioni concomitanti e valutate con competenze
statistiche, per non parlare dell’argomento parassitario delle connessioni causali, quello
della brutta china o effetto domino, che ponendo l’attenzione sulle conseguenze paventate
(o desiderate) trascura di verificarne la connessione con le premesse. Tu richiedi troppe
competenze al tuo pubblico. E non le avrai. Ma ti restano ancora due regole da enunciare.
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X.A.: La regola seguente è già stata enunciata sin dall’inizio, ma tu, di fronte a una
conclusione difesa con successo da parte mia, rifiuterai di riconoscerla come tale,
chiedendomi comunque di ritirarla e, qualora io confutassi la tua tesi, ti rifiuteresti di
ammetterlo e non la ritireresti. Non è forse vero?
E.P.: Non solo. Userei le risorse messe a disposizione dell’argomento ad ignorantiam. Non
so, quindi è vero (o falso, a seconda di quello che posso far accettare al mio uditorio).
X.A.: Mi resta un’ultima regola, fondamentale, perché la maggior parte delle dispute
potrebbero essere superate se parlassimo tutti la stessa lingua, cioè, se prendessimo i
termini impiegati nei nostri scambi argomentativi nella stessa accezione. La polisemia delle
parole, gli usi tendenziosi del linguaggio, sono un limite alla capacità di risolvere una
disputa nel merito.
E.P.: Mai rinuncerò ai doppi sensi, ai giochi di parole, alle ambiguità, al linguaggio che dice
una cosa a te e altre due al mio uditorio, a introdurre significati inventati. La
manipolazione del linguaggio è il succo dell’eristica.
X.A.: Con questo non ci resta più nulla in comune. Quali regole pensi che potremmo
seguire per una disputa secondo il modello eristico? Ora tocca a te.
E.P.: Per farti piacere raccoglierò l’onere della prova e cercherò di fare il lifting alla mia
retorica proibita, per renderla accettabile a un uditorio un po’ cortese. Ma che questa sia
proprio la mia posizione, be’, questo lo lasceremo in sospeso. Tu ascolta e non
interrompermi. In primo luogo riformulerò la tua regola della libertà in questo modo:
lascialo dire. Quando il tuo interlocutore parla, non sovrapporti, non interromperlo.
Questo, dal tuo punto di vista, rappresenta un’esigenza etica, dal mio, un’esigenza tattica.
Lasciando parlare il mio avversario imparerò da lui, sembrerò cortese al mio uditorio, e
scoprirò tutti i suoi punti deboli, le idiosincrasie, lascerò che sia lui a esporsi ai miei colpi,
a farmi da bersaglio.
In secondo luogo, mi metterò “nei suoi panni”. In questo esercizio di immaginazione, in
questo modo di pensare allargato, ne capirò forse eticamente meglio le ragioni, ma saprò
strategicamente cogliere i limiti della sua tesi, i punti deboli dei suoi argomenti, e sarò in
grado di confutarlo dall’interno, senza che lui possa oppormisi, perché ne condividerò le
premesse, anzi, farò finta di volerne quasi condividere l’esito, senza poterlo purtroppo fare
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per i limiti intrinseci della sua posizione (che io non mancherò di sollevare ad nauseam). In
questo modo coniugherò dialogos e polemos e simulerò la buona educazione (libertà di
parola e libertà di critica), fornendo un modello per la didattica nelle scuole, mettendo in
evidenza sempre i pro e i contro ma facendo pendere la bilancia verso la mia tesi, nel caso,
con metodi scorretti, estranei al dialogo, ma assicurandomi che non si venga a sapere.
Applicherò comunque la regola d’oro etica, che non hai mancato di sottolineare, ma la
riformulerò così: non discutere come non vorresti che gli altri discutessero con te. Ma
questo solo in teoria, perché la realtà è diversa, tanto è vero che a volte ci si scontra in
nome dell’invito a dialogare. Di conseguenza, poiché lo scontro avviene sempre tra due
persone che la pensano diversamente, ogni invito ad abbassare i toni, ogni tentativo di
imbrigliare le passioni, non rende un buon servizio alla disputa.
Oltre alla regola d’argento dell’ascolto, che ti ho già indicato, ne aggiungo una per così dire di
bronzo (più che una regola, come le precedenti, sarà una mossa, una tattica, quella della
faccia di bronzo o, se preferisci, come si dice in una città non troppo lontana dalla mia, di
tolla): io mi atterrò alla mia verità, gli altri si tengano la loro. E di qui non mi smuoverò,
perché nessun argomento sarà mai compiutamente dimostrativo, in una disputa (e se lo
fosse lo negherei). Si può dissuadere chi è persuaso, ma “sconvincere” chi è convinto è
impresa molto più ardua. Al più, influenzerai chi non sa cosa pensare.
X.A.: Le tue regole sono sicuramente efficaci, ma forse dovremmo trovare qualcosa che
sia accettabile a un pubblico di esperti. In tal caso dovresti scegliere piuttosto il mio
Galateo. Oppure... oppure dovremmo cercare di trasformare il Galateo del disputator
cortese in un Manuale del perfetto erista che, però, segue le regole della polemica, come
chi in guerra limita le proprie possibilità per rispettare le leggi della guerra, che non sono
affatto sospese, essendo anzi proprio allora pienamente vigenti, e che aspettano al varco
chi le abbia violate, una volta la guerra finita.
E.P.: Ammesso che spetti a un giudice terzo valutare eventuali violazioni di leggi di guerra,
e non al vincitore, tanto per rifiutare la tua analogia. Comunque proviamoci.
Innanzitutto ti dirò allora che contraddicendomi susciterai la mia attenzione, non la mia
irritazione; e che nella mia corte c’è un Galateo per quando si litiga, così come nella tua c’è
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quello delle buone maniere. Con questo atteggiamento potremmo cercare di trovare una
via comune. Ma vediamo i diritti e i doveri.
Non ti pare che, in una polemica si abbia il dovere di non ritenersi infallibili, di non
ritenere le nostre idee intoccabili, né i nostri argomenti incontrovertibili?
X.A.: E come no? È il principio stesso della fallibilità che è alla base del mio modello di
discussione.
E.P.: Solo che io cercherò di essere convincente e se lo sarò meno del mio interlocutore lo
ammetterò, almeno per me, senza necessariamente confessarlo all’uditorio che devo
persuadere. Tenendomi aperto al dubbio potrò rivedere le mie posizioni di partenza e
rafforzarle.
X.A.: Cercherai di avere un punto di partenza comune con il tuo avversario?
E.P.: Per forza, se non per altro, almeno perché senza non potremmo nemmeno
misurarci. Il metro di giudizio, l’arena dovrà essere definita.
X.A.: Avrai un criterio di verità?
E.P.: Non potrò evitarlo, in primo luogo per me, in secondo luogo per il pubblico esperto,
che potrà chiedermi di rendere conto di certe mie affermazioni false o indimostrabili. E
nel criterio di verità dovrò includere anche le prove richieste per la mia posizione, se mi si
chiederà di dimostrarla. Se riterrò di non farlo, dovrò spiegare perché la richiesta è
assurda. Le prove dovranno essere pertinenti e sufficienti. Allo stesso modo non dovrò
eludere le obiezioni, né ignorare le contestazioni. Perché la ragion d’essere della polemica
sta in questo, altrimenti naufragherebbe, per usare una metafora affine al tuo deragliare.
Tanto più che, qualora tu la sbolognassi a me come io ho fatto con te, dopo la patata
bollente scotterebbe ancora di più, quindi dovrò evitare di rifilare a te l’onere della prova.
Dovrò essere chiaro, nella misura del possibile, altrimenti mi si potrebbe accusare di essere
ambiguo o oscuro, e la mia posizione ne risulterebbe indebolita. E se deformassi le
posizioni altrui discuterei contro un fantoccio, quindi dovrò applicare quello che tu
chiameresti il principio di carità interpretativa, cioè il rafforzamento delle posizioni
dell’interlocutore che si vuole annientare.
X.A.: E, per tornare alla mia regola della conclusione, che cosa pensi che si dovrebbe fare?
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E.P.: In caso di stallo, dovrò sospendere il giudizio, se possibile, e dovrò essere pronto a
riaprire la questione in presenza di nuovi elementi.
X.A.: Mi sembra che manchino i diritti, da questo elenco di doveri. Ti aiuterò io. Tu
correggimi se ti sembra che io fraintenda la tua posizione. In questo duello affermerai il
diritto di dubitare di qualsiasi cosa, anche di quelle più sacrosante, per il piacere del dubbio
e della polemica. Sosterrai la tua verità di parte, perché alla verità della controparte non
devi pensarci tu, a meno che non sia funzionale alla tua vittoria. Ti sottrarrai al gioco
dell’avversario, se le risposte possono metterti in difficoltà, come avveniva con Socrate,
godrai cioè di un prezioso margine di libertà e non ti metterai nei guai da solo. Difenderai
te stesso e le tue posizioni, ma se lo farai in modo scorretto, blindando quasi le tue
posizioni, spetterà alla controparte correggerti, se ci riuscirà. Distinguerai tra chiudere una
polemica e risolvere una disputa e insisterai per poter concludere il tuo ragionamento,
qualora il tuo avversario cercasse di impedirtelo. Aspirerai alla vittoria, perché è dalla
competizione che nasce il sapere. L’accordo, l’unanimità sono buone cose quando sono
risultato di un confronto in cui le divergenze non siano state mascherate ma siano
chiaramente emerse. Userai gli argomenti che ritieni necessario usare, e quelli che
preferisci. All’occorrenza, ti indignerai, o susciterai indignazione, commuoverai, e non
disdegnerai il ricorso alle fallacie patetiche contro la logica, l’equilibrio, la cortesia. Ti
adatterai insomma alle condizioni della disputa in corso senza lasciarti troppo vincolare dal
mio modello ideale di discussione pragma-dialettica. In un dibattito, l’essenziale non è che
ci siano o non ci siano fallacie e mosse scorrette – cosa difficilmente evitabile – ma che si
riesca a riconoscerle e neutralizzarle (o farle passare sottobanco). Ti appellerai a una terza
parte e chiederai che si giudichino le tue posizioni e gli argomenti utilizzati per difenderle,
non la tua persona, e ti appellerai al diritto di cambiare (consensualmente) le regole della
discussione, metterai cioè, se ti sembrerà il caso, in discussione la discussione stessa.
E.P.: Mi sembra che ora ci siamo, e che, nella nostra disputa che contrapponeva il metodo
del Galateo a quello dell’eristica abbiamo, senza dapprima volerlo, proprio appellandoci a
un giudice, trovato un compromesso: regole condivise per una disputa polemica, evitando
l’istigazione a uccidere ma anche il compromesso irenico.
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X.A.: Eppure ancora mi manca qualcosa. La verità. La nostra disputa dovrebbe mirare alla
verità, non solo a persuadere il giudice. E per trovare la verità, oltre alle regole del
disputante polemico (o cortese), in questo elogio di Suadela in una delle sue
manifestazioni, Eris, dovremmo accettare una procedura congiunta di verifica delle nostre
posizioni, verifica accettabile per il pubblico e al pubblico (formato e informato)
comprensibile, che, sola, può permettere una deliberazione conclusiva.
E.P.: Ma questa sarebbe un’indagine scientifica, non una disputa polemica. Su questo non
ti seguirò. Qui si riapre la divergenza. La nostra discussione è servita per farla emergere.
Almeno su questo saremo d’accordo. La mia città non è la tua.
X.A.: E sia questo il tuo contributo alla fondazione della città di Eris. Non la fonderemo
sulle regole di cortesia della pragma-dialettica, ma sulla retorica proibita, sulla
competizione, sulle mosse scorrette. La fonderemo sulla realtà, e non sull’utopia. Ma il
mio Galateo sarà tanto più forte quanto più sarà l’immagine speculare del tuo fallimento.
E.P.: Del tuo, non del mio, perché nella mia Polemòpoli non si vuole raggiungere una
conclusione condivisa rispettando le regole di cortesia, non si ammettono salamelecchi o
inchini. Si mira invece allo scontro, utilizzando mosse non scorrette ma comunque
tendenziose, verbalmente violente, trucchi, inganni. Perché l’obiettivo non è la
condivisione di una posizione, ma l’eliminazione dell’avversario, e, all’occorrenza, la
manipolazione del pubblico, o del giudice. Perché a me non interessa rendere corretta la
conclusione, bensì rendere più forte il discorso più debole. Perché sono io a decidere cosa
significano le parole, io a decidere chi ha il diritto di parlare, io a stabilire se un argomento
è accettabile, e se tu non sei d’accordo non ti lascerò parlare, e nasconderò o manipolerò
le tue parole, ti citerò fuori contesto, farò in modo che l’uditorio ritenga che tu abbia torto
prima ancora che tu inizi a parlare. Denigrerò la tua persona, farò in modo che non
sentano quello che dici, coprirò la tua vocina con una grancassa, stravolgerò il senso delle
tue parole nel momento in cui le ripeterò. E rovescerò le regole della logica.
X.A.: Sì, è quello che mi aspetto da te, ma io creerò una struttura istituzionale che ti
obbligherà a rispettare le regole della discussione ragionevole. Io formerò un pubblico di
giovani alle regole della discussione cortese, e con loro la mia Dialogòpoli. E loro saranno
i tuoi giudici implacabili. Loro ti obbligheranno a rispettare le regole, altrimenti ti
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sanzioneranno e ti toglieranno punti. Il tuo è un modello strategico, ma eticamente
sbagliato. Io però li allenerò, finché saranno in grado di resisterti. Saranno immunizzati
contro la tua retorica proibita.
E.P.: Ma io farò in modo che il pubblico, e gli stessi tutori dell’ordine istituzionale, del tuo
setting argomentativo, divengano irragionevoli. Farò in modo che il loro logos sia al
servizio del mostro policefalo delle passioni. Su questo mostro fonderò la mia Polemòpoli.
Come vedi, non c’è tra di noi alcun punto di partenza condiviso, non una conclusione
possibile. E nemmeno strumenti in comune. Il resto, le tecniche argomentative, saranno al
servizio del desiderio, non della “verità”.
X.A.: Ma così annienteresti la base dello scambio, il principio di cooperazione.
E.P.: Adesso ci siamo. Il vero problema, il nucleo della nostra divergenza di opinioni e di
pratiche, è di tipo teorico. È dunque opportuno che venga chiarito. Il fatto è che tu ritieni
che il principio di cooperazione valga anche nella disputa. Ma la verità è che il principio di
cooperazione servirebbe solo ad assicurare il dominio di una delle parti. Perché mai,
perché mai la parte perdente dovrebbe accettare volontariamente di farsi incatenare, se
può vincere facendo altrimenti? Perché dovremmo sottostare a questa regola che cancella
la possibilità di credere in ciò per cui non si hanno prove, per esempio in ambito morale,
politico, religioso? Come pensi di poter applicare la tua regola? Nella mia Polemòpoli, la
misura dell’efficacia sarà la persuasività di una delle due parti, o pensi di poter escludere
chi non ha argomentato in modo cortese? E lo farai violando la tua regola della libertà?
Facendo ricorso a strumenti esterni come le minacce o la violenza? I divieti? La verità, la
mia verità (ma forse ogni verità è una menzogna strategica), è che il tuo Galateo richiede
violenza per essere accettato, e che vietando questi comportamenti scortesi tu stesso ti
troveresti a violare le tue regole. A commettere un colpo di stato argomentativo. La tua
Dialogòpoli sarebbe una tirannide su un “popolo di minorenni”, e solo a un nucleo
ristretto di “giudici ragionevoli” spetterebbe di decidere a chi spetta l’esercizio della libertà
di parola. Mi viene da ridere, se devo immaginarmi la scena.
X.A.: E le risate sarebbero un nuovo tipo di argomento, per citare il nostro ambiguo
maestro, Socrate?
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E.P.: A me interessa prevalere, ottenere ragione dal pubblico, non averla nel merito, come
invece interessa a te. Sulla tua Dialogòpoli ho già concluso. Su chi la propone ho usato un
attacco personale, accusandoti di incoerenza. E la scena di te che dici a una massa
indomabile quali regole di cortesia rispettare ha un che di ridicolo. Allora ti dirò, se ti fa
piacere, che sei stato bravissimo, come quell’atleta che ha lanciato il giavellotto a ottanta
metri di distanza e ha preso una medaglia: bisogna riconoscergli una mira infallibile... Sì.
Lo humor è proprio un argomento devastante.
X.A.: Sia dunque questa la tua lode di Eris, quella di un umorista, del quale io sarò la
vittima sacrificale.
Postilla del curatore
A questo punto la traduzione si interrompe. Il manoscritto è stato strappato. Eserciti di
esperti sono al lavoro per decifrare il testo originale, manca però, almeno per ora, una
chiave d’accesso.
Ci restano solo alcune frasi e parole isolate inserite, proprio mentre sembra iniziare un
nuovo dialogo con l’arrivo di un nuovo interlocutore, sul modello della “struttura di
soccorso” dei dialoghi platonici. Ecco comunque quel poco che resta. Le parentesi quadre
indicano parti corrotte o mancanti, non decifrabili. Le integrazioni, indicate con <…>,
sono ipotesti testuali del curatore.
«[…] ma, finito l’intermezzo, è ora di ricominciare daccapo. A questo banchetto ho
mangiato troppo e non ho digerito tutto. Né Polemòpoli né Dialogòpoli sono risultate
suff<icienti.> Sarà necessario tornare sul metodo della deliberazione co [...], per sottrarlo
alla tutela della retorica. [...] Innanzi tutto propongo [...] e al disp<utante> [...] e Logon
Didonai ci aiuterà [...] e ci serviranno criter<i> per valutare le inferenze plausibili e
poss<ibili>. […] Per raggiungere Argu<p>òl<i>s [...]»
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